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#letteratura irlandese contemporanea
gregor-samsung · 4 months
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" Bailey manda giù un sorso di latte e chiede se il paese è ormai in guerra ed Eilish osserva i baffi bianchi sopra le labbra e l’interrogativo nei suoi occhi. Nei notiziari internazionali la definiscono una rivolta, dice Molly, ma se vogliamo dare alla guerra il nome giusto, dobbiamo chiamarla intrattenimento, ormai siamo spettacolo televisivo per il resto del mondo. Samantha posa forchetta e coltello accanto al piatto. Mio padre lo definisce terrorismo, secondo lui questi tizi non sono altro che terroristi e avranno quello che si meritano, lo sbraita sempre quando vede il telegiornale. Eilish guarda da un’altra parte e Molly resta in silenzio a fissare il proprio piatto. Questo agnello è venuto proprio bene, non ti pare?, dice Eilish, che peccato che Mark non sia qui. Muove il coltello sulla carne senza tagliarla, poi si alza e accende la luce, Bailey la guarda mentre si risiede. Insomma è là che è andato Mark, chiede, ad arruolarsi nell’esercito dei ribelli? Un’espressione di cupa angoscia attraversa il volto di Samantha, mentre Eilish finge di aggiungere sale e Bailey si pulisce la bocca con la manica. Non so di cosa stai parlando, dice la madre, t’ho già spiegato che Mark è andato su nel Nord a studiare. E allora come mai non ci posso parlare? Credi che sono stupido? Perché dici sempre stronzate?
Trafigge la carne con il coltello e poi se la porta alla bocca. Ho sentito dire che l’altro giorno tre disertori sono stati giustiziati per strada, un colpo alla nuca, bang, bang, bang, dice, mimando una pistola con il dito. Eilish mette giù forchetta e coltello e spinge indietro la propria sedia. Non voglio sentire un linguaggio simile, lo rimprovera, Bailey, tu riempi la lavastoviglie, Samantha, ti fermi per il dolce? Possiamo guardarci un film tutti insieme. Molly e Samantha si trasferiscono in soggiorno ed Eilish le segue, poi Molly sale di sopra per andare in bagno e Samantha guarda le foto appese. Non era mia intenzione… sa, dice, con voce vaga, è solo che mio padre non mi sta molto simpatico, secondo me è uno di quei complottisti matti. "
Paul Lynch, Il canto del profeta, traduzione di Riccardo Duranti, 66thand2nd (collana Bookclub n° 75), 2024¹; pp. 147-148.
[Edizione originale: Prophet Song, Oneworld Publications, London, UK, 2023]
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Irlanda: un viaggio culturale nell’Isola di smeraldo
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Cosa consigliare di meglio ai nostri 6000 followers, se non di unire turismo e letteratura, paesaggi e cultura, vacanza e conoscenza? La nostra proposta di oggi è l’Irlanda e, per cominciare dalla capitale, “Dublino è una città che trasuda letteratura. Culla di scrittori di fama mondiale e romanzi che ne hanno fatto uno scenario universale, si può esplorare la città attraverso tour letterari”.
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Nato a Dublino nel 1854, Oscar Wilde è un autore spesso citato nel nostro blog e talmente grande da essere continua fonte di ispirazione: prova ne sia il film Wilde Salomé del 2018 diretto e interpretato da Al Pacino. Se manca nel vostro carnet letterario, non fatevi sfuggire L’omicidio di Lord Arthur Savile del 1887, racconto quasi “buzzatiano” sul tema dell’assurdità della vita e del subdolo gioco del fato di cui siamo artefici e vittime allo stesso tempo, proprio come il soldato di Samarcanda della favola orientale cui si ispirò Roberto Vecchioni, che nel parossistico tentativo di sfuggire la morte, non fa che accelerare il compimento del suo destino. Originale e ironica, infine, la statua a colori posta a Merrion Square, vicino alla casa natale dell’artista, che lo ritrae, elegantissimo, in posa sdraiata e atteggiamento sarcastico. 
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Per descrivere William Butler Yeats (nato a Dublino nel 1865, premio Nobel nel 1923) bastano questi pochi versi:
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Samuel Beckett, di Foxrock, piccolo centro vicino a Dublino, premio Nobel nel 1969. Due curiosità: ebbe la fortuna di accedere al Port Royal School, lo stesso istituto superiore frequentato da Oscar Wilde e adorava Dante Alighieri al punto da diventare un vero esperto di studi danteschi. Un suo aforisma: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Anche del suo grande amico e mentore, James Joyce, non mette conto parlare: tutti infatti sanno che nacque a Dublino nel 1882, ma forse non tutti ricordano che visse molto tempo a Trieste al punto da impadronirsi del dialetto triestino e che fu molto amico di Italo Svevo.
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Se poi volete compenetrarvi nell’atmosfera mitica e favolosa delle tradizioni celtiche, lo scrittore più esperto è sicuramente James Stephens, profondo conoscitore del gaelico, divenuto celebre per il romanzo La pentola dell’oro. Riguardo la scrittrice Edna O’Brien citeremo l’abstract che trovate nel nostro catalogo: “La piú talentuosa tra le donne che scrivono in inglese in questo momento” (Philip Roth); “Quale autore al mondo sta alla pari di Edna O’Brien nell’esplorare il cuore degli uomini? Nessuno, secondo me” (Frank McCourt); “Qualcuno ha detto che se cresci in Irlanda impari il peccato dai preti, il latino dalle suore e la passione da Edna O’Brien” («The Atlantic»). Per Flann O’Brien (pseudonimo di Brian O’Nolan) si è fatto addirittura il confronto con Joyce, per la sensibilità del linguaggio, l’attenzione nella resa del parlato di Dublino, l’abilità nel ritrarre la società irlandese contemporanea e il suo provincialismo, sempre con una certa ironia dissacrante, che gli deriva dalla lunga esperienza come giornalista dell’«Irish Times».
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Tra i classici tutti ricordano Jonathan Swift, Bram Stoker, nato in un villaggio costiero vicino a Dublino, e il commediografo George Bernard Shaw (Dublino, 1956), l’unico, fino a Bob Dylan, ad aver vinto sia il Nobel sia l’Oscar; su di lui un fulminante aforisma di Oscar Wilde: “Fino ad ora, Bernard Shaw non è diventato sufficientemente illustre da avere dei nemici ma non piace a nessuno dei suoi amici”; citiamo anche il poeta Seamus Heaney (Nobel nel 1995); il drammaturgo John Millington Synge; William Trevor, scrittore e drammaturgo scomparso nel 2016; la prolifica Catherine Dunne, che ha appena dato alle stampe Come cade la luce; Joseph O’Connor ha pubblicato il suo ultimo romanzo, Il gruppo, nel 2015. Una curiosità: il romanzo Star of the Sea in Gran Bretagna e Irlanda è stato il libro di narrativa più venduto in assoluto nel 2004. Inoltre, Frank McCourt, dal cui libro più celebrato, Le ceneri di Angela, è stato tratto un commovente film con Emily Watson e Robert Carlyle; Roddy Doyle, scrittore e sceneggiatore, dai suoi libri sono stati tratti numerosi film, e John Banville, romanziere e giornalista, noto per il suo “umorismo nero”. Una curiosità: Pietro Citati («Corriere della Sera», 23 marzo 2017) ha definito il suo romanzo, L’intoccabile, il più bello degli ultimi quarant’anni.
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Inoltre, da bravi bibliotecari non possiamo non citare la Old Library, una delle più importanti biblioteche d’Europa. Nella foto la Long Room, una sala di 65 metri che ospita circa 200.000 volumi fra i più antichi del Trinity College, la più prestigiosa università d’Irlanda, che conserva il prezioso Book of Kells, uno straordinario evangeliario miniato, redatto probabilmente attorno all’anno 800 “nel monastero dell’isola di Iona, piccola isola lungo la costa scozzese. Fu poi trasferito nella chiesa di S. Colombano, a Kells, in Irlanda, dove i monaci si erano rifugiati per sfuggire alle incursioni vichinghe e qui fu custodito finché, all’arrivo delle truppe di Cromwell (1653), fu portato a Dublino. Dopo la Restaurazione fu donato al Trinity. È il più ricco di tutta la produzione insulare e le pagine iniziali dei Vangeli sono come il punto d’arrivo di un intenso processo di sviluppo artistico” da Manoscritti e miniature. Il libro prima di Gutemberg di Giulia Bologna (Mondadori 1988, pp. 62-63). “In questo codice la scrittura semionciale, rotondeggiante e strettamente legata alla decorazione, è tracciata in forme sfarzose e mostra non di rado variazioni piene di fantasia” da Bernhard Bischoff, Paleografia latina, p. 124. L’esterno, di fronte alla Berkeley Library, è impreziosito da un tocco italiano: la scultura Sfera con sfera di Arnaldo Pomodoro.
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Lo scrittore tedesco Heinrich Böll (più volte citato nei nostri post), premio Nobel nel 1972, fu a tal punto rapito dal fascino di questo paese da acquistare una casa a Dugort, splendida località costiera, e da pubblicare nel 1957 il Diario d’Irlanda che, proprio nello spirito di questa terra misteriosa, magica, estrosa creatrice di saghe e leggende, non si può definire un vero e proprio libro di viaggi, ma, a sua volta, “una bella favola arcaica”.
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Vogliamo concludere con le parole di Joyce:
“Quando morirò Dublino sarà scritta nel mio cuore”.
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diceriadelluntore · 7 years
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Durante i concerti dell’ultima parte della sua carriera, imbracciando la sua fedele Fender, partiva con il riff leggendario di Sweet Jane e spiegava, con molta autoironia, la sua teoria dei tre accordi con cui ha costruito la sua carriera. Lou Reed è stato una delle figure più grandi della storia della musica rock degli ultimi 40 anni. Lewis Allan Lou Reed nasce a Brooklyn nel 1942. Si trasferisce a Long Island e frequenta buone scuole. Durante il liceo  inizia a conoscere la musica pop, ma un primo, decisivo, episodio gli segna la vita: per una diagnosi psicologica di bisessualità, Lou viene sottoposto a diverse sedute di elettroshock, segnandolo per sempre (ne racconta con struggente forza in Kill Your Sons, da Sally Can’t Dance, 1974). Si iscrive alla Syracuse University dove ha un primo incontro fondamentale: suo professore di scrittura creativa è Delmore Schwartz ( a cui dedicherà la leggendaria European Son nel primo album dei Velvet Underground del 1967) che lo incita a cercare forza e letteratura anche nei testi più immediati, come i testi delle canzoni. Reed si laurea nel 1964, dopo aver condotto per anni all’Università una trasmissione radiofonica, Excursions On A Wobbly Railm dal titolo di una composizione del jazzista Cecil Taylor. Della sua fondamentale esperienza con i Velvet Undeground si sa tantissimo, meno della sua esperienza da solista. Amareggiato e tossico, nel 1970 va a Londra, dove svogliato e triste registra un anonimo album omonimo, Lou Reed, che sembra il tramonto di un mito. Ma David Bowie e Mick Ronson, che fanno di tutto per lavorare per lui, sono gli artefici della rinascita, che ha il volto, sfocato e incredibile, di Transformer (1972), album leggenda che lo proietta a re del glam raccontando dei bizzarri personaggi che frequentavano la Factory di Andy Warhol. Nel 1973, il lato oscuro e nevrotico della questione: Berlin è un concept album suggestivo e immortale, una discesa agli inferi insieme ai fiati dei fratelli Brecker, Jack Bruce, Dick Wagner e tanti altri. Nel 1974 altra svolta: Rock’n’Roll Animal è uno dei più grandi live di ogni tempo. Reed prende le canzoni del periodo Velvet e le riveste della forza brutale dell’hard rock, con versioni definitive di Sweet Jane e Rock’n’Roll. Dopo il mezzo passo falso di Sally Can’t Dance, nel 1975 il suo disco più criticato: Metal Machine Music passa dall’essere il capostipite del noise rock, ad una pagliacciata fino ad una clamorosa scelta stilistica per finire il contratto con la RCA, Nel 1976 esce uno dei suoi album più intimi e belli, Coney Island Baby, dominato da una malinconia di fondo che culmina nel brano conclusivo, Coney Island Baby, dedicato a Rachel, il misterioso e affascinante transessuale con cui ha una relazione. Rock And Roll Heart (1976) e il bellissimo Street Hassle  (1978) segnano il passaggio di casa discografica e la fine di un decennio irripetibile. Non così gli anni ‘80. con Reed bloccato su poche idee, qualche live buono, ma niente di significativo. Quando però unisce musicisti eccezionali (Fred Maher alla batteria, Mike Rathke alla chitarra e il grande Rob Wasserman al basso e contrabasso) decide di scrivere un disco sulla sua città. New York esce nel 1989 ed è puro stile Reed: musica semplice e travolgente e testi sopraffini, piccole storie per raccontare quel lato oscuro, indifeso ma così umano tanto caro a Reed. Romeo Had Juliette è una trasposizione contemporanea del tema shakespiriano tra un portoricano e una irlandese. Halloween Parade è la canzone della festa e rimanda alle filastrocche di Transformer, in Last Great American Whale e Dime Store Mystery, tenebrosa, alla batteria c’è Moe Tucker, la batterista dei Velvet Underground. There Is No Time è rock come se fosse stata in Rock’n’Roll Animal, come la bella Strawman e le classiche ballate come Beginning of a Great Adventure e Endless Circle. ma la canzone simbolo, una delle più belle mai scritte da Reed, è Dirty Blvd. una mini novella sulla vita dei bassifondi che dice più di certi studi sociologici al riguardo, e che va addirittura al numero 1 della classifica Billboard. È la rinascita di un mito: con John Cale scrive un capolavoro, Songs For Drella (1990) in omaggio a Andy Warhol; canterà collegato via satellite con Bono degli U2 durante lo Zoo Tv Tour Satellite Of Love; riunisce i Velvet Underground, e  inizierà con nuovo slancio tutta una serie di esperimenti musicali, tra teatro, collaborazioni eccellenti (con i Metallica, The Raven come opera teatrale) e ha pure il tempo di scovare un cantante che sembra nato da una delle sue canzoni, Antony Hegarty, cantante transgender dalla voce portentosa. Se ne va per un cancro al fegato, ma avendo segnato la cultura musicale come pochissimi. Lester Bangs scrisse:  Lou Reed è la persona che ha dato dignità, poesia e una sfumatura di rock'n'roll all'eroina, alle anfe, all'omosessualità, al sadomasochismo, all'omicidio, alla misoginia, all'imbranataggine e al suicidio.
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pangeanews · 5 years
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“Volgiti a me, MacDiarmid, pazzo di scrittura”. Comunista, nazionalista, eccessivo, gran bevitore: ode al poeta geniale che non possiamo leggere
Sono un uomo piccolo, sto sul palmo di una mano, e mi emoziona pensare il poeta che s’incunea a Whalsay, ferita rocciosa delle Shetland. Cercate Whalsay, ora, nel sobborgo metropolitano dove state, e svanite in quel rosario di rocce, in quella mistica oceanica. Il poeta voleva far parlare le pietre, dare nitore al bisbiglio roccioso che le convalida. Anche le rocce sognano.
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“Leggenda vuole che… avesse trascorso tre giorni sulla spiaggia di West Linga dormendo in una grotta e appuntandosi ogni tipo di osservazione sulla geologia del posto, sui colori delle pietre e sui mutamenti di luce di quel cielo nordico” (Marco Fazzini). Era il 1933. L’anno dopo il poeta pubblica Stony Limits and Other Poems. In quella raccolta spicca il capolavoro. On a Raised Beach. Il poeta si chiama Christopher Murray Grieve, ha 42 anni, è un tipo strano, tra il rivoluzionario e il profeta, politico e biblico; i poeti lo conoscono come Hugh MacDiarmid, indossa quel nome dal 1922. In un busto scolpito nel bronzo, Hugh ha capelli che paiono un’aquila, occhi stretti come pugnali. Quell’anno, nel 1922, T.S. Eliot pubblica La terra desolata, e, beh, posto che valgano questi giudizi sommari – ma la vita, in fondo, è una somma di eventi sommari – On a Raised Beach è un poema più grande, selvaggio, possente. Spaventa. Ecco.
*
Il poema pare Giobbe ripetuto dalle labbra di Melville, una litania capace di ipnotizzare papà Atlantico. M’impressione il vigore, la forza che ha una cosa viva, con un muso e dei denti. Va letto, perciò, anche, come abbecedario d’etica, questo poema. Ne estraggo alcuni versi, a vortice:
“Dobbiamo essere umili. Siamo così facilmente vanificati dalle apparenze Che non ci accorgiamo che queste pietre sono un tutt’uno con le stelle”
“È misero affare tentare di abbassare L’arduo furore delle pietre alle fantasie futili degli uomini”
“La luna muove l’acque avanti e indietro, Ma non si possono invogliare le pietre a procedere Neanche un pollice al di qua o al di là dell’eternità”
“Sarà sempre più necessario trovare Nell’interesse di tutta l’umanità Uomini capaci di rifiutare tutto ciò che pensano tutti gli altri Uomini, come una pietra rimane Essenziale al mondo, inseparabile da quello, E rifiuta ogni altra forma di vita”.
*
Hugh MacDiarmid è la leggenda della letteratura scozzese contemporanea. Piuttosto: ne è l’evocatore, il bardo, il guerriero, il re che ha scelto di deporre la corona per imbracciare il forcone. Giornalista di talento, MacDiarmid diventa poeta per scardinare dalle pastoie inglesi il gergo di Scozia. “L’uso dello scots che MacDiarmid propugnò sin dal 1922 intendeva svincolare questo vernacolo dall’oblio a cui era stato relegato… Ciò che diede forza ed efficacia alla così detta Rinascenza scozzese fu la mistura esplosiva di poetica ed azione politica portate all’eccesso, in definitiva, da un solo intellettuale: Hugh MacDiarmid” (Fazzini). A Drunk Man Looks at the Thistle, pubblico nel 1926 è il punto di svolta della letteratura scots. Per MacDiarmid l’opzione estetica è sostanzialmente politica: nel 1928 è tra i fondatori del National Party of Scotland, da cui viene espulso; dagli anni Trenta s’impegna tra le fila del partito comunista inglese, da cui viene espulso un paio di volte.
*
“La mia è la storia di un assolutista, i cui assoluti sono cresciuti a dismisura, fino al dolore nella vita privata”, ha detto. Di lui Kenneth Buthlay ha scritto: “MacDiarmid è il flagello dei Filistei, lo spietato intellettuale che cerca la rissa… era il bardo e il nemico del compromesso”. Il suo comunismo, per intenderci, era il contrario di quello professato dagli educati, cinici, abbienti poeti d’Albione, W.H. Auden, Stephen Spender. MacDiarmid era figlio di un postino, veniva dal sottosuolo, riuscì a leggere perché viveva di fronte alla biblioteca civica; nato nel 1892, durò fino al 1978. “Disprezzava le caste e le categorie, le classi sociali, culturali, l’accademia che, diceva, non è fallimentare, è criminale” (Ian Hamilton).
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Mastico ancora quei versi, un’epica per petroglifi, dal vigore biologico.
Devo entrare in questo mondo di pietra adesso. Fragmenti, striature, relazioni di tessere, Ombre innumerevoli di grigio, Forme innumerevoli, E sotto tutte loro una stupenda unità, Movimento infinito che si difende visibilmente Contro ogni assalto del tempo e dell’acqua…
Penso che del libro mi dissero Andrea Ponso e Gian Ruggero Manzoni. Fu scoperta devastante. On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino. Era il 2001. Editore Supernova. Curatela, impeccabile, di Marco Fazzini. La domanda non sembri cretina: perché questo libro fondamentale di un poeta fondamentale non sta nella ‘bianca’ Einaudi o nello ‘Specchio’ Mondadori? Perché se raspo in Internet mi dicono che non è più disponibile (come se Ii libri fossero ben disposti)? A me pare, questa, seccamente, una idiozia.
*
Nella raccolta di saggi oxfordiani La riparazione della poesia Seamus Heaney dedica un testo a Hugh MacDiarmid, La fiaccolata di un singolo. Questo è il dettaglio culturale: “La posizione di MacDiarmid nella letteratura e cultura scozzese è per molti aspetti analoga a quella di Yeats in Irlanda, e le ambizioni indipendentiste degli scrittori irlandesi furono sempre molto importanti per lui. Il suo ardimento linguistico fu ampiamente incoraggiato dall’esempio di Joyce, mentre Yeats e altri scrittori successivi alla rinascita irlandese continuarono a esercitare un ampio influsso sul suo programma di nazionalismo culturale”. Ritratto personale: “Fu comunista e nazionalista, propagandista e plagiatore, bevitore e confusionario, e recitò tutte queste parti con straordinario vigore. Si fece dei nemici con la stessa passione con cui si fece degli amici. Fu stalinista e sciovinista, anglofobo e arrogante, ma la stessa tendenza all’eccesso che manifestava sempre, la qualità esorbitante che segnava tutto ciò che faceva, dava anche forza ai suoi successi e li rendeva duraturi. In altre parole, MacDiarmid possedeva quella ‘forza’ che Sir Philip Sidney giudicava essenziale segno distintivo della poesia stessa”.
*
Semus Heaney, al di là del detto accademico, dettò una meravigliosa poesia In Memoriam Hugh MacDiarmid. “Volgiti a me, MacDiarmid, dalle Shetland,/ occhio impietrito dal guardare pietra, sobrio,/ e ostinato”, comincia Heaney, esaltando il poeta “pazzo di scrittura”, con “quell’orgoglio di mettersi alla prova. Di solitudine”, che possiede “l’occhio ciclonico d’una poesia come le stagioni”. La terzina finale ricorda che il linguaggio è scelta di vita, estasi della prova, mai l’ornamento: “Nell’accento, nell’idioma,/ nell’idea come un cardo nel vento,/ un catechismo degno d’esser detto e ridetto in eterno”. Da nessun poeta ho percepito prossimità così chiara, ferina, all’elemento naturale. Questo è un poeta in cui rovinare. (d.b.)
***
Mi sono innamorato alfine del deserto, La dimora della serenità suprema è inevitabilmente un deserto. La mia disposizione è per le questioni spirituali, Rese inumanamente chiare; non permetterò che nulla sia interposto Tra la mia sensibilità e la sterile eppur bella realtà; La chiarezza mortale di questo “vedere da affamato” Solo le tracce d’una febbre di passaggio sulla mia visione Varieranno, turbandola davvero, ma turbandola solo In modo che acquisterà per un momento Una chiarezza sovrumana, minacciosa: il riflesso D’una brillantezza attraverso un cristallo bruciante. Una cultura richiede agio e l’agio presuppone Un ritmo di vita auto-determinato; l’abilità di star solo È la sua prova; con ciò il deserto ci conosce. Non è questione di sfuggire alla vita Ma il contrario: questione d’acquisire il potere D’esercitare la solitudine, l’indipendenza, delle pietre, E quello viene solo dal sapere che la nostra funzione permane, Per quanto sembriamo isolati, essenziale alla vita come la loro. Abbiamo perso le fondamenta del nostro essere, Non abbiamo edificato sulla roccia.
Hugh MacDiarmid
*Il brano di Hugh MacDiarmid è tratto dal poema “On a Raised Beach/Sopra un terrazzo marino”, Supernova, 2001, cura e traduzione di Marco Fazzini
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tmnotizie · 6 years
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ANCONA – Questi gli appuntamenti ad Anconada domani a lunedì 6 agosto.
Venerdì 3 AGOSTO
Per “Estate al Parco Belvedere di Posatora”  il 3 agosto“SOTTO LE STELLE” con l’osservatorio di Pietralacroce.
Per Lazzabaretto Cinema 2018- alla Mole Vanvitelliana-  alle ore 21,30 THE POST Regia di Steven Spielberg. Con Meryl Streep, Tom Hanks. Genere Biografico – USA, 2017, durata 118 minuti.  La coppia Streep-Hanks per la prima volta insieme sul grande schermo per un dramma politico alle massime sfere con segreti e rivelazioni, sui diritti e le responsabilità della stampa. Filma Steven Spielberg. Ingresso intero 5€, ridotto 4€
Per la rassegna Tropicittà al Cinema Teatro italia alle 21.30 si proietta   IL FILO NASCOSTO    regia: Paul Thomas Anderson
Per Ti.Ci.Porto Festival, al Porto Antico, a partire dalle 21.30, Venerdì 3 agosto
Il porto di Ancona e l’identità cittadina  Conferenza di Antonio Luccarini, in collaborazione con Autorità di Sistema Portuale del Mare Adriatico Centrale
Per “Fotografi in Chiesetta” a Santa Maria in Portonovo, dalle ore 21.30 Andrea Tessadori presenta “Le Marche mille angoli da scoprire” musiche originali di Martino Gasparrini, videoproiezione.
Sabato 4 AGOSTO
Questa sera per la rassegna “TEATRO PER TUTTI … UN PO’ DAPPERTUTTTO”  organizzata dall’Assessorato alla Partecipazione Democratica va in scena con ingresso libero alle ore 21,15, al Ghettarello la Compagnia Koinè di Falconara con “Ma che strani parenti”
Ultimi posti disponibili per “APERITIVO CON DELITTO” Sabato 4 agosto, ore 18:30 Pinacoteca Civica. A Palazzo Bosdari è avvenuto un atroce delitto…e stavolta la vittima è Tiziano Vecellio, maestro indiscusso della pittura veneta, osannato ed invidiato dai suoi contemporanei. Chi sarà l’assassino? Gli artisti Lorenzo Lotto, Sebastiano del Piombo, Girolamo Dente, il mercante Luigi Gozzi e affascinanti nobil donne, sono i personaggi della nostra storia. Chi avrà commesso il delitto? Venite a risolvere questo fitto mistero tra invidie, gelosie, bisogno di affermazione e ricchezza. Visita guidata alla collezione di pittura veneta, gioco ed aperitivo. Ingresso biglietteria vicolo Foschi, 4
PRENOTAZIONE OBBLIGATORIA telefonando al numero 0712225047(negli orari di apertura) o scrivendo a [email protected]
Prenotazione entro le ore 19 di venerdì 3 agosto! Il gioco si svolge in tavoli da 6. Sarà cura dell’organizzazione predisporre i partecipanti ai tavoli secondo le esigenze del gioco in accordo con le vostre richieste. Quota di adesione: € 20,00 (la quota comprende l’attività, l’aperitivo in tre portate, le bevande e il biglietto di ingresso in Pinacoteca valido anche per il Museo della Città di Ancona); € 17,00 minori di 14 anni
Si prega di comunicare eventuali allergie o problemi alimentari al momento della prenotazione. Degustazione di vino locale in collaborazione con F.I.S.A.R. Castelli di Jesi.Il gioco è a cura del gruppo I Delittanti.
Per “Estate al Parco Belvedere di Posatora” il 4 agosto spettacolo con gli artisti di strada.
Per Lazzabaretto Cinema 2018- alla Mole Vanvitelliana-  alle ore 21,30 DETROIT 21.30 – Regia di Kathryn Bigelow. Con Will Poulter, Hannah Murray. Genere Drammatico – USA, 2017, durata 143 minuti.  Lo sguardo di Kathryn Bigelow s’immerge dentro la Detroit della fine degli anni ’60. Con un impeto travolgente che fa sembrare il suo cinema ancora oggi, più di ieri, sorprendentemente attuale, trascinante, sensoriale. Ingresso intero 5€, ridotto 4€
Per Ti.Ci.Porto Festival, al Porto Antico, a partire dalle 21.30 Sabato 4 agosto 1968. La musica, gli ideali e le immagini di una generazione che voleva cambiare il mondo.                                            Spettacolo / varietà con Elisabetta Malantrucco, Massimiliano Larocca, Marco Sonaglia e gli allievi dell’accademia. In collaborazione con l’Accademia dei cantautori di Recanati
Per la rassegna Tropicittà al Cinema Teatro italia alle 21.30 si proietta   IL FILO NASCOSTO    regia: Paul Thomas Anderson.
Domenica 5 AGOSTO
Per Ti.Ci.Porto Festival, al Porto Antico, a partire dalle 21.30 Domenica 5 agosto
Difendere il mare. Conoscere e neutralizzare le nuove minacce alla salute dell’ambiente
Conferenza con Francesco Regoli, Francesca Garaventa e Serena Maso, in collaborazione con l’Università Politecnica delle Marche
Per Lazzabaretto Cinema 2018- alla Mole Vanvitelliana-  alle ore 21,30 LA CASA SUL MARE Regia di Robert Guédiguian. Con Ariane Ascaride, Jean-Pierre Darroussin. Genere Drammatico – Francia, 2017, durata 107 minuti.Il nuovo lungometraggio di Robert Guédiguian, in Concorso all’ultima Mostra di Venezia, è la storia di tante anime, almeno tre generazioni, quasi a voler ribadire un’attenzione alle diverse percezioni del “tempo che passa”. Ingresso intero 5€, ridotto 4€
Questa sera per la rassegna “TEATRO PER TUTTI … UN PO’ DAPPERTUTTTO”  organizzata dall’Assessorato alla Partecipazione Democratica va in scena con ingresso libero alle ore 21,15, a Montesicuro il gruppo I millepiedi di Ancona che propone “Scampa morte”.
Per la rassegna Tropicittà al Cinema Teatro italia alle 21.30 si proietta  METTI LA NONNA IN FREEZER    regia: Giancarlo Fontana e Giuseppe Stasi
Lunedì 6 AGOSTO
Per Lazzabaretto Cinema 2018- alla Mole Vanvitelliana-  alle ore 21,30 GLI INTOCCABILI Regia di Brian De Palma. Con Kevin Costner, Sean Connery. Genere Drammatico – USA, 1987, durata 119 minuti.Uno dei vertici della carriera di Brian De Palma, Kevin Costner nei panni del capo poliziotto, Sean Connery il veterano irlandese in odore di Oscar, Robert De Niro è Al Capone. Scritto da David Mammet. Puro cinema.  Rassegna “Cinque pezzi facili: il cinema di Ennio Morricone” Versione originale sottotitoli in italiano – Ingresso unico 4€
Per la rassegna Tropicittà al Cinema Teatro italia alle 21.30 si proietta  LA CASA SUL MARE    regia: Robert Guediguian
Per Ti.Ci.Porto Festival, al Porto Antico, a partire dalle 21.30 Lunedì 6 agosto Radio Filippì  Dj set di Enrico Filippini
MOSTRE
Prosegue al Museo Tattile statale Omero FORME SENSIBILI ore 18. Paolo Annibali, Egidio Del Bianco, Giuliano Giuliani, Rocco Natale, Valerio Valeri7 luglio – 16 settembre 2018 ANCONA, Museo Tattile Statale Omero. A cura di Nunzio Giustozzi.
Cinque artisti marchigiani a significare, nell’originalità delle loro poetiche, gli orientamenti della scultura contemporanea.
Quasi quaranta le opere – tra sculture, disegni e bozzetti frutto delle ricerche più recenti – fatte di diversi materiali cui si riconosce una sorta di “vocazione formale”, un’anima sensibile. L’argilla dipinta, il legno, il travertino, i metalli, lavorati o assemblati, ma anche carte, stoffe, spaghi di un’inedita qualità tattile, offrono, tra figurazione e astrazione, sviluppi espressivi inattesi e forma e materia si modulano vicendevolmente, raggiungendo una mirabile sintesi.
INGRESSO LIBERO
ORARIO luglio e agosto:
dal mercoledì al sabato 17-20
domenica e festivi 10-13 e 17-20
i giovedì dal 12 luglio al 16 agosto durante la rassegna Sensi d’estate anche 21-24
settembre: dal mercoledì al sabato 16-19
domenica 10-13 e 16-19
ultimo ingresso 30 minuti prima della chiusura.
VISITE GUIDATE
Tutti i sabati e le domeniche alle ore 18.
Costo: 4 euro a persona; gratuito: disabili e loro accompagnatori, bambini 0-4 anni. Prenotazione consigliata: [email protected] – tel. 0712811935.
LABORATORI CREATIVI PER FAMIGLIE
20 e 27 luglio ore 18-20
24 e 31 agosto ore 18-20
7 settembre ore 17-19
Costo: 4 euro a partecipante; gratuito: disabili e loro accompagnatori, bambini 0-4 anni. Prenotazione obbligatoria:[email protected] – tel.0712811935.
Museo Tattile Statale Omero Ancona Mole Vanvitelliana – tel. 0712811935 luglio e agosto: dal mercoledì al sabato 17-20, domenica e festivi 10-13 e 17-20,
i giovedì dal 12 luglio al 16 agosto durante la rassegna Sensi d’estate anche 21-24
Fino al 24 ottobre è possibile visitare presso la Biblioteca Benincasa una nuova mostra libraria e documentaria.
Si tratta della mostra “Tra editoria e letteratura: A. Gustavo Morelli editore e tipografo ad Ancona tra Otto e Novecento”, incentrata su una figura notevole nel panorama culturale cittadino tra Otto e Novecento: il tipografo editore A. Gustavo Morelli (1852-1909). La mostra è visitabile presso lo Spazio d’Ingresso della Benincasa, in Via Bernabei 30, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19.
ADurante il periodo estivo (luglio e agosto), sarà visitabile il mattino, dalle 9 alle 13.30 e di pomeriggio anche il martedì e il giovedì dalle 14.30 alle 17.La mostra espone anche tra l’altro una lettera del pittore Francesco Podesti, di cui Morelli pubblicò due opere. Della mostra è disponibile un catalogo presso la Sala di lettura e a richiesta si effettuano visite guidate.
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leggendolibri · 5 years
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Eureka Street, Robert McLiam Wilson - All'alba del cambiamento...
Eureka Street, Robert McLiam Wilson – All’alba del cambiamento…
Ogni tanto mi piace pensare che ci sia una “divina provvidenza” che ti fa capitare in mano un libro che hai tralasciato, volutamente o solo per distrazione, al momento giusto. Una provvidenza come quella che era raccontata da Gian Carlo Ferretti in “Siamo spiacenti“; nello scorrere i rifiuti editoriali che si sono succeduti dal dopoguerra in poi, spulciando fra la corrispondenza degli editori e…
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leggendolibri · 5 years
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Più libri più liberi 2019: giorno tre "Della banana, il salame e i libri"
Più libri più liberi 2019: giorno tre "Della banana, il salame e i libri" Storie di libri e cinesi, con trapani banane e salami... tu prova a non leggere...
Eh lo so, sembra un titolo clickbait (ovvero attira-click) ma non lo è. Nel resoconto di oggi ci sono davvero dei salami, una banana e dei libri! La banana è una cuccetta per gatti che Nereia di Librangolo Acutoha portato a Divi e invece il chorizo e l’altro salame, di cui non ricordo il nome, sono per me (sono davvero buoni i salumi spagnoli fidatevi!). Ma siamo blogger che parlano di libri e…
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pangeanews · 5 years
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“Viviamo nel tempo del ‘discutiloquio’, gli scrittori sono quasi tutti polli d’allevamento delle scuole di scrittura, Philip Roth è il più grande”: dialogo con Matteo Palumbo, il super italianista
C’è bisogno – oggi come ieri – di risollevare alcune questioni, riproporsi alcuni interrogativi. La terra va divelta continuamente. Dove è diretto il dibattito critico? Perché i 280 caratteri di un tweet non bastano e serve riempire pagine e pagine di carta? Come districarsi nella tempesta nervosa dell’oggi? Chi sono gli scrittori e chi semplici polli? Dare risposte sarebbe sbagliato, la letteratura dev’essere benzina sul fuoco, oltre che sangue e attrito. Se i critici sono dediti all’azzardo, io ho avuto la possibilità di confrontarmi con un giocatore d’esperienza in un dialogo “contemporaneo”. Matteo Palumbo, professore dell’Università di Napoli e grande italianista e critico, allievo di Giancarlo Mazzacurati (di recente Carocci ha riedito il suo Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo), risponde ad alcune mie domande. Facile imbattersi nei suoi studi, per chi guarda alla letteratura moderna. Siamo partiti dalla scorza, dalla superficie se non anche dal banale, per scendere nel nucleo magmatico delle questioni. Storicizzare il presente è quasi impossibile, abbiamo provato a problematizzarlo per quanto concerne l’ottica letteraria e non solo.
Quale pensa che sia, oggi, il ruolo della critica letteraria?
Rispondo con una frase capitale di Walter Benjamin: «conoscere un’opera non significa conoscere il tempo in cui un’opera è nata, ma introdurre il tempo che si conosce nel tempo che si studia». Nei grandi libri che affrontiamo, noi portiamo le nostre domande. Questo significa estrarre un senso nascosto, latente, che sono proprio le nostre domande a tirar fuori. Non penso che il compito attuale della critica sia diverso da quello di ieri. Il suo ruolo sociale è, invece, un altro argomento. Dovremmo ragionare sulla scuola, sugli organi di stampa, sulle riviste e il posto che tutte queste istituzioni hanno nell’orizzonte contemporaneo.
Matteo Palumbo, italianista all’Università di Napoli; di recente Carocci ha riedito il suo “Il romanzo italiano da Foscolo a Svevo”
Croce, limitava il ruolo della critica a tutto ciò che riguardava strettamente l’opera, si opponeva in generale all’idea che la critica dovesse interessarsi alla “somma o al complesso di lavori che si riferiscono all’opera letteraria”, alla non poesia. Ma se prima uno scrittore si trovava nel suo studiolo davanti a pile di libri, un foglio e una macchina da scrivere, oggi lo scrittore deve confrontarsi con stimoli diversi, nuovi strumenti della comunicazione e dell’editoria, social e algoritmi di visibilità. Potrebbero i ripetuti trilli di uno smartphone o la smania – se non l’obbligo – di scrivere un proprio pensiero sui social essere considerate come una dispersione di energie mentali e di contenuti? E come questo influisce sull’opera?
Queste cose potrebbero essere importanti per uno scrittore che voglia essere nel flusso del tempo, per quanto concerne la sua presenza nel mondo dello spettacolo e della comunicazione di massa. Non hanno niente a che fare, però, con il momento genetico. Sia con una penna che con una macchina da scrivere o un computer si può comunque dar forma ad un’idea. Diceva Shopenauer: «un colpo di frusta di un cocchiere uccide un pensiero», figurarsi quanti pensieri uccide lo squillo di un cellulare. È però una scelta di chi scrive, credere che questi strumenti lo aiutino ad mettere radici nel tempo. La questione però è un’altra. Lamberto Maffei nell’Elogio della lentezza divide il nostro cervello in due emisferi, quello della rapidità e quello della lentezza. Il primo è l’emisfero della risposta, della reazione, il secondo è quello dell’elaborazione, della temporalità ed è quello che ci permette di riflettere sulle cose. Far prevalere la lentezza ci rende santi o eremiti nella meditazione, eppure una cosa non esclude l’altra. Non bisogna essere né apocalittici né integrati (come recitava il titolo di un libro di Eco), ma essere capaci di gestire le cose e non esserne prigionieri. Teneo, non Teneor.
È diventato sempre più difficile far cambiare idea a qualcuno, senza utilizzare strumenti mediatici a volte subdoli. Conseguenza di ciò è stato anche l’inasprirsi del giudizio – che diviene feroce – nei confronti di idee opposte o differenti. Riportata in letteratura questa riflessione, ci porta alla famosa domanda: il critico è giudice dell’opera o deve utilizzare la critica come strumento di comprensione?
Il critico non è né giudice né utilizza la critica come un bastone, ma un’opera critica è una lettura orientata che prova a mettere sangue nel testo che ha davanti. L’inasprimento, a cui lei si riferiva, riguarda più gli aspetti e i rapporti della vita quotidiana, chi usa alcune sollecitazioni per dire e fare ciò che più gli piace. E questo non è il trionfo della democrazia, come a volte si pensa. È “discutiloquio”: parlare tanto per parlare; è una sorta di sfogo in cui prevale, come dicevamo prima, la velocità. È un po’ come il cane di Pavlov, c’è uno stimolo e io rispondo, suona un campanello e io reagisco; e questo accade a livello comunicativo. Non a caso gli strumenti subdoli a cui lei faceva cenno, sono costituiti da un numero ben definito di caratteri, immagini, che vanno tutti nella direzione della velocità. Quindi il critico, ritornando alla prima domanda, ha un po’ il ruolo del professore. Il professore si rivolge a tante diverse teste, occhi, fantasie, curiosità e non è certo sicuro che otterrà risultati. Ci prova e getta semi come un predicatore.  È uno strano mestiere quello dei critici: non abbiamo la sicurezza di produrre nell’immediato, né se mai potremo farlo. È uno scommettitore che pensa che le sollecitazioni che usa siano produttive e che possano avere un senso. Condivide con il professore anche il ruolo della formazione, ma di un gusto, in cui mette in gioco un’idea di letteratura, di cultura, le proprie idiosincrasie, alla ricerca di un linguaggio senza garanzie di risultati. È un messaggio in bottiglia, chissà se qualcuno lo prenderà.
Una provocazione, rimanendo in tema. Lei è stato un grande studioso di Gucciardini, pensa che i Ricordi politici e civili oggi sarebbero tweet o post su Facebook?
Non deve illudere il formato breve. Qui vale un’osservazione fatta da Montegna: «parlare di se stessi può essere una cosa pericolosa, ha senso se scaviamo dentro di noi e proviamo a capire qualcosa, ma se lo facciamo per metterci in posa, sembriamo ridicoli e patetici». I Ricordi riguardavano non solo le vicende politiche ed umane, ma anche le sensazioni, le passioni dell’io, sono l’indicazione di un metodo di analisi che possiamo usare per la vita interiore, delle precise metodologie per rispondere e intendere ciò che ci accade intorno. Decida lei se quello che accade oggi non è altro che una messa in scena ridicola e patetica. È il metodo quello che conta davvero.
Il romanzo e la poesia, nella letteratura «ultracontemporanea», fanno i conti con la nuova società degli anni ’20 del 2000. Quest’ultima non sembra relegata a mero contesto della letteratura, ma sembra fare a pugni con essa. Può sembrare che la letteratura stia perdendo la sfida? Per intenderci. Benché il “realismo” nell’arte non è tutto, forse si è giunti al punto che non è più possibile, per la letteratura, non guardarsi attorno. Come fare per non chiudersi nello scimmiottamento dell’inattuale, del “lontanissimo” novecento. Come superare questo anacronismo? Per intenderci Cocteau negli anni ’30 con La voce umana, basava un’intera opera teatrale sulla telefonata tra due amanti. Oggi, questa sarebbe una chat di WhatsApp? Quali sono gli strumenti da utilizzare nel trasporre in arte questa nuova realtà. C’è chi predica l’arrivo di un Joyce 2.0 per dare una svolta.
Non so se esistano delle ricette. Posso rispondere in questo caso da storico letterario. Per ritrovare le grandi opere, quelle che hanno costruito la rappresentazione della modernità, bisogna tornare agli anni ’20, del ’900 questa volta. Non serve un Joyce 2.0, visto che la prima versione è già uno straordinario modo di attraversare la storia dell’occidente. Realismo è una parola chiave, ma che significa? Jakobson diceva che il realismo è una “porta girevole”, non esiste un realismo valido per sempre. Appena pensiamo che l’uomo è fatto in un certo modo, arriva Picasso che ci aggiunge un altro paio di occhi e altre orecchie. Eppure resta una forma di realismo perché ti fa vedere cose che la rappresentazione precedente non ti faceva vedere. Il realismo permette di rappresentare cose nuove. L’arte contemporanea, diceva Paul Klee, è quella che rende presente la realtà, usando e scegliendo modi espressivi che siano capaci di rendere presente mentalmente quell’idea di realtà. Il punto è: questi nuovi strumenti che tipo di razionalità hanno messo in gioco? Se semplicemente ci metto Facebook in un libro non sto facendo opera moderna, per questo ci vuole grande letteratura. I grandi scrittori non sono quelli della periferia dell’impero, sono altri. Ed esiste un dato ricorrente: i grandi scrittori sono quelli che nascono dall’incrocio di due culture. Kafka, praghese e tedesco, Joyce, irlandese e inglese, Svevo, tedesco e italiano. Gli scrittori israeliani che vivono di per sé una contrapposizione di culture diverse e in lotta. Pensi a Roth – tra i più grandi – che mette in gioco la sua anima ebraica ed occidentale-americana. Queste cose determinano quell’attrito necessario perché un’opera abbia sangue e non sia un semplice gioco tranquillo e divertente. Foster Wallace, Pynchon, DeLillo sono scrittori che non avrebbero mai avuto bisogno di Facebook, perché possiedono le grandi questioni della nostra storia, del nostro errare a contatto con le dispersioni e con la spazzatura che ci sommerge, e con le passioni sbriciolate. Poi esistono i polli d’allevamento, delle scuole di scrittura e altri artifici, che applicano alla lettera le ricette da farmacista: 20% di crisi della famiglia, 15% di internet, 20% di ecologia e il resto sesso, che non guasta mai.
Qual è il suo parere sulla letteratura contemporanea? Rappresenta un po’ il concretizzarsi delle paure dei poeti e dei letterati del ‘900? La percezione è quella che ai poeti non solo sia caduta l’aureola, ma essi stessi avvertono di non averla mai posseduta. È giusto considerare la letteratura d’oggi un po’ caotica, sfibrata e quindi difficilmente inquadrabile in un indirizzo critico?
Dipende a quale letteratura noi volgiamo l’attenzione, i grandi libri esistono ancora. Scrivere è una delle cose più costanti della cultura, è il tentativo di dare forma a qualcosa. Non si ragiona sulla crisi della letteratura, ma sulla crisi di alcuni modelli. Luogo comune è che la poesia sia stata relegata in un angolo, eppure non si è mai scritto così tanto a proposito. L’inghippo è capire quali di questi tanti libri sono significativi. Esistono delle prove che indicano come la letteratura si reinventi. Quando la letteratura non è un gioco d’accademia dà sollecitazioni, non risposte. Il compito della letteratura è aprire questioni, non risolverle; non è un programma politico. I grandi autori sono maestri del sospetto, più che propagatori di verità.
Come di rito, per concludere. Negli ultimi due decenni, la lezione di quali poeti, o prosatori, lei ritiene fondamentale?
Oltre a quelli già detti, i grandi libri degli ultimi trent’anni sono tutti i libri di Philiph Roth, con una predilezione per Pastorale americana, che fin dal titolo è un «passare a contrappelo la storia». La poesia pastorale, una delle grandi tradizioni idilliche e bucoliche del nostro mondo, corrosa con l’acido dell’America diventa un’altra cosa. Consiglio ancora gli “scrittori di confine”, ad esempio Hrabal con Una solitudine troppo rumorosa. L’incanto del lotto 49 di Thomas Pynchon e alcuni racconti di Oblio di David Foster Wallace sono straordinari. Per gli italiani si annaspa sempre per scegliere qualche titolo. Camilleri penso sia l’esempio di una grande letteratura tradizionale; Montalbano, come un unico grande libro, restituisce ancora il senso della storia italiana ma non esclude Montesano con Di questa vita menzognera, buone prove della letteratura di genere. Tra i recentissimi ho apprezzato Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco e ho una predilezione particolare per Michele Mari, che fa indagini raffinatissime sulla sua vita privata che diventa leggenda privata e racconto di formazione di una individualità. Riguardo la poesia adoro Milo de Angelis, e tra chi ha una voce forte ricordo anche Patrizia Valduga, i suoi testi per il marito Raboni sono di una potenza straordinaria.
Maurizio Allegretta
*In copertina: Philip Roth a Newark, nel 1968
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pangeanews · 6 years
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“Passai una notte indimenticabile con Borges, un vero dissacratore”: dialogo infinito con Sylvia Iparraguirre
Bisogna osare azioni controcorrente, contro l’ordine imperante. Una delle regole della comunicazione è che intervistato un tizio si passa al prossimo, senza soluzione di affetto né di coinvolgimento. D’altronde, dopo che uno ha detto quello che ha da dire, basta. Non funziona così in letteratura, perché lo scrittore, quando è grande, è un mondo e le interviste, di solito, non sono ‘promozionali’ né ‘elettorali’, ma sostanziali. Da tempo dialogo con Sylvia Iparraguirre (qui e qui), che è tra i grandi scrittori latinoamericani di oggi, per fortuna tradotta in Italia (in catalogo Einaudi il suo capolavoro, La terra del fuoco): un dialogo ‘infinito’. Sylvia non è soltanto una grande scrittrice, è una donna che ha attraversato il periodo più luminoso e più buio della storia argentina. Ha visto la dittatura militare ed è stata allieva di Jorge Luis Borges, ha scritto quando scrivere, negli anni Settanta, era di per sé un gesto ribelle e ha conosciuto Cortázar (“gli ho voluto bene immediatamente”), ha sguardi grevi di anni, colmi di futuro. La sua generosità, tanto limpida e disarmata, non smette di sorprendermi in questo tempo in cui anche gli insulsi si credono divi.
Qual è stato il suo rapporto con gli scrittori argentini, ad esempio con Borges e Cortázar?
Il mio debito con la tradizione letteraria argentina riempirebbe una biblioteca. C’è una linea che inizia nel XIX secolo – il passato di tutti noi –, che costituisce il DNA di tutti gli scrittori argentini. Nell’epoca contemporanea: l’avanguardia degli anni Venti, quando cominciano a scrivere i grandi maestri come Borges, Roberto Arlt e Leopoldo Marechal. Poi, negli anni Quaranta, quando pubblicano Ernesto Sábato, Adolfo Bioy Casares, Silvina Ocampo e Cortázar. Quella è la costellazione più luminosa di grandi scrittori argentini. La loro eredità viene ripresa dalla generazione degli anni Sessanta, che la trasforma e la rinnova (Tizón, Castillo, Piglia, Fogwill, Heker, Di Benedetto, Briante). Di quella tradizione, Arlt e Borges sono stati, per motivi diversi, i miei maestri. E Cortázar, con i suoi racconti. Ciò che mi colpì veramente, da adolescente, delle opere di Borges e Cortázar, come anche di Sábato, fu l’avere portato alla ribalta un linguaggio: la lingua letteraria degli argentini. Fu una scoperta cruciale. Un colloquialismo legato alla quotidianità che riusciva a trattare questioni che non avevano niente a che fare con il quotidiano. E un umorismo tipicamente argentino. è difficile da spiegare a un europeo. In Argentina abbiamo due canoni: lo spagnolo di Spagna e il nostro, il rioplatense. Le traduzioni che leggevamo da bambini o da adolescenti provenivano principalmente dalla Spagna: con tú e vosotros. Da qui la fascinazione nel leggere in tali autori la mia propria lingua, la “parlata” argentina. Successivamente, nel 1968, un autore come Manuel Puig fece di quei registri di linguaggio, di quegli stili colloquiali, materia dei suoi romanzi, veramente unici, come Il tradimento di Rita Hayworth (La traición de Rita Hayworth) e Una frase, un rigo appena (Boquitas pintadas). Molto interessante, nella storia della letteratura latinoamericana, il suo rapporto conflittuale con la Real Academia Española. è esilarante uno degli articoli che Borges dedica proprio al tema della lingua degli argentini: I timori del dottor Américo Castro (Las alarmas del doctor Américo Castro; in Italia è leggibile nel libro Altre inquisizioni, ndr). Ma qui ci sarebbe da scrivere un altro articolo.
A parte la letteratura argentina e tutti i suoi meandri, nella mia genealogia letteraria hanno svolto un ruolo significativo la letteratura nordamericana (Faulkner, Hemingway, Carson McCullers, Flannery O’Connor, Salinger, Capote, Thomas Wolfe) e quella inglese, per non dire irlandese: Woolf, Joyce, le sorelle Brontë, Katherine Mansfield, Dylan Thomas, William Trevor, per citarne alcuni. La letteratura giapponese è molto presente tra di noi e nelle mie letture, come Mishima, Kenzaburo Oé, Akutagawa. Di base, ho una venerazione anche per i russi, da Pushkin a Chejov. Veniamo ora all’altra parte della tua domanda.
Sylvia Iparraguirre insieme a Jorge Luis Borge
Borges è stato il mio professore di letteratura inglese alla Universidad de Buenos Aires. Avevo letto Fervore di Buenos Aires (Fervor de Buenos Aires) a scuola; il tono delicato, intimo, colloquiale di tutti i versi di Borges fece sì che, a quindici anni, mi avvicinassi a lui e alla sua opera con assoluta naturalezza. Dopo l’università, incontrai molte volte Borges, in occasione di conferenze, incontri, nella sua casa di via Maipú. Nel 1983 condividemmo una notte indimenticabile io, Borges e Abelardo. Da scrittrice, l’esempio di Borges è stato fondamentale: la sua volontà stilistica era, come disse tante volte, muoversi verso la semplicità. Il suo vivere per la letteratura era un modus operandi; il suo dilettarsi nell’uso delle parole, nelle espressioni idiomatiche, nell’umorismo anacronistico di certe frasi, e la sua perspicacia semantica sono stati esempi di devozione per l’arte di scrivere; la constatazione che la letteratura era il suo tema imprescindibile – a tal punto che qualunque interlocutore, per assurda che fosse la domanda, si ritrovava immediatamente immerso nell’universo di Borges – e la sua reiterata affermazione di sentirsi, prima che scrittore, orgoglioso lettore hanno rafforzato incessantemente la mia ammirazione per la sua opera. Come lettore, Borges era un maestro, con la sua arbitrarietà genuina e dissacrante. Si aggiungano la sua modestia autentica, esemplare, che conosco per esperienza diretta, una umiltà quasi sconcertante e il suo essere di una onestà totale quando l’argomento era di tipo letterario. Possedeva una ironia e un sarcasmo letali. Penso che Borges, come Almotásim, irradiasse, se non santità, letteratura, e che noi scrittori argentini abbiamo desiderato tutti, in un modo o nell’altro, avvicinarci a quel magisterio, a quel fulgore.
Sempre in quegli anni, quando avevo tra quindici e sedici anni, lessi per la prima volta Cortázar, Il viaggio premio (Los premios). Successivamente lessi Il gioco del mondo (Rayuela), una rivoluzione per il lettore argentino, ma è stata la lettura di Il viaggio premio (Los premios) quella che mi ha segnato maggiormente. E i suoi racconti fantastici. Cortázar ha impostato il racconto fantastico (una tradizione argentina) in termini inediti: una crepa in pieno giorno. Ciò che è insolito, terrificante, in mezzo a quanto di più innocuo e quotidiano: il rovescio della tela. Cortázar era una persona incantevole, estremamente gentile, che parlava con voce sommessa, in una curiosa relazione inversa con la sua statura di quasi due metri. Era avvolto da una certa aura da indifeso, cosa che, al di là dell’ammirazione che lui suscitava, faceva sì che uno gli volesse bene immediatamente. Io gli ho voluto bene immediatamente. In seguito, nel periodo della dittatura, El Ornitorrinco alimentò una polemica con Cortázar riguardo all’esilio, ma questo non modificò né il nostro affetto né la nostra ammirazione per lui come scrittore.
A mia memoria, dagli anni Settanta in Argentina nessun altro scrittore è passato dalla gloria all’ingiuria più velocemente di Cortázar: da parte della destra, per il suo coinvolgimento etico ed emotivo con Cuba e Nicaragua; da parte della sinistra, per la sua lontananza dall’Argentina e la frivolezza di Libro de Manuel. Dovette anche barcamenarsi in un fraintendimento: quello di una certa avanguardia superficiale degli anni Sessanta che, sedotta dai suoi giochi di parole e sfrontatezze tipografiche, li ripeteva ad nauseam e che furono per lui una sorta di semente del diavolo. Comunque, se questo accadde fu perché l’opera di Cortázar, forse come quella di nessun altro scrittore argentino prima o dopo, generò un lettore che, a sua volta, generò un tavolo di discussione in cui si mescolarono politica e letteratura e in cui vennero giudicate a caldo le sue opere e il suo coinvolgimento politico. Placate quelle acque turbolente, che devo assolutamente menzionare quando lo ricordo, Cortázar continua a essere ciò che è, uno scrittore immenso, un maestro per gli scrittori e un trasformatore della loro eredità letteraria argentina, dai cui maestri si distinse.
Sylvia Iparraguirre parla con Lawrence Ferlinghetti, Chicago, 2001
La sua ricerca letteraria ha avuto luogo in solitudine?
Il lavoro dello scrittore è solitario per natura. Ho avuto la fortuna di condividere la vita con un altro scrittore, cosa che ha messo la letteratura al centro delle nostre conversazioni e discussioni di ogni sorta: su stili, preferenze, autori e opere. Leggevamo vicendevolmente i nostri testi, le bozze, come ho già detto, con amore ma senza indulgenza.
Che ruolo ha lo scrittore, oggi, nel contesto della società argentina? Viene trattato con indifferenza, con rispetto, ha un ruolo “pubblico”?
Nessun ruolo, o comunque un ruolo molto limitato, sempre più limitato. Il suo posto è stato preso dai personaggi televisivi, dalle modelle o dagli sportivi. Basta guardare alla velocità con cui si riproduce la realtà nei cosiddetti ‘media’ per capire che lo scrittore non solo non è una notizia, ma che non ha un posto in essa. Un buon libro, come un grande libro, sembrano cadere in questo contesto come una goccia nel deserto. Il posto dello scrittore oggi è quello che gli assegnano i supplementi letterari, le riviste e le tavole rotonde. Lo scrittore non ha un ruolo pubblico, come lo ha avuto, e di grande peso, nella generazione del Sessanta, in cui rappresentava (alcuni scrittori, per lo meno) una riserva etica. Ora ha cessato di interessare come personaggio, come qualcuno che ha qualcosa da dire. La presenza dello scrittore perdura in modo laterale, in modo meno evidente, tramite le interviste e gli articoli di giornale. Ci sono eccellenti programmi televisivi dedicati ai libri che invitano gli scrittori. Sono spazi dove lo scrittore o la scrittrice possono dire ciò che pensano del mondo e ragionare su certe questioni di estetica letteraria che non precipitano nella propria opera. Tuttavia, penso che sia salutare, oggi, per lo scrittore, questa condizione appartata. Nelle case, nei bar, nelle riunioni tra amici scrittori la letteratura e la poesia proseguono il loro cammino.
(traduzione italiana di Marianna Marchi, revisione di Mercedes Ariza; servizio e interventi di Davide Brullo)
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pangeanews · 7 years
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Non solo “Lezioni di piano”: ci siamo anche noi! Benvenuti in NZ, un paese poetico. Dove a fine anno ti rimborsano le tasse
Lei che affonda nell’enigma dell’oceano legata indissolubilmente al pianoforte. Va bene. Chiamatelo polpettone romantico. Lezioni di piano. Tre Oscar, Jane Campion alla regia, Holly Hunter magistrale, Harvey Keitel pazzesco, le musiche di Michael Nyman che incendiano la natura neozelandese. Una natura assoluta, che ha l’odore della legge di un dio silvano, dimenticato e risorto. La Nuova Zelanda ha il fascino potente dell’altro mondo, perciò, sempre, di un’altra vita possibile. L’assolo strappavesti di Nyman che si mescola all’urlo dei fenomeni del rugby. Robe dell’altro mondo. Facendo dell’equatore la cinghia con cui tenere su il mio zainetto, un po’ di tempo fa, m’è saltato il desiderio di capire che poesia si fa laggiù, all’altro mondo. La fortuna è stata quella di trovare, all’altro mondo, un poeta italiano. Marco Sonzogni. Che è poeta, che è studioso di Eugenio Montale e di Seamus Heaney (è lui che ha curato le Poesie del grande irlandese per i ‘Meridiani’ Mondadori) e che insegna alla Victoria University di Wellington. Intorno a lui e a Sara Bernardi, altra prof a Wellington, si è creato un piccolo polo di studiosi italiani alla Victoria University. Con l’incarico di research students, laggiù, all’altro capo del mondo, ci sono due italiane, 32 anni entrambe, Francesca Benocci ed Eleonora Bello. Insieme, per Gabriele Cappelli Editore, hanno tradotto da poco, come Parleranno le tempeste, le “Poesie scelte” di Janet Frame (pp.96, euro 18,00), tra gli scrittori neozelandesi più noti del pianeta, due volte candidata al Premio Nobel (i suoi romanzi sono tradotto in Italia da Neri Pozza). Incarcerate le idee per il prossimo futuro – allestire una bella antologia di poeti neozelandesi, per portare la ‘fine del mondo’ nel nostro mondo – ho contattato Francesca ed Eleonora, per parlare, a partire dal libro della Frame, di poesia, cultura e vita in Nuova Zelanda.
  Preliminare. Ciò che in Italia, assai sommariamente, sappiamo di cultura neozelandese si riduce al rugby, a Lezioni di piano, alla Mansfield e a Janet Frame (per chi l’ha letta). Che ‘clima’ culturale si respira in Nuova Zelanda? Che fermenti culturali la elettrizzano?
“L’assunto preliminare ci appare mal formulato: presumere che la percezione italiana di un paese intero si basi sulla haka e su un’autrice – peraltro dai più ancora considerata inglese – come Katherine Mansfield ci sembra al contempo iperbolico e riduttivo. Ovvero, lungo il continuum dell’esperienza che una persona può avere di un paese lontano esiste tutto e niente. Si potrebbe ridurre facilmente la conoscenza della Nuova Zelanda alle peripezie di Luna Rossa ad Auckland, ma la situazione è chiaramente più stratificata. Noi oseremmo dire, dovendo scegliere una ‘media aritmetica’ concettuale, che la Nuova Zelanda non la conosce quasi nessuno. Pensa che le nostre famiglie spesso ancora ci chiedono ‘come va in Australia?’.
Francesca Benocci ed Eleonora Bello, studiose italiane a Wellington
Il motivo per cui questo accade non è necessariamente di merito, ma prevalentemente di natura geografica. La Nuova Zelanda è un paese remoto. Remoto in più di un senso: è difficile da raggiungere, ma è anche figlio di una madre che esiste dall’altra parte del globo e perciò ha grosse difficoltà a negoziare un’identità culturale che riesca a sintetizzare la componente māori con quella di retaggio europeo, riuscendo così finalmente ad esprimere se stesso in modo unico. Detto questo, da italiani è difficile farsi portavoce degli equilibri e delle motivazioni di un paese culturalmente complesso come lo è questo. La storia della Nuova Zelanda e della sua colonizzazione, non è – come erroneamente si crede, viste le brutalità inaudite perpetrate in altre parti del globo – all’acqua di rose. Ovvero, l’integrazione dei māori, che dall’estero parrebbe esemplare, è ancora un argomento spinoso e fonte di infinito dibattito. Se poi intendi qual è il clima letterario che pervade la Nuova Zelanda, c’è anche qui da fare almeno una distinzione di base: per quanto riguarda le principali città, possiamo dire che di letteratura se ne fa tanta e che viene promossa, anche con un atteggiamento giustamente nazionalista nei confronti dell’espressione del sé (asse con Inghilterra, America e Germania) tramite anche i numerosi incentivi volti sia alla produzione di autori autoctoni che alla traduzione di autori neozelandesi in altre lingue (come, per l’appunto, Janet Frame); per quanto riguarda la campagna, ci sarebbe da fare una riflessione a parte che noi non siamo in grado di fare in questo momento. Questo è vero anche perché la maggior parte della fruizione della NZ è esterna – in NZ ci sono 4.5 milioni di persone ed è uno dei paesi più visitati al mondo – e quindi ci si aspetta di trovare qualcosa di quintessenzialmente neozelandese quando si arriva qui. Il fermento culturale è molto legato alla poesia e alla musica dal vivo. Anche slam poetry, moltissimi open mics e anche il fumetto e la graphic novel hanno una buona nicchia”.
Veniamo alla letteratura, nello specifico alla poesia. Che ruolo ha il poeta in Nuova Zelanda? Esistono delle istituzioni che promuovono la poesia e la letteratura neozelandese? Quali sono, oggi, i poeti viventi più importanti, perché?
“La poesia è più avvicinabile in NZ – rispetto alla percezione che se ne ha in Italia – e molte persone si cimentano con discreto successo. Come detto in precedenza ci sono vari grant che supportano la produzione letteraria e la traduzione di opere neozelandesi in italiano. Prima fra tutti, come per il nostro libro di Frame, c’è il Creative New Zealand. Ci sono molti nomi celebri tra i viventi (si vedano Jenny Bornholdt, Lauris Edmond, Fiona Kidman, Michele Leggott, Bill Manhire, CK Stead tra i molti altri) e tra i defunti. Il nostro poeta preferito e neozelandese per eccellenza resta James K. Baxter, e la sua faida sull’asse Wellington-Auckland con Allen Curnow è ancora alla base di molto del campanilismo tra le due città (secondo me). Baxter, con sede a Wellington, è stato un innovatore, un poeta che nel suo rifiuto del canone inglese ha cercato la sua voce di poeta neozelandese. Curnow, con sede ad Auckland, è stato invece fautore di una poesia più ‘rigorosa’, sempre con uno sguardo alla madre Gran Bretagna e all’ispirazione proveniente dai grandi poeti britannici. Questa qualità remota della NZ che l’ha isolata così tanto, l’ha anche resa un teatro vagamente autoreferenziale di fenomeni e divisioni letterarie molto interessanti. Tra i contemporanei sono particolarmente efficaci, a nostro parere, gli autori indigeni o Pasifika: Hinemoana Baker, Selina Tusitala Marsh, Courtney Sina Meredith, Karlo Mila, Tusiata Avia, Faith Wilson. Trovo la poesia di queste donne molto potente. Il ruolo del poeta è quello di raccontare la realtà. La poesia è politica – inevitabilmente – e qui è anche democratica”.
Avete appena introdotto in Italia le poesie di Janet Frame. Che ruolo ha la poesia nell’opera multiforme della Frame? Quali le sue ispirazioni, i suoi temi?
“Janet Frame (1924–2004) è un’autrice nota soprattutto per la prosa e meno per la sua poesia. In particolare – verosimilmente anche per il pubblico italiano – sono i suoi discussi trascorsi psichiatrici ad averne quasi irrimediabilmente condizionato fama e analisi dell’opera. Nonostante le distorsioni e le allusioni di parte della critica, non ci è sembrato che Frame assecondasse in alcun modo – a ben guardare gli scritti editi – quell’approfondimento personale da parte di pubblico o critica che spesso si genera attorno ad una personalità letteraria dalla biografia controversa e discussa. Janet Frame era una donna intelligente, sensibile e riservata, il cui unico vero interesse, senza dubbio legittimo, era quello di scrivere e ricevere responsi critici a ciò che aveva scritto, analogamente a ogni altro scrittore mai esistito. In qualità di traduttrici ci siamo quindi trovate di fronte a una varietà e profondità di temi ed esercizi stilistici che ci ha messe in difficoltà: a volte per la composta semplicità di presentazione, a volte per la molteplicità del contenuto, e in altre occasioni, più banalmente, per alcune difficoltà linguistiche legate alla struttura stessa delle poesie. L’esperienza di tradurre la poesia di Frame è stata complessa, divertente, emotivamente onerosa, illuminante, e un’occasione per navigare le profondità della ragione umana”.
Come è considerata la letteratura italiana in Nuova Zelanda? È sufficientemente tradotta? ‘Passano’ i contemporanei, gli autori viventi?
(Francesca Benocci) “La poesia italiana contemporanea in Nuova Zelanda, quando esaminata dal punto di vista di una studentessa italiana di PhD arrivata da nemmeno un anno in Oceania, non appare andare per la maggiore. Il problema è da ascrivere parzialmente alla tendenza del mondo anglofono a tradurre meno verso l’inglese, e pertanto a leggere meno letteratura proveniente da realtà letterarie di lingua diversa. Per quanto riguarda la poesia, specie in Nuova Zelanda, il mercato è praticamente saturo in partenza: su 4 milioni di abitanti nell’intera nazione, una percentuale altissima scrive e pubblica poesia. È un genere amato da sempre per molte ragioni, tra le quali anche una naturale predisposizione a ospitare sulla pagina l’oralità della tradizione māori dei waiata, le canzoni, mezzo efficace utilizzato dalle tribù per tramandare tradizioni e conoscenza. Ad ogni modo, l’interesse per l’Italia e i suoi autori (a qualunque secolo essi appartengano) si evince, oltre che dall’insegnamento di Dante e degli albori della poesia italiana, da una serie di progetti portati avanti ed editi negli anni. Una raccolta di poesia italiana in traduzione inglese dalla storia alquanto travagliata è Campana to Montale. Versions from Italian, del poeta e studioso neozelandese Kendrick Smithyman (1922-1995). Nata dall’esigenza di Smithyman di ‘rispondere’ a quelle che considerava delle traduzioni malfatte, uscite nel 1968 su Poetry Australia, questa raccolta, completata nel 1993, ha visto la luce nel 2010 grazie allo sforzo congiunto di Marco Sonzogni e Jack Ross. L’antologia ospita, tra gli altri, Ungaretti, Quasimodo e Montale. La poesia italiana contemporanea non figura molto nei corsi universitari, né sugli scaffali delle librerie o delle biblioteche, spesso come già detto, per mancanza di traduzione. È pur vero che l’Italia in tutte le sue forme e manifestazioni continua ad attrarre molto interesse in Nuova Zelanda, tanto da portare chi non riesce a fruire di una traduzione nella propria lingua a imparare l’italiano. Un caso esemplare è Paula Green, poetessa e critica letteraria, che ha conseguito un dottorato in italiano presso la Auckland University, lavoro nel quale ha raccolto e analizzato l’opera di Fabrizia Ramondino e Clara Sereni. Un altro esempio dell’interesse verso la poesia italiana è rappresentato dalla collaborazione di James Kierstead, docente presso la School of Art History, Classics and Religious Studies di Victoria, ed Elena Borelli, docente presso il dipartimento di lingue straniere della City University of New York, che hanno deciso di dedicarsi a una traduzione in inglese dei Poemi Conviviali di Giovanni Pascoli”.
Ultima. Come si vive dall’altra parte del mondo? Donateci un frammento della vostra esperienza.
“La vita qui sotto alcuni aspetti è più facile, passati visto e paperwork. C’è molto spazio personale e una certa apertura. Ovviamente è complesso se si vive nel costante confronto con il passato o con il posto che si è scelto di lasciare. Nulla è uguale e molte differenze emergono dopo un po’. È lontano dalla maggior parte delle persone che conosciamo e che abbiamo conosciuto. Ma lontano in un modo che non puoi comprendere se non ci vieni almeno una volta. Non solo la distanza fisica, ma 12 ore di fuso orario al momento, che rendono le comunicazioni in real time un lusso che molti – lavorando – non si possono permettere. O che quantomeno non possono permettersi quanto vorrebbero. Dicevamo lo spazio. Le persone sono poche e la natura, sebbene i kiwi ne lamentino l’abuso, è ancora ai nostri occhi molto selvaggia e incontaminata. La potenza degli elementi: l’oceano e – specie qui a Wellington – la forza del vento a volte lasciano di stucco e sorprendentemente mancano quando uno va via. A volte si alza il southerly – vento di ghiaccio dritto dritto dai lidi antartici – e la temperatura si abbassa in un batter d’occhio. Le stagioni non esistono davvero, il tempo è folle. La pioggia è copiosa, il sole può uccidere. Tutto cambia in un batter d’occhio. Di Wellington si dice: four seasons in one day, ed è vero! La vita è calma, tranquilla e ripetitiva – non nel senso di monotona, ma rassicurante. Il Saturday brunch, la domenica al mercato ortofrutticolo, la birra dopo lavoro del venerdì. Una sorta di ritorno alla semplicità di un grande paesone dove non ci si sente mai del tutto soli perché è così contenuto che ti imbatti sempre inevitabilmente in qualcuno che conosci… Anche i rapporti umani sono superficialmente più semplici, molto meno melodrammatici. I kiwi sono più razionali e trattenuti di noi e da italiani ci vuole un po’ ad abituarsi, a capire la comunicazione non verbale e la stranezza rispetto alle esternazioni fisiche. All’inizio è complicato e fa sentire un po’ strani, fuori posto, ma piano piano – come nella migliore delle storie – ci si abitua l’uno ai costumi dell’altro. Con gli indigeni è tutta un’altra storia: cibo e famiglia, abbracci, legami profondo, forti sentimenti, amore, orgoglio, senso di appartenenza, l’importanza e l’osservanza delle tradizioni. La somiglianza e la sensazione d’appartenenza sono incredibili. Poi qui sono rilassati, fanno le cose con calma, che a volte ci vuole un quarto d’ora per un caffe… Però se poi tardi dieci minuti al lavoro perché aspettavi suddetto caffè, nessuno fa una piega. Niente cartellini da timbrare, una grande trasparenza e fiducia nel prossimo e nelle istituzioni. C’è una cosa in NZ che si chiama honesty box: metti che tu hai una fattoria e che coltivi un po’ di fragole, te ne avanzano ogni giorno 10 cestini e li vuoi vendere a 2 dollari l’uno. Il cancello d’ingresso è lontano dalla casa. E allora tu metti una cassettina con i cestini di fragole in un posto ombreggiato vicino al cancello lungo la strada. Ci metti una cassettina per i soldi e il cartello ‘fragole 1 cestino 2 dollari’. Ecco, la gente che le vuole si ferma, le prende e lascia le monete nella cassetta. Fine. Oppure metti che sei il comune di Wellington e che a fine anno fiscale ti avanzano un tot di mila dollari dal bilancio. Allora tu mandi una lettera a tutti i cittadini e dici: è avanzato X. Volete indietro la vostra frazione di X sul conto in banca o vi va bene che usiamo i fondi per iniziare la riqualificazione di una strada cittadina che era in bilancio per anno nuovo? I cittadini votano con la busta pre-affrancata che hanno ricevuto. La maggioranza vince e i risultati sono accessibili online sul sito del comune. Quasi nessuno ha rivoluto indietro i suoi 25 dollari di tasse e un mese dopo iniziano i lavori su Victoria Street, completati in 4 mesi: pista ciclabile, ripiantumazione, sistemazione di aree comuni. Fine. In NZ si sta bene. Ha i suoi limiti, ma la libertà e la giustizia che si respira rincuora anche i più cinici!”.
*
Da Janet Frame “Parleranno le tempeste” (GCE, 2017)
Un proposito
Le persone, scaldate fino alla fragilità
e immerse in acqua fredda, si spaccano.
Non sorriderò più.
Latte, panni, spazzatura.
Persone gentili, sorrisi gentili.
Non c’è tempo per questo pasto lento del tardo pomeriggio.
Latte, panni, spazzatura.
Sì, sì grazie, non sorriderò più.
Sono venuta qui a scrivere storie e poesie,
non a preparare il croccante.
Arriva il buio, col sole ormai calato
su latte, panni, spazzatura.
Non sorriderò più.
Sono venuta qui per scrivere.
Severa, immersa, sana di mente,
rimesterò le sillabe
nella padella in dotazione;
dormirò sul materasso a molle,
girerò la chiave,
pagherò l’affitto,
stenderò protezioni di giornale,
spazzolerò la moquette da spazzolare,
ma sarò torva, niente sorrisi, mai più, mai più,
(latte, panni, spazzatura)
mentre scrivo le mie storie laggiù laggiù
nelle grotte di pietra del loro fondale.
  Canto
Provati estate primavera autunno inverno,
datemi il grande freddo per sempre,
ghiaccioli su tetti muri finestre il sogno
marmoreo perpetuo integrale di un mondo e di persone ghiacciati
nella più nera delle notti, così nera da non riuscire a distinguere
il sogno perpetuo integrale marmoreo.
Gli occhi ciechi sono ora padroni di sé.
L'articolo Non solo “Lezioni di piano”: ci siamo anche noi! Benvenuti in NZ, un paese poetico. Dove a fine anno ti rimborsano le tasse proviene da Pangea.
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