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“Quando Céline fu preso in esame dai pedanti glossatori universitari, si ricorse a un sotterfugio di un manicheismo specioso: rimaneva un farabutto, ma si acconsentiva a riconoscere che non lo era stato sempre, almeno nelle sue opere”. Torna il saggio di Vandromme che fece epoca
Questo piccolo libro fu pubblicato agli inizi del 1963, l’indomani della morte di Céline. Tre saggisti mi avevano preceduto, Robert Poulet nel 1958, Marc Hanrez e Nicole Debrie nel 1961.
Quale era nel 1963 la situazione di Céline? Grossomodo questa, nell’opinione della maggioranza: non poteva essere un grande scrittore perché era un farabutto (1).
Quando Céline fu preso in esame dai pedanti glossatori universitari, si ricorse a un sotterfugio di un manicheismo specioso: rimaneva un farabutto, ma si acconsentiva a riconoscere che non lo era stato sempre, almeno nelle sue opere. Si aveva quindi il buon Céline, quello del Viaggio e di Morte a credito, e il cattivo, quello di Bagatelle per un massacro e La scuola dei cadaveri.
Restava un passo da fare. Claude Simon, che nulla predisponeva a questo compito, ci riuscì inaspettatamente. Intervistato da Philippe Sollers su “Le Monde” del 19 settembre 1997, oserà dichiarare: “Mi ricordo che si diceva di Céline che era un farabutto. Ho detto: un farabutto? In arte, questo non significa nulla, un farabutto”. Tutto come se avesse letto e fatto sua la cronaca di Guy Scarpetta nel “Le Nouvel Observateur” del 30 gennaio 1997. “La vera letteratura non è mai politicamente corretta. Non è mai dalla parte dei perbenisti o dei buoni sentimenti. Il suo interesse principale è semmai l’esplorare l’opposto del consenso, il non-detto del corpo sociale, la parte maledetta della comunità”.
Non si sfugge più alla domanda posta instancabilmente di secolo in secolo: se la letteratura non è faccenda di trasformisti e censori, come spiegare che un artista di genio ha coabitato stabilmente con un poveraccio? Chi si pone questi interrogativi gira invano intorno all’irrisolvibile enigma. Non si ha che da convenire, con Proust e contro Sainte-Beuve, che una grande opera è sempre superiore all’individuo che l’ha scritta, quel miserabile piccolo mucchietto di segreti.
Disegno in copertina di Dionisio Di Francescantonio
Mi sembra il mio saggio d’allora sia afflitto da due lacune. La prima: dovevo piegarmi ai limiti di una collana di opere divulgative, destinate ai liceali e ai loro professori; si trattava, in un numero di pagine stabilito in precedenza (un centinaio circa), di presentare uno scrittore proscritto, dallo status letterario incerto e dalla sopravvivenza dubbia; quindi, di spiegare perché meritasse, nel suo secolo, di essere già considerato come un classico. La seconda: una parte notevole dell’opera di Céline mi restava sconosciuta; né Rigodon né il seguito di Guignol’s band erano stati pubblicati, impedendomi di approfondire ciò che avevo intuito da Normance: il compimento di un rinnovamento del linguaggio e del romanzo.
Ciò malgrado, il saggio, da quel che ricordo, fu ricevuto senza che l’ostilità cospirasse a maledirlo, e il silenzio a trascurarlo. Solo la disonestà intellettuale avrebbe potuto attribuirmi dei secondi fini sospetti. Pronunciavo inequivocabilmente il mio orrore dell’antisemitismo (la mia esperienza faceva il pari con quella di Louis Malle in Arrivederci ragazzi), passione assurda e delirante prima della guerra, passione abietta e micidiale durante l’Occupazione. Fu per me una felice sorpresa constatare che la mia interpretazione di questo aspetto dell’opera céliniana (l’ebreo come il cinese, rivelatori allegorici delle paure di un immaginario sconvolto) fu apprezzata dagli esperti, al punto da essere ripresa da Dominique de Roux ne La Mort de L.-F. Céline [tr. it. Lantana 2015, NdC].
I pamphlet sono più, e ben altro, che l’ammasso di divagazioni di un antisemitismo maniaco e delle fobie di un razzismo da medico igienista. Niente in comune con un follicolo come Le Péril juif, dove il talento di Jouhandeau si assenta, cedendo il passo ad un propagandista d’una incoscienza frenetica. Ci sono, nelle eruttazioni céliniane, non solo delle pagine sublimi, ma, sul tono dell’allegria rabbiosa, l’essenziale di un’estetica d’avanguardia (codificata più tardi nei Colloqui con il professor Y). Impossibile separare il peggio (un odio nutrito dalle frottole degli svitati e dei prezzolati) dal sublime, legati inestricabilmente e – mistero che fa crescere la perplessità – nascenti l’uno dall’altra (l’ideale della grazia educata della danzatrice, conforme ai precetti della razza; la spontaneità del linguaggio parlato che rigenera il linguaggio scritto disarticolando la sintassi e aprendo le cataratte dell’emozione, metafora letteraria della politica spartana, che scatena selvaggiamente l’istinto e le forze oscure). È questo che imbarazza e che obbliga la critica, se essa pretende di essere letteraria, a ricordarsi che la letteratura manca spesso di senso morale, e che occupa sempre un posto di rilievo nei cataloghi di proscrizione del cattolico integralista reverendo Bethléem e del cattocomunista Henri Guillemin, le due specie della sbirraglia clericale.
Avrei molto da aggiungere a questo breve saggio (ho provveduto nelle mie opere successive, riunite dalle edizioni L’Âge d’Homme nel mio Céline et Cie), ma per l’essenziale, non toglierei gran che.
Voilà. Marc Laudelout dà una nuova chance a un testo che non gli è parso quindi troppo indegno per essere ripubblicato. La sua indulgenza rivaleggia solo con la sua generosità. Avrebbe dovuto essere la mia prima parola. Sarà l’ultima; maniera paradossale, ma evangelica, d’essere la prima.
Pol Vandromme
(1) Notiamo come dopo una stagione di rinnovato e vivace interesse per le opere e la vita di Louis-Ferdinand Céline sul finire degli anni 1990 e inizio anni 2000 in Francia e altrove, negli ultimi anni la fortuna critica di Céline è largamente regredita tornando al punto citato da Pol Vandromme in questo passo, segnatamente a causa della “scorrettezza politica” dello scrittore, NdC.
*Questa prefazione, inedita in Italia, fu scritta da Pol Vandromme per la nuova edizione del suo Céline, edita nel 2001 dalle Éditions Pardès a cura di Marc Laudelout e Arina Istratova e edita nuovamente dalle edizioni Italia storica a marzo 2021. Si ringrazia Andrea Lombardi per avercela messa a disposizione.
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“Negare se stessi equivale a mutilarsi, a trasformarsi in animali”. Bianca Sorrentino: un libro necessario
Pensare come Ulisse di Bianca Sorrentino (pubblica Il Saggiatore, 2021) è un libro per salvarci dalla disperata ricerca di un luogo a cui appartenere: ritornando alle parole del mito classico possiamo appartenere a tutti i luoghi, sfiorare quel magico senso della durata di cui scrive Peter Handke e di cui Bianca riporta i versi proprio all’inizio del suo libro. Ritornare al mito è ritornare a se stessi, svolgere un percorso di conoscenza passando per le parole degli antichi, perché per capire chi siamo e dove stiamo andando bisogna sempre tornare all’origine. Con Pensare come Ulisse siamo guidati in un incredibile palazzo di Escher del mito; da ogni scala di concetto, quando pensiamo di aver esaurito l’insegnamento degli antichi, ci ritroviamo ad affrontare un altro paragone, la Sorrentino potrebbe andare avanti all’infinito e non ne saremmo mai sazi, questo libro non dovrebbe avere una fine.
Bianca Sorrentino è una creatura speciale, fatta di un materiale misterioso a metà tra il cristallo e l’acciaio, vi condurrà passo per passo dentro alle fragilità del cristallo del mito e contemporaneamente dentro l’inflessibilità e la durata della potenza di quelle antiche parole di acciaio. Se avrete la fortuna di conoscerla di persona Bianca non smentirà questa sua unica composizione, è una donna contagiata dal mito, con Pensare come Ulisse possiamo imparare a farci contagiare anche noi dalla bellezza dei classici.
Ma Pensare come Ulisse non è soltanto un rimando al mito classico, è una testimonianza concreta di come il mito possa inserirsi nel contemporaneo. La Sorrentino per ogni concetto che prende in esame ci fornisce anche un corrispettivo letterario di alto valore più o meno dei giorni nostri. Come ad esempio la splendida versione del mito del Minotauro di Julio Cortàzar del 1949 dove il labirinto non è confinamento e oscurità della ragione, dove il mostro – l’abominio di un accoppiamento rivoltante tra la regina Pasifae e il toro sacro – è rinchiuso perché l’oscurità lo ingoi, ma “luogo di danze e canti, isola felice di creatività che il potere tirannico non tarda ad assoggettare. (…) Non è cioè il soccombere del mostro a garantire la libertà, ma il perdurare del suo insegnamento, che dell’arte si è nutrito e continua a nutrire. Ancora una volta, cioè, il mito, insieme alle sue riletture più recenti, ci fornisce alcuni strumenti per leggere il presente attraverso una prospettiva mai banale. Questo accade perché la letteratura intercetta un mutamento; il contemporaneo strappa la maschera alle ipocrisie, ne mostra l’inane inconsistenza”.
Compito quindi della letteratura di oggi è quello di trovare il seme del cambiamento dentro all’antica mitologia, ribaltarla se necessario, in ogni modo il mito squarcia la banalità contemporanea, ci ricorda che nonostante i nostri tentativi di originalità (falsati dalla nostra immensa ignoranza) siamo figli suoi. Al mito dobbiamo rendere grazie ogni giorno. Nella pietra di Delfi infatti è incisa la massima dei Sette Sapienti “Conosci te stesso”, un imperativo necessario per condurre una vita all’insegna di “nulla di troppo”, dove l’equilibrio è fatica e costanza, una lotta continua tra le nostre oscurità e le nostre luci. Due sentenze che vengono completamente ignorate e rovesciate nella vicenda di Edipo: l’oracolo di Delfi gli aveva predetto “Ucciderai il padre, sposerai la madre”. La tragedia di Edipo dovrebbe servirci ancora oggi da profondo monito per le nostre scelte quotidiane. La non conoscenza di noi stessi ci spinge a testare sul prossimo le nostre potenzialità e i nostri fallimenti, intrappolandoci a volte in relazioni da cui vorremmo poi scappare. Restando in matrimoni, con tanto di prole, dove le promesse urlano di grida dentro di noi. Essere fedeli alla propria natura non è un lusso, è un sacro dovere. Tradire noi stessi è forse molto peggio che tradire l’altro. Avremmo potuto evitarlo però se solo avessimo riflettuto e fatto nostro l’insegnamento di Edipo.
Per tornare al senso della misura un altro insegnamento valido è quello dettato da Ercole, dove il limite è un concetto sacro, un luogo oltre il quale non bisogna spingersi. In una società che si piega all’estremo in tutti i sensi, dall’obbligo di chiusura che ci opprime da un anno alla frenesia di vivere appena ci viene concesso qualcosa, affamati e disperati, il senso del limite non può che avere una sola accezione: quella negativa. Ecco che la rilettura del mito può invece servire per provare a riappropriarsi di un concetto positivo di questa difficile parola. “Valicare il confine, questo sì, sarebbe stato un eccesso oltraggioso, meritevole di una impietosa punizione: la hýbris, la dismisura, era severamente castigata da Nemesi, la dea della vendetta, dalla cui cintura pendeva un temibile scudiscio, spaventoso strumento di flagellazione. Di fronte alle inopportune sproporzioni, all’esagerata ricchezza, alla troppa felicità o, al contrario, dinanzi a una smodata disgrazia, la potenza divina interveniva a ristabilire l’ordine, per senso di equilibrio e di profonda equità”. Possiamo quindi riflettere come l’esagerazione, l’estremo e le vette che vogliamo raggiungere a tutti costi non siano in realtà così necessari, temere la hýbris può essere un ottimo modo per considerare il percorso già fatto e non solo quello ancora da compiere. Un esempio calzante, che nel tempo è diventato simbolo di un amore tragico e struggente, è la vicenda di Orfeo ed Euridice. “La vita che desideriamo condurre è un’esperienza della vertigine, un tentativo di negare l’esistenza di confini invalicabili, persino di rinviare l’appuntamento con la morte”.
Per chiudere voglio riportare l’analisi splendida che Bianca Sorrentino ha scritto nel capitolo Femminile singolare sul racconto mitico di Atalanta, cantato da Ovidio nelle Metamorfosi. Atalanta era una vergine fiera e inarrestabile, audace nella corsa, emblema ancora oggi di dote sportiva. Un oracolo avverte la ragazza di non sposarsi poiché avrebbe perduto se stessa, senza morire. Nel mito si racconta che Atalanta aveva posto la condizione che si sarebbe sposata soltanto quando un uomo la avrebbe superata nella corsa. Ippomene chiede l’aiuto di Venere per vincere la competizione, la quale gli fornisce l’espediente delle mele d’oro: quando si sente in difficoltà deve gettare per terra le mele e distrarre così Atalanta facendola rallentare. Però Ippomene, vinta la gara, si dimentica di ringraziare Venere e lei per punizione trasforma entrambi in due leoni furiosi, creature che possono solo spaventare incapaci di comunicare anche tra di loro. La Sorrentino ci suggerisce la rilettura del mito da parte di Paola Mastrocola in L’amore prima di noi: “Così l’autrice, con la serenità meditativa del suo dettato, chiarisce il significato del simbolo intorno al quale ruota la vittoria di Ippomene: dietro le mele d’oro non si cela un dono per il giovane che chiede aiuto a Venere, ma una punizione nei confronti della creatura selvaggia che preferisce i boschi all’amore. La dea ‘non può tollerare che una fanciulla preservi la sua bellezza, non la consumi asservendola al tempo che tutto corrompe. Nessuno può esimersi dall’amare, perché nessuno può sottrarsi al tempo. Il legno brucia al fuoco, il frutto cade dopo il sole. Perché la luce declini, dobbiamo farci giorno pieno, accettare questo destino. (…) Se ti sposerai cambierai aspetto, le aveva predetto l’oracolo. Non sarai più tu. Atalanta se lo ricorda. E si chiede ora, negli ozi della sua nata di belva feroce, quale luccichio dorato glielo abbia fatto dimenticare‘”. Pertanto negare se stessi equivale a mutilarsi, a trasformarsi in animali, il peccato di Atalanta sta – per il mito – nell’aver tentato una emancipazione ante litteram, di aver cercato nella corsa e nell’esercizio un luogo di completamento del sé. Su questo nemmeno il mito era pronto ed ecco che sta a noi il compito di poterlo ribaltare e farlo esaltare in tutta la sua feroce verità.
Clery Celeste
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Storia sacra di Bucefalo, il cavallo di Alessandro Magno
In Punjab, nel Pakistan settentrionale, Jhelum è una cittadina ombreggiata d’anonimato. Fa caldo, fa 170mila abitanti, e le forme dolci di alcuni templi rievocano l’India, poco lontana; un fiume sfiora le mura, elefantiache vestigia dell’impero Moghul: l’umidità dilaga, con vivacità d’insetti. Un certo vigore ferino resiste negli abitanti di Jhelum: nel 1857 si sono ribellati alla dominazione britannica, facendo fuori qualche decina di soldati di Sua Maestà. Furono costretti alla resa. Molto prima di chiamarsi così, Jhelum era Bucefalia, o meglio, Alessandria Bucefala, la città che Alessandro Magno erige in onore del suo cavallo, Bucefalo. Sull’Idaspe, il fiume da cui si irradia la città, Alessandro aveva vinto, nel 326 a.C., il re Poro. Fu una delle sue vittorie folgoranti: forte di 30mila soldati, riuscì a piegare, in territorio straniero, un esercito di oltre 50mila fanti. Poro combatteva con una cavalleria di elefanti, di cui Plutarco esalta l’intelligenza guerresca. In ogni caso, “Dopo la battaglia contro Poro morì Bucefalo… un poco più tardi, mentre lo curavano per le ferite… Alessandro ne fu molto colpito perché riteneva di aver perso un compagno e amico, e costruì a suo ricordo una città presso l’Idaspe chiamandola Bucefalia”. Riempì la città di un centinaio di macedoni, assuefatti dal palmeto di spade, proni all’esotico.
Cornelis Troost, Alessandro Magno contro i Persiani, 1737
La storia di Bucefalo è strettamente legata all’impresa di Alessandro Magno, un precipizio fino al genio dell’India. Plutarco racconta la potenza del cavallo portato dalla Tessaglia in dono a Filippo di Macedonia, indomabile. Alessandro, ragazzo, riesce a vincere la ferocia del sauro perché capisce che la bestia vuole correre “contro sole: si agitava, infatti, vedendo le ombre proiettate sul terreno”. Dopo aver domato il cavallo, Filippo “pianse di gioia” e profetizza il futuro del figlio, “Cercati un regno che ti si confaccia: la Macedonia è piccola per te”. Alessandro e Bucefalo, eletti dalla luce frontale, adatti a vincere le ombre, conquistano il mondo, insieme. La morte di Bucefalo, così, coincide con la fine dell’impresa orientale di Alessandro. “La lotta contro Poro aveva reso i Macedoni fiacchi e li trattenne dall’avanzare ulteriormente in India”. Alessandro vuole passare il Gange, ma non c’è modo di convincere i suoi: la storia si ammutina davanti al re, ha il profilo di un manipolo di corazze scoraggiate. I recessi dell’India restano pertanto preclusi al grande re, che “si mosse per andare a vedere l’Oceano”, misurando l’ampiezza del proprio desiderio, e tornare a Babilonia. Privo di Bucefalo, una sorta di istinto di morte, l’erebo del rischio, s’impossessa di Alessandro (“Mancò poco che fosse ucciso presso i Malli, i più bellicosi degli Indi”), pronto ad azioni audaci, per il gusto, che specchiano il caos.
Di Bucefalo, il cavallo-toro, il cavallo-leone, specie di mostro, di Minotauro, divinizzato quanto il suo padrone, dice anche Arriano nell’Anabasi di Alessandro: “Alessandro fondò città. Chiamò l’una Nicea dalla vittoria sugli Indiani, l’altra Bucefala, in ricordo del cavallo Bucefalo, morto là, sfinito per la fatica e l’età, dopo aver condiviso con Alessandro fatiche e rischi, esso che si lasciava montare dal solo Alessandro, di stazza imponente e di cuore generoso. Gli era stato impresso come marchio la testa di un bue, ragione per cui dicono che portasse quel nome; altri invece sostengono che, essendo nero, aveva sulla testa un segno bianco, somigliante alla testa di un bue”.
Antonio Tempesta, Alessandro Magno combatte i Persiani, 1608
Nelle Storie di Alessandro Magno Curzio Rufo narra di alcuni persiani, in Ircania, la ‘Terra dei Lupi’, lungo il Caspio, che durante una razzia rubano il cavallo del re. “Sconvolto da una collera e da un dolore più grandi di quanto fosse giusto”, Alessandro ordina che i boschi siano rasi al suolo, finché Bucefalo non gli è restituito. In quel contesto – Bucefalo coincide sempre con le svolte del suo destino regale – il Macedone conosce Talestri, regina delle Amazzoni, e con lei sancisce un patto politico ed erotico: “Più ardente di quella del re, la passione amorosa della donna lo indusse a fermarsi per qualche giorno. Tredici ne vennero consumati per accondiscendere al desiderio di lei”.
Ogni re necessita di un animale analogo, altrettanto regale, che sia il suo riassunto, il punto immutabile, esagerato.
Anche Curzio Rufo cita Bucefala, “la città dedicata alla memoria del cavallo che aveva perduto”. L’attenzione di Plutarco – sacerdote a Delfi, aveva scritto, tra i tanti, un trattato Sul mangiare carne, e uno Sull’intelligenza degli animali – verso ogni creatura, però, è millimetrica. Di Alessandro, così, registra anche il rapporto “con il cane di nome Perita, da lui allevato e amato, e per cui fece costruire una città che ne ripetesse il nome”. Forse edotto nei misteri della rinascita, Alessandro preferiva la compagnia degli animali a quella degli uomini.
Secondo Franz Kafka, Bucefalo non muore in Pakistan, sulle rive dell’Idaspe. Terminata la guerra, il cavallo si licenzia, per diventare avvocato. “Abbiamo un nuovo avvocato, il dottor Bucefalo. Il suo aspetto esteriore ricorda poco il tempo in cui era ancora il cavallo di battaglia di Alessandro il Macedone. Chi però ha confidenza con certe situazioni, può osservare alcuni particolari…”: così inizia quel racconto, Il nuovo avvocato, scritto nel 1917, che fa parte di Un medico di campagna, la raccolta pubblicata nel 1919 da Kurt Wolff. In quel libro, sono stipati alcuni dei racconti più noti di Kafka: Davanti alla legge, Sciacalli e arabi, Un messaggio dall’imperatore, Una relazione per un’Accademia, ad esempio. In quel caso, Kafka ribalta i piani della storia: Alessandro, infatti, smette di essere Alessandro, ripiegando a Babilonia, quando muore Bucefalo; per K., Bucefalo diventa avvocato perché “Oggi – non lo si può negare – non esiste alcun Alessandro Magno. Ci sono molti che sanno uccidere… ma nessuno, nessuno sa guidare verso l’India”. India e Oceano, per un sovrano occidentale, sono parole che esulano dalla volontà di conquista, dall’idea di potere: assurgono a compito, a poetica, a chiesa nel vento. Morto Alessandro, muore l’idea stessa dell’India come luogo dell’irraggiunto, e si svuota l’Oceano: “molti impugnano le spade, ma solo per agitarle, e lo sguardo che vorrebbe seguirle, si perde”. Che senso ha una spada se può solo ferire, fendere, uccidere, senza indicare, senza spargere la via? Così, Bucefalo s’inabissa nei codici, nella legge. “Libero, senza più sentire sui fianchi i lombi del cavaliere, sotto una quieta lampada, lontano dal clamore della battaglia di Alessandro, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi libri”.
La legge domina sull’uomo con presunzione di antichità: una ragione sinistra, chiusa all’interprete, la sigilla. Alessandro ricorda che l’unico codice è la carne, il grido sacro, l’impegno a varcare il Gange e tingere, finalmente, lo zoccolo greco nell’oblio. Bucefalo, il cavallo che fece del suo cavaliere un re, ha siglato una conquista, ne ha impedita un’altra, proponendo l’ulteriore: la cavalcata negli al di là.
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“Quando l’ultima tromba suonerà e noi saremo coricati nelle nostre tombe di porfido, io mi volterò e ti bisbiglierò: ‘Robbie, Robbie, facciamo finta di non sentirla”. Oscar Wilde fino alla fine
Torna in libreria la biografia più sincera scritta da un inglese su un irlandese: Vita rispettabile e dissoluta di Oscar Wilde dell’uomo di teatro Hesketh Pearson. È un testo del 1946 composto dal più stretto confidente di George Bernard Shaw in competizione con le altre versioni che stavano fiorendo in quegli anni sull’autore di Dorian Gray.
Pearson era snobbato da un giornalista di genio come Orwell che lo definiva “un dilettante” mentre godeva della stima di Greene secondo cui Pearson era capace di “restituire il senso della vita comune mentre procede” e questo per una “ammirevole franchezza”.
In effetti la biografia di Pearson non si perde in dettagli su questioni di genere come invece facevano altri critici in quel giro d’anni, specialmente George Woodcock il cui The paradox of Oscar Wilde è del 1949.
Anche per questo motivo la biografia di Pearson è estremamente piacevole soprattutto nei capitoli dedicati a Wilde critico dove l’autore ha l’onestà di ammettere che le cose migliori non si trovano tanto nel Wilde trentenne che scrive di letteratura sulla rivista-santuario Pall Mall Gazette della quale fu direttore dal 7 marzo 1885 al 24 maggio 1890 quanto, semmai, in quel grande progetto di informazione al femminile che seppe coagulare intorno a un altro giornale, più impegnativo per formato e ampiezza di interessi: il Woman’s World.
Non è una boutade. La letteratura fiorisce molto bene fuori dai campi in cui vogliono confinarla. Tenere a mente che Borges critico non nasce su Sur ma molti anni prima su Hogar, che è la rivista dedicata fin dal titolo al “focolare” domestico ed è letta esclusivamente dalle matrone argentine.
Per avere un assaggio di Wilde che spicca il volo a trent’anni bisogna cogliere il taglio lucido che mantiene in articoli brevissimi scorrendo la Pall Mall. Ad esempio Leggere, o non leggere.
I libri, ho questa fantasia, possono essere convenientemente divisi in tre classi:
1. Libri da leggere, come le lettere di Cicerone, Svetonio, le vite dei pittori di Vasari, l’autobiografia di Benvenuto Cellini, Sir John Mandeville, Marco Polo, le memorie di St. Simon, Mommsen, e (finché non ne avremo una migliore) la Storia della Grecia di Grote.
2. Libri da rileggere, come Platone e Keats: nella sfera della poesia, i maestri e non i menestrelli; nella sfera della filosofia, i veggenti e non i sapienti [the seers not the savants].
3. Libri da non leggere affatto, come le Stagioni di Thomson, l’Italia di Roger, le Prove di Paley, tutti i Padri della Chiesa eccetto sant’Agostino, tutto John Stuart Mill eccetto il saggio sulla libertà, tutte le opere teatrali di Voltaire senza eccezione, l’Analogia di Butler, l’Aristotele di Grant, l’Inghilterra di Hume, la Storia della filosofia di Lewes, tutti i libri che adducono tesi e tutti libri che intendono dimostrare qualcosa.
La terza classe è di gran lunga la più importante. Dire alle persone quel che va letto è, per regola, o inutile o dannoso; ché l’apprezzamento della letteratura è questione di temperamento e non d’insegnamento; non ci sono vernici base sopra le quali stendere il Parnaso e nulla che si possa apprendere è mai meritevole di venire appreso. Ma dire alle persone quel che non va letto è assai diversa questione, e mi spingo a raccomandarla come una missione per lo Schema dell’Università Estesa.
Invero è cosa eminentemente richiesta in un’età come la nostra, un’età che legge così tanto, che non ha tempo per ammirare, e scrive così tanto che non ha tempo per pensare. Chi mai selezionerà dal caos dei nostri curricula moderni “I cento libri peggiori” pubblicandone una lista conferirà alla generazione ventura un beneficio reale e duraturo.
Dopo aver espresso queste vedute immagino di non dover offrire alcun suggerimento riguardo “I cento libri migliori” ma spero che mi concederete il piacere di essere incoerente giacché sono in ansia di mettere un avviso per un libro che stranamente è stato omesso dai giudici più eccellenti i quali hanno dato un contributo su queste colonne. Voglio dire dell’Antologia greca. Le meravigliose poesie contenute in questa raccolta mi paiono tenere la stessa posizione, con riguardo alla letteratura drammatica greca, di quelle piccole delicate figurine di Tanagra di fronte ai marmi di Fidia, e che siano quasi altrettanto necessarie alla completa comprensione dello spirito greco.
Sono anche sorpreso che si sia trascurato Edgar Allan Poe. Realmente questo lord meraviglioso dell’espressione ritmica si merita un posto? Se, per fargli spazio, fosse necessario spostare di forza qualcun altro, io sposterei Southey, e penso che Baudelaire potrebbe essere sostituito vantaggiosamente con Keble.
Senza dubbio, sia nel Curse of Kehama di Southey che nel Christian Year ci sono qualità poetiche di un certo tipo, ma un gusto di cattolicesimo assoluto non è senza pericoli. Solo il direttore di un’asta dovrebbe ammirare tutte le scuole artistiche.
Progetto grafico di Aubrey Beardsley (1894)
In bilico tra enunciato serio e sfottò, Wilde rivaluta Poe che è il testo base di Baudelaire e fa piazza pulita del maestro francese maledetto. Con occhio freddo e compassionevole, Wilde è la vedetta della letteratura che viene.
Era lo stesso uomo che a 27 anni aveva avuto la benedizione di Whitman in un tour americano. Come scrive Pearson sfogliando tra gli articoli del tempo:
“Durante la conversazione Wilde disse: ‘Non posso ascoltare nessuno se non mi attrae con la bellezza dello stile o del soggetto’. Whitman rispose: ‘Caro Oscar, mi è sempre sembrato che coloro che considerano la bellezza in sé siano sulla cattiva strada’. Wilde fu d’accordo: ‘Sì, ricordo che voi avete detto ogni bellezza proviene da un bel sangue e da un bel cervello. E dopotutto anche io la penso così’. Quando ebbero parlato per un paio d’ore Whitman disse: ‘Oscar, dovete aver sete. Vi faccio portare un ponce’. Wilde ammise che avrebbe bevuto volentieri, sorbì rapidamente una gran tazza di ponce al latte e si congedò”.
La vita di Wilde è così e il merito di Pearson è averla ripercorsa con una biografia sobria ma eccitante. Wilde sarebbe il soggetto perfetto per un kolossal hollywoodiano, anche dopo The happy prince (2018). C’è ancora spazioper un film che si snodasse tra Dublino, Oxford, la Grecia e il Vicino Oriente visitati appena finiti gli studi passando da Ravenna. E poi il Far West con l’incontro whitmaniano. A seguire rientro in patria nei salotti di Belgravia e le prodezze erotiche nelle stanze del Savoy col tragico processo all’Old Bailey. Sipario col carcere di Reading e i caffè parigini e napoletani, dove Wilde mendicava una compagnia di mezzora al tavolino e prodigava nell’anonimato il suo umorismo.
Quanto al cast, anche qui basta seguire la biografia di Pearson: c’è il padre, Sir William, bravo chirurgo a cui piace correr dietro alle gonnelle e la madre Lady Speranza che col suo largo petto agghindato di ritratti di famiglia sembra un museo ambulante e naturalmente veste Oscar da femminuccia quando non è più il caso.
E poi quel corteo di figure leggendarie di fine secolo: Walter Pater e le sue lezioni tenute con un filo di voce, John Ruskin con vanga e piccone mentre declama sulle pietre di Venezia e ancora Alfred Douglas, il pomo della discordia in tribunale insieme e quel matto suscettibile di suo padre. Non mancherà William Henley, poeta indomito e sanguinario. Tutti hanno contribuito a creare e formare Wilde che conservava il bambino dentro di sé: ingenuo e malleabile.
Impersonato da Rupert Everett in The Happy Prince (2018)
Basta movimentare la biografia di Pearson e costruire una sceneggiatura a partire da quegli scarni titoletti che la scandiscono: l’attore, il plagiario, il critico, l’uomo di spirito, l’impenitente.
Si allora con l’eroe che si scuote di dosso la polvere dopo che i camerati di Oxford lo hanno legato e trascinato in cima a una collina e lui intanto commenta “certo che da quassù si gode proprio di un bel panorama”. Stacco. Scena in cui i cowboy dell’Arizona lo sfidano (e perdono) ad una gara di bevute. Primo piano sul biglietto sul quale tradizione vuole il marchese di Queensberry gli abbia dato del sodomita. Ripresa aerea degli amici che pianificano la sua fuga in Francia con una mongolfiera, poi telecamera rasoterra stile Shining per la scena dell’arresto in una camera dell’hotel Cadogan.
Finale con l’orazione al primo dei tre processi sull’amore “che non osa pronunciare il proprio nome” e poi scena felliniana, da Voce della luna, con le prostitute che la sera del verdetto ballano in strada e quella folla che, riconosciutolo, lo fischia alla stazione di Reading; subito un’altra folla, a Dieppe, che aspetta di sentire la sua opinione sul bordello locale (“mi è sembrato di masticare una bistecca fredda”).
Auden ha scritto delle pagine efficacissime su Wilde in una recensione inedita in italiano.
Yeats sosteneva che per natura Wilde era un uomo d’azione e che “avrebbe potuto seguire una carriera fatta di folle adoranti, frenesia, decisioni affrettate, trionfi improvvisi”. Su questo aveva in parte ragione e in parte torto: ragione, perché effettivamente Wilde non era per natura un artista; torto, perché gli artisti e i politici sono simili nella misura in cui entrambi s’interessano più alle azioni che all’approvazione altrui. Wilde, al contrario, è l’esempio lampante di un uomo succube del desiderio di essere amato incondizionatamente. L’artista non cerca a tutti i costi di essere accettato; quello che vuole è comprendere l’esperienza della vita, e non può farlo senza dare un ordine alla confusione delle proprie impressioni. L’assenso che può desiderare dal pubblico non è per la propria persona, ma per la propria opera, perché vuole la conferma che l’ordine intravisto nelle esperienze è reale e non illusorio. Allo stesso modo, l’assenso che un politico chiede alla folla non è fine a se stesso, magli serve perché senza di quello non può fare ciò che ritiene giusto.
Per sua stessa ammissione, invece, Wilde trovava seccante il lavoro dello scrittore: per lui scrivere era solo un mezzo per farsi conoscere e invitare in società, un preliminare al momento in cui avrebbe ammaliato il mondo. Il particolarissimo modo in cui si esprimeva rivela che il suo forte non era la battuta sagace (come Talleyrand o Sydney Smith), ma l’umorismo brillante del controsenso, come un bambino molto precoce. Con questo suo dono benevolo riusciva, si dice, a scacciare la tristezza e la malinconia altrui. Una persona che ha un tale bisogno di essere amata è costretta a mettere continuamente alla prova chi la circonda con comportamenti provocatori e fuori dall’ordinari..
Se Wilde si fosse accontentato dell’approvazione di uno solo dei due mondi probabilmente non si sarebbe cacciato in alcun guaio; lui però voleva che entrambi lo accettassero, e questo costituì la sua rovina. Se leggiamo dei suoi tre processi, è evidente il suo inconscio desiderio che la verità venisse a galla. Questo desiderio non era legato ai soliti sensi di colpa, bensì alla speranza di essere amato per quello che era. Sospetto che il suo sogno fosse segretamente questo: la condanna arriva, ma a quel punto il giudice, la corte e il pubblico si alzano e, cingendolo con una corona di fiori, proclamano “Mr Wilde, è chiaro che noi dovremmo mandarvi in prigione, ma vi adoriamo a tal punto che siamo lieti di fare un’eccezione”.
La sua morte, secondo Pearson: “Per spiegarmi la sua condotta, Robbie Ross mi disse di non aver mai incoraggiato le inclinazioni di Wilde verso il cattolicesimo e di non aver mai favorito la sua conversione ‘perché non mi sembrava che convenisse al suo carattere e, d’altra parte, nessun prete avrebbe potuto ascoltare la sua confessione in uno stato d’animo adatto. Ma mi fece promettere di portargli un prete quando non fosse più stato in condizioni da scandalizzarlo, e io ho mantenuto la promessa’. Riguardo alla sua conversione possiamo dire che, essendo incapace di parlare, fu quella la miglior conclusione che potesse immaginare e, come in tutti i suoi gesti, perfettamente sincera nel momento in cui avvenne”.
Questo è Wilde, uno che non ci spinge verso nessuna religione ma sta semplicemente dando voce a un istinto primordiale di ricerca del piacere. Come filosofia di vita forse non sarà gran cosa ma perlomeno non manca di empatia. Nella sua vita, anche se i biografi adottano volta per volta tagli che cambiano con le mode del pubblico pesando in modo diverso i vari aneddoti, troviamo sempre e comunque molta più sincerità che nei suoi scritti.
Dopo tutti i discorsi pomposi sulla Bellezza e il Nuovo Edonismo, rigorosamente in maiuscole, è un sollievo scoprire che Wilde era un peccatore abbastanza comune, uno di quelli che al ristorante non hanno nemmeno troppe pretese e mangiano di buon grado un piatto di verdure e non fanno spallucce al ponce austero di Whitman.
Era un profeta insincero, un edonista attento. I veri profeti sono imbarazzanti in società, mentre un buon edonista è sempre ben accetto, sempre che non abbia soffocato il fanciullo eterno dentro di sé…
Quando l’ultima tromba suonerà e noi saremo coricati nelle nostre tombe di porfido, io mi volterò e ti bisbiglierò: ‘Robbie, Robbie, facciamo finta di non sentirla’.
Andrea Bianchi
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Nessuno tocchi lo spagnolo, è la nostra eredità. Un testo di Mario Vargas Llosa
Qual è stato il principale contributo della Spagna all’America Latina, quando l’ha scoperta e conquistata? A questa domanda i credenti rispondono la Chiesa cattolica, Cristo, la vera religione. Gli evangelici, così numerosi ora nel nuovo continente, sebbene in qualche modo in disaccordo, finirebbero probabilmente per accettare questa risposta. I non credenti, come chi scrive questo articolo, risponderebbero che, senza il minimo dubbio, il contributo principale è stato la lingua, lo spagnolo o castigliano che ha sostituito le millecinquecento (che alcuni linguisti estendono a quattro o cinquemila) lingue, dialetti e vocabolari parlati in Sud America da tribù, popoli e imperi. Non si capivano: vissero per molti secoli dediti al passatempo di uccidersi.
Molti indigeni e un buon numero di spagnoli morirono di spada e pallottole in quei secoli travagliati, in cui la Spagna riempì l’America di chiese, città, conventi, università e seminari, e in cui migliaia di famiglie spagnole si stabilirono nelle nuove terre, dove hanno lasciato una vasta prole. Molti di noi, latinoamericani, ci sentiamo orgogliosi di essere eredi di quegli umili spagnoli, molti dei quali analfabeti, venuti da tutte le piccole città della penisola.
Lo spagnolo prese piede ovunque, molto presto, unificando culturalmente il nuovo continente da un estremo all’altro, e da allora quella lingua ha avuto la fortuna – senza alcun governo che la promuovesse, nella pigrizia generale di tutte le autorità –, grazie al suo dinamismo, la chiarezza e la semplicità delle sue forme e della sua coniugazione, nonché la sua vocazione all’universalità, la capacità di diffondersi nel mondo fino ad essere parlata oggi nei cinque continenti da circa seicento milioni di persone e di avere in un unico paese, gli Stati Uniti d’America, dove è la seconda lingua viva, circa cinquanta milioni di ispanofoni.
Una lingua non è solo un mezzo di comunicazione; è una cultura, una storia, una letteratura, credenze ed esperienze accumulate, che nel tempo si sono legate alle parole che la componevano e le hanno riempite di idee, immagini, costumi e, ovviamente, conquiste scientifiche. L’introduzione dello spagnolo ha portato agli ispano-americani Grecia e Roma, Cervantes, Shakespeare, Molière, Goethe, Dante e le istituzioni che nel corso della loro traiettoria hanno creato l’Europa occidentale. Adesso sono tanto nostri quanto della Spagna. Più importanti di tutto questo sono le istituzioni che hanno determinato il progresso e la modernità, così come la filosofia che ha permesso di porre fine alla schiavitù, che ha determinato l’uguaglianza tra razze e classi, i diritti umani e, ai nostri giorni, la lotta alla discriminazione contro le donne. In altre parole, la democrazia e la fame di libertà. Tutto questo è stato acquisito dall’America Latina, e molto altro ancora, adottando e facendo propria la lingua spagnola. Senza di lei, né l’Inca Garcilaso de la Vega né Sor Juana Inés de la Cruz troverebbero spiegazione. Né, ovviamente, Sarmiento, Rubén Darío, Borges, Alfonso Reyes, Octavio Paz, Cortázar, Neruda, César Vallejo, García Márquez e tanti altri grandi poeti e scrittori di prosa latinoamericani che hanno arricchito lo spagnolo.
Tuttavia, contrariamente a quanto sarebbe naturale, la gioia e l’orgoglio di un paese la cui lingua ha acquisito nei secoli un’universalità che ha davanti a sé soltanto l’inglese, dal momento che il mandarino e l’hindi sono troppo complicati e locali per essere autentiche lingue internazionali, nella stessa Spagna, la terra in cui quella lingua è nata e si è evoluta e in seguito ha ereditato il mondo intero, come scoprì, tra gli altri, il grande Don Ramón Menéndez Pidal e i suoi discepoli, esiste da qualche tempo una campagna, da parte degli indipendentisti e degli estremisti, per abbassarla e diminuirla, bloccandole la strada e cercando (molto ingenuamente) di abolirla o sostituirla. È successo ancora una volta, con la nuova legge sull’istruzione che l’attuale Governo del Partito Socialista e Unidas Podemos ha approvato, con un solo voto in più del necessario, con il sostegno di Bildu, la continuazione di ETA, l’organizzazione terroristica che ha ucciso quasi novecento persone, che ora ha abbandonato la lotta armata scegliendo l’integrazione. E con l’apporto, naturalmente, di Esquerra Republicana, i cui principali leader sono stati condannati dai tribunali spagnoli per aver indetto un referendum sull’indipendenza della Catalogna, vietato dalla Costituzione del 1978, attualmente in vigore.
La trattativa che ha permesso questa alleanza, sulla quale alcuni socialisti non sono d’accordo, è stata molto semplice. Il governo di Pedro Sánchez doveva approvare il progetto di bilancio davanti alle Corti Generali. Per questo motivo Unidas Podemos ha attirato i voti del Partito nazionalista basco (PNV), Bildu ed Esquerra, e questi, senza perdere tempo, si sono affrettati a concederli fintanto che il governo accettasse di modificare la legge, sopprimendo il carattere “veicolare” dello spagnolo che afferma specificamente la Costituzione. Questo è il motivo per cui il castigliano o la lingua spagnola è diventata, secondo questa legge, una lingua nascosta o clandestina. Chi prova a comprendere questa legge, chiamata “Legge Celaá” dal ministro dell’Istruzione che l’ha concepita, rimane sorpreso che in un progetto che stabilisce le forme di istruzione in tutto il paese, lo spagnolo o castigliano compaia solo di passaggio. Lo spagnolo, la lingua che è nata in Castiglia, quando il paese era semi-occupato dagli arabi e che è diventata una lingua universale, dov’è? È una lingua sminuita, messa a tacere, ignorata dalle lingue locali parlate dalle minoranze, e uno dei ministri del governo ha avuto l’audacia di dire che tutto lo scandalo sorto a questo proposito sarebbe stato evitato se lo spagnolo non avesse ‘avvelenato’ il clima scolastico in Catalogna, dove alcune scuole, che rispettano le leggi, facevano le ore di lezione di spagnolo a cui sono obbligate, che però la maggior parte delle scuole catalane non rispettano. La legge afferma che le lezioni in spagnolo o castigliano costituiscono un diritto di tutte le persone nate in Spagna. In quante comunità autonome bilingue viene soddisfatta questa disposizione? Solo in minoranza, temo. Ebbene, anche se sembra impossibile, la campagna contro lo spagnolo nella terra natale di Cervantes è ancora in corso. Sarebbe un vero suicidio se questa idiozia prosperasse, non per lo spagnolo o la lingua castigliana, che ha più che assicurato il suo futuro nel resto del mondo. Piuttosto, per la Spagna, perché strapparle la lingua sarebbe strapparle l’anima. È impensabile che il paese in cui sono nati il castigliano, Quevedo e Góngora, così come centinaia di scrittori che hanno dato prestigio e dimensione universale allo spagnolo, sia oggetto di una vittoriosa campagna di discriminazione. Essa non può e non deve prosperare. Noi ispanofoni, che formiamo la stragrande maggioranza nel paese, dobbiamo impedire questo assurdo tentativo di sottovalutare e sottomettere lo spagnolo di fronte alle lingue periferiche. Firmiamo i manifesti necessari e scendiamo in piazza tutte le volte che sia necessario: lo spagnolo è la lingua della Spagna e nessuno la seppellirà.
Mario Vargas Llosa
*L’articolo è pubblico in origine su “El País”, il 6 dicembre 2020, come “La lengua oculta”; la traduzione italiana è di Diana Mazon
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“Dante ha giocato la sua vita nella Commedia: lì c’è la sua storia. Ma la grandezza del poeta sta nel fatto che la sua storia diventa la storia di ogni uomo”. Dialogo con Giuseppe Frasso
La prima lettura della Commedia di cui abbiamo notizia è quella, affidata al Boccaccio, datata 23 ottobre 1373, presso la chiesa di S. Stefano in Badia. L’autore del Decameron, ormai anziano e dalla salute malferma, tenne sessanta lezioni, giungendo fino all’inizio del XVII canto dell’Inferno. Impresa gravosa e mal compensata, la sua, se incorse nel biasimo del comune fiorentino, scandalizzato da questa generosa elargizione del poema ai volgari appetiti della plebe. In anni più recenti, tra XX e XXI secolo, in molti si sono cimentati nella messa in scena delle tre cantiche: dalla registrazione radiofonica che la RAI ha commissionato al dantista Sermonti, nel 1987, con la collaborazione del filologo Gianfranco Contini, alla seguitissima, seppur discussa, rappresentazione di Roberto Benigni, tenutasi, a più riprese, tra il 2006 e il 2013. Alla vigilia dei settecento anni dalla morte del Poeta il calendario di eventi che ambiscono a celebrarlo è fitto di appuntamenti. A rendergli omaggio altrettanti nomi autorevoli: ad uno di loro vorremmo oggi rivolgere la nostra attenzione. Quando i docenti di lettere dell’Istituto superiore Valceresio di Bisuschio, in provincia di Varese, hanno pensato di aggiungere la propria voce alle tante dedicate alla Commedia, serviva loro un nome capace di valicare i confini generazionali, testimoniando come anche un’opera apparentemente distante dagli studenti possa consegnare loro una traccia vitale, e attraverso la lettura stillare linfa sempre nuova, rendendosi protagonista di una straordinaria rigenerazione semantica. Il Professor Giuseppe Frasso è sembrato subito il testimone su cui convergere, a cui affidare la testimonianza esemplare di un percorso rigoroso e appassionato. L’intervento del docente si colloca ad apertura di un progetto che ha coinvolto trasversalmente insegnanti e studenti: l’intero istituto è stato impegnato nella lettura integrale delle tre cantiche (il prodotto finale verrà trasmesso in streaming dal 25 al 27 marzo sul canale youtube dell’istituto Isis Valceresio). Nell’attesa, riportiamo integralmente le domande che abbiamo rivolto a Frasso. (Francesca Valli)
Professor Frasso, quando è nata la sua passione per la Commedia?
Da ragazzino (cinque, sei, sette anni) passavo molto tempo con i miei nonni materni; vivevano nella stessa casa, i miei nonni al primo piano, i miei genitori, mio fratello e io al secondo. In quella casa sono nato e ancora ci vivo, apportati ovviamente gli ammodernamenti che i tempi impongono. La sera, dopo cena (si cenava, alla lombarda, abbastanza presto, alle 19) ero solito andare, prima di infilarmi sotto le coperte, un’oretta dai nonni; la nonna, che era stata maestra, quasi ogni sera mi intratteneva sfogliando con me qualche libro; tra i libri che vedevamo insieme c’erano tre ampi volumi, uno rilegato in rosso, un altro in verde e un terzo in azzurro che mi attraevano particolarmente: erano le tre cantiche della Commedia illustrate mirabilmente da Gustave Doré. La nonna, a volte, leggeva qualche verso e me lo spiegava; più spesso mi chiariva alcune di quelle immagini che mi inquietavano un po’, ma che soprattutto mi incuriosivano. Il ricordo di Dante si lega dunque per me all’infanzia e a una persona che mi ha molto amato (e che ho molto amato). Quando poi ho incontrato Dante alle scuole medie (lì ho imparato a memoria versi di If. X – Farinata –, di Pg. III – Manfredi –, di Pd XXXIII – la preghiera alla Vergine) era come ritrovare una figura nota che, negli anni del liceo, ebbi modo di conoscere più a fondo grazie al mio insegnante di italiano, Giovan Battista Roggia. Il prof. Roggia cercava di farci capire, leggendo Dante, come ragione e volontà fossero i tratti distintivi dell’uomo, di ogni uomo che doveva capire e scegliere liberamente, che doveva saper affrontare il peso delle proprie scelte, che non doveva rinnegare le proprie idee, che doveva vivere una fede in Dio viva e operosa.
La sua è stata senz’altro una folgorazione precoce, incoraggiata da un ambiente familiare stimolante. Ma oggi, nel XXI secolo, in una società frammentata e vorace di novità e di consumo, che senso ha leggere ancora Dante?
Oltre all’aspetto morale, formativo della Commedia, il prof. Roggia non mancava di insegnarci che Dante è il fondamento della lingua italiana (il nostro lessico fondamentale è, in percentuale altissima, già presente in Dante) e della letteratura italiana. Non riusciamo a immaginare la letteratura italiana senza Dante, sia che lo si segua, lo si imiti o a lui ci si opponga. I 14.000 e più versi della Commedia sono stati e sono la pietra di paragone (a volte inconsapevole) di chiunque si sia accinto a scrivere in versi (e spesso anche in prosa) nella lingua di sì. Per restare a poeti a noi più vicini, basti pensare a Pavese di Lavorare stanca o a Montale.
Professore, come possiamo avvicinare allora i giovani ad un testo troppo spesso percepito distante dal proprio vissuto culturale e sociale?
Forse bisognerebbe dire: Come avvicinare i giovani alla lettura? La Commedia è difficile, certamente, ma letta con calma, magari ad alta voce per sentire anche il suono delle parole, scegliendo passi adatti (che si spera invitino a una lettura estesa) può essere proprio una chiave di accesso alla lettura in generale (Benigni ha fatto un’opera meritoria, leggendo Dante; magari si può discutere su certe sue interpretazioni, ma il merito di aver fatto risuonare la parola di Dante è innegabile). Dopo essersi avvicinati a Dante, dopo aver capito almeno un po’ quello che vuole dirci, altre letture diventano più facili. Può essere suggestivo cercare di seguire il rincorrersi delle rime, il significato di alcune parole, l’imporsi di immagini e figure indimenticabili (come quelle di film di grande forza); può essere cosa intelligente aiutarsi anche con le immagini che alla Commedia hanno dedicato moltissimi artisti. Ma credo che importi soprattutto dire che Dante ha giocato la sua vita nella Commedia: lì c’è la sua storia. Ma la grandezza del poeta sta nel fatto che la sua storia diventa la storia di ogni uomo. Dal male al bene, dalla sofferenza alla felicità: vale per lui, Dante vorrebbe che valesse anche per noi.
Se dovesse rappresentare ciascuna cantica con un aggettivo, quale sceglierebbe?
Bisognerebbe avere le doti sintetiche di un poeta per dare una risposta plausibile: queste doti purtroppo non le ho. La Commedia ci impone dunque di ristabilire e preservare l’autenticità di una lingua universale e polisemica, che fa del realismo e del libero arbitrio un antidoto alla dispersione di senso e all’individualismo contemporanei. Dante non offre facili soluzioni ma indica una strada, consegna un messaggio che va al di là della contestualizzazione storica e filosofica, proprio perché ad essere interpellata è la responsabilità del singolo: un itinerario consegnato all’umanità e a ciascuno di noi, e una lingua potente, fondativa, che sperimenta nel suo stile multiforme l’incontro tra l’uomo e Dio.
*Giuseppe Frasso è Professore emerito di Filologia della letteratura italiana all’Università Cattolica di Milano e fa parte del Consiglio Direttivo dell’Ente Nazionale Francesco Petrarca; di Petrarca e delle sue opere è attento cultore. Ha insegnato anche a Berkeley, Losanna, Helsinki e Budapest. Già presidente della Società dei Filologi della Letteratura italiana e condirettore della rivista «Studi Petrarcheschi», è tra i fondatori e direttore scientifico della Scuola estiva internazionale di Studi danteschi di Ravenna.
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Diritti sanitari o diritti umani? La storia di Irina, che in Australia non può vedere il corpo di suo figlio, Dmitri, funambolico paracadutista morto in volo
Del dolore si può dire poco. Nel limite del soffribile, lo si vive.
Chiedere a Irina Didenko, chiedere ad Alana Jayde Bertram, rispettivamente madre e compagna del fu Dmitri Didenko, giovane e funambolico paracadutista scomparso poco più di una settimana fa sulla West Coast Australiana. Deceduto dopo un salto andato a finire male nonostante la sua nota e minuziosa cura per i dettagli e le situazioni.
Il dolore, dicevamo, lo si vive, non lo si racconta. E il tempo del racconto, in questo caso un racconto ancora da scrivere, un racconto ancora a metà del guado, tra virus e burocrazia ingessata, è quello che stiamo attraversando ora, senza sapere quando avrà fine.
*
La storia. Per iniziare l’autopsia del corpo, Dmitri deve essere riconosciuto dalla madre.
Dmitri, russo di nascita, italiano d’adozione, cittadino del mondo per vocazione, ci lascia in Australia il 14 marzo scorso. Per vedere la salma, però, la madre, Irina, deve effettuare un test molecolare PCR in Italia, volare in Australia, soggiornare in quarantena in un hotel per 14 giorni e, infine, dopo circa 20 giorni di agonia, uscire per incontrare la tragedia del suo destino.
Ed è questo che vogliamo raccontare. Il dramma del cavillo burocratico nell’era del covid; la disumanizzazione dell’uomo per salvare il suo futuro, contraddizione delle contraddizioni!
*
La richiesta, il consiglio, l’auspicio, detto dall’Italia e spedito all’Australia è quello, semplice e chiaro, di aiutare Irina a vedere immediatamente Dmitri nei limiti della salute pubblica. Irina ha svolto il test molecolare in Italia il 17 marzo prima di partire, e ne ha svolto un secondo il 22 marzo in Australia.
In un regime come questo, due test effettuati a tale distanza dovrebbero essere più che sufficienti.
Chiediamo che vengano rispettati, accanto a quelli sanitari, i diritti umani. Chiediamo quindi che venga data possibilità a Irina di vedere Dmitri al più presto.
Ogni secondo perso di questa vicenda è una goccia di sangue e pochi ma significativi gesti possono fare la differenza.
*
Accettiamo la rigidità delle regole, che capiamo essere fondamentali in questo periodo come lo erano per Antigone nell’antica Tebe. Ma sul fatto che non ci sia un briciolo di comprensione, compassione, empatia occorre spendere due parole, magari facendole arrivare alla Farnesina (la quale, oltretutto, potrebbe vantare una piccola vittoria politica se sapesse come fare politica, “La Farnesina aiuta madre italiana a ricongiungersi con suo figlio deceduto fuori Patria”. Che sia troppo?). È prima di tutto un fatto umano, una questione di giustizia, quella di accelerare questo processo per lenire l’insopportabile dolore della madre. E in secondo luogo un fatto politico-diplomatico, quello di tutelare i propri cittadini.
*
Stiamo facendo passare la vita attraverso un filtro, sembra rimanga solo l’asettica esistenza. Chiediamo un colpo di umanità.
***
La storia di Dmitri Didenko è stata raccontata da diversi giornali; l’articolo che abbiano ricalcato, pubblicato in Australia lo trovate qui.
Little can be spoken about pain. Suffering is lived.
Ask Irina Didenko, ask Alana Jayde Bertram, respectively mother and companion of the late Dmitri Didenko, a young and acrobatic skydiver who departed just over a week ago on the Australian West Coast. Died after a jump gone wrong notwithstanding his notorious and careful attention to details and situation.
Pain, we said, is lived, not spoken of. And the time of the story, in this case a story yet to be written, a story still halfway through the ford, between viruses and bureaucracy, is now. And we do not know how it ends.
The plot. To begin the autopsy of the body, Dmitri must be recognized by the Mother.
Dmitri, Russian by birth, Italian by adoption, citizen of the world by vocation, departs in Australia on 14.03.21. To see the body, however, the mother, Irina, must do a molecular PCR test in Italy, fly to Australia, stay in quarantine in a hotel for 14 days and, finally, after about 20 days of agony, go out to meet the tragedy of her destiny.
And this is the story we want to tell. The tragedy of bureaucratic quibble in the era of the covid; the dehumanization of man to save his future, the contradiction of contradictions!
The request, the advice, the hope, by Italy and sent to Australia is to help Irina immediately see Dmitri within the limits of public health.
Irina carried out the molecular test in Italy on 17.03 before leaving and carried out a second one on 22.03 in Australia.
In a regime like the one we live in two tests carried out at this distance should be more than enough.
We ask that human rights are respected alongside health rights. We therefore ask that Irina be given the opportunity to see Dmitri as soon as possible.
Every lost second of this story is a drop of blood and a few but significant gestures can make the difference. We accept the rigidity of the rules, which we understand to be fundamental in this period as they were for Antigone in ancient Thebes. But on the fact that there is not a shred of understanding, compassion, empathy, it is necessary to say a few words, perhaps making them arrive at the Farnesina (which, moreover, could boast a small political victory if it knew how to do politics, “The Farnesina helps an Italian mother to reunite with her deceased son outside the homeland. “Is that too much?).
It is first of all a human fact, a question of justice, to speed up this process to soothe the unbearable pain of the mother. And secondly, a political-diplomatic fact, that of protecting its citizens.
We are letting life pass through a filter, it seems that only aseptic existence remains.
We ask for a shot of humanity.
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“Ora siamo qui a aspettare una risposta”. Riprendiamo in mano don Milani, “parla al nostro cuore ferito dalla chiusura della scuola, senza rete, senza codici e senza schermi”
“Per fare un buon maestro occorre una scuola chiusa”. Scuola chiusa? Parole che scottano oggi più che mai quelle di Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, contro la scuola di Pierino, la scuola dei ricchi, la scuola ingiusta. Era il maggio del 1967 ed usciva per una piccola casa editrice fiorentina, LEF (Libreria Editrice Fiorentina) questo libro destinato a far rumore. Scritto da Don Lorenzo Milani e dai suoi studenti in un posto sperduto della Toscana. La scuola di Barbiana nasce a Vicchio Mugello, sul monte Giovi a 475 metri, dove era stato spedito questo giovane prete rivoluzionario perché, senza luce e senz’acqua e senza una strada carrozzabile, se ne stesse un po’ zitto.
Questo giovane diacono, nominato priore della chiesa di Sant’Andrea, era arrivato a Barbiana nell’inverno – era mercoledì 8 dicembre – del 1954, all’età di 31 anni. Una chiesa del Trecento, un centinaio di contadini, un piccolo camposanto, un posto dimenticato da Dio che guardava dall’alto la valle della Sieve. Talvolta serve una punizione ingiusta per uscire dalla riduzione al silenzio, dalle sue tenebre (a Barbiana, d’inverno faceva buio presto).
Ecco perché già solo se leggo la prefazione al volume ci trovo dentro il nostro presente, le scuole chiuse, la disperazione e la forza dei nostri giorni senza scuola. L’inizio è già l’appello: “Questo libro non è scritto per gli insegnanti, ma per i genitori. È un invito a organizzarsi”. Certo i tempi sono cambiati, non si boccia più così tanto. Anzi non si boccia proprio, come è capitato lo scorso anno scolastico, quando l’allora ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina ha twittato: “tutti promossi, se non in casi particolari”. Chissà cosa avrebbe pensato Don Milani. A quei tempi, invece. Sentiamo: “Alle elementari lo Stato mi offrì una scuola di seconda categoria. Cinque classi in un’aula sola. Un quinto della scuola cui avevo diritto”. Mutatis mutandis, vedo questa immagine riproposta da un video ironico che mi ha mandato il mio prof.
Cinque ragazzi a casa in Dad. In fondo, è un’aula sola, la casa “sembra un call center della Vodafone”. Il caos è totale. Forse la storia non è così cambiata. “È il sistema che adoprano in America per creare le differenze tra bianchi e neri. Scuola peggiore ai poveri fin da piccini”. E ancora: “Finite le elementari avevo diritto a altri tre anni di scuola. Anzi la Costituzione dice che avevo l’obbligo di andarci. Ma a Vicchio non c’era ancora scuola media. Andare a Borgo era un’impresa”. Così, si può dire dal nulla, nasce la scuola di don Milani. Quell’esperimento rivoluzionario a cui guardare con speranza nella disperazione del nostro presente. Abbiamo ferocemente bisogno di una nuova scuola di Barbiana. Di un nuovo Don Milani. “A Barbiana tutti i ragazzi andavano a scuola dal prete. Dalla mattina presto fino a buio, estate e inverno. Nessuno era «negato per gli studi». Ma noi eravamo di un altro popolo e lontani. Il babbo stava per arrendersi”. Ma Barbiana non era una scuola, era più una casa-scuola. “Barbiana, quando arrivai, non mi sembrò una scuola. Né cattedra, né lavagna, né banchi. Solo grandi tavoli intorno a cui si faceva scuola e si mangiava. D’ogni libro c’era una copia sola. I ragazzi gli si stringevano sopra. Si faceva fatica a accorgersi che uno era un po’ più grande e insegnava”.
Non c’erano le vacanze, non si finiva mai di imparare: “Non c’era ricreazione. Non era vacanza nemmeno la domenica. Nessuno di noi se ne dava gran pensiero perché il lavoro è peggio”. Certo qualche “professorone” studioso di pedagogia potrebbe non essere d’accordo, ma Lucio che aveva trentasei mucche da curare diceva: “La scuola sarà sempre meglio della merda”. Una frase inequivocabile, si può obiettare. Senza troppi giri di parole. Leggo: “Questa frase va scolpita sulla porta delle vostre scuole. Milioni di ragazzi contadini son pronti a sottoscriverla. Che i ragazzi odiano la scuola e amano il gioco lo dite voi. Noi contadini non ci avete interrogati”. E uno sguardo alle ragazze: “Delle bambine di paese non ne venne neanche una. Forse era la difficoltà della strada. Forse la mentalità dei genitori. Credono che una donna possa vivere anche con un cervello di gallina. I maschi non le chiedono d’essere intelligente. È razzismo anche questo”.
Dentro Lettera a una professoressa ci sono molti casi particolari, tanto per citare l’ex ministro. Tante storie che assomigliano e non assomigliano alle storie degli studenti di oggi. L’ingiustizia, questo rumore di fondo della didattica di stanza, è rimasta uguale. “Ora siamo qui a aspettare una risposta”. Non tutti i professori sono uguali, si legge. “E la scuola perfetta non esiste”. Don Milani se ne è andato troppo presto, è morto a soli 44 anni, il 24 giugno del 1967, era ormai gravemente malato dal 1960. Ma la sua scuola di Barbiana ha una voce potente che siamo chiamati a riascoltare attentamente proprio oggi, per combattere ogni ingiustizia. Che parla al nostro cuore ferito dalla chiusura della scuola, senza rete, senza codici e senza schermi.
Linda Terziroli
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Exercitia spiritualia. Un manuale per diventare invincibili
La prima forma di dominio: addomesticare tempo e spazio. Gli Exercitia coagulano il tempo – passato, presente, futuro – in quattro settimane. Durante la pratica il mondo è bandito, il tempo è sospeso nel bianco, non esiste. Per la durata della pratica si è intoccabili, infiniti, perfino. Il tempo, altrimenti caotico, inaffrontabile, viene disciplinato: si muta in palestra.
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Il tempo si risolve in quattro settimane – la creazione quadruplicata –, lo spazio – questo pianeta, il sistema solare, le galassie, le oscurità, la materia oscura, i buchi neri, le stelle infeconde e quelle infuocate, i mondi a venire – precipita in un punto, in te, corda tra le tue mani. Tutto è volontà e immaginazione, cioè disciplina individuale. Le cose esistono finché io esisto, e io esisto per dare forma, senza esitare, pur senza esito, alle cose. Senza io non esiste Dio. Gli “Esercizi” si fondano sull’individuo per sperperarlo: il compito del discepolo che si ammaestra nella palestra dello spirito è liberarsi della corazza – l’io mondano: come mi vedono gli altri e come mi vedo io –, degno seguace di Ignazio di Loyola, che si sveste del guscio di ferro, dell’abito militare, deponendolo ai piedi della Madonna. Durante gli Exercitia il tempo è sospeso, lo spazio è un punto. Il praticante è corazzato dalla preghiera, che lo benda – chiudere gli occhi permette al corpo di risiedere nel dono.
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Cosa accade nel corso degli Exercitia? Si muore. E si risorge. E si muore ancora. E si rinasce. Senza la pratica anche il più santo tra gli uomini si inflaccidisce, rende rancido il proprio intento, rischia di credere di essere qualcuno, qualcosa, di cadere, dunque. Chi è morto non ha paura della morte: per potersi rinnovare il praticante deve morire, di continuo.
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L’aspetto mistico degli “Esercizi” è temprato da quello pratico. Gli “Esercizi” non vanno meditati, ma adoperati; non vanno studiati, ma intrapresi. Ignazio lo dice subito: “come il passeggiare, il camminare e il correre rappresentano gli esercizi corporali, così si definiscono esercizi spirituali le diverse possibilità di esercitare e indurre l’anima a liberarsi di ogni confusa affezione e, dopo averle rimosse, andare alla ricerca e rinvenire la volontà di Dio nell’approntare la propria vita in ordine alla salvezza dell’anima”. L’intuizione di Ignazio è semplice e folgorante: per sostenere una gara bisogna preparare il corpo a sopportarla; per gareggiare nella vita è necessario rifinire lo spirito, ridefinirlo, addestrarlo. Lo spirito è tangibile, carnale, è un secondo corpo. Lo spirito non va studiato, coltivato, accarezzato: va esercitato. Corpo e spirito per Ignazio sono tutt’uno: colpire uno significa agire sull’altro.
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Ancora di più: gli “Esercizi” servono a fondare un esercito, una milizia. Gli atti ripetuti, con ricorrenza, questo atletismo dello spirito, è necessario a calibrare l’individuo e depurare l’individualismo. Agli “Esercizi” bisogna obbedire: l’identità si rivela nell’obbedienza. Persona potente – altra cosa è la ‘personalità’, mero gioco di specchi alieno al miracolo – è chi si consegna al superiore perinde ac cadaver, “come se fosse un corpo morto”. Questa consegna, questa sottomissione è la massima vitalità, il regicidio di sé ci rende re – l’obbedienza non è un giogo, ma gioia, perché il suo fine è la vittoria, la primizia, la vita contro la morte, dopo la morte.
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Gli “Esercizi” sono per tutti: servono “al fine di vincere se stesso e per porre ordine nella propria vita evitando di prendere decisioni in base a delle affezioni confuse”. Raffinare se stessi implica un’operazione alchemica: di sé occorre estrarre il distillato, la purezza adatta a intraprendere, senza esitazioni, quella scelta, indubbia. Loyola semplifica: il tempo e lo spazio possono essere modellati a seconda delle nostre necessità. “Colui che ricopre mansioni pubbliche o occupazioni importanti, e risulta essere persona di cultura o di ingegno, può dedicare un’ora e mezzo agli esercizi”. Non si cementa una regola: si spazza una via. Ciascuno può avviarsi secondo le proprie forze. Tuttavia, non è questo un sentiero per i tiepidi: le avventure dello spirito vanno affrontate fino in fondo, nell’azzardo – in effetti, non abbiamo altro.
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Il mistico, di solito, è dedito a contemplare, cioè a osservare le cose del cielo, le manifestazioni divine. Ignazio forza, invece, a immaginare. Non dobbiamo interpretare i segni, i sogni; siamo noi stessi un segno, ineluttabile: nella nostra mente accade la storia sacra, di cui siamo il fulcro. Una specie di ipnosi traspare dagli “Esercizi”.
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I sensi dominano ogni cosa. La palestra spirituale non si compie per percorrere i deserti o passare una vita, nel dormiveglia dei puri, in monastero. Il soldato dello spirito marcia per le vie del mondo, nei luoghi inesplorati, pattugliati da fiere e da fieri popoli dei boschi, come al cospetto dei potenti del tempo. Per questo, l’ostensione dei sensi, posti al giogo: “eviterò ogni pensiero piacevole o lieto”, “fuggirò il riso”, “terrò lo sguardo rivolto in basso”. È utile scostarsi dalla luce, perché altra luce deve fiocinarmi ed esplodere, da dentro: “Mi priverò totalmente della luce, serrando le imposte e le porte”. Sotterrati nell’oscurità, siamo nudi, un’arma. Il mondo di Loyola è tutto occhi e dita, vedere e toccare.
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Estorto da ogni pio compito, da breviario per teologi, Giovanni Giudici suggerì – era il 1984 – di considerare gli “Esercizi”, “alla stregua di un testo poetico”. Nelle sue considerazioni scrisse, tra l’altro: “Leggiamo allora questo libro anche come una proposta di solitudine: ma di una solitudine talmente popolata da non doversi sentire (lei, solitudine) più sola, e talmente attiva e affaccendata da doversi l’esercitante ritenere quasi immune dai pericoli dell’ipocondria. Chi volesse indugiare brevemente in una ricerca di frequenze lessicali si accorgerebbe con facilità di quante volte ricorrono i due verbi ‘fare’ (hacer) e ‘vedere’ (ver) sui quali sembra imperniarsi l’intero sistema degli Esercizi”.
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Insieme al tempo e allo spazio, Ignazio di Loyola, genio in grado di risolvere la storia in un’equazione, la catastrofe in un organigramma, si occupa del corpo e della mente. Mentre il pensiero mistico, per consuetudine, s’insinua nel cuore, Ignazio percorre la carne. Insieme allo spirito, va disciplinato il corpo: gli “Esercizi” impongono continenza nel cibo, nel “mangiare” (“penitenza è togliere dal conveniente: quanto più tanto meglio”), regolano “il sonno”, costeggiando la veglia (evitando “che la persona non perda le forze e non ne consegua una seria cagione per la salute”). Il corpo va levigato, castigato, “cagionando un dolore sensibile; tutto ciò si ha portando sulle membra cilici o cordicelle o catenelle di ferro, flagellandosi o ferendosi, o con altre forme di austerità”. La pratica degli “Esercizi” impone di familiarizzare con il dolore, accogliere l’insussistenza come una grazia, abituarsi ad avere nulla. Se si ha nulla, se ogni paura, pure quella più pura – il dolore corporale – è vinta, nulla attendo, nulla voglio, nulla può sorprendermi. Sono invincibile e il corpo una fiala di diamante.
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Ignazio è agli antipodi di Giovanni della Croce: entrambi, in una Spagna arsa di visionari, lottatori, matador del dio-bestia, che infligge enigmi, hanno capovolto la cristianità. Giovanni della Croce s’inoltra nell’al di là del linguaggio: per dire lo smarrimento e la conquista dell’anima nella foresta celeste, usa la poesia, il verbo ineffabile. Al contrario, Ignazio di Loyola adotta un linguaggio militare, rigido, ripetitivo: è nell’al di qua della lingua. Gli “Esercizi” non sono una regola e non sono lirica – non sono dottrina, ma indottrinano a una sorta di agonismo spirituale. Giovanni della Croce, l’ispirato della “notte oscura dell’anima”, è avvolto nei chiaroscuri di Caravaggio, tra i Gesù ovoidali, marziani, di El Greco. Ignazio di Loyola ha il rigore di Diego Velázquez, la scaltra perfezione dei suoi cavalieri, re e buffoni di corte, che ti fissano pieni di una eternità già raggiunta.
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In ogni caso, nella milizia di Ignazio e nella lirica crocefissa di Giovanni, si sente odore di foresta e di belva. Si antivede l’epoca delle conquiste amazzoniche, l’approdo nell’altro mondo – in senso fisico e anagogico. Come il francescano scava il bene nel corpo famelico del lupo, non ci stupirebbe vedere un gesuita, a Misiones, che cavalca un giaguaro, indisturbato, in piedi, indifferente al chiasso degli dèi della foresta.
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La pratica della fatica, una specie di dedizione al dolore – che non va sconfitto o placato, ma osservato, amato – portano a un punto d’esattezza fatale. Quel punto in cui l’uomo è uomo, interamente, ma non è più uomo. Più che altro, è una finestra: ogni suggestione è saggia, tra miraggio e miracolo la crisi è minima, invisibile. Come dopo una camminata in montagna, la fatica è tale da non percepirla, il viso è limpido di sudore, la fame è un impulso remoto, superato. Siamo fuori di noi, in estasi. Siamo il punto in cui convergono tutte le illuminazioni: luce che s’incardina nella luce. Il nostro corpo è un lago, su cui si riflette Dio, ed è l’angelo, il lupo.
*Si riproduce per gentile concessione la “Nota dell’editore” agli “Exercitia” di Ignazio di Loyola editi da Nino Aragno Editore (2021)
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“La letteratura è fede. La sacralità della vita insegue la sacralità della parola. È consustanziale. Imprescindibili, i poeti si osservano, compiendosi nel verbo.”
Cosa porta Borges a essere Borges, e me ad essere me stesso? Se mio padre fosse ancora vivo, cosa penserebbe di me? Credo che sarebbe contento e fiero di tutto quel che sto facendo. Voglio dire, del lavoro che svolgo, dei libri che ho scritto, degli articoli che creo. Dei nuovi sacrifici, insomma, che ho appena iniziato a compiere. So che non aveva ostacolato me, né le mie sorelle, quando avevamo deciso di non intraprendere la sua carriera. Doveva essere una persona speciale, mio padre. E per quei pochi ricordi che ho di lui, lo è stato senz’ombra di dubbio.
Cosa porta Emily ad essere Emily. E Vincent a essere se stesso. Accade qualcosa d’inspiegabile. E accade più e più volte. Poi accade definitivamente. Compiutamente è “il nuovo inizio”. Si compie un’indefinibile decisione, definita per sempre. Scatta un motivo, il cuore di noi stessi. Se Baudelaire non fosse stato lui, saremmo privi di qualcosa d’enorme. L’umanità sarebbe mancante di una mancanza. Privati del massimo, mancheremmo di tutto.C’è forse come un angelo invisibile, una forza estrema, che ci soffia accanto. Sappiamo già che credere all’invisibile è per noi quasi cosa scontata. Siamo vergini, per nulla indispettiti, pronti al fallimento e all’abbandono. Con una incoscienza vigile e tremenda e invincibile, seppur di vetro.
Chi si sarà posto le stesse domande? Cosa pensava veramente Pirandello di se stesso? Che la chiamata invisibile l’avrebbe portato, dentro, attraverso il mondo intero. Ma per me, sentirmi lontano, non essere di questo mondo pur abitandolo, che significa? Non è tempo di troppe domande. Occorre semmai riferirsi a qualcuno, una volta chiarito quel qualcosa. Dopo la chiamata, bisogna interloquire, perfino con noi stessi all’occorrenza. Come in questo esercizio di scrittura. Altrimenti ci si improvvisa. L’altro lettore, o i venti, trenta, sessanta lettori che abbiamo, siano la stima massima verso noi stessi. Non occorre altro. Persino se l’unico lettore fosse nostra moglie o, per davvero, se fossimo noi soltanto. Avere una coscienza del genere porta a sbaragliare qualsiasi cosa. Pochi sparuti lettori dominano il retroscena della vita? Sarà l’incentivo a continuare.
Una cosa però è certa. Gli incontri della vita hanno portato Borges a essere Borges. E Charles ad essere Baudelaire. Gli incontri sono fondamentali per la letteratura. Senza incontro, non ci sarebbe alcuna letteratura, nessuna esistenza. Ed essi sono sia fisici, che di lettura. Entrambi imprescindibili. D’altronde, cos’è una storia se non un intreccio di incontri e di storie? Ci si racconta per non terminare la magia di qualcosa d’invisibile, ma, al tempo stesso, tangibile. Quel qualcosa che irradia dentro di noi il mistero della gioia. Un godere di ciò che altri, prima di noi, hanno tentato, riuscendoci. Sfidando tutto e tutti. Mio padre. Manca. Senza di lui non sarei il poeta che tanti anni fa incominciava a credere in se stesso. Timidamente, forzatamente, con supponenza e ignoranza. Senza, poi, i successivi incontri (fondamentali!) non m’incamminerei oggi verso l’unico sentiero che pretende tutto me stesso, tanto da chiedere di essere percorso con coerenza e fino in fondo.
Se non ci fossero stati i grandi, noi esisteremmo? E se sì, come vivremmo? Impoveriti, cattivi, zotici. A farci la guerra, ma non per amore. Intendo ricordare che si passa come un testimone. La staffetta deve proseguire, imperterrita. Dapprima a nostra insaputa. Poi per testimonianza, come la fede; perché la letteratura è fede. La letteratura non è politica. Se deve essere qualcosa che va oltre la letteratura, essa è fede. Su questo non ho dubbi. La sacralità della vita insegue la sacralità della parola. È consustanziale. Non può essere altrimenti. Imprescindibili, i poeti si osservano, compiendosi nel verbo. Dunque si crede all’impossibile. Nell’invisibile vediamo la via, il bianco, il richiamo infinito. Il branco ci chiama. Il branco sono gli scrittori e i poeti della letteratura universale. Il branco non è stanziale, varia, muta, affascina. Richiama, ti chiama. Inaspettatamente. E noi siamo pronti, sempre, a un nuovo inizio.
Cos’ha portato Borges a sentire il richiamo della tigre, e Victor Hugo a sentire, indistinto, nella foresta, il ruggito del leone? Richiami silenziosi, ma talmente concreti, da far vibrare le parole. Le parole che sono stelle. Esse brillano. Come i grandi. Scrivere l’indissolubile. Ecco cosa fa di uno scrittore, un poeta. Come fosse, e lo è, un vincolo. Scrivere nel rischio della morte. Per i morti. Per ringraziare i morti della vita trasfusa in ogni parola eterna. Si combatte per una vittoria silenziosa. L’invisibile è il silenzio.
Anacoreti e presenti. Nascosti ma frizzanti. Disposti a fronteggiare il limite, che fa di un disabile il genio di se stesso. Un genio da donare al mondo, a tutti, per tutti. Quando? Non ha importanza. Essere se stessi, vivi, presenti a ogni mistero. Disporre le lettere a formare falò, fuochi. Per poi riporle ‒ sacramento-rito-unguento-particola ‒ in qualche tabernacolo. Che la fiamma vivida bruci i nostri sacrifici. Che la stanchezza venga purificata dalla perseveranza. Godere richiede fatica. Si gode solo nel patimento. Si ambisce alla tigre, al lupo, al leone. Si legge Borges, Leopardi, Hugo!Quindi cosa spinge il mondo a salvaguardare e, al tempo stesso, a perseguitare i custodi della parola? Una riverenza oramai persa, dimenticata; sebbene radicata in ogni cuore. Senza guardare all’altro, non si parla al futuro. Senza i grandi che hanno trovato se stessi, noi non saremo pronti a seguirne, originalmente, le orme.
Giorgio Anelli
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Nel mattatoio della pittura. Milan Kundera su Francis Bacon
I ritratti di Bacon mettono in questione i limiti dell’‘io’. Fino a che grado di distorsione un individuo rimane se stesso? Fino a che grado di distorsione un essere amato rimane un essere amato? Per quanto tempo un volto caro che si allontana a causa di una malattia, della follia, dell’odio o della morte resta ancora riconoscibile? Dove è posto il confine superato il quale un ‘io’ smette di essere ‘io’?
Da molto tempo, nella mia immaginaria galleria di arte moderna, Bacon e Beckett formavano una coppia. Poi lessi l’intervista con Archimbaud: “Mi ha sempre sorpreso l’accostamento fra me e Beckett”, dice Bacon. E poco più avanti: “Ho sempre pensato che Shakespeare abbia espresso in maniera più forte e più esatta quello che Beckett e Joyce cercano di dire”. E ancora: “Mi chiedo se le idee di Beckett sulla propria arte non hanno finito per uccidere la sua opera. Vi è in lui qualcosa di troppo sistematico e insieme di troppo colto, ed è quello che mi ha sempre infastidito”. E per finire: “In pittura si concede sempre troppo all’abitudine, non si elimina mai abbastanza; ma con Beckett ho spesso avuto l’impressione che a furia di eliminare non sia rimasto niente, e che in definitiva questo niente suonasse vuoto…”. Quando un artista parla di un altro artista, parla sempre (di riflesso, o in modo trasversale) di se stesso, e proprio in questo risiede il valore del suo giudizio. Che cosa ci sta dicendo di sé Bacon quando parla di Beckett? Che rifiuta di essere classificato. Che vuole proteggere la propria opera dagli stereotipi. Ma non solo: che resiste ai dogmatici del modernismo, i quali hanno innalzato una barriera fra la tradizione e l’arte moderna, come se quest’ultima rappresentasse, nella storia dell’arte, un periodo isolato, con specifici e incomparabili valori, e con suoi criteri del tutto autonomi. Bacon si riallaccia invece alla storia dell’arte nella sua totalità: il XX secolo non ha cancellato i debiti che abbiamo nei confronti di Shakespeare. E ancora: si rifiuta di esprimere in maniera troppo sistematica le sue idee sull’arte, nel timore di soffocare così la sua creatività inconscia, e nel timore che la sua arte si trasformi in una sorta di messaggio semplicistico. Egli sa che il rischio è grande, tanto più che l’arte del nostro secolo è incrostata di una chiassosa e opaca logorrea teorica che impedisce a un’opera di entrare in contatto diretto, non mediato, con colui che la guarda (o la legge, o la ascolta). Appena può, Bacon confonde le piste per disorientare gli esegeti che vogliono ridurre la sua opera a un programma elementare: è restio a usare, a proposito della sua arte, il termine ‘orrore’; sottolinea il ruolo decisivo che ha, nella sua pittura, il caso (un caso intervenuto nel corso del lavoro: una chiazza di colore posata in modo del tutto fortuito, che cambia di colpo il soggetto); insiste sulla parola ‘gioco’ mentre in genere non si fa altro che esaltare la drammaticità dei suoi dipinti. Gli si parla della sua disperazione? Sia pure, ma, precisa subito, in questo caso si tratta di una disperazione gioiosa. […]
Al pari di Bacon, Beckett non si faceva illusioni sul futuro del mondo né su quello dell’arte. E nel momento in cui tutte le illusioni crollano hanno entrambi la stessa reazione, straordinariamente interessante e significativa: le guerre, le rivoluzioni e il loro fallimento, i massacri, l’impostura democratica – tutti questi temi sono assenti dalle loro opere. Nel Rinoceronte Ionesco si interessa ancora ai grandi problemi politici. In Beckett non c’è niente di analogo. Picasso dipinge Massacro in Corea: un soggetto inimmaginabile in un quadro di Bacon. Quando si vive la fine di una civiltà (così come Beckett e Bacon la vivono o pensano di viverla) il confronto ultimo e brutale non è più quello con una società, uno Stato, una politica, ma quello con la materialità fisiologica dell’uomo. Ecco perché il grande soggetto della Crocifissione, che un tempo concentrava in sé tutta l’etica, tutta la religione, diciamo pure tutta la storia dell’Occidente, nella pittura di Bacon si tramuta in un semplice scandalo fisiologico. “Mi hanno sempre colpito le immagini di mattatoi e di carne macellata, e per me sono strettamente legate alla Crocifissione. Ho visto fotografie straordinarie di bestie colte nel momento in cui venivano condotte al macello. E l’odore di morte…”.
Associare Gesù crocifisso ai mattatoi e alla paura delle bestie condotte al macello potrebbe sembrare sacrilego. Ma Bacon non è credente e la nozione di sacrilegio non rientra nel suo modo di pensare; per lui “l’uomo si rende ormai conto che la propria esistenza è un puro accidente, del tutto privo di senso, e che lui stesso deve senza ragione stare al gioco fino in fondo”. Da questo punto di vista, Gesù è appunto un accidente che, senza ragione, è stato al gioco fino in fondo, e la croce rappresenta proprio la fine del gioco. No, qui non c’è sacrilegio, c’è invece uno sguardo lucido, triste e pensieroso che cerca di cogliere l’essenziale. E che cosa si rivela di essenziale quando tutte le utopie sociali sono svanite e l’uomo vede “annullarsi qualunque possibilità religiosa”? Il corpo. Il solo Ecce homo, evidente, patetico e concreto. Perché non ci sono dubbi: “noi siamo carne, siamo carcasse in potenza. Quando vado dal macellaio sono sempre stupito di non essere appeso là, al posto dell’animale”. Questo non è né pessimismo né disperazione: è una semplice evidenza, abitualmente offuscata dal nostro appartenere a una collettività che ci fa velo con i suoi sogni, i suoi entusiasmi, i suoi progetti, le sue illusioni, le sue lotte, le sue cause, le sue religioni, le sue ideologie, le sue passioni. E poi, un giorno, il velo cade e ci lascia soli con il corpo, alle mercé del corpo, come la ragazza di Praga che, sconvolta dall’interrogatorio, andava in bagno ogni cinque minuti. Quella ragazza era ridotta alla sua paura, alla furia delle sue viscere e al rumore dell’acqua che sentiva scorrere nel serbatoio dello sciacquone esattamente come io la sento scorrere quando guardo Figura davanti a un lavandino del 1976 o il Trittico del 1973 di Bacon. Ciò che la ragazza doveva affrontare non era più la polizia, ma il proprio intestino; e se qualcuno ha presieduto, invisibile, a quella piccola scena di orrore, non è stato certo un poliziotto, un apparatnik, un carnefice, ma un Dio, o un anti-Dio, il Dio cattivo degli gnostici, un Demiurgo, un Creatore, colui che ci aveva presi in trappola per sempre con questo ‘accidente’ del corpo da lui costruito nel suo laboratorio e di cui, per qualche tempo, noi siamo costretti a diventare l’anima. Bacon, in questo laboratorio del Creatore, andava spesso a curiosare: lo si vede, per esempio, nei quadri intitolati Studi del corpo umano, in cui egli lo smaschera, questo corpo umano, come puro ‘accidente’ – un accidente che avrebbe potuto essere fatto anche diversamente, che so io, con tre mani, per esempio, o con gli occhi sulle ginocchia. Questi sono i soli suoi quadri che mi riempiono di orrore. Ma è ‘orrore’ la parola giusta? No. Per la sensazione che suscitano la parola giusta non esiste. Ciò che essi suscitano non è l’orrore a noi noto, quello delle follie della Storia, della tortura, della persecuzione, della guerra, dei massacri, della sofferenza. No. È un orrore diverso: proviene dal carattere accidentale, repentinamente svelato dal pittore, del corpo umano.
Che cosa ci rimane quando si è scesi così in fondo? Il volto. Il volto che cela “il tesoro, la pepita, il diamante nascosto” quell’‘io’ infinitamente fragile che rabbrividisce dentro un corpo. Il volto sul quale fisso lo sguardo per trovare in esso una ragione per vivere questo “accidente privo di senso” che è la vita.
Milan Kundera
*Nel 1996 Gallimard pubblica come “Entretiens avec Michel Archimbaud” un libro in cui Francis Bacon si denuda e macella, dialogando. La prefazione è di Milan Kundera. Qui ne riproduciamo una parte, che integralmente, nella traduzione di Ena Marchi, si può leggere qui.
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Trent’anni di “Castelli di rabbia”: il libro che Baricco voleva leggere e non trovava da nessuna parte
“Signor Baricco, perché ha deciso di scrivere questo libro?”. “Perché era il libro che volevo leggere e non trovavo da nessuna parte”. Non fa una piega. Semmai ci lavori di matita, tipo che ti segni le frasi belle, quelle che lasciano il segno. La lapis (che dio la abbia sempre in gloria) ha un segreto: si può cancellare. L’evidenziatore invece va abolito. Diamo un calcio al rigore formale e saliamo sul treno che non ha le rotaie. Per essere liberi basta, in fondo, la cosa più preziosa che abbiamo: fantasia, immaginazione, occhi per leggere. E una persona da amare, ma che forse non lo sa.
Sono tra quelli che lo hanno amato. Al passato. A quei tempi. Quando era uscito. Baricco è un “caga alto”, come si dice a Venezia. Roccioso antisocratico (da bene di saper scrivere e di saper affabulare), un po’ kieslowskiano (nell’accezione del caso o del destino che governa e decide le vite delle persone), consapevole di avere quel quid che è merce rara, quel tocco dandy, quei colori che solo Chagall, quella capacità di farti entrare in quella storia che è sua, che – ammissione cristallina e furbesca – non c’era da nessuna parte. E che non è più riuscito a replicare. Se non, in parte, in Novecento. Castelli di rabbia compie 30 anni. Punto. Nel 1991 la casa editrice Rizzoli lo ha dato alle stampe. Erano gli anni dei confronti, se vi ricordate: meglio Alessandro Baricco o Andrea De Carlo? Meglio la Milano di Due di due – quella in cui si muovono Mario e Guido – oppure quel piccolo neo nella perfida Albione, un luogo che esiste non tanto sulla carta ma dentro la testa?
Che poi una trama vera, cioè nel senso che fila dritta come una rotaia, mica c’è. Sai che sei nell’Ottocento, e sai che c’è una cittadina che è in Inghilterra e che si chiama Quinnipak e che lì attorno “sbrulicano” personaggi che non esistevano prima e che poi c’è anche la storia dell’inventore del Crystal Palace, un architetto che quando vede incendiarsi il suo progetto – nulla è più bello di un vetro che si incendia – lo sbattono in un manicomio. Si chiama Hector Horeau e in quella cosa lì ci aveva messo tutti i suoi sogni perché voleva donare un po’ di meraviglia ai visitatori della “Grande esposizione delle opere dell’industria di tutte le Nazioni” ospitata a Londra nel 1851. Si fa sei anni in psichiatria senza mai dire una parola. Baricco, per ringraziarlo, lo riabilita, e gli inventa una fine artistica, quasi architettonica, fragile come il suo vetro. “Fra le infinite violenze a cui si abbevera la pazzia, scelse per sé la più sottile e inattaccabile: il silenzio. Morì, una notte d’estate, con il cervello inondato di sangue. Un rantolo orribile se lo portò via, con la rapacità fulminea di uno sguardo”. Un epitaffio che “Spoon River” se lo sogna.
Tutti, o quasi, muoiono. Ma non così, cioè come succede alle persone normali. Muoiono in maniera baricchiana. Che se poi ti germoglia dentro la storia dell’umanofono – in pratica ogni persona emette una nota e una sola, la sua personale, e c’è un maestro, Pekisch, che dirige quindi un “organo umano” che al posto delle canne fa suonare le persone – capisci che quel libro serviva. Perché, a pensarci bene, questa cosa bizzarra delle note uniche è meravigliosa. Baricco dà una nota a ognuno, e quell’ognuno la impara, capisce se è la sua, si esercita e la dona agli altri. La fa armonizzare. E diventa musica.
Ma Pekisch è anche l’uomo che riempie d’incanto il piccolo Pehnt quando inventa un gioco, quello di parlare attraverso i tubi. Ne trovano uno, ci soffiano dentro idiomi e suoni, ma la voce, le voci, ecco, non arrivano dall’altra parte. Il tubo ha un buco? Il tubo assorbe? Ci puoi parlare dentro tutta una vita, e confidare il cuore e la mente, ma la fisica non dice bugie, anzi, ti spiega la verità. La sua verità, e cioè che la voce rallenta e si ferma. Forse.
Questa cosa dell’umanofono è geniale. Immagina una stradina di un paesello, la Quinnipak, che è tipo uno di quei posti da far west (che a Baricco gli deve essere piaciuto un bel po’, almeno come ambientazione: il western di Shatzy – lo trovi in City – e la cosa dell’orologio e del tempo è un proiettile di cristallo) pieni di polvere. Prende 24 uomini e quindi 24 note, li fa sistemare 12 da una parte e 12 dall’altra all’inizio e alla fine di una strada e poi li fa avvicinare. Poi però succede che si trasformano i tasselli di un domino e, uno a uno, muoiono. Come Waxeli “che suona una specie di cornamusa, e morirà stupefatto con negli occhi l’immagine di suo figlio che abbassa la canna fumante del fucile, senza fare una piega”. O come Tuarez, “che suona una specie di grande corno, e morirà per sbaglio in una rissa tra marinai, lui che non aveva mai visto il mare”.
Poi c’è l’amore. Senza poi: è la prima cosa. Castelli di rabbia è un romanzo d’amore. Dell’assenza dell’amore. Dell’amore immaginato, necessario, richiesto dal protocollo, inventato per inventarsi una dignità sociale. Come quello della vedova Abegg, sposata per tre anni con un libro. Come quello, meraviglioso, tra il signor Rail e le labbra di Jun. Lui la vede mentre sta salendo in una nave. È bellissima. Per intrattenerla, le racconta la storia del vetro. Si amano, si conoscono, lei scopre che lui ha un figlio, nato da un amplesso con una donna africana. Si chiama Mormy, parla poco. Però ha gli occhi grandi e la pelle color della sabbia. Con i suoi occhi ferma istanti nella propria mente come fossero fotografia: la partenza di un cavallo da corsa, le proteste dei lavoratori. Ed è in occasione di una contestazione che gli capita un sasso nella fronte, preciso, come un proiettile di cristallo. Si accascia, nel suo silenzio. E nell’incantesimo delle visioni che ha collezionato.
“Ognuno ha il mondo che si merita. Io forse ho capito che il mio è questo qua. Ha di strano che è normale. Mai visto niente del genere, a Quinnipak. Ma forse proprio per questo, io ci sto bene. A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito. Qui, quando proprio guardi lontano, guardi negli occhi di tuo figlio. Ed è diverso. Non so come fartelo capire, ma qui si vive al riparo. E non è una cosa spregevole” scrive Pehnt, diventato grande, in una lettera all’ormai vecchio Pekisch.
Poi c’è la storia di Elisabeth, che è una “trena”, un treno femmina. Una macchina quindi che non produceva forza “ma qualcosa di concettualmente ancora sfumato, qualcosa che non c’era: la velocità”. Baricco qui si fa futurista in un assolo di parole senza punti, così, in apnea, la stessa che ti capita di avvertire nelle orecchie dopo il passaggio di una locomotiva: “Il piacere e il rumore sordo dello sgretolamento – il piacere e dentro, subdola, la malattia – il piacere e dentro la malattia, la malattia e dentro il piacere – tutt’e due a inseguirsi dentro il bozzolo della paura – la paura e dentro il piacere e dentro la malattia e dentro la paura e dentro la malattia e dentro il piacere – così ti girava dentro l’anima, all’unisono con le ruote del treno catenate sulla via fatta di ferro” e via ancora, un diretto senza fermate, che porta le persone “sui treni, per salvarsi, per fermare la perversa rotazione di quel mondo che li martellava di là dal vetro, e per schivare la paura”. Un proiettile di cristallo, un altro proiettile di cristallo. La sublimazione del vetro.
Avvicinare il primo Baricco a Kieslowski: un’eresia? No: i loro personaggi non si rassegnano mai. Nessuna forma di fatalismo nichilista si trova nei protagonisti ma piuttosto – e sempre – un guanto di sfida che l’uomo lancia al proprio destino. Vinta o persa, poco conta. Vivono – nel loro modo di vivere, fatto di sogni – e osano, ci provano, guardano dritti verso la vetta della montagna e mai invece la strada già percorsa. Domande, come quelle di Pehnt su dove si spegne una voce lanciata in un tubo lungo 200 metri. Come quelle che si fa Witek, il protagonista di Destino cieco (film terminato da Kieslowski esattamente 40 anni fa, nel 1981, ma “autorizzato” dalla censura polacca solamente nel 1987). Come quelle che si pone Jun quando vede partire il signor Rail. Come quelle, silenziose, del padre del Crystal Palace.
Castelli di rabbia è un “tableau vivant” (alla francese, in onore di Hector Horeau e del suo sogno di cristallo) che profuma di Earl Grey, di tè al bergamotto. Doveva essere questa la fragranza delle pelle di Jun e dei capelli di Mormy, delle lenzuola della vedova Abegg, delle ruote di Elisabeth, del ferro che incontra il vetro incandescente. Non un odore di rabbia. Semmai, forse, di sabbia. I versi in tedesco che scandiscono i capitoli di Castelli di rabbia sono gli ultimi quattro versi della decima Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke: “Und wir, die an steigendes Glück denken, empfänden die Rührung, die uns beinah bestürzt, wenn ein Glückliches fällt”. “E adesso l’America”. Il libro si chiude così, sempre con la mano che accarezza la quarta di copertina.
Alessandro Carli
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Intervista a Luca Crescenzi, traduttore di Thomas Mann alle prese con la traduzione dei diari dello scrittore “nell’incapacità di affrontare il caos della vita e del mondo”
Luca Crescenzi ci sono due modi di presentarlo.
Si può dire senza timore di sbagliare che è il massimo esperto in circolazione su Thomas Mann per traduzioni recenti e curatele, oltre che per progetti di ampio respiro quali la prima edizione italiana dei diari dello scrittore, in corso di allestimento.
Si può dire però, con maggior verità e senza sbottonarsi rivelando i propri gusti letterari, che Luca Crescenzi è anche un uomo lucido e intelligente, sapiente e simpatico, di quelli che non si lasciano distrarre dalle mode psicologiche degli intellettuali.
Era il 2010 quando usciva La montagna magica e la novità stava in quel magica al posto di incantata. In aula a Pisa Luca Crescenzi dava la sensazione di stare dentro la letteratura non come gioco, non come offerta culturale né tantomeno didattica: era un uomo integro che non si perdeva in vaniloqui a giustificare il perché di quel ritocco nel titolo. Per chi arrivava all’università dalla provincia, che per fortuna è sempre uguale da nord a sud, Luca Crescenzi faceva carta straccia di quasi tutti i quotidiani che discutevano perplessi di quella scelta nella traduzione.
La tentazione di ricercarlo dopo nove anni era fortissima; la voce al telefono è la stessa di allora, di quel pomeriggio in aula quando tuonava “Ma che leggete a fare I miserabili, non perdete tempo e incominciate dai tedeschi!”
Professor Crescenzi, fino a quando possiamo misurare con precisione l’influenza (stilistica e contenutistica) di Mann sulla letteratura tedesca? Essa finisce col suo esilio o prende altre forme?
L’influenza di Thomas Mann sulla letteratura e, più in generale, sulla cultura tedesca dura ben oltre l’epoca del suo esilio. Del resto capolavori come la tetralogia del Giuseppe e i suoi fratelli e il Doktor Faustus sono apparsi in tutto o in parte quando Mann era già in esilio, prima in Svizzera e Francia e poi negli Stati Uniti. Il Doktor Faustus anzi, uscito quando Mann era in esilio già da 14 anni, è certamente il romanzo di Mann che ha suscitato più reazioni, in Germania, al momento della sua uscita. Basta pensare che a due anni dalla prima pubblicazione, in Svizzera, erano già apparsi circa 400 articoli che ne parlavano. E poi non bisogna dimenticare che per i tedeschi Mann non fu soltanto un grande narratore, ma pure un grande saggista e una voce ascoltatissima anche in ambito politico.
Se ricordo bene si faceva il suo nome per la presidenza tedesca dopo la disfatta del ’45.
Esatto, fu un’azione promossa da un gruppo di autorevoli intellettuali emigrati durante la guerra, i quali pensarono a lui come futuro presidente della Germania liberata da Hitler. È incredibile che in alcuni ambienti sia potuta sorgere la leggenda del Thomas Mann algido scrittore estraneo alla realtà storica e politica che lo circondava. Diverso è il discorso, invece, se parliamo dell’influsso di Thomas Mann come scrittore, soprattutto sulla letteratura tedesca del dopoguerra. Già dopo il Doktor Faustus Mann cominciò a essere visto come uno scrittore magari grande, grandissimo ma di un’epoca passata. Non è un caso che il suo ultimo romanzo compiuto, L’eletto, pur essendo un capolavoro assoluto e anche uno dei suoi romanzi più godibili sia fra le sue opere meno studiate e conosciute. Dopo la sua morte, poi, vi fu un vero e proprio moto di reazione da parte degli scrittori tedeschi che culminò, dopo la metà degli anni Settanta, in un’aperta presa di distanze dalla narrativa manniana.
Una Mann Renaissance c’è stata solo trent’anni fa…
Effettivamente c’è stata ma molto tardi, a partire dagli anni Novanta e poi, in modo ancor più deciso dopo la pubblicazione dei primi volumi della nuova edizione critica all’inizio di questo millennio, quando Mann è stato riscoperto e ormai nessuno ne mette più in discussione la statura di scrittore. Per qualche anno l’industria editoriale tedesca ha addirittura propagandato ogni nuovo romanzo di qualche valore come “la nuova Montagna magica”: fatto sta che autori paragonabili a Thomas Mann sul piano della capacità di dominare gli strumenti della scrittura, della profondità di pensiero, della visione del significato della letteratura e anche della statura morale non se ne sono più visti.
Andiamo all’opera omnia, allora. Penso ai diari che state curando per la prima volta per il lettore italiano all’Istituto Italiano di Studi Germanici. Su che arco cronologico si allungano questi diari? Sono una fucina di idee politiche o “soltanto” un laboratorio dell’artista?
Questa domanda mi fa molto piacere. In effetti l’Istituto Italiano di Studi Germanici, in collaborazione con l’editore Quodlibet, ha avviato per iniziativa di una studiosa di fama internazionale come Elisabeth Galvan il progetto di edizione integrale dei diari. Sono 10 volumi che coprono integralmente gli anni dal 1933 al 1955 e hanno un prodromo interessantissimo nelle annotazioni degli anni 1918-1921 che Thomas Mann salvò, non si sa perché, dalla distruzione dei suoi vecchi diari intrapresa per ragioni di prudenza subito dopo l’inizio dell’esilio. Si tratta di un’impresa che impegnerà dieci fra i maggiori studiosi dell’opera di Mann in Italia – citerò solo, fra i più noti, Fabrizio Cambi, Margherita Cottone e Andrea Landolfi – e che metterà finalmente a disposizione degli studiosi e del pubblico italiano uno dei più straordinari documenti della cultura tedesca del XX secolo. Non si tratta soltanto di una testimonianza del Mann privato o di una documentazione utile esclusivamente a chi voglia approfondire la cultura, la poetica e l’arte di Thomas Mann.
C’è molta politica, molto impegno ma in che senso? Dopo che questa parola è stata falcidiata dal ’68, come si comprende l’impegno di Mann?
I diari si possono considerare davvero sotto molteplici punti di vista e risultano sempre e comunque una lettura straordinaria. Intanto per il loro valore storico: Mann, che segue gli eventi del suo tempo con la stessa puntigliosità usata per comporre i suoi romanzi, è un testimone sempre vicino agli eventi e sempre dentro i dibattiti culturali e politici che li accompagnano. A Monaco, assiste alla nascita e alla fine della Repubblica dei Consigli, è diventato il portavoce dell’ala conservatrice e nazionalista per aver scritto le Considerazioni di un impolitico, ma segue con partecipazione gli eventi che preludono alla nascita della Repubblica di Weimar a cui sarà fra i pochi ad aderire con convinzione. Nell’esilio, che segue immediatamente alla presa del potere da parte di Hitler, diventa uno dei portavoce più rappresentativi dell’emigrazione e entra in contatto con tutti, ma proprio tutti i grandi scrittori e intellettuali europei. Negli Stati Uniti, dove trova una mecenate generosa che gli apre tutte le porte della politica in Agnes Meyer, la moglie di Eugene Meyer, proprietario del Washington Post e presidente della Federal Reserve, è immediatamente riconosciuto come la voce più autorevole degli intellettuali tedeschi oppositori del regime nazionalsocialista: incontra Roosevelt, viene spiato dall’FBI per il quale, fra l’altro, lavorano i suoi figli Golo e Erika, lancia dalla radio i suoi appelli alla ribellione contro Hitler e intanto si sprofonda nell’atmosfera di quella Weimar sul Pacifico che fu veramente la Los Angeles degli anni Quaranta insieme a figure del calibro di Arthur Rubinstein, Charlie Chaplin, Arnold Schoenberg, Theodor W. Adorno, Bruno Walter, ecc.
Ma un contatto con la vecchia Europa persiste, per quanto tenue…
Infatti i diari riportano lì, di nuovo in Europa, dove lo ha ricacciato la “caccia alle streghe” di Hoover, quando rifiuta di tornare in Germania e trova l’ultimo rifugio di una vita incredibile in Svizzera inseguito da voci e sospetti che i servizi segreti fanno circolare ad arte (sarà protagonista negativo di questa fase, ad esempio, anche Ignazio Silone), ma è pur sempre l’esponente più autorevole e moralmente indiscusso della cultura tedesca e può permettersi di esprimere opinioni pesantissime e giudizi caustici sulle miopie politiche del dopoguerra e sui pericoli di un ritorno, sotto altre spoglie, degli uomini politici e degli intellettuali compromessi con il passato regime. Ma al di là del valore di questi diari per gli storici, emerge in essi “l’altro Thomas Mann”, l’uomo privato al di là dell’uomo pubblico e le tantissime annotazioni che lo rivelano nella banale e anche banalissima quotidianità dentro a cui non sa districarsi, nella sua incapacità di affrontare il caos della vita e del mondo sono a mio personalissimo avviso le più suggestive di tutte.
Ci dà qualche anticipazione succulenta?
In Germania il rivelarsi di questo Mann privato ha dato luogo a un’abominevole proliferazione di articoli voyeuristici interessati alla sua omosessualità semisegreta quando non allo screditamento dell’intellettuale per mezzo della sua vita privata. In realtà appare in queste pagine il Mann spaventato dalla vita, terrorizzato dalle situazioni in cui sa o teme di non poter contare sull’aiuto della moglie Katia, in preda all’ipocondria o costernato di fronte alle difficoltà insormontabili che gli procura anche solo la necessità di cambiare la neonata Elisabeth. È un Mann che risulta a volte persino spregevole in certe ipocrisie o bassezze rivelate solo a sé stesso; ma è anche l’uomo contro cui lo scrittore ha eretto il muro della sua scrittura, che ha opposto alla difficoltà di vivere il monumentale baluardo della sua arte.
A proposito di ipocrisie. C’è un testo di Mann, Fratello Hitler, composto in tedesco e subito tradotto in inglese nel 1939, in cui si leggono frasi tenebrose e accecanti: “Un fratello – un fratello piuttosto spiacevole e mortale. Mi innervosisce, la relazione è dolorosa da non dirsi. Ma non la rinnegherò (…) oggi è nostro fato incontrare il genio in questa sua fase particolare tra tutte le fasi possibili. Un artista, un fratello. Ma la solidarietà, e il suo riconoscimento, sono espressione del disprezzo che l’artista ha di se stesso”. Questo testo era disponibile finora soltanto nella traduzione dal tedesco in un’edizione fuorviante, che lo accostava a testi sulla questione ebraica. Sarà nostra premura ritradurlo sull’Intellettuale dissidente ma intanto ci può contestualizzare questo articolo-saggio di Mann?
È un articolo del 1939 che Thomas Mann pubblica sulla rivista Esquire, e che sarà pubblicato in seguito in varie versioni, nel quale prende per la prima volta posizione su Hitler. È giusto interrogarsi sul contesto, perché in seguito sarebbe stato contestato a Mann un atteggiamento troppo poco critico nei confronti di colui che stava trascinando l’Europa in una tragedia epocale. Ma non bisogna dimenticare tre cose: innanzitutto che mentre scrive queste pagine Mann è in esilio da sei anni, ha lasciato Monaco a seguito delle minacce mortali che gli sono venute dal fronte nazionalsocialista e, dunque, non può certo nutrire sentimenti concilianti con chi ha messo a repentaglio la vita sua e dei suoi familiari. In secondo luogo Mann dà per scontato il giudizio politico e persino storico su Hitler, ma giustamente non dà affatto per scontato che chiunque possa capire da quali strati dell’identità politica e culturale della Germania sia stato generato quel fenomeno. Infine – ed è il fatto più importante – Mann assume, qui, un’ottica morale e quell’ottica, protestante e severa, gli impone di non nascondersi, di riconoscere una qualche involontaria vicinanza al nazionalsocialismo: se la Germania ha scelto quella via, non è dato a nessuno di “chiamarsi fuori”, di attribuire ad altri la responsabilità dell’accaduto, di considerarsi diverso o superiore ai tantissimi tedeschi che hanno votato per Hitler. Questa è grandissima critica morale: è la critica che può esprimere solo chi sa di cosa parla perché è parte in causa, perché si assume la responsabilità culturale e intellettuale di rappresentare in sé stesso la Germania nazista e il suo contrario e perché, generato da quella nazione che ora rivela il suo lato più oscuro, sente di dover fare i conti con quel lato riposto in qualche parte di lui anche se lo rifiuta e lo disprezza.
Tiriamo il fiato. Per fortuna il mondo di lingua tedesca non è stato solo questo, ha avuto e tutto sommato ancora ha un lato più festivo, di rutilante nostalgia nella letteratura austriaca. Penso al romanzo di idee alla Musil. C’è però solo un piccolo problema: sembra un genere con pochi continuatori , è come se Musil fosse condannato a rimanere un unicum.
Il romanzo di idee o romanzo-saggio, in realtà, non è mai venuto meno. È presente ovunque e anche nei paesi di lingua tedesca. Certamente dopo Musil l’Austria ha prodotto almeno un grandissimo e purtroppo quasi dimenticato romanzo-saggio come La morte di Virgilio di Hermann Broch. Ma su scala europea mi vengono in mente, solo per fare qualche esempio, romanzi come La vita: istruzioni per l’uso di Perec o più recentemente Limonov e Il regno di Carrère o anche, in modo diverso, Gomorra. Esperimenti interessanti, per restare all’Austria, li sta realizzando Clemens J. Setz, che è un astro nascente del romanzo europeo. Quello che sta cambiando – ma non è una novità – è il modo in cui il romanzo organizza narrativamente le idee che ne costituiscono il sostrato germinale. Mi verrebbe da dire che oggi romanzi come quelli di Musil e Thomas Mann sarebbero impensabili, se non fosse che proprio l’ambizione dell’industria culturale tedesca a “scoprire” la Montagna magica del nuovo millennio ha prodotto una vasta mole di romanzi di idee e fra questi Kruso di Lutz Seiler è stato certamente il più celebrato.
Stringiamo il nodo per concludere. Quelli di Musil possono tollerare un confronto con le note di Mann?
Credo che non ci siano confronti possibili. I diari di Musil non sono una cronaca quotidiana, ma un grande “brogliaccio” – come quelli di Kafka del resto – in cui vita e arte non sono distinguibili fino in fondo e l’autore non appare mai spogliato della sua aura. Ma temo che un ragionamento su questo richiederebbe un’altra intervista.
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Quel vecchio manoscritto di “Onuphrio Muralto” trovato a Otranto che aprì il genere al romanzo noir. Indagine su “Il castello di Otranto” e sul suo bizzarro autore & collezionista, Sir Walpole
“Il solo difetto che hanno gli scritti eccellenti è che di solito sono la causa di molti altri scritti cattivi e mediocri”. Georg Christoph Lichtenberg (1742-1799)
Se in campo letterario questa è ritenuta una regola, dove un capolavoro si trova a inaugurare un filone di epigoni, dobbiamo dire che ha avuto la sua bella eccezione: in almeno un caso il fenomeno s’è invertito, poiché un pessimo romanzo ha dato il via a un genere letterario fortunatissimo, non ancora tramontato. Siamo nel 1764 quando Horace Walpole, terzogenito del grande statista-faccendiere inglese Robert – di cui si occupò Henry Fielding nel suo satireggiante Jonathan Wild – racconta un sogno inquietante:
“Un mattino, all’inizio dello scorso giugno, mi svegliai da un sogno di cui riuscivo soltanto a ricordare che m’era parso di trovarmi in un antico castello (sogno naturalissimo per uno spirito come il mio, pieno di storie gotiche), e che sul pianerottolo più elevato d’un grande scalone avevo vista una mano gigantesca, rivestita di un’armatura. La sera stessa sedetti a tavolino e cominciai a scrivere, senza la minima idea di ciò che intendessi dire o raccontare”.
Galeotto fu quel sogno: Walpole, in preda all’ardore creativo, iniziò subito a comporre The Castle of Otranto, il primo esempio di un nuovo genere di successo, il romanzo gotico, con le sue storie di castelli, meraviglie, spettri, anfratti, paura, vergini insidiate e persecuzioni, inquadrate in una cornice medievalesca. Di certo, la sua affermazione – di aver scritto il libro “senza la minima idea” di ciò che volesse raccontare – può essere presa alla lettera: Il castello di Otranto risulta un romanzo sgangherato e plateale, una miscellanea di suggestioni letterarie e fantasie preromantiche non meditate, che poco hanno a che fare con lo spirito artistico-letterario. Il motore era un altro: Walpole, fervido visionario che non era mai stato a Otranto, era arrivato a trasformare la sua casa nel sobborgo londinese di Strawberry Hill in una specie di maniero pseudo-medievale pieno di merlature, padiglioni, cimeli, divenendo anche il precursore della moda neogotica in architettura.
La prima edizione del romanzo era intitolata The Castle of Otranto, A Story. Translated by William Marshal, Gent. From the Original Italian of Onuphrio Muralto, Canon of the Church of St. Nicholas at Otranto. Dunque, si presentava come la traduzione di un manoscritto rinvenuto nella biblioteca di “un’antica famiglia cattolica nel nord dell’Inghilterra”: nella prefazione, il supposto traduttore non esita a informare con una certa dovizia i lettori: “ The following work was found in the library of an ancient catholic family in the north of England. It was printed at Naples, in the black letter, in the year 1529…”. Si aggiunge che la storia manoscritta in italiano deriva da un’altra storia più antica, risalente forse al periodo delle Crociate: sembra chiaro che, fiutando l’aria, Horace Walpole immagina un fittizio originale per rendere più solido lo scenario su cui proiettare le sue visioni. Il noto espediente dell’antica cronaca manoscritta, diventato un classico, ripreso dopo più di due secoli anche da Umberto Eco, che ne Il nome della rosa assembla temi copiando a destra e a manca come si fa con una tesi di laurea.
La vicenda medievale, in sostanza, racconta il compimento di una maledizione. Un antenato di Manfred, che è insediato come tiranno nella città di Otranto, aveva usurpato il titolo uccidendo il legittimo signore, Alfonso, mentre questi andava alle Crociate. Allora lo spirito di Alfonso lanciò una maledizione: quando il suo corpo sarà diventato troppo grande per essere contenuto nel castello di Otranto, il dominio della famiglia dell’usurpatore avrà fine. Il romanzo si apre con il figlio di Manfred che resta ucciso da un enorme, luttuoso elmo neropiumato che dal cielo gli piomba sulla testa, proprio nel giorno in cui il padre doveva unirlo in matrimonio con Isabella, l’ultima lontana parente di Alfonso. Corso in cortile, Manfred “Scorse suo figlio squartato e quasi sepolto sotto un enorme elmo, cento volte più grande di qualunque casco mai destinato a un essere umano, e ricoperto da una quantità altrettanto enorme di piume nere”.
Lui è Sir Horace Walpole (1717-97), toyboy della madrina letteraria di Francia Madame du Deffand
Naufragato il progetto matrimoniale, Manfred decide allora d’insidiare Isabella sposandola di persona, dopo aver divorziato dalla moglie Hippolita. Ma Isabella, per sottrarsi, fugge aiutata dall’autorevole frate Jerome e da un contadino di nome Theodore – che presto si scopre essere il figlio di Jerome. A un certo punto, ecco il colpo di scena: ritorna Frederic, il padre di Isabella, che tutti credevano morto in Terrasanta, e le cose inevitabilmente si complicano. Manfred, deciso a non rinunciare alle sue mire, cerca di aggiustare tutto dando in sposa a Frederic sua figlia Mathilda, mentre lui sposerà Isabella. Ma c’è un particolare: Mathilda e il contadino Theodore si amano. Manfred, invece, sospetta che Theodore ami Isabella e, quando lo sorprende con una ragazza che non riconosce, accecato dalla gelosia la uccide pensando che sia Isabella; ma, sciaguratamente, scopre che si tratta proprio di sua figlia Matilda. Alla fine, lo scioglimento della vicenda è teatrale: appare un gigantesco cavaliere in armatura – lo spettro di Alfonso – che fa la grande rivelazione: Theodore è suo discendente.
“In quell’istante il fragore di un tuono scosse il castello fino alle fondamenta; la terra oscillò, e da lontano giunse il clangore di un’armatura sovrumana. Frederic e Jerome credettero fosse giunto il giorno del giudizio. Trascinando Theodore, si precipitarono nel cortile. Nell’istante in cui Theodore comparve, le mura del castello alle spalle di Manfred furono abbattute da una forza possente, e la figura di Alfonso, dilatata fino a immani proporzioni, sorse in mezzo alle rovine. ‘Riconoscete in Theodore il vero erede di Alfonso!’, annunciò la visione: e pronunciate tali parole, cui fece eco il rombo di un tuono, ascese solennemente al cielo, dove le nuvole, squarciandosi, scoprirono la figura di San Nicola. Accolto lo spirito di Alfonso, entrambi vennero occultati agli occhi dei mortali da un fulgore di gloria”.
Com’è possibile, che l’erede legittimo sia Theodore, se è figlio del frate? È lo stesso Jerome che s’incarica di spiegarlo: in realtà la sua perduta moglie era figlia di Alfonso. Tutto torna, dunque. E Theodore, infine, rassegnandosi a piangere la morte dell’amata Matilda, sposa Isabella.
Il romanzo condensa nel modo più teatrale diverse tendenze e suggestioni, da molti definite preromantiche, tipiche del Settecento; ed è il primo esempio della grande corrente letteraria del gotico, che ha prodotto capolavori indiscutibili e ancora oggi solletica l’immaginario. The Castle of Otranto presenta tutti gli elementi tipici del genere: l’eroe satanico, la fanciulla perseguitata, i fantasmi, il castello misterioso e labirintico, pieno di ritratti degli antenati che, in qualche modo, influenzano il corso dei vivi. Tutte cose conservate e tramandate nel nostro immaginario, fino a oggi. Gran parte del romanzo è fatta di dialoghi, con una mescolanza di sublime, quotidiano e sovrannaturale che pesca a piene mani da Shakespeare. Ma non basta: quando Alessandro Manzoni scrive I promessi sposi, sembra avere tra i suoi riferimenti anche quello della narrativa gotica, in particolare Il castello di Otranto. La figura emblematica dell’Innominato, nella sua livida grandezza iniziale, sembra infatti uno dei discendenti letterari di Manfred:
“Il castello dell’innominato era a cavaliere a una valle angusta e uggiosa, sulla cima d’un poggio che sporge in fuori da un’aspra giogaia di monti, ed è, non si saprebbe dir bene, se congiunto ad essa o separatone, da un mucchio di massi e di dirupi, e da un andirivieni di tane e di precipizi, che si prolungano anche dalle due parti. […] Dall’alto del castellaccio, come l’aquila dal suo nido insanguinato, il selvaggio signore dominava all’intorno tutto lo spazio dove piede d’uomo potesse posarsi, e non vedeva mai nessuno al di sopra di sé, né più in alto”.
E vogliamo parlare di Fra Cristoforo? Una figura di aiutante in tutto simile a frate Jerome: anche qui i tòpoi sembrano rincorrersi, riprendersi, aggiornarsi. In letteratura forse accade come con l’energia, niente si perde, piuttosto si trasforma.
Interno di Strawberry Hill
La storia della ricezione del Castello di Otranto è eloquente.
Walter Scott, introducendo nel 1811 l’edizione Ballantyne, osserva che “Walpole, incerto su come sarebbe stata accolta un’opera tanto nuova nella sua impostazione, e non volendo forse cadere nel ridicolo se avesse sbagliato, mandò nel mondo il suo Castle of Otranto come una traduzione dall’italiano, e non sembra che per allora l’autenticità del racconto fosse sospetta”.
Certo è che pochi mesi dopo, incoraggiato da successo del romanzo, Walpole pubblica una seconda edizione – dove il sottotitolo “a story” viene fatalmente mutato in “a gothic story” – con l’aggiunta di un’epigrafe, di una nuova prefazione e di un sonetto dedicatorio all’amica Lady Mary Coke, firmato in calce con le iniziali H.W., che lo fanno subito identificare come autore del romanzo.
Scrive Walpole: “Si è trattato di un tentativo di fondere i due generi del romanzo, quello antico e quello moderno. Nel primo ogni cosa era governata dall’immaginazione e dall’inverosimiglianza: nel secondo l’intento, che a volte si trova ben realizzato, è sempre di imitare la natura. Non vi manca l’invenzione, ma le grandi risorse della fantasia sono state chiuse entro gli argini di una rigorosa aderenza alla vita comune. Ma se in quest’ultima specie la natura ha paralizzato l’immaginazione, non si è trattato che di una rivincita, poiché essa era stata totalmente esclusa dai vecchi romanzi. Le azioni, i sentimenti, le conversazioni degli eroi e delle eroine dei giorni che furono ci appaiono tanto innaturali quanto le concatenazioni che li mettevano in moto”.
David Punter definisce The Castle of Otranto: “la prima e più importante manifestazione del revival del romance sul finire del Settecento, cioè di quelle più antiche tradizioni di letteratura in prosa che erano state apparentemente soppiantate dall’avvento del romanzo” (trad. it. Storia della letteratura del terrore. Il “gotico” dal Settecento a oggi, a cura di Ottavio Fatica, Editori Riuniti, 1980). Tra paesaggi notturni e cieli tempestosi, in “un arsenale di elmi magici, quadri parlanti, giganti spettrali”, su sfondi di stregata misteriosità degni del pennello di Salvator Rosa o del “sublime sogno del Piranesi” (quest’ultima definizione, di Walpole, riassume le suggestioni del suo grand tour in Europa del 1739), i personaggi si dibattono tra surreale e quotidiano, tra irrazionale e ragionevole, in un incubo che spesso scivola in bizzarria, ostentando una gestualità concitata da palcoscenico, minando la credibilità letteraria dell’insieme.
In pratica, si tenta di fondere il Medioevo con Shakespeare e Richardson; ma come nota Mario Praz (in Una nota al romanzo), The Castle of Otranto finisce per somigliare a Strawberry Hill, la casa di campagna che lo scrittore volle trasformare in una sorta di piccolo castello irto di torri merlate e padiglioni, zeppo di armature, umboni, spade e lance da giostra: “è soltanto un rococò camuffato da gotico. Ci si sarebbe spinti ben oltre, nell’arte di evocare il terrore, al tempo di Mrs Shelley: terrore che, in Frankenstein, diverrà un vero senso d’ossessione”.
Paolo Ferrucci
Certo, fare come qui sopra la genesi di un libro vuol dire distruggerlo per ricrearlo: una volta che si è capito il gioco, che è la casa di Walpole, il suo gusto per il collezionismo enciclopedico ed esotico a dare il via alla scrittura fantastica ambientata in mondi allora lontanissimi da Strawberry Hill quali potevano essere le Puglie – resta poco da dire. Basta prendere il romanzo e leggerlo.
Oppure fare qualche altra considerazione.
Non è un caso che Francesco Orlando, il maggior esperto italiano di letteratura in chiave psicologica, abbia scritto due libri apparentemente scollegati tra loro e che in realtà sono intrecciati da un filo lunghissimo: l’inconscio.
L’inconscio che porta ad accumulare oggetti desueti è lo stesso che ci porta a spasso nella letteratura gotica partendo dai romanzi della Radcliffe.
La Radcliffe (1764-1823) viene con la generazione immediatamente dopo a Sir Walpole e si appoggia del tutto a lui. Il bello in tutta questa storia è che non è mai finita. Gli inglesi hanno varcato gli oceani, hanno spogliato templi e altari (ne parleremo presto) e su questo piedistallo di trofei hanno costruito i loro sogni letterari. Walpole è solo il primo fenomeno e forse anche il più vistoso: doveva essere un tipetto, uno che cominciava la carriera entrando nelle grazie di Madame du Deffand che perse la testa, a sessant’anni, per questo quarantenne. E dire che la signora aveva tenuto a battesimo i vari Voltaire, Diderot… eppure con questo inglesino che teneva male in mano la penna, perse ogni difesa.
Sia come sia, non perdiamo di vista il contesto in cui si costruisce la fame per la letteratura esotica, per i paradisi lontani: l’Impero inglese, che oggi è sotto attacco più che mai.
Se diamo uno sguardo alla rassegna stampa del mese, troveremo Perché l’Impero inglese da solo non può spiegare il presente di Stephen Bush su New Statesman, una riflessione molto acuta: “L’eredità degli imperi europei è così saldata con la nostra società che tentare di rimuoverne l’influenza su di noi è tanto futile quanto provare a togliere l’uovo dalla ricetta della torta, per prendere un’analogia che l’autore e scrittore del Times Sathnam Sanghera adopera in Empireland che spiega bene nel dettaglio come l’eredità dell’impero inglese è ovunque guardiate. Forse la parola più ficcante è loot, “bottino di guerra” che deriva dall’Hindi lut.”
In Inghilterra oggi sembra che non si legga più Walpole, accerchiato da teorici di ogni tipo. Per dire, c’è un libro compilativo di cui parla l’articolista, Empireland: How Imperialism Has Shaped Modern Britain di Sathnam Sanghera (Viking, 320 pp., 19 sterline) insime a un altro, più intellettualmente aggressivo perché esce dall’accademia: The New Age of Empire: How Racism and Colonialism Still Rule the World di Kehinde Andrews (Allen Lane, 288 pp., 20 sterline).
A proposito del primo libro si legge che “l’autore si basa su vaste letture più che su ricerche originali, e condivide tutto senza pretese né affettazione. Ha anche un occhio impareggiabile per il fatto che svolta (killer fact) e per la grande storia. Mi ha colpito quella di Sake Dean Mahomed che nel corso di una sola vita riuscì a diventare il primo autore indiano pubblicato in Inghilterra, il fondatore nel 1810 della prima curry house e l’uomo che avviò il primo centro massaggi loschi – anche se non nello stesso palazzo.”
Questo è il controcanto indiano di Walpole, se vogliamo. Un palazzo di piaceri per il palato e per tutti gli altri sensi nel cuore di Londra, laddove il nobilotto romanziere, Sir Horace, si rifugiava in campagna.
Andrea Bianchi
*in copertina Visione di fantasma di Goya (1801)
L'articolo Quel vecchio manoscritto di “Onuphrio Muralto” trovato a Otranto che aprì il genere al romanzo noir. Indagine su “Il castello di Otranto” e sul suo bizzarro autore & collezionista, Sir Walpole proviene da Pangea.
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“Il codice dell’anima” è un libro che vi propone di guardare la vostra vita, smettendo di narrarla, lasciate che la storia venga dopo l’immagine
Il codice dell’anima (traduzione di Adriana Bottini, Adelphi 1997) è un libro per liberarci dalla colpa e dal giudizio. Leggere Hillman è passeggiare nel bosco, passo dopo passo ci si riappropria della nostra dimensione divina dimenticata. Hillman ci restituisce a noi stessi superando tutte le teorie della colpa genitoriale, ridandoci in mano il nostro destino, Il codice dell’anima è un libro per ricordarsi della vocazione. “È possibile, invece, che la nostra vita non sia determinata tanto dalla nostra infanzia, quanto dal modo in cui abbiamo imparato a immaginarla. I guasti non ci vengono tanto dai traumi infantili, bensì – è quanto si sostiene in questo libro – dalla modalità traumatica con cui ricordiamo l’infanzia come un periodo di disastri arbitrari e provocati da cause esterne che ci hanno plasmati male”.
Hillman non si nasconde e già dal primo capitolo vi espone gli argomenti che tratterà nel corso del libro, dovete essere disposti a deporre le armi della colpa e dell’accusa, applicarvi alla lettura come fosse la prima volta che vi domandate io chi sono. Ma l’autore espone la sua teoria “a partire da una idea antica: ciascuna persona viene al mondo perché è chiamata. L’idea viene da Platone, dal mito di Er che egli pone alla fine della sua opera più nobile, la Repubblica. (…) Prima della nascita, l’anima di ciascuno di noi sceglie un’immagine o disegno che poi vivremo sulla terra, e riceve un compagno che ci guidi quassù, un daimon, che è unico e tipico nostro. Tuttavia, nel venire al mondo, dimentichiamo tutto questo e crediamo di esserci venuti vuoti. È il daimon che ricorda il contenuto della nostra immagine, gli elementi del disegno prescelto, è lui dunque il portatore del nostro destino”. Entrare nella foresta di queste pagine per ritornare alla sacra verità che porta il mito greco, una sorta di percorso iniziatico a ritroso, in questo libro le parole vi svestono, non vi coprono. Hillman ci vuole nudi e svestiti da tutte le teorie psicologiche, da tutti i moralismi e da tutti i giudizi che il tempo ha impiantato nella pelle. “La teoria della ghianda dice (e ne porterò le prove) che io e voi e chiunque altro siamo venuti al mondo con un’immagine che ci definisce”.
Hillman ci porta in dono in questo libro una serie di esempi di personaggi importanti che si sono distinti in qualche modo, parte dall’analisi dell’infanzia smontando e smitizzando le teorie della compensazione ad esempio, dove se un adulto è così conformato la colpa risiede nei genitori, nell’infanzia. Ecco perché Il codice dell’anima è un libro che ci libera dalla colpa; attraverso i racconti di queste vite straordinarie possiamo compiere mentre leggiamo, pagina dopo pagina, una sorta di autoanalisi del nostro vissuto e della nostra infanzia. Il tutto senza più colpevolizzare i nostri genitori, rendendoci più ricettivi a cogliere i segnali di quella che è stata la nostra personale chiamata, quando ad esempio abbiamo sentito la voce che ci ha spinto a scegliere quel corso di laurea piuttosto che un altro. Questo testo lo consiglio in particolare a tutti i genitori per ampliare la capacità di visione del proprio figlio, guardatelo come qualcosa di umano e allo stesso tempo affiancato da un qualcosa di divino, il sovra citato daimon. Hillman insegna a non condannare i figli a giudizi e classificazioni, insegna invece a osservare come il destino di una piccola creatura si compie, quali strade e quali modalità sceglie.
“Per cambiare il modo di vedere le cose, bisogna innamorarsi. Allora la stessa cosa sembra del tutto diversa. Al pari dell’amore, il cambio di prospettiva può avere un effetto di riscatto, di redenzione, non nel senso religioso di salvare l’anima per il paradiso, ma in senso più pragmatico. Come al banco dei pegni, ci è dato qualcosa in cambio, il nostro pegno non era privo di valore come credevamo. I fastidiosi sintomi quotidiani possono godere di una rivalutazione, è possibile reclamarne l’utilità”. Un importante richiamo al potere dell’immaginazione, il trauma dell’infanzia non sta tanto nell’azione subita ma nel come lo immaginiamo, come lo narriamo. Utilizzare la fantasia come metodo di liberazione dal dolore può essere un modo per scoprire che il nostro pegno ha un valore, l’immagine era solo nascosta da un’immagine più densa, più solida, più determinata e scura. “Prima di diventare una storia, ciascuna vita si offre alla vista come una sequela di immagini. Chiede innanzitutto di essere guardata”.
Il codice dell’anima è un libro che vi propone di guardare la vostra vita, smettendo di narrarla, lasciate che la storia venga dopo l’immagine. Guardate a voi stessi come a un quadro, come a una composizione di suoni, cercate nel vostro passato il dettaglio della chiamata nel quadro.
L’unica colpa possibile in questo testo è quella del daimon: “Ma la colpa è dell’angelo, della difficoltà del non umano che cerca di discendere nell’umano”. Il daimon ha una potenza tutta sua, ha una forza che travalica spesso le normali possibilità biologiche, come per esempio si vede nelle biografie dei musicisti dove la chiamata è visibilmente precoce. Il daimon esige di essere ascoltato e seguito, esige che l’umano si doni totalmente alla chiamata, e qui nascono i sintomi quotidiani di fastidio, quando non seguiamo quello per cui siamo chiamati a esistere, quando non ci guardiamo e non ci immaginiamo. E qui si inserisce lo strappo. “Il senso di solitudine nel cuore di un bambino può essere aggravato dalla paura del buio, dai castighi dei genitori, dal rifiuto dei compagni. La sua fonte, tuttavia, sembra essere la solitaria unicità del daimon, è una solitudine archetipica inesprimibile con il vocabolario di un bambino e a stento perfino con il nostro. (…) La solitudine presenta le emozioni dell’esilio; l’anima non è riuscita a crescere, cioè a discendere, del tutto nella vita e vorrebbe tornare a casa”. In questo libro che è un percorso Hillman ci spiega perché sentiamo la solitudine dell’esilio quando stiamo facendo qualcosa che non è “nella nostra natura”. La dimensione della vocazione è qualcosa di assoluto che permea tutta la nostra vita, che entra nei nostri organi, che fora le nostre viscere se smettiamo di ascoltarla. Il daimon pretende tutto e a tutti i costi e sceglie in anticipo dove farti nascere. Ecco che quindi viene a saltare in aria tutta la superstizione parentale dove “tu sei la causa diretta di danni irreversibili alla vita dei tuoi figli, che si potranno manifestare non soltanto come fallimento e frustrazione, ma addirittura nella delinquenza e nella follia”. La chiamata come intuizione arriva senza annunciarsi, sceglie a volte metodi obliqui, quel che avviene dopo dipende dal carattere, cioè dalla forza e dalla determinazione della nostra risposta.
“L’incontro tra amante ed essere amato avviene da cuore a cuore, come l’incontro tra scultore e modello, tra mano e pietra. È un incontro di immagini, uno scambio di immaginazioni. Quando ci innamoriamo, incominciamo a immaginare al modo romantico, veementemente, sfrenatamente, follemente, gelosamente, con intensità possessiva, paranoide. E quando immaginiamo intensamente, incominciamo a innamorarci delle immagini evocate davanti all’occhio del cuore: come quando iniziamo un progetto di lavoro, organizziamo una vacanza (…). Siamo innamorati perché c’è l’immaginazione. Liberando l’immaginazione, perfino i gemelli identici si liberano della loro identicità”. Leggete Hillman e il suo Codice dell’anima come un inno all’immaginazione, come un percorso di lettura che vi porta alla liberazione dalla colpa, ritorniamo quindi nudi alla dimensione divina del mito.
Clery Celeste
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Profeti dagli abissi. Sulla straordinaria scoperta di due frammenti biblici
Tra stella e menzogna il sortilegio etimologico segnala tracce di sangue, un disastro privo di gloria. Simone fu detto “figlio della Stella”, Bar Kokhba, secondo la nenia tramandata dal libro dei Numeri, “una stella sorge da Giacobbe, scettro sopra Israele”. Simon Bar Kokhba fu l’ennesimo Messia d’Israele: il sigillo, benedizione in verbi, concesso da Rabbi Akiva, sommo tra i Chakhamim, i sapienti. A differenza del Nazareno, il Messia che si consegna alla violenza senza violazione, fa della croce regno, tabernacolo e altare, Bar Kokhba è messia in armi, passato alla storia per l’estro violento, le pratiche di feroce disciplina (alle giovani leve del suo esercito, dice il Talmud, chiedeva di mozzarsi un dito, come prova di coraggio). La vicenda del “Figlio della Stella” comincia intorno al 130, quando l’imperatore Adriano proibisce la pratica della circoncisione e pensa di edificare, a Gerusalemme, sulle ceneri del Tempio distrutto da Tito nel 70, un tempio analogo, dedicato a Giove Capitolino. Nel 132 Bar Kokhba guida la rivolta degli ebrei contro i Romani, li vince, regna e comanda con forza (i cristiani, che non riconoscevano in lui il messia e rifiutavano la guerra, furono perseguitati), batte moneta. La risposta Romana sarà spietata: la Giudea ridotta a deserto, i soldati ebrei ricoverati in grotte, massacrati, uno per uno. Fu la fine del sogno di indipendenza di Israele, in polvere l’utopia messianica; i capi religiosi che incitavano alla rivolta furono trucidati; di Bar Kokhba, nel 135, non restò che la testa, spiccata e donata all’Imperatore da un samaritano. Ad Adriano, che malsopportava entusiasti e fanatici, fece orrore il tradimento, come quel cranio, tra le cui orbite cave, dice la leggenda, frusciava un serpente. Da allora, Bar Kokhba fu tradotto in Bar Koziba, “Figlio della Menzogna”. Tra stella e menzogna la differenza sciama nel sangue.
Mendicare un senso tra frammenti riscoperti dagli abissi
Nel deserto di Giudea, tra i covi e le grotte dove il popolo di Israele ha trovato scabro rifugio dall’assalto romano, gli archeologi della Israel Antiquities Authority, hanno trovato vestigia legate alla rivolta di Bar Kokhba, un certo numero di monete e brandelli di lettera. I manufatti storicamente più rilevanti, però, intorno alle grotte, sono lo scheletro mummificato di una bimba, vissuta seimila anni fa, e un canestro, che pare risalga a 10mila anni fa. Gli archeologi si sono dovuti inoltrare ottanta metri sottoterra per trovare il reperto più importante: frantumi di rotoli biblici di duemila anni fa, trasportati lì come preziosi. Quei frammenti sono leccornia per i biblisti, al di là di Israele, dove l’archeologia biblica è sempre ‘politica’. In effetti, i testi in greco dei due profeti minori – Zaccaria e Nahum – censiscono una traduzione leggermente diversa da quella dei Settanta, raccontano l’epoca, fiammeggiante, in cui il ‘canone’ biblico era mobile, multiforme (“Soltanto fra l’80 e il 100 i dottori giudei di obbedienza farisaica, riuniti a Iamnia eliminarono le incertezze esistenti a proposito della lista ufficiale delle Scritture”: come a dire che dopo la distruzione del Tempio, è la Bibbia il solo e autentico Tempio). Ma i refoli della Storia pertengono agli studiosi e ai settari; chi sta nella verità, nei meandri di quel canto, abita altri piani.
Più che altro, è il segno a sorprendere: il testo si intona tra le grotte, a metri di profondità, impegnando una rivolta o una resurrezione, mentre impera la guerra. Si è sospesi nel rischio, in una dirompente oscurità. Diversa è la parola se pronunciata in favore del fuoco, a contatto di pietra. Ogni testo, d’altronde, è scritto per frantumarsi, perché altri, secoli più tardi, lo ricompongano.
Proprio così: la Bibbia – che, al di là del contenuto, è l’idea stessa del ‘libro’, cioè del mondo ripiegato in un libro, cioè del mondo continuamente creato ogni volta che si apre il libro, che ci s’inoltra nel canto – si abita, come una casa, perché tende a sfondarsi, a crollare, a ridursi in polvere. Questo è il destino del testo che pende verso Dio: essere incomprensibile, incompreso.
Ogni scoperta biblica – questa dicono sia la più importante dai tempi dei rotoli del Mar Morto – ha con sé l’eccesso dell’attesa. A chi è fuori dall’orbita liturgica, ogni ritrovamento pare una rivelazione, la parola che squarcia i mondi: alcuni suoni sono davvero intrisi di magia. Vorremmo il testo che sconfessa ogni edificio, ogni legge, che ci vendichi, forse, di remote ruberie. Nahum è il cantore della caduta di Ninive: il suo testo profetico comincia ragionando sugli epiteti terribili di Dio, “geloso e vendicatore”; dalle grotte sono apparsi questi versetti, in greco: “Davanti a Lui tremano i monti/ si scrollano i colli./ La terra si eleva davanti a Lui/ Il mondo e ciò che contiene./ Chi può sopportare la sua rabbia?/ Chi può resistere all’ardore dell’ira?/ La sua rabbia è fuoco che scroscia/ al suo passaggio si inceneriscono le rocce” (1, 5-6). Di Zaccaria, invece, si sono scoperti questi versetti: “Ecco quello che dovete fare: ditevi il vero, pronunciate giudizi veritieri e autentici alle porte. Non tramate il male tra voi, non adorate lo spergiuro, perché odio queste cose – oracolo del Potente”. Forse non è un caso che alla luce siano sorti questi frammenti – inducono a ragionare sull’ira di Dio, sulle trame dei traditori e dei giudici, sulla parola che sconfina nel fuoco, sulla verità relativa, mortale, come ambasciata di quella divina, sul rapporto tra Dio e il mondo. Benché siano tradotti in greco, i frammenti riportano il nome di Dio in paleo-ebraico, perché quello è il diamante indicibile che consente il testo, vortice di ipotesi, di audacie grammaticali in sabbia, menhir e zenit, che la traduzione non può dissigillare.
Nella Guida dei perplessi Mosè Maimonide scrive che le “due facoltà” che contraddistinguono i profeti sono “il coraggio e la divinazione”, e rintraccia undici gradi della profezia. Il primo grado riguarda l’azione: “un individuo riceve un aiuto divino che lo muove ad un’azione giusta, grande e di valore, come la salvezza di un gruppo di virtuosi da un gruppo di malvagi”. Della Bibbia, spesso, prendiamo la storia pia, per pasturare una morale, dimenticandoci della sua natura mendicante, della profezia che allucina il testo, lo uncina all’urlo e al nomadismo. Alla profezia, che sospende il tempo e ci accerchia in un aut aut, preferiamo la certezza delle statistiche, la quiete inerme della sicurezza imposta. Eppure, una parola viene dagli abissi, chiede di essere concretizzata, al di là della logica, e sbenda un grido tra le coerenze.
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Commissari, preti e carabinieri in tv… e quell’Italia che non esiste
Commissari e carabinieri, commissarie e “carabiniere” (o carabinieresse? Chiederò alla Boldrini!), magistrati e magistrate, preti e suore… Mancano all’appello solo, da quel che so, le fiction sulla guardia di finanza, la protezione civile e le piccole sorelle dell’esercito di Gesù, e poi il quadro telenarrativo sull’argomento “eroi in divisa, toga e tonaca” potrebbe considerarsi quasi completo. Nella tv italiana c’è un gran pullulare di racconti televisivi dedicati a figure sociali familiari, a simboli istituzionali immarcescibili che in fin dei conti ci fanno stare bene e ci ricordano la nostra stessa vita: durante le processioni del santo patrono in prima fila ci sono il prete, il sindaco e i carabinieri; e poi viene il popolo. Lo stesso accade in tv.
Ma tutti questi personaggi televisivi oscillanti tra il “sacro” e il laico hanno un’importante caratteristica che li accomuna: agiscono in un’Italia che non esiste. Loro stessi non esistono, sono quasi impersonali nel loro essere al di sopra del reale; rappresentano spesso l’Italia che vorremmo. Non è un fatto nuovo: anche i personaggi di Giovannino Guareschi agivano, se le davano e si agitavano in un’Italia abbastanza irreale e perfettamente divisa in due blocchi, quello cattolico e quello comunista; sappiamo però che la realtà era molto più complessa e variegata, tragica e poco romantica. I personaggi di questi encomiabili e a volte gradevoli prodotti televisivi nostrani appartengono a un’Italia ideale e idealizzata, o forse sarebbe più corretto dire stilizzata, asciutta, semplificata per ragioni non solo di sceneggiatura (anche se in alcuni casi sarebbe più corretto parlare di scemeggiatura, dal momento che certe stilizzazioni rasentano l’offesa intellettiva dello spettatore). C’è come un bisogno, da parte di registi e produttori, di assicurare al pubblico un prodotto predigerito, di trasporre in maniera teatrale – ma su scenari non teatrali bensì realistici – una narrazione nata già semplificata dalla penna degli autori: la semplificazione della semplificazione. È chiaro che il risultato finale non può che essere un prodotto lineare, pulito, pur nella complessità delle trame e delle indagini che quelle tentano di raccontare alla voracissima casalinga di Voghera che attende le sue fiction in prima serata come un premio di fine giornata.
Fiction che di fatto hanno sdoganato (o stanno continuando a sdoganare) la provincia italiana, anzi la provincia è diventata il centro della nazione (ma solo in televisione perché politicamente e amministrativamente la provincia è da sempre abbandonata a sé stessa); in uno scenario tranquillo, quasi candido, naturale, silenzioso, scarnificato, in solitari borghi invidiabili, dove è facile ritrovare una dimensione umana ormai persa e un dialogo con l’altro (collega o criminale che sia), la provincia ritorna a essere il centro del paese e delle passioni umane, dei più inconfessabili traffici interiori dell’umanità. Il significato più intimo dell’esistenza umana passa dalla provincia, e noi che insistevamo a cercare la movida e la confusione, il senso stesso del nostro essere sociali tra un mojito e un papeete, in luoghi scontati e quindi inflazionati. Peccato, però, che quella provincia non esista, che sia solo il frutto di un processo di idealizzazione che passando, quasi sempre, dalla narrativa alla sceneggiatura televisiva, arrivi a un telespettatore bisognoso di scenari ancestrali, di schemi esistenziali primordiali, ridotti a componenti primari del quotidiano, di un mondo suddiviso con semplicità tra pochi personaggi, lontani dal bailamme sociale della realtà. Ci attacchiamo alla vita dei protagonisti ma in realtà cerchiamo l’originalità perduta della nostra esistenza, i suoi quattro elementi. Ad andare in scena, nel corso di queste fiction, non sono le persone, anche se vediamo e in seguito ricordiamo i volti dei nostri attori preferiti che diventano “di famiglia”, bensì gli archetipi da loro personificati, le strutture valoriali, la saggezza istintiva che non possediamo, le leggi universali che muovono il mondo, soprattutto quello provinciale che diventa così il primum movens della nostra società, addirittura della nostra etica, anche se c’hanno fatto sempre credere che è la città il centro di tutto ciò che conta veramente, il luogo dove tutto accade, il cuore delle idee e vortice dei fatti. Un mondo destrutturato, controllabile e controllato, e di conseguenza adattabile, più della realtà, alle esigenze della narrazione. È un mondo che risponde pienamente all’appello di una piuttosto recente moda glocal – esacerbata da una ricerca post-pandemica e virologicamente sessantottina del “piccolo centro” da cui dedicarsi a un fortunatissimo (e quindi per pochi) smart working – che valorizza la piccola dimensione, l’intimità sociale, ed eleva all’ennesima potenza il “colorito locale” rendendolo universale, innaturalmente universale.
La “fiction provinciale” è diventata, direbbe forse Orhan Pamuk, il “museo dell’innocenza” dell’italiano medio: oggetti ripescati da epoche idealizzate e che istillano nel telespettatore una naturale nostalgia per una personale epoca d’oro (o è d’oro solo perché è passata?), i piatti della tradizione gastronomica locale, i luoghi del cuore (il dove preciso non è importante perché è un dove mentale, un “dove qualunquista” in cui ognuno di noi si può ritrovare), la comicità dei dialoghi familiari, il buonismo e il politically correct per non offendere la sensibilità in prima serata (salvo poi guardarsi in seconda o terza serata i pornazzi in rete), gli scorci ancora naturali in un’Italia assediata dal cemento e deturpata dal dissesto idrogeologico, il simpatico dialetto che raggiunge proprio tutti nell’intimità del tinello domestico, il bisogno di una giustizia di quartiere in un paese incapace di fare politicamente una seria riforma della giustizia, i rapporti genuini con tipologie antropologiche in via d’estinzione (la vecchietta che fa il pane o la ricotta nella propria cucina…). Il commissario che interagisce con l’ortolano e che fa tanto quotidianità, rasserenando gli animi di chi si immerge nella visione di questi prodotti; la commissaria “bona” con lo stendino per i piatti in pieno salotto; le avventure di preti-detective e suore incasinate che sembrano essere uno spot eterno all’8 per mille alla Chiesa cattolica.
D’altronde il termine “fiction” deriva da finzione, e noi appunto fingiamo di non saperlo, perché ci piace così, perché abbiamo bisogno di questa catarsi collettiva trasposta dal teatro al tubo catodico, perché è così che vogliamo farci raccontare le nuove storie dell’era moderna e contemporanea.
Michele Nigro
*In copertina: una illustrazione di Ferenc Pinter
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