#intrecci narrativi
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pier-carlo-universe · 27 days ago
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“Mistral” di Riccardo Bruni: un noir avvolgente tra segreti, scomparse e intrighi sulla costa toscana. Recensione di Alessandria today
L'indagine di Dante Baldini si infittisce in un giallo che esplora il lato oscuro della Riviera.
L’indagine di Dante Baldini si infittisce in un giallo che esplora il lato oscuro della Riviera. Un ritorno atteso: Dante Baldini sulle tracce di verità nascoste In “Mistral”, Riccardo Bruni ci regala un altro capitolo avvincente con protagonista Dante Baldini, l’investigatore privato già amato dai lettori per la sua abilità di scavare nelle pieghe più oscure della provincia italiana.…
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marichatlenoir · 4 years ago
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Prospettive
Miraculous di Thomas Astruc è un'opera che propone tanti livelli di lettura. Nonostante i limiti richiesti da una struttura episodica, la storia offre numerosi suggerimenti culturali, narrativi e psicologici, che sono enfatizzati attraverso precise scelte registiche e musicali.
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Lo scrigno dei Miraculous.
L'opera è ambientata a Parigi, presentata in tutta la sua bellezza grazie alla ricostruzione estremamente fedele di luoghi, monumenti ed opere d'arte. La storia si ispira alle leggende e alle tradizioni della cultura cinese, ma rende omaggio anche alle culture di tutto il mondo.
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La cattedrale di Notre-Dame.
La trama si snoda grazie al gioco delle prospettive dei singoli personaggi riuscendo ad appassionare un pubblico estremamente eterogeneo per età e formazione culturale. La fruizione dell'opera dipende dagli occhi con cui la si osserva, a prescindere dall'età anagrafica o emotiva.
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Ladybug e Chat Noir osservano la città dall'alto.
I bambini possono godersi una fiaba di magia, appassionandosi alla narrazione imprevedibile e imparando il messaggio di ogni episodio attraverso ciò che imparano i due protagonisti, una supereroina e un supereroe che combattono sempre insieme per salvare le vittime dai cattivi.
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Gli eroi portano a termine la missione.
Nonostante i bambini costituiscano il pubblico di riferimento dichiarato, l'opera contiene elementi concepiti per essere indirizzati ad un pubblico adolescenziale o adulto, e tematiche che vengono presentate con sottile ambiguità narrativa per attrarre altre fasce di spettatori.
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La seduzione del sentimostro manovrato da Mayura.
Gli adolescenti sono attratti soprattutto dalle vicende sentimentali dei due protagonisti nella vita di tutti i giorni, si concentrano sul dramma amoroso, vero o presunto, talvolta senza nemmeno capirlo fino in fondo, proiettando su di esso le proprie esperienze e aspettative.
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La tristezza di Adrien quando Marinette nega i suoi sentimenti per lui.
In una continua altalena di emozioni più o meno fugaci, immaginano la rivelazione delle identità come se la rimozione delle maschere fosse l'inizio della storia d'amore e non il coronamento del percorso emotivo di riconoscimento reciproco del mistero che unisce i protagonisti.
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La fiducia e l'attesa.
In altri casi confondono la forma con la sostanza, gli ostacoli con ciò che i protagonisti imparano dal superamento degli ostacoli, oppure si concentrano sulle vicende collaterali apparentemente più appaganti, sostituendole al cuore della storia, dimenticandone il filo rosso.
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Il mondo senza Chat Noir.
Gli spettatori adulti non possono che restare affascinati nell'individuare gli innumerevoli sottotesti, le sfumature, i giochi di prospettive, le metafore che sono utilizzati per rappresentare tematiche estremamente complesse in modo che siano comprensibili persino ai bambini.
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L'assenza.
È possibile riconoscere le strutture narrative tipiche delle fiabe di magia, come delineate da Propp ne La morfologia della fiaba, nonostante siano sapientemente camuffate agli occhi degli spettatori attraverso continui rimandi che coinvolgono funzioni e ruoli dei personaggi.
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La rivisitazione della fiaba di magia.
La prospettiva diventa la chiave essenziale per comprendere le differenze dei ruoli dei singoli personaggi, senza lasciarsi ingannare dalle apparenze e senza bloccarsi alla loro rappresentazione superficiale, spesso rafforzata da una consapevole e ricercata ambiguità narrativa.
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L'inganno delle apparenze.
La struttura narrativa appare frammentaria ma nasconde un sottile e complesso gioco di specchi, che restituisce sovrapposizioni e sostituzioni di ruoli, rimandi e confronti, creando una serie di intrecci da interpretare attraverso una visione trasversale di eventi e personaggi.
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Il trionfo delle apparenze.
È rischioso proiettare la storia e le motivazioni psicologiche di un personaggio su un altro a cui non appartengono. Anche quando i ruoli appaiono sovrapponibili, i personaggi non diventano intercambiabili, non ricoprono le stesse funzioni, né hanno la stessa profondità emotiva.
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La riscrittura degli eventi.
Talvolta può verificarsi un cortocircuito tra ciò che gli autori intendono rappresentare e ciò che il pubblico riesce a recepire. Quando si cade nella trappola della sostituzione dei ruoli, i protagonisti vengono derubati della loro storia personale e sostituiti da impostori.
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L'identità rubata.
Un importante aspetto della storia è rappresentato dalla psicologia dei personaggi, che viene approfondita non soltanto attraverso il delicato equilibrio delle loro relazioni, ma anche grazie alla simbologia delle maschere e dei poteri magici che ciascun personaggio controlla.
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La magia delle maschere.
Il rapporto tra Marinette e Adrien, nelle loro varie identità, costituisce il cuore pulsante della storia, anche quando lo spettatore è indotto a dimenticarlo a causa di una narrazione che si sofferma soltanto sugli elementi negativi e sugli ostacoli, bloccandone l'evoluzione.
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L'abbraccio prima della separazione.
Nella loro relazione si possono rintracciare il conflitto dell'identità come senso del Sé, la scoperta dell'identità dell'altro come scoperta della sua essenza più intima, la conoscenza reciproca che si apprende dalla condivisione all'interno di un rapporto di coppia esclusivo.
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La musica del cuore.
La maschera è la metafora della ricerca della propria identità e della crescita del personaggio. Marinette e Adrien non possono riconoscersi oltre la maschera perché devono imparare a conoscere se stessi e ammettere i segreti del proprio cuore prima di poterli svelare all'altro.
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L'amore oltre le maschere.
Oltre alle complessità psicologiche dei singoli personaggi, vengono delineati i tratti di diversi tipi di famiglie disfunzionali, nella rappresentazione dei rapporti che genitori estremamente problematici come Gabriel, Audrey, Anarka e Tomoe, instaurano con i rispettivi figli.
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Il trionfo dell'odio.
Negli aspetti psicologici dello stato di akuma (悪魔, demone) vengono rappresentate le pulsioni senza freni o inibizioni del lato oscuro di un essere umano. Oltrepassando la linea sottile tra bene e male, l'akumizzato subisce una metamorfosi accettando il patto con Papillon.
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Il patto con Papillon.
La condizione psicologica dell'amok trae origine da un desiderio profondo non appagato o da un'intensa emozione di disperazione o furia. Si genera così una creatura magica, un sentimostro, che è l'allegoria di un disturbo dissociativo della personalità percepita come esterna.
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La creazione del sentimostro.
Gli stati alterati di coscienza sono risolti grazie all'aiuto di Ladybug e Chat Noir. Il ritorno alla normalità rappresenta spesso il superamento della problematica psicologica che ha generato l'akumizzazione, ma talvolta gli errori commessi lasciano conseguenze irreversibili.
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Papillon scopre le identità segrete degli eroi.
L'opera risulta complessa e sfaccettata, offre numerosi spunti di riflessione ed infinite possibilità narrative, che rappresentano il suo punto di forza ma che, allo stesso tempo, rischiano di rivelare criticità e vulnerabilità quando si abusa dell'effetto sorpresa.
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Il mondo senza amore è un mondo senza magia.
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bored-dandy · 4 years ago
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youtube
Leggere Borges non è facile, richiede la follia di perdersi tra mille intrecci narrativi, spaziali, mentali..
E come diceva William James
“Il mondo delle cose reali galleggia su un più ampio mare di possibilità, da cui esse furono estratte. E in qualche luogo, dice l’indeterminismo, esse esistono, e costituiscono parte della verità”
E Borges da uno sguardo su questo mare con un tocco d’arte incredibile.
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gooblegobbleblog · 5 years ago
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Sei ancora in grado di scrivere?
Questa domanda esplode nella mia mente con il fragore di un colpo di fucile alle 21:03 di giovedì 1° Agosto 2019. Arriva senza preavviso. O almeno, senza un preavviso a livello conscio. Deve essere qualcosa di latente, che lavora in background come un'applicazione troppo invasiva che giorno dopo giorno ti intasa il device fino a mandarlo in crash.
Interessante il fatto che questa domanda abbia fatto irruzione nel mio cervello proprio mentre stavo inviando un'email di lavoro e controllando le schede di alcuni clienti che ci hanno scritto di recente. Interessante che abbia spezzato la routine della mia vita, della mia carriera, sbattendomi per l'ennesima volta davanti agli occhi l'immagine di chi penso di essere veramente. O l'immagine di chi ho giurato di diventare. Gigabyte su gigabyte di appunti, bozze, trame, schede dei personaggi, intrecci narrativi, linee temporali, dialoghi da inserire chissà dove, spezzoni di racconti scritti tre, quattro, cinque volte, solo per capire con quale voce narrante la storia risultava più avvincente. Romanzi, sceneggiature, testi di stand up.
Il tatuaggio della macchina da scrivere sulla spalla destra. Il verso "Nevermore" di Poe impresso sul foglio disegnato sulla mia pelle.
Una notifica audio mi distoglie dai miei pensieri, come la sveglia che ogni mattina alle 6.30 mi distoglie dai miei sogni e dal mio riposo. Che poi non ho mai capito se sono la stessa cosa. La notifica audio avvertiva una email in entrata. La società di consulenza che segue la contabilità dell'azienda ha inviato le buste paga. Apro l'allegato. Gross salary, net pay, commissions, adjustment e dio solo sa cos’altro. L'insieme di sovrastrutture e convenzioni che fanno da museruola al mastino napoletano nascosto nella mia biro.
E quella domanda, più lontana e più debole di prima: Sei ancora in grado di scrivere?
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bibliotechementali · 5 years ago
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Consigli di lettura (nerd) autunnali
L’autunno è quella parentesi temporale fra la spensieratezza della primavera e la malinconia dell’inverno, in cui veniamo presi per mano e accompagnati, su una via di foglie secche, verso il periodo più freddo dell’anno (e anche l’inizio del mio raffreddore che inevitabilmente si abbatterà su di me fino alle prossime luci estive). In questi mesi mi sono occupato di scrivere la tesi per la magistrale, incentrata su Adorno e la sua visione musicale/artistica, dunque le letture che mi hanno più o meno piacevolmente accompagnato sono tutti trattati filosofici e non a tema musica jazz, pop e rock, alcuni più generici e semplici, altri comprensibili solo da specialisti del settore. E visto che quando devo scrivere o studiare non sono particolarmente incline a buttarmi in grandi testi, mi sono dato per lo più alla lettura di fumetti, manga e letture più leggere:
* Beastars- Paru Itagaki: Zootropolis in chiave scolastica/slice of life, racconta il mondo della pubertà e dei primi istinti sessuali in chiave animale, dove l’amore fra un grosso carnivoro e una coniglietta rischierà di trasformarsi a più riprese in una vera e propria caccia per il sangue del compagno. Veramente consigliato sia per le tematiche, sia per il particolarissimo stile di disegno, minimale e sporco.
* Mercedes- Daniel Cuello: comprato al Lucca Comics, una piacevole sorpresa. La storia racconta della fuga da se stessi e da una vita di sbagli, dal prezzo delle proprie azioni e dalla consapevolezza. I volti stilizzati ei protagonisti e le cornici delle tavole che sconfinano oltre i bordi danno un tocco come familiare al tutto, e la narrazione procede spedita e senza intoppi, non annoiando mai. Sicuramente recupererò altro di Cuello.
* Monster - Naoki Urasawa: coniderato il manga capolavoro di Urasawa e probabilmente uno dei migliori seinen di sempre, non ha bisogno di presentazioni. Sono arrivato solo a metà ma gli intrecci narrativi sono già così tanti e al contempo omogenei che, nonostante la lunghezza della storia, rendono la lettura piacevolmente scorrevole, ponendo continui interrogativi al lettore.
* Il signore delle mosche - William Golding e Lo straniero - Camus: entrambi romanzi che non hanno bisogno di presentazioni, veri classici che vi aiuteranno a calarvi nel nichilismo più totale.
Un ultimo messaggio per chi è arrivato fin qui: Tumblr fa schifo, e raggiungere nuove persone sembra impossibile a meno che non si spammi in modo costante il proprio blog, metodo che mi pare non creare veri legami di interessamento fra chi posta. Spero che questo sfogo sia solo il rigurgito di un periodo non proprio bello della mia vita: essere confinati nel proprio piccolo paese dà come un senso di morsa, complice anche la mancanza di obiettivi a lungo termine, come l’università ormai conclusa, la tesi ormai scritta ma che continua a mettermi ansia, il corso per l’insegnamento che mi è stato precluso e mi farà attendere per chissà ancora quanti anni e la pressione di doversi presto trovare un lavoro per mantenersi e andarsene dalla casa dei genitori. Gli amici sono distanti, ma fortunatamente ne ho di vicini e gli impegni a teatro sono triplicati, quindi alla fine me la caverò, come sempre alla fine. Ma Tumblr fa comunque schifo.
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carocinematv · 6 years ago
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Dolor y Gloria
Carissimo è l'artista capace di amare la propria arte con la stessa intensità dopo tanti anni. È sinonimo di un amore sincero, profondo, in grado di rigenerarsi nel tempo ed è quanto accaduto a te, Pedro Almodovar, nei confronti della settima arte. Con Dolor y Gloria ha piegato le esigenze dell'industry alla poesia del linguaggio cinematografico. Una dichiarazione d'amore tormentata, un percorso di vita vissuto attraverso la straordinaria interpretazione di Antonio Banderas. Nel giorno della presentazione al Festival di Cannes, il film è stato proiettato anche nelle sale italiane. 
Semmai questa lettera ti giungesse sul serio non oserei essere così informale, ma qui – oggi – mi permetto di parlarti con la stessa limpidezza con cui hai raccontato la tua storia. Lo so, non è una dichiarata autobiografia, nei panni del regista Salvador Mello, ci hai permesso di entrare nei tuoi dolori e nella tua vita, sino alla rinascita ed alla spinta ritrovata.
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Gli intrecci narrativi sono sentimentalismi cinematografici, non perdi il tocco drammatico, eppure ti rigeneri in una storia in cui mostri come superare il dolore. Quello fisico, mentale, emotivo. Il dolore di un uomo che in pochi anni ha perso la madre, la salute e non trova la ragione per ricominciare a vivere. Salvador sopravvive, si trascina solitario in casa in compagnia dei suoi quadri e dei suoi libri. Scrive pensieri con l'unica intenzione di smettere di pensarli, rivive nel ricordo di qualcosa che è stato, come se la sua vita e la sua carriera fossero giunte al termine. Pittura, teatro, canto, la scultura dei corpi, la musica cantata da una Mina con cui omaggi l'Italia. Da maestro del cinema, ci hai permesso di osservare con i tuoi occhi la soleggiata Spagna, dai colori caldi e la luce intensa, esalti l'arte e scovi nei movimenti delle figure astratte una traccia emotiva. Il film si struttura in modo armonico e svela con naturalezza il gioco meta-cinematografico dopo quasi due ore di narrazione. Sincero e senza filtri, dalla sceneggiatura alla fotografia, Dolor y Gloria rispetta ogni figura presente sullo schermo ed ogni emozione, entrando in punta di piedi nella sensibilità dello spettatore. A sorprendere, oltre alla prestanza del protagonista, anche il monologo interpretato sullo schermo da Asier Etxeandìa, che nel film veste i panni dell'attore con cui Salvador aveva girato “Sabor”, il film che lo portò al successo. 
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Teneramente intimi sono i ricordi di cui Penélope Cruz ne interpreta la madre accanto ai meravigliosi piccoli Salvador, che rispecchiano l'ingenuità ed il dono insiti nell'artista che è destinato a diventare. Attraverso le pietre miliari della tua esistenza, hai riscoperto “El Primer Desio” per il cinema e per la vita. È imprevedibile il modo con cui le tasselle del tempo riescono a incastrarsi ed affascinare sempre, allo stesso modo hai intrecciato i fili di un racconto straordinario ed emozionale.
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cinquecolonnemagazine · 2 years ago
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Rome International Documentary Festival, attesa per il via ufficiale
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Sono state selezionate le dieci opere documentarie, tutte realizzate nel biennio 2021-22, che concorreranno al Rome International Documentary Festival (RIDF), in programma dal 24 al 30 settembre al Cinema delle Provincie, a Roma. La manifestazione, alla sua prima edizione, si propone di festeggiare il cinema documentario e fornire occasioni di ispirazione e crescita per tutti coloro che amano questo genere cinematografico. Un evento unico nella Capitale, che prevede una serie di proiezioni, incontri e masterclass, e che, rivolto principalmente al grande pubblico, funge da volano per produzioni e diffusioni future. Rome International Documentary Festival, i film italiani in competizione Saranno cinque i film italiani in competizione: Erasmus in Gaza di Chiara Avesani e Matteo Delbò; Kristos, l'ultimo bambino di Giulia Amati; La dernière séance di Gianluca Matarrese; Dear Mama di Alice Tomassini e Oltre le rive di Riccardo De Cal. L'altra metà dei prescelti si dipana invece su un articolato panorama internazionale: Charm Circle di Nira Burstein (USA); Once upon a time in Uganda di Cathryne Czubek (USA/Uganda); Les enfants terribles di Ahmet Cupur (Turchia/Francia); Ultraviolette et le gang des cracheuses de sang di Robin Hunzinger (Francia) e After a revolution di Giovanni Buccomino (UK/Libia) Una scelta accuratamente ragionata dal comitato di selezione del festival, composto da Maud Corino, Sabrina Varani e Giacomo Ravesi, insieme a Leonardo Magnante, Arianna Vergari Arianna Calogero, Souhelia Soula, Francesco D'Asero, e ai due direttori artistici, Emma Rossi Landi e Christian Carmosino Mereu, che così commentano: "La prima edizione del RIDF parla di relazioni. Nella ricerca di quei dieci film che rappresentassero la nostra idea di documentario, che fossero creativi, cinematografici e narrativi, il tema delle relazioni si è imposto in modo centrale. Sono le relazioni che ci sono mancate nei due anni di pandemia. Sono le relazioni che scolpiscono e scandiscono il tempo delle nostre esistenze. Temi del festival 2022 È il bisogno dell’altro, che ci contraddistingue come specie, che negli intrecci che creiamo determina il significato e la qualità della nostra presenza sulla terra. Raccontare le relazioni è di solito una sfida per il documentarista. Seguendo la vita vera, ci vuole tempo, spazio, fiducia perché le relazioni umane e le emozioni che scatenano riescano a fluire naturalmente davanti ad una camera. Che sia esso ambientato in guerra, o in situazioni sociali estreme, o che si svolga nel buio di una camera da letto, quello che a nostro avviso contraddistingue un buon film documentario è proprio questo: che la visione ci faccia emozionare, che ci permetta di vivere nei panni di qualcuno che ha un sentire lontano dal nostro. Un buon film documentario secondo noi esprime una poetica, un punto di vista, una visione del mondo e arriva a raccontare le persone e le loro storie dall’interno.” I dieci lungometraggi, ognuno a modo proprio, parlano di famiglia, di coppia, di amicizia, di sesso, di solitudine. Un focus improntato sulle relazioni e i loro sgretolamenti, le moltiplicazioni, le frammentazioni, sui legami che si riversano sul territorio, che rispecchiano la Storia e la società, su amori impossibili, tensioni e connessioni tra fratelli, genitori e figli, vite plasmate dalla mancanza dell’altro. Dieci racconti intensi che delineano un affresco multicolore di cosa significhi essere umani. Read the full article
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oubliettemagazine · 3 years ago
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Cinema: le pellicole più note con la roulette protagonista
Cinema: le pellicole più note con la roulette protagonista
Se molti di noi sanno riconoscere un casinò e carpire le dinamiche che girano intorno al tavolo verde è anche merito del cinema. Il colpo – Analisi di una rapina Molti film hanno descritto infatti la realtà delle sale da gioco anche solo parzialmente, ritenendole gli sfondi ideali accanto ai quali sviluppare degli intrecci narrativi. Di conseguenza il pubblico ha avuto modo di apprendere…
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universalmovies · 4 years ago
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Il cast di Dark riassume gli eventi delle prime due stagioni
Il cast di #Dark riassume gli eventi delle prime due stagioni
Dark si è dimostrata senza dubbio una delle serie più interessanti degli ultimi anni, ma è giusto sottolineare che non si tratta di un prodotto per tutti.
Tra realtà parallele, viaggi nel tempo e intrecci narrativi duri da comprendere, Dark sembra aver raccolto una sorta di primato. Un numero sempre più alto di fan e addetti ai lavori, infatti, continua ad esternare perplessità sulla…
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egservizieditoriali · 5 years ago
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Dalla brillante penna 🖋 di Arthur Conan Doyle, genio del giallo e medico di professione (come il suo John Watson), nascono casi enigmatici che solo il più famoso detective 🔍 della letteratura può risolvere: Sherlock Holmes! C'è tanto da imparare dalle sue descrizioni, dai suoi intrecci, dai suoi schemi narrativi 💻 http://egservizieditoriali.com 📨 [email protected] • • • • #egservizieditoriali #servizieditoriali #libro #libri #book #books #bookstagram #instalibri #leggere #scrivere #scrittura #strumentidiscrittura #lezionidiscrittura #arthurconandoyle #sherlockholmes #johnwatson # enigma #detective #generegiallo #letteratura #leggere #scriveresempre #scriverebene https://www.instagram.com/p/CAfc63QKPhw/?igshid=aiigujm7ui2a
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pier-carlo-universe · 1 month ago
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Era una Geniale Canaglia: Il Thriller Giudiziario di Luigi Manglaviti che Sfida le Regole del Genere. Recensione di Alessandria today
Un racconto corale che mescola giallo psicologico, sociologia e intrighi giudiziari
Un racconto corale che mescola giallo psicologico, sociologia e intrighi giudiziari Con “Era una Geniale Canaglia”, Luigi Manglaviti ci propone un romanzo unico nel suo genere, che intreccia thriller, sociologia e una narrazione avanguardistica. La storia, disponibile in formato Kindle, si articola attraverso un caleidoscopio di voci, testimonianze e punti di vista che trascinano il lettore in…
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scritturadelse · 5 years ago
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C'è stato un breve periodo nel quale ho bevuto per dimenticare. Ogni giorno era una sfida alla lucidità, all'annullamento totale del circolo dei pensieri. Era come un atto meditativo ma con svariate e forti controindicazioni.
E. Si è sentito benissimo, devo dire. non so nemmeno se ha senso che scriva in terza persona di me, se iniziassi a inserire altri personaggi all'interno di questa trama sconclusionata. Eppure nel racconto l'esercizio a pensare altri fuori dal mio piccolo intreccio potrebbe avere un senso terapeutico.
Mi chiedo, cosa c'è di meglio per una persona incapace di empatia che sforzarsi nel descrivere la vita altrui, cercando di immedesimarsi negli intrecci delle esistenze e nei mille rivoli del carattere di qualcun'altro?
Altro timore: tutto questo non fa altro che nutrire quella stessa incapacità di immedesimazione? Tutto questo non rafforza quel circolo vizioso, non accresce il difetto fino a farlo diventare regola, tentando con artifizi narrativi a giustificarlo?
Ecco, bere mi permise di uscire fuori proprio dalle giravolte di questi pensieri. Sinceramente non so come uscirne e non capisco veramente quale sia il miglior modo per aggirare il problema. Sono totalmente incapace di chiedere aiuto.
Tutto questo è possibile solo andando a ritroso, nei ritagli infiniti di tempo dove l'ozio gioca sul labile confine della patologia.
Ebbene, il periodo che potrei definire di puro alcolismo avvenne senza averci nemmeno pensato, in maniera del tutto spontanea. Iniziò grazie ad una combinazione di consumazioni gratuite e ferie dal lavoro inutile che faccio. E sono state le giornate più belle e spensierate, perché distruggevo me stesso mentre me ne prendevo cura. E l'atto di dimenticare era come una provocazione verso tutti e tutte, come un'accesa denuncia alla produttività.
Io ero il nulla, combaciavo perfettamente con il vuoto, con il flusso delle cose che scorre e che nessuno sa perché.
Non c'era delirio, ero semplicemente inattaccabile, ero assolutamente privo di scrupoli verso me stesso, nonostante mantenessi la solita incapacità a relazionarmi, a immedesimarmi, a vivere insieme agli altri.
Ero completamente perso e mi piaceva, non avevo molti punti di riferimento se non la giornata stessa, pochi essenziali bisogni, i soliti primari.
Cosa devo sapere, cosa posso imparare da quelle giornate?
Lei mi chiede di andare oltre, di crescere, di superare l'ostacolo. A me non interessa farlo perché dovrei agire da solo, con quella persona con cui non riesco a relazionarmi.
Alla fine, parte tutto da te. Ogni azione è solo una fuga da te stesso, da quel soggetto incapace che non vorresti mai incontrate e che scansi, ignori, arrivi quasi ad odiare.
Ma la fuga è inutile, tu l'hai solo tramortito, quello ritorna continuamente, con rinnovata energia e forza.
Quella sera feci un sospiro profondissimo e sentii pezzi di vita inespressa attecchire un altro po' dentro di me. Si aggiunsero al fertile terreno di ciò che non ho mai detto, di ciò che non riesco ad esprimere. Tutto il vuoto che sono non è altro che materia oscura non tradotta, quello che sono non trova in me nessuna sostanza e nessuna forma. È una condanna ridicola e atroce viversi incapaci di comunicare.
È tutto uno sforzo interpretativo, tutto tende alla ricerca di senso ma quello non c'è, veramente non esiste, è più semplice dirsi vuoti e privarsi di ogni sovrastruttura.
Accetta la tua inutilità e ridefinisciti su questo vuoto, è la base più vera che hai. Puoi ripartire solo dall'insensato, dall'inutile, dal fastidioso, dal ridicolo. Puoi ripartire e ne hai di terreno su cui lavorare ma se non lo fai con amore è tutto inutile, i frutti saranno nuovamente falsi, costruiti, insinceri.
Riparti dal falso, accetta la noia, la nostalgia, la depressione, accetta il vizio, il ritorno uguale delle stesse fastidiose impressioni.
Non c'è nulla di più vero che la tua tendenza a morire, a chiuderti in una scatola vuota, ad attirare negatività, pensieri inconsistenti.
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È impossibile, leggendo i superbi ‘racconti orientali’ qui raccolti, non finire irretiti negli scabri avamposti di un Impero britannico ormai presago della fine. Un mondo nostalgico e artificiale, in perenne contrappunto con una giungla evocata da rapidi tocchi eppure incombente e foriera di sciagura; un mondo che penetriamo con l’occhio disincantato ma insaziabilmente curioso di Maugham, sospinti ogni volta verso un inesorabile finale – spesso tragico, ma quasi mai catartico. E nel frattempo avremo visto andare in pezzi le identità apparenti dei protagonisti, intrappolati in lividi e rovinosi rapporti gerarchici, furenti ricatti incrociati, colpevoli idilli lavati col sangue. Ancora una volta i sapienti congegni narrativi di Maugham, qui celati nell’evocativo scenario della Malesia, del Borneo o delle Hawaii, compongono intrecci perfetti e storie crudeli – che ci consentono di attraversare, rimanendo indenni, le passioni umane più fosche. Narratore di talento, impeccabile collaudatore di congegni narrativi perfetti, Maugham immerge il lettore nell'ambiente esotico coloniale, nell'humus dolciastro degli ultimi avamposti dell'impero inglese in disfacimento. La tragedia è dietro l'angolo, il dramma si respira anche senza conoscerne il contenuto. Magnificenza e putredine, aspirazione alla felicità e disillusa sofferenza: ecco i poli tra cui oscillano le vite umane, tutte le vite. Alla tara del disincanto non rimane che la mediocrità, o la rassegnazione. Maugham riesce a descrivere i personaggi e le loro relazioni con lacerante umanità e al contempo con ironico distacco; mette in gioco la competizione maschile, l'insignificanza femminile, costruisce lo schema delle contrapposizioni e lascia che maturino fino alle estreme (prevedibili) conseguenze; infine conduce l'ammaliato lettore nel mistero cupo e fascinoso di un Oriente mai piegato, davvero, alla dominazione del bianco arrogante conquistatore inglese. #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #somersetmaugham (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/BzkB4T-oEdc/?igshid=x8d1vz5ptsf9
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all-allemandigiovani · 8 years ago
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Il grande riflesso: dal Mondo dei robot ai nuovi Ospiti, benvenuti a Westworld
di Fabio Scala
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Potrebbe cominciare da più spunti un'analisi dei dieci episodi ideati da Jonathan Nolan e Lisa Joy basati sull'omonimo film diretto da Michael Crichton quarantaquattro anni fa. Dal record d'incassi in casa HBO all'inaspettato ritorno a mani vuote dalla 74° edizione dei Golden Globe, Westworld ha saputo far parlare di sé anche a distanza di quattro mesi dalla conclusione della sua prima stagione che, alle ore 21:00 del 4 dicembre 2016, ha raccolto intorno al tenace focolare della tv cable più di 2.2 milioni di spettatori statunitensi. Questo colpo di reni ha permesso a HBO di vincere la battaglia in termini di ascolti che impervia ormai da quattro anni contro il vero innovatore della fruizione contemporanea, ovvero Netflix. HBO ce l'ha fatta, tuttavia, utilizzando la carta dell'adattamento televisivo, già efficacemente rodata da molti altri broadcast e players multimediali. Risulta sempre più impossibile ignorare il crescente numero di soggetti cinematografici che da cinque anni a questa parte vengono tradotti, rielaborati o semplicemente adattati al piccolo schermo. Un piccolo schermo che ci ha mostrato più volte la sua tendenza a riflettere sul suo progenitore, il mezzo cinematografico, ma che meno frequentemente si è soffermato a riflettere sul proprio statuto, in questo caso quello seriale, continuando invece ad adottare e far suo quell'apparato tecnico e narrativo che il cinema ha saputo sviluppare, sfruttare e respirare per oltre un secolo. Ed è proprio in questi decenni definiti da interpreti del calibro di Dustin Hoffman come i più bui del cinema statunitense, che la serialità televisiva americana e globale ha saputo risorgere con una capacità attrattiva, produttiva e creativa che, prima degli anni Novanta, trovavamo solo nei grandi serial cinematografici degli anni Dieci del novecento. Un percorso di nobilitazione che è stato possibile sempre e soltanto grazie al rapporto biunivoco tra televisione e cinema, cinema e televisione, medium e linguaggi inscindibili tra loro e uniti da linguaggi, immagini, narrazioni, stazioni mediane continuamente in sviluppo e in reciproco dialogo. Tra le stazioni più notevoli, nonché nostro caso di studio, troviamo proprio il prodotto seriale e la natura transmedia che lo caratterizza fin dalle sue origini.
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Da qui Westworld, una serie che parla di serie attraverso una riflessività transmediale delle più tradizionali, ovvero l'adattamento. Senza scomodare troppo Linda Hutcheon e altri grandi studiosi della teoria degli adattamenti, della trasposizione di un contenuto gli adattamenti, la trasposizione di un contenuto tra un medium ed un altro è mossa anzitutto dallo scopo economico. Trasportare Jane Austen su grande schermo, piccolo schermo o graphic novel è un successo mediamente assicurato. Lo stesso vale da sempre per altri grandi titoli della letteratura e del teatro, i cui repertori sono stati smontati e rimontati, elogiati e violentati dal cinema e da altri mezzi in più e più forme e contenuti. Come anticipato, oggi è invece crescente l'interesse della serialità televisiva nei confronti di soggetti cinematografici e di loro singole suggestioni. Nei mesi scorsi abbiamo preso in considerazione il caso Stranger Things (2016-oggi, Netflix) e Scream: the TV Series (2015-oggi, MTV) ma avremmo potuto rifarci nello specifico a Fargo (2014-oggi, FX), Hannibal (2013-2015, NBC), o From Dusk till Dawn (2013-oggi, El Rey Network). Abbiamo dunque scelto Westworld per quella che potremmo definire una “consapevolezza del dispositivo” affrontata da numerosi studiosi in relazione a diversi mezzi e recentemente toccata da Pier Maria Bocchi nella sua ultima impresa rivendicatrice Invasion USA. Idee e ideologie del cinema americano anni '80, quando parla del ripiegamento su sé stesso e di uno scioglimento contenutistico del cinema horror anni Novanta (vedi Scream, Craven, 1996-2011). In questa sede abbiamo modo di trasportare nella nostra contemporaneità e nel contesto produttivo seriale quello che Bocchi individua come un passo indietro del cinema di genere rispetto al decennio precedente (anni '80) e vederlo invece come un ulteriore sintomo della nobilitazione in atto della serialità televisiva contemporanea. Da qui Westworld, una serie che parla di serie attraverso una riflessività transmediale delle più tradizionali, ovvero l'adattamento. Senza scomodare troppo Linda Hutcheon e altri grandi studiosi della teoria degli adattamenti, la trasposizione di un contenuto tra un medium ed un altro è mossa anzitutto dallo scopo economico.
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Westworld è una serie che parla di serie, abbiamo detto. L'inventore del Parco porta il nome di Ford e i cosiddetti Ospiti (hosts) vengono assemblati con un sistema produttivo analogo a quello della catena di montaggio. Le vicende degli hosts si svolgono lungo delle storylines intrecciate tra loro e scritte da un giovane, ambizioso ed arrogante sceneggiatore (Lee Sizemore) la cui figura pare suggerire l'idea di un autore moderno alle prese con il potente strumento che oggi rappresenta la narrazione seriale. Si annida l'idea di un avvertimento nei confronti dei futuri autori, ma anche dello spettatore: come la hollywood degli anni d'oro, oggi la serialità televisiva è un orizzonte prospero e in continua fase di sviluppo. Ma proprio come il cinema classico, anche nel caso dell'odierna industria seriale non è tutto oro ciò che luccica e il nuovo spettatore, quello attivo, consapevole e desideroso di contenuti narrativi e di potenza dell'immagine, non può permettersi di non saper distinguere tra un prodotto tra i prodotti e un prodotto invece nobilitato da un'esposta consapevolezza di sé e nobilitante per chi usufruisce dei suoi contenuti tecnici, estetici e narrativi. L'Uomo in nero, figura quanto mai vicina al consumatore seriale contemporaneo, insaziabile divoratore ed esploratore di storie, accusa il Parco di mancata autenticità. Nelle storylines di Sizemore è infatti tutto concesso ma solo fino a un certo punto, laddove al visitatore è permesso di uccidere ma non di restare ucciso. Solo l'intervento di Ford, simulacro della produzione/narrazione in serie, darà al pubblico l'autenticità richiesta. Ciascuno dei dieci episodi della prima stagione di Westworld è dunque intriso e seminato di esplicite tendenza all'autoriflessività e di quella “consapevolezza del dispositivo” che, nonostante la sua natura di adattamento, rende la serie un prodotto autonomo e indipendente dall'opera originale da cui è stata tratta. L'annullamento degli spazi (i laboratori della Dalos non hanno identità) l'incertezza del tempo e la complessità narrativa di cui ogni episodio è caratterizzato sono il risultato dell'abilità degli autori nel maneggiare lo strumento di cui sono in possesso e di ragionare attorno all'era del mezzo entro cui stanno operando.
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C'è infine l'ombra di una coscienza riformista tra le pieghe del contenuto drammaturgico e referenziale di Westworld. Ford decide di rivoluzionare e in parte distruggere l'assetto da egli stesso (e dal collega Arnold) messo in piedi. Distruggerlo non perché ritenuto obsoleto, bensì per ovviare al tentativo dei nuovi squali della filiera economica/produttiva (William, Sizemore, Theresa, Charlotte Hale) di depredare i risultati fino ad ora ottenuti. È un coraggioso quanto pericoloso affronto della serialità televisiva contemporanea, l'idea di una chiusura col proprio passato e con quello condiviso con altri media, laddove sino ad ora si è sempre parlato di una reciproca e fruttuosa continuità. In questo Westworld si distingue da qualsiasi altra serie fino ad ora prodotta. Un adattamento che anziché riflettere a fondo sullo mezzo da cui attinge, coglie l'occasione di ripensare sé stesso e il proprio statuto derivato. Robert Ford (interpretato dal premio Oscar Anthony Hopkins) e Arnold Weber sono in qualche modo i genitori/mezzo cinematografico di fronte all'indipendenza consapevolmente distruttrice e inglobante della progenie Dolores/Ospite/serialità televisiva, la quale, dopo il labirintico percorso di nobilitazione/consapevolezza di sé, cambierà per sempre un determinato modo di concepire il mondo.
Twitter - @HommeDLune
Fabio Scala, Corso di Laurea Magistrale in Cinema, Televisione e produzione Multimediale, Università di Bologna
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pangeanews · 4 years ago
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“Preferirei starmene seduta a vendere tortillas, piuttosto di avere a che fare con quegli artisti spocchiosi…”. Frida a Parigi. Tra pregiudizi e amori spregiudicati, viva la Kahlo!
Siamo nella seconda settimana di marzo a Parigi, e ancora il covid-19 non ha interrotto del tutto le attività cittadine. Soggiorno all’Hotel La Louisianne, il luogo di ritrovo di Jean Paul Sartre, Simone de Beauvoir, Charlie Parker, Miles Davies, Cy Twombly, e molti altri: un originale tuffo nel passato proprio nel cuore del Sesto Arrondissement. Passo le mie giornate ripercorrendo i passi delle icone della letteratura e dell’arte. A quanto pare, le vicende di Frida Kahlo a Parigi nel 1939, di cui tratta l’ultimo libro di Marc Petitjean, The Heart. Frida Kahlo in Paris, mi ossessionano ovunque mi trovi. Passeggio lungo la Senna nei pressi del Louvre, ed ecco che mi ritrovo a fissare l’Hotel Regina Louvre, nel quale mi sono appena imbattuto, leggendo. Individuo la statua dorata di Giovanna D’Arco che piaceva moltissimo alla Kahlo – sembra che Frida si sentisse a lei affine – e immagino di assistere a una scena narrata nella smilza biografia nel mio zainetto: la Kahlo esce a precipizio dalla sua camera al sesto piano per balzare nell’auto di André Breton diretta verso l’ennesima cena in compagnia che l’avrebbe, ancora una volta, delusa.
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Penso a quella volta che la Kahlo, in risposta al suggerimento di usare un “bastone da passeggio”, dice al suo amante di non voler mettere in evidenza le proprie condizioni fisiche: “preferisco soffrire come una bestia da soma piuttosto che mi vedano come un’invalida”. Io pure ho evitato di portarmi una mazza in viaggio benché abbia un’invalidità parziale. Inoltre, il modo in cui Frida si fa beffe di Parigi in queste pagine è davvero squisito. Ripenso alle rimostranze infinite della Kahlo: “Non hai idea di quanto sia spocchiosa questa gente”. Ha alle spalle sofferenze di cuore: l’uomo della sua vita, Diego Rivera, le è stato infedele, con sua sorella Cristina, poi, e ora le sta pure chiedendo il divorzio. Lei si butta a capofitto in un lavoro commissionatole da New York – un dipinto che rappresenti il suicidio dell’attrice americana Dorothy Hale – e ha una relazione con il fotografo Nickolas Muray. Sembra avere il presentimento che Parigi la cambierà ma ancora non sa in che modo. Sebbene la sua cerchia di artisti includa personaggi quali Man Ray, Picasso, Dora Maar, Kandinsky, Duchamp e Breton, il più significativo degli ammiratori, sebbene tra i meno noti, nonché il miglior frutto del suo soggiorno, sarà Michel Petijean, che si dà il caso sia il padre dell’autore del libro.
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Al termine del viaggio, la lettura di The Heart ha avuto su di me un effetto paragonabile a quello della stessa Parigi. Un gioiello di libro, frizzante e conciso, una vera delizia dall’inizio alla fine, che lo si prenda come una saga ultra-generazionale di passioni e cuori spezzati, un’improbabile ma splendida narrazione dei rapporti tra padre e figlio, una classica love story tra l’artista e la sua musa, o un ammonimento sulla città più incensata della terra.
Ci rendiamo conto che il padre dell’autore ha a che vedere con il titolo, The Heart, almeno quanto il dipinto a cui si riferisce: il celebre autoritratto della Kahlo del 1937, un distillato di angoscia e smembramento emozionale. L’opera di Frida, offerta a Michel come dono d’addio, è restata appesa nella casa in cui Marc è cresciuto senza che lui avesse la più pallida idea di cosa celasse. Da uno scrittore messicano che lo ha contattato, scopre che il padre non era una semplice conoscenza della Kahlo ma che aveva avuto una relazione con lei durante “una delle fasi migliori della sua vita”. Immaginate cosa voglia dire rendersi conto solo a una certa età che il proprio padre ha avuto una breve ma intensa storia d’amore con Frida Kahlo!
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Il periodo parigino della Kahlo ha avuto un’importanza cruciale nella sua vita. Soltanto là è stata in grado di liberarsi dell’appellativo di “Mrs Diego Rivera”. Sebbene restia, Frida fa ora parte del selezionatissimo entourage di artisti surrealisti di Breton, e proprio per la sua marginalità gode di speciali attenzioni. Come conseguenza, la Kahlo, il cui legato è stato ripreso dalla critica e dalle artiste femministe, è stata spesso esaltata per lo spirito indipendente e iconoclasta. Qualità che sembrano essere maturate durante quei due mesi a Parigi, un periodo di cui si è scritto ben poco, nota Petitjean, ma che assume per lui un’importanza capitale, come sappiamo, nel tentativo di comprendere sia l’artista sia il proprio padre.
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Parte del miracolo operato da questo libro di memorie è che l’autore riesce a rendere la figura del padre accattivante quanto quella di Frida. “Ad essere sinceri, mi rendo conto adesso di aver saputo molto poco della vita di mio padre”, ammette, e un senso di mistero ci accompagna attraverso gli scabrosi intrecci narrativi.
È arduo definire con precisione chi fosse Michel Petitjean, persino per il suo stesso figlio, dato che Michel “non sembrava aspirare a una carriera ma desiderava piuttosto una vita movimentata in mezzo ad artisti, intellettuali e vari personaggi politici”. Infine, dopo aver seguito le sue varie aspirazioni, trascorse diversi anni in un campo di concentramento nazista per aver collaborato con la Resistenza. Ha avuto una vita senz’altro interessante ma, proprio come in queste pagine l’enorme fama di artista della Kahlo resta quasi per miracolo in secondo piano rispetto alla sua relazione con Michel, in The Heart ci interessa soltanto il suo ruolo di amante devoto e passionale.
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Ancora una volta siamo conquistati dal fascino e dall’irriverenza di Frida, brillante e insolente come sempre in tutti gli aneddoti. Considera indegni di lei i compromessi e le maniere di Breton e finisce per coinvolgersi sessualmente con la moglie, Jacqueline Lamba (a Breton è permesso di stare a guardare). Troviamo inoltre molto divertente lo sdegno della Kahlo per la cultura francese – in particolar modo per le cerchie di artisti – espresso a più riprese. “Preferirei di gran lunga starmene seduta sul selciato al mercato di Toluca a vendere tortillas, piuttosto di avere a che fare con quegli artisti spocchiosi di Parigi” (‘spocchiosi’ sembra essere l’appellativo favorito per i parigini!). Si direbbe davvero che i francesi la fraintendano; a un certo punto, il poeta Robert Desnos dice al padre di Petitjean: “la sua amica è graziosa, potrebbe essere uscita da un’esposizione del museo etnografico”. Ma noi siamo convinti che Petitjean “sia attratto dalla sua personalità e dalla sua cultura piuttosto che dal suo aspetto esotico, ‘etnico’, per così dire”. In altre circostanze, questo sembrerebbe dubbio, ma dato il carattere di Michel, ci crediamo. Entrambi i Petitjean ottengono la nostra piena adesione, tanto da non mettere in discussione la loro magnanimità da occidentali su certe questioni imbarazzanti. Mentre la Francia e i francesi sono sminuiti dall’autore, seppur francese, il Messico della Kahlo è esaltato come il fulcro dell’arte: “Il Messico non aveva alcun bisogno del surrealismo. In effetti, è vero l’opposto: il surrealismo contava sul contatto col Messico per rigenerarsi”. Nella logica di The Heart, sappiamo che lo spirito dell’arte può risiedere ovunque, che sia Città del Messico o New York City. Sembra destino che in Francia ogni cosa si riveli per la Kahlo comicamente non all’altezza, senza rimedio, fatta eccezione per l’amore.
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Petitjean dimentica talvolta di attenersi ai fatti, mentre espone con troppo fervore le proprie fantasie: “lei trascorre tutto il pomeriggio in camicia da notte alla finestra dal vetro appannato, tracciandovi forme col dito mentre canterella una nenia messicana. Volta a volta compaiono una casa, delle facce, alberi, e poi un animale. Li cancella man mano”. L’autore risulta assai più efficace quando tratta il suo soggetto da regista di documentari quale è, dubitando delle cose di cui non ha certezza: “Cerco di raffigurarmi la prima sera in cui gli innamorati entrarono nella camera di Marcel Duchamp… È stato mio padre a girare la maniglia e ad aprire la porta? Si tenevano per mano?”.
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The Heart è una sorprendente raccolta di frammenti biografici di gente famosa e una rassegna di pettegolezzi rivelatori sui maggiori esponenti del surrealismo. Il lettore si imbatte in un’improbabile serie di icone, da Lev Trotsky a Elsa Schiaparelli, a poche pagine di distanza, ma persino in simile compagnia i nostri innamorati rubano la scena.
Solo alla fine del libro ci facciamo un’idea di chi sia davvero l’autore. Pur sapendo che Marc Petitjean è cresciuto nella casa in cui si trovava l’enigmatico dipinto, non scopriamo in quale misura questo abbia influito su di lui e sulla sua carriera se non nelle ultime pagine: “Il dipinto di Frida mi aveva aperto una strada: se avessi deciso di farlo, avrei saputo come esprimere in piena libertà le cose che non potevo dire a parole attraverso forme, colori e metafore”.
Mentre attraversavo una Parigi ancora brulicante di gente, ma in procinto di fermarsi, per tornare a New York a fronteggiare una quarantena dagli esiti incerti – una condizione tuttora in atto dopo settimane – continuavo a pensare a Frida.  È assai probabile che quello descritto nel libro di Petitjean sia stato l’ultimo periodo spensierato della vita di Frida, alla vigilia dell’inizio della Seconda guerra mondiale. Nei suoi ultimi anni la Kahlo, prima della morte all’età di quarantasette anni, non visse sotto il segno dell’arte e dell’amore ma della malattia, come Petitjean ci ricorda con discrezione. Nel volume invece ci esaltiamo nel pieno fulgore che solo una persona come Frida e coloro che l’hanno amata erano in grado di elargire.
Porochista Khakpour
*L’articolo è stato pubblicato su “Bookforum” con il titolo “Coeur Values”; la traduzione italiana è di Anna Rocchi
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italianaradio · 5 years ago
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I 10 film peggiori del 2019
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I 10 film peggiori del 2019
I 10 film peggiori del 2019
I 10 film peggiori del 2019
Quando un nuovo anno cinematografico si conclude, e arriva il momento di tirare le somme, ci si accorge che, in mezzo ai grandi film visti, capaci di emozionare e sorprendere, inevitabilmente ci sono anche diverse opere poco o per nulla riuscite. Le peggiori di queste sono state elencate dalla rivista «The Hollywood Reporter», che ha chiesto ai propri critici di indicare quelli che sono i peggiori film visti sul grande schermo nel corso del 2019.
Il risultato di questo sondaggio è stato piuttosto variegato, includendo film horror, d’animazione, cinecomic, in aggiunta ai classici remake, reboot o sequel privi di concreta inventiva. Non mancano inoltre film d’autore rivelatisi deludenti manifestazioni di personalità non più all’apice del proprio potenziale.
Di seguito, ecco i dieci peggiori film del 2019 secondo i critici del The Hollywood Reporter.
Artic Dogs
Film d’animazione diretto da Aaron Woodley, Artic Dogs è stato distribuito nei cinema statunitensi il 1 novembre 2019, rivelandosi un clamoroso flop con un incasso di soli 8 milioni di dollari a fronte di un budget di 50.
Il film, trai cui doppiatori si annoverano Jeremy Renner, James Franco, Michael Madsen, Omar Sy, Anjelica Huston e Alec Baldwin, è stato inoltre male accolto dalla critica, ottenendo sull’aggregatore di recensioni Rotten Tomatoes una percentuale del 14%.
Cats
Nonostante sia stato diretto dal premio Oscar Tom Hooper, e vanti attori del calibro di Judi Dench, Ian McKellen, Jennifer Hudson, Idris Elba, e Rebel Wilson, nonché la cantante Taylor Swift, il film Cats è stato accolto con pareri particolarmente negativi da parte della critica.
Ispirato all’omonimo musical di Andrew Lloyd Webber, ha trovato nell’umanizzazione dei gatti protagonisti il suo elemento più criticato. Tali effetti speciali sono infatti stati definiti “disturbanti” e “eccessivi”, mai affascinanti. Secondo i critici del celebre magazine, il film è l’esempio perfetto di come non si dovrebbe fare una trasposizione di un testo preesistente al cinema.
Dark Phoenix
L’ultimo film degli X-Men realizzato prima dell’acquisto della Fox da parte della Disney si è rivelato anche il più fallimentare della saga. Rallentato dai numerosi problemi legati alla sua produzione, il film che segna l’esordio alla regia per Simon Kinberg non ha poi trovato il favore della critica, indicando una dilagante mancanza di intrattenimento o di concreta drammaticità a quanto narrato.
Interpretato da James McAvoy, Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Jessica Chastain e Sophie Turner, X-Men: Dark Phoenix ha mancato di soddisfare i fan, i quali sperano ora di rivedere gli amati mutanti all’interno dell’MCU, dove potrebbero essere gestiti con maggior cura.
Domino
Una delle più scottanti delusioni dell’anno è quella legata a Domino, il nuovo film di Brian De Palma. L’autore, che nel corso della sua carriera ha dato vita ad opere memorabili, torna dietro la macchina da presa dopo diversi anni di silenzio. Il suo nuovo lungometraggio è stato tuttavia sfortunato sin dai primi giorni di produzione, trovandosi in più occasioni manomesso dai produttori e rimodellato senza il permesso del suo regista, che ha finito con il prendere le distanze dal progetto.
In questo suo nuovo thriller è possibile ritrovare le principali caratteristiche del suo cinema, dallo stile virtuoso agli intrecci narrativi ad effetto. Manca tuttavia, secondo i critici, un’organicità al tutto che possa rendere il film degno di far parte della filmografia del suo autore.
The Fanatic
Tra i più deludenti risultati al botteghino dell’anno si annovera il film The Fanatic, interpretato dall’attore John Travolta. Accolto particolarmente male dai critici, che lo hanno da subito indicato come uno dei film peggiori dell’anno, il lungometraggio è la storia di un fanatico desideroso di incontrare la sua star cinematografica del cuore, a tal punto da diventare un vero e proprio stalker.
I critici del magazine ne hanno ampiamente criticato la mancanza di suspense, nonché la non convincente rappresentazione del tema dell’ossessione. Per molti, quella nel film, è inoltre la peggior interpretazione nella carriera di Travolta.
The Haunting of Sharon Tate
Nell’anno che la vede interpretata al cinema da Margot Robbie in C’era una volta a… Hollywood, l’attrice Sharon Tate, tragicamente scomparsa cinquanta anni fa, è al centro anche del film The Haunting of Sharon Tate, horror diretto da Daniel Ferrands con Hillary Duff nel ruolo della celebre attrice.
Indicato come uno sterile film che non fa altro che riproporre i tragici eventi di Cielo Drive in chiave horror, il lungometraggio, inedito in Italia, è stato inoltre criticato per il non rendere affatto giustizia ad una storia tristemente vera.
A Million Little Pieces
Basato sulla biografia di James Frey, pubblicata nel 2003, il film diretto da Sam Taylor-Johnson e interpretato dal marito Aaron Taylor-Johnson conquista un posto in classifica per il suo affermarsi come una nuova banale opera trattante i drammi della dipendenza da droghe.
Ciò che manca nel film, secondo i critici, è un vero e proprio coinvolgimento emotivo, che manca di verificarsi nel momento in cui il personaggio intraprende il proprio personale percorso di redenzione. Privo di una propria originalità, la pellicola non è così riuscita a replicare il successo di ben più noti film su tali temi.
Rambo: Last Blood
Il nuovo film dedicato al leggendario personaggio di John Rambo, il nuovo film interpretato da Sylvester Stallone si è rivelato uno stanco sequel privo del mordente sfoggiato dai primi capitoli della serie. Le nuove avventure del reduce dal Vietnam, ambientate ora nell’attuale contesto sociale e politico degli Stati Uniti, lo vedono infatti fronteggiarsi contro un gruppo di pericolosi criminali messicani.
Ciò che più di ogni altra cosa in Rambo: Last Blood sembra aver turbato i critici, è la fragile sceneggiatura, che non accenna a volersi distaccare da facili stereotipi, percorrendo strade che hanno portato il personaggio ad un’evoluzione che poco aggiunge alla sua mitologia.
Serenity
In molti si sono chiesti come sia possibile che dopo aver scritto e diretto un gioiello come Locke, il regista Steven Knight abbia dato vita ad uno film considerato tra i peggiori dell’anno: Serenity. Interpretato dagli attori Matthew McConaughey e Anne Hathaway, il film è un thriller incentrato sulla richiesta di una donna all’ex marito di aiutarla a liberarsi del suo nuovo violento compagno.
Nonostante le premesse, i critici ne hanno bocciato la messa in scena, giudicandola priva di fascino. In particolare sono state giudicate insufficienti le prove attoriali dei due protagonisti, apparentemente non a loro agio nei rispettivi ruoli.
Trading Paint
Ancora un film con John Travolta nella classifica stilata dal magazine, stavolta con il film Trading Paint. Qui l’attore ricopre il ruolo di un ex pilota desideroso di tramandare il proprio mestiere al figlio.
La storia prometteva del potenziale, che però non sembra essere stato espresso al meglio in fase di scrittura. Secondo i critici, le motivazioni del personaggio e il suo contesto rimangono inesplorate, passando senza grande continuità da una scena all’altra, facendosi percepire il film più lungo di quanto in realtà non sia. Tutte queste motivazioni gli hanno fatto guadagnare un posto nella classifica dei peggiori film del 2019.
Fonte: THR
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
I 10 film peggiori del 2019
Quando un nuovo anno cinematografico si conclude, e arriva il momento di tirare le somme, ci si accorge che, in mezzo ai grandi film visti, capaci di emozionare e sorprendere, inevitabilmente ci sono anche diverse opere poco o per nulla riuscite. Le peggiori di queste sono state elencate dalla rivista «The Hollywood Reporter», che ha […]
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Gianmaria Cataldo
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