#narrativa storica moderna
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"La Sarta di Dachau": Mary Chamberlain e il Potere della Resilienza in un Romanzo Intenso. Recensione di Alessandria today
Una storia di speranza, coraggio e sogni che resistono anche nei momenti più oscuri della storia.
Una storia di speranza, coraggio e sogni che resistono anche nei momenti più oscuri della storia. Biografia dell’autrice. Mary Chamberlain è una storica e scrittrice britannica, nata nel Regno Unito, nota per il suo lavoro accademico e le sue opere di narrativa. Laureata in Storia, ha pubblicato numerosi saggi accademici prima di dedicarsi alla narrativa. Il suo romanzo d’esordio, La Sarta di…
#Ada Vaughan#Alessandria today#Creatività#creatività e sopravvivenza#dignità#Donne Coraggiose#Forza Femminile#Forza Interiore#Google News#identità#italianewsmedia.com#La Sarta di Dachau#lettura avvincente#lettura storica#libri consigliati#lotta contro le avversità#Mary Chamberlain#narrativa contemporanea#narrativa femminile#narrativa internazionale#narrativa storica moderna#Pier Carlo Lava#protagoniste femminili#resilienza#romanzi bestseller#romanzi indimenticabili#romanzo coinvolgente#romanzo emozionante#romanzo ispiratore#Romanzo storico
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C'era il pubblico, attento e curioso.
E c'erano loro: cinque generazioni passate attraverso intuizioni, visioni, compromessi, amori, avventure, tragedie, successi ed eccessi.
Tutti presenti, dal Senatore all'Avvocato, passando per le donne di famiglia, fino alla vicende recenti. Cambiati cognome e scenari.
Ieri sera la presentazione, nell'ambito della rassegna “Ravello Book. Storie di libri”, del volume "L'ultima dinastia. La saga della famiglia Agnelli da Giovanni a John", scritto dalla giornalista americana Jennifer Clark ed edito da Solferino Libri.
Non un romanzo, non un libro di costume, ma un’opera di saggistica narrativa.
Un racconto sulla longevità di una famiglia "reale" a capo di un "impero" industriale, i cui destini si intrecciano con quelli dell'Italia moderna.
Una vera e propria soft power, che tanta parte ha avuto nei rapporti tra il nostro Paese e gli Stati Uniti.
Un lavoro durato due anni, che fonde l’accuratezza della ricostruzione storica ad uno stile scorrevole, portando il lettore dalla nascita della Fiat e della Juventus, attraverso due guerre mondiali, crisi e boom economici, dolce vita e jet set
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La Napoli degli anni Ottanta
I racconti di "Zampino" scritti da Giuseppe Ferrandino
"Fu il compianto Luigi Bernardi, editore e agitatore culturale che nei primi anni Ottanta dirigeva la storica rivista a fumetti 'Orient Express' e che era in cerca di storie noir e d'avventura di ambientazione italiana (una richiesta in controtendenza rispetto all'esterofilia presente sulle pubblicazioni di quegli anni) ad accogliere l'idea di Antonio Zampino, un mediatore proletario che si muove nel sottobosco criminale di Napoli restando invischiato in vicende più grandi di lui." A parlare è il romanziere ("Pericle il Nero", il recente "Onorato") e sceneggiatore di fumetti Giuseppe Ferrandino. Sabato 27 aprile, alle 12, all'interno del Napoli Comicon, il Festival del Fumetto e dell'Entertainment che si svolgerà alla Mostra d'Oltremare durante il ponte della Giornata della Liberazione, la casa editrice Allagalla - specializzata nel recupero e nella valorizzazione di classici della narrativa disegnata - presenterà, tra le sue novità editoriali, il volume "Zampino", antologia completa dei racconti apparsi proprio su "Orient Express". All'incontro parteciperanno, assieme a Ferrandino, anche il giallista Maurizio de Giovanni, autore della prefazione al libro e profondo estimatore dello scrittore ischitano. Allo stesso tavolo sarà presente però pure Sergio Brancato per parlare del terzo tomo dell'integrale di "Capitan Erik", saga avventurosa illustrata da Attilio Micheluzzi e pubblicata sempre da Allagalla. "Zampino" (56 pagine in bianco e nero, brossurato, 12 euro) si avvale del fondamentale contributo grafico del romano Ugolino Cossu (oggi in forza allo staff di disegnatori di "Tex") che all'epoca, per entrare nell'atmosfera delle vicende narrate, lavorava alle tavole ascoltando le canzoni di Pino Daniele e Teresa De Sio. Attraverso "Zampino" è quindi possibile riscoprire oggi, in maniera per nulla nostalgica, le ansie e l'oscurità di una Napoli post-terremoto, che ambiva a essere moderna e metropolitana, ma che già covava nel suo seno gli spettri futuri di "Gomorra"
di ALESSANDRO DI NOCERA
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#DisplayMarisa (20 aprile 2017)
Nel pomeriggio del 20 aprile 2017, al MLAC - Museo Laboratorio di Arte Contemporanea della Sapienza si è aperta la mostra Lo studio di Marisa Volpi. Arte critica scrittura. Dedicata alla storica dell’arte, scrittrice e docente di Storia dell’arte contemporanea Marisa Volpi (1928-2015), la mostra vuole ricostruire la figura di questa donna geniale, che ha intrecciato lo studio dell’arte classica e moderna, la critica militante, l’insegnamento e la scrittura narrativa. Le curatrici Antonella Sbrilli, Maria Stella Bottai e Michela Santoro - tutte allieve di Volpi alla Sapienza - in collaborazione con le nipoti Caterina e Paola e con il direttore del MLAC Claudio Zambianchi, hanno scelto di allestire nel museo una ricostruzione parziale del vero “studio” di Marisa Volpi. Così nella sala del museo sono stati sistemati i mobili e le testimonianze della vita e dell’attività di Volpi, trasformando lo spazio in un set, in una citazione immersiva, che richiama in piccolo l’esperienza e l'atmosfera della casa originale.
Foto di Carlotta Barillà
“Lo studio di Marisa Volpi è un luogo del pensiero e la testimonianza di uno stile. Lo stile è quello del design moderno e minimale: un tavolo Saarinen ovale, le sedie Breuer, la lampada Arco di Castiglioni, un tappeto sardo, in un salone luminoso all’ultimo piano di un palazzo in via Panama, a Roma” si legge nel sito dedicato alla studiosa. "Il pensiero è quello che si è esercitato giorno dopo giorno in quello spazio, fra i cataloghi d’arte, le opere degli artisti, le risme di fogli per i saggi e i quaderni neri su cui Marisa Volpi scriveva le prime versioni dei suoi racconti e dei diari. La mostra al Mlac di Roma ha come fulcro la ricostruzione parziale di questo ambiente e il tavolo bianco a sua volta ne è il centro. Intorno a questo tavolo, gli ospiti dell’inaugurazione hanno preso letteralmente e idealmente posto per ascoltare i ricordi e le letture e prendere un tè rituale, che unisce presenti e assenti nella continuità dello studio”.
Lo studio com’era; lo studio ricostruito al MLAC; lo studio durante l’inaugurazione
Ricostruzione, immersività, re-enactement ideale di una vita trascorsa a studiare, a scrivere, a insegnare, sono i criteri che informano questa mostra, aperta fino al 15 maggio 2017 e a cui partecipano attivamente allieve e allievi dei corsi di Studi storico-artistici e di Storia dell’arte della Sapienza.
Per seguire le iniziative sui social e gli eventi della mostra: Twitter: @artedescritta #DisplayMarisa Facebook: pagine Diconodioggi e Lo studio di Marisa Volpi www.marisavolpi.it/eventi
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Augustus
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Augustus
Torna in libreria, in una nuova traduzione firmata dal traduttore di Stoner, Augustus, altro grande capolavoro di John Williams.
Uno dei migliori romanzi storici di tutti i tempi e un capolavoro della letteratura americana contemporanea, Augustus è uno scavo psicologico profondo e intimo che fa riflettere sulla solitudine che si nasconde dietro al potere.
Sono le Idi di marzo del 44 a.C quando Ottaviano, diciottenne gracile e malaticcio ma intelligente e ambizioso quanto basta, viene a sapere che suo zio, Giulio Cesare, è stato assassinato. Il ragazzo, che da poco è stato adottato dal dittatore, è quindi l’erede designato, ma la sua scalata al potere sarà tutt’altro che lineare. John Williams ci racconta il principato di Ottaviano Augusto e i fasti e le ambizioni dell’antica Roma attraverso un abile intreccio di epistole, documenti, diari e invenzioni letterarie da cui si scorgono i profili interiori dei tanti attori dell’epoca, i loro dissidi, le loro debolezze: l’opportunismo di Cicerone, la libertà e l’ironia di Orazio, la saggezza di Marco Agrippa, la raffinata intelligenza di Mecenate, ma soprattutto l’inquietudine di Giulia, una donna profonda e moderna, che cede alla lussuria quanto alla grazia. In Augustus, che valse all’autore il National Book Award nel 1973, protagonista è la lingua meravigliosa di Williams che ci restituisce a pieno lo spirito della Roma augustea. Un capolavoro della narrativa americana che, fra ricostruzione storica, finzione e perfezione stilistica, non manca mai di dialogare con il presente, e in cui la grande storia è lo spunto per riflettere sulla condizione umana, sulle lusinghe del potere e sulla solitudine di chi lo esercita.
«Augustus è un capolavoro». «Los Angeles Times»
«Il più bel romanzo storico mai scritto da un americano». «The Washington Post»
«Un romanzo capace di immergerci in un mondo di tale complessità, lussuria, cinismo e violenza da sembrare quello in cui viviamo oggi». «The New Yorker»
«Un romanzo di ampio respiro e di grande accuratezza, che riesce a non sacrificare mai una qualità per l’altra». «Financial Times»
«Augustus è una vivida ricostruzione della Roma classica; le sue intuizioni sulla realtà del potere lo rendono un romanzo unico e di livello superiore». «The Boston Globe»
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Sinossi
Torna in libreria, in una nuova traduzione firmata dal traduttore di Stoner, Augustus, altro grande capolavoro di John Williams.
Uno dei migliori romanzi storici di tutti i tempi e un capolavoro della letteratura americana contemporanea, Augustus è uno scavo psicologico profondo e intimo che fa riflettere sulla solitudine che si nasconde dietro al potere.
Sono le Idi di marzo del 44 a.C quando Ottaviano, diciottenne gracile e malaticcio ma intelligente e ambizioso quanto basta, viene a sapere che suo zio, Giulio Cesare, è stato assassinato. Il ragazzo, che da poco è stato adottato dal dittatore, è quindi l’erede designato, ma la sua scalata al potere sarà tutt’altro che lineare. John Williams ci racconta il principato di Ottaviano Augusto e i fasti e le ambizioni dell’antica Roma attraverso un abile intreccio di epistole, documenti, diari e invenzioni letterarie da cui si scorgono i profili interiori dei tanti attori dell’epoca, i loro dissidi, le loro debolezze: l’opportunismo di Cicerone, la libertà e l’ironia di Orazio, la saggezza di Marco Agrippa, la raffinata intelligenza di Mecenate, ma soprattutto l’inquietudine di Giulia, una donna profonda e moderna, che cede alla lussuria quanto alla grazia. In Augustus, che valse all’autore il National Book Award nel 1973, protagonista è la lingua meravigliosa di Williams che ci restituisce a pieno lo spirito della Roma augustea. Un capolavoro della narrativa americana che, fra ricostruzione storica, finzione e perfezione stilistica, non manca mai di dialogare con il presente, e in cui la grande storia è lo spunto per riflettere sulla condizione umana, sulle lusinghe del potere e sulla solitudine di chi lo esercita.
«Augustus è un capolavoro». «Los Angeles Times»
«Il più bel romanzo storico mai scritto da un americano». «The Washington Post»
«Un romanzo capace di immergerci in un mondo di tale complessità, lussuria, cinismo e violenza da sembrare quello in cui viviamo oggi». «The New Yorker»
«Un romanzo di ampio respiro e di grande accuratezza, che riesce a non sacrificare mai una qualità per l’altra». «Financial Times»
«Augustus è una vivida ricostruzione della Roma classica; le sue intuizioni sulla realtà del potere lo rendono un romanzo unico e di livello superiore». «The Boston Globe»
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Su Pier Vittorio Tondelli
Su Pier Vittorio Tondelli All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona. Ecco la postfazione (Bompiani/Giunti editore 2018) di Enrico Palandri È forse ancora presto per dare una definitiva sistemazione storica del lavoro di Pier Vittorio Tondelli, cercando di giudicare il valore letterario dei suoi libri o il significato della sua vera e propria campagna, per lo più vincente, per un rinnovamento del pubblico e della scena letteraria in Italia negli anni ottanta. Il guaio dei contemporanei, e più ancora degli amici o dei parenti, è di avere molte informazioni che farebbero venire l’acquolina in bocca al filologo di una prossima generazione, ma di non saperle leggere. Se il giovane Gioberti poteva vedere in Leopardi la straordinaria luminosità delle sue qualità dopo un viaggio in carrozza, poco o nulla ne capirono i suoi genitori, poco, tutto sommato, anche i fratelli, pochissimo le donne che amò e poco, in generale, i contemporanei, fatta eccezione per Giordani che del resto, come gli altri, non seppe superare gli ostacoli della difficile dimestichezza con lui per leggere, come leggiamo noi oggi, attraverso la sua poesia, un mondo di straordinarie, profondissime intuizioni. Se queste difficoltà fossero dovute al carattere o al fatto che puzzava, secondo la celebre risposta della Fanny Targioni Tozzetti a Matilde Serao, o piuttosto alla miopia fin troppo pia dei sodali, a cominciare da Ranieri, è difficile dirlo. Nel caso di Leopardi, come ha raccontato René de Ceccatty in un bel libro pubblicato in Italia da Archinto (Amicizia e passione, 2014), sono stati si direbbe i tormenti di una sottomissione a portare Ranieri a ricostruirne il lavoro, pubblicarne e promuoverne le opere, fino al gesto ostile, quando ormai era vecchio, del brutto libro sui sette anni di sodalizio. Anche per Tondelli molto è indubbiamente dovuto alla fiducia e alla tenacia di Fulvio Panzeri, che non solo ne ha curato l’opera per Bompiani, ma è stato in questi anni un promotore di iniziative, come il seminario che si tiene annualmente a Correggio. Sono stati appuntamenti importanti, ne sono nate tesi di laurea e di dottorato e il lavoro di Pier Vittorio Tondelli è stato guardato con attenzione e vivacità non solo dai coetanei, ma da molti più giovani di lui. Gianni Celati una volta disse che sembrava ci fosse un partito intorno a Tondelli. Questa osservazione, per quanto ironica, è piuttosto appropriata. Intorno a Tondelli si sono raccolti le attenzioni e gli affetti di chi, attraverso di lui, voleva promuovere un nuovo orizzonte di relazioni umane, e questo è in gran parte avvenuto. Per l’Italia e non solo per la letteratura, e soprattutto per le persone che attraverso il suo lavoro hanno vissuto l’emancipazione della propria vita emotiva dall’ambito ristretto e provinciale così finemente descritto in Camere separate a una dimensione più aperta e consapevole, questo vale molto più della letteratura. Le conquiste ottenute non solo dalle organizzazioni per i diritti civili degli omosessuali ma più in generale da chi cercava di dare cittadinanza a nuove forme di solidarietà che nella società affiancavano la famiglia, sembrano la risposta ad alcune pagine, belle e politiche, dove il protagonista Leo immagina un mondo futuro che sia in grado di accogliere il suo lutto per la scomparsa del compagno Thomas. In diverse occasioni pubbliche, a Correggio e a Reggio Emilia, mi sono sentito chiedere se questa attenzione di cui ho sempre cercato di parlare in modo concreto e non sentimentale, costruisca valore letterario, se insomma Tondelli andrà oltre il suo tempo e se con lui ci andremo noi che abbiamo amato i suoi libri. È una domanda a cui ovviamente non sono in grado di rispondere: deve farsi silenzio intorno al lavoro di uno scrittore che in un certo modo è il contrario del dolce rumore della vita, come lo chiama Sandro Penna in un celebre verso, perché le opere ci parlino con il timbro indistinguibile di una voce. Devono farsi obsolete le opinioni politiche, i manierismi delle cricche letterarie e sociali, deve morire il rumore del mondo perché riemerga il timbro con cui un autore ha affermato il proprio contrasto con la sua epoca. Pier è stato importante per ragioni troppo diverse, nella nostra generazione, perché si possa riuscire ad ascoltare la sua voce senza distrazioni, anche quando non si pretende di dare un giudizio ma semplicemente di chiarire alcuni contenuti. È proprio quello che fa, in parte, questo bel saggio di Roberto Carnero, ripercorrere le tappe; pur sentendomi incapace di dire cose utili, sapendo di essere io il contemporaneo che non capisce perché troppo condivide e quindi non può che accennare a ciò che ha intensamente avvertito intorno al lavoro e all’amicizia di Pier, non voglio neppure sottrarmi alla richiesta di Carnero e voglio dire quello che posso su di lui. Paolo Di Stefano, recensendo sul Corriere della Sera il numero di “Panta” che dedicammo a Pier dopo la morte, citò qualche mia frase accusandomi di non riuscire a vedere se le qualità che attribuivo a Pier si facessero davvero letteratura. Aveva probabilmente ragione, ma anche oggi, a distanza di tanti anni, non saprei cosa aggiungere a quanto dissi allora. Ho anzi la sensazione che se qualcosa resterà non è per quel che lui o altri hanno aggiunto, ma se mai sottratto. In questo Tondelli non è stato aiutato dal giornalismo. Non solo nel Weekend postmoderno, ma in molti punti cruciali dei romanzi, si vede Pier così radicato nel proprio mondo che è difficile farglielo trascendere. Ma se anche il contesto è mutato, il Weekend resta per tanti aspetti un libro che trovo interessantissimo, proprio per il modo in cui Pier interloquisce, da giornalista culturale, con la variegata realtà che ha attorno. Accade anche al Pasolini che io preferisco, quello degli Scritti corsari, che oggi avrebbero bisogno di un vero apparato di note per essere comprensibili. Ma anche questa mia difficoltà interloquisce appunto con ciò che ci siamo lasciati alle spalle, e, per quanto mi riguarda, è vero che non posso promuovere Pier nel Parnaso, per i miei innumerevoli limiti e, di fronte a Pier, anche per l’amicizia che, con la sua morte, è diventata ancora più complessa per l’impegno della memoria. Sebbene io non abbia fatto quasi altro, nella vita, che scrivere e pensare ai libri, la letteratura non è mai stata la cosa più importante; sono state e sono infinitamente più ricche di influenze le persone che ho incontrato, e tra queste ci sono certo, accanto agli amici e alle amiche con cui ho condiviso la conversazione e le stagioni, poeti, musicisti e scrittori che non ho conosciuto personalmente. Ci sono i miei familiari, con cui oltre che alle stagioni abbiamo vissuto una transtoricità che è arbitraria e al tempo stesso fondante del nostro stare al mondo. Gli autori che ho amato sono per me sempre usciti dalla letteratura per entrare a far parte, con le loro preoccupazioni, dell’orizzonte confuso e innamorato della mia vita di ogni giorno. La loro corrispondenza, o persino, negli anni per me più duri economicamente, una forma di solidarietà con la povertà di alcuni di loro che me li affraternava, ha accompagnato non solo la lettura, ma certi ritorni a casa notturni, solitari, dopo una notte amorosa (e poco conta se d’amore corrisposto o deluso), certi vagabondaggi per le strade d’una città, il nascere d’una amicizia o il compiersi di un addio. Non ho mai interpretato quel che facevo scrivendo e leggendo come la santificazione di una sensibilità superiore, che così spesso mi ricorda la giustificazione di un privilegio sociale, ma come il mio modo di stare nelle cose ed è lì, non nella letteratura, che ho incontrato Pier, e se qualcuno torce il naso perché così non si passa un esame critico, forse avrà pure ragione, ma l’odore che c’è qua fuori è così buono e intenso che io non ho nessuna intenzione di lasciarlo per ottenere diplomi. È nell’odore del mondo, tra le voci che si caricano di sensazioni, che ha le sue radici la scelta di Pier e in questo le sue scelte estetiche le sento fraterne. Ogni suo libro è un po’ come una lettera, un lungo biglietto agli amici, scritto da un certo punto nella vita a chi lo segue e ascolta. Certo non a chi si sente seduto sullo scranno di un’anonima letteratura italiana e fa il vaglio di quel che va bene e quel che va male, come se potesse davvero prendersi sul serio uno scranno del genere. Messe le mani avanti, c’è da aggiungere che alle mie difficoltà personali se ne sommano altre meno soggettive: non solo troppo poco tempo è trascorso dalla morte di Pier per mettersi a fare dei bilanci, ma il fatto che sia morto così giovane fa sì che la sua influenza, il modo in cui aveva percepito l’evolversi di certe trame, sia ancora vitalissima, come dimostrano i tanti che scrivendo sentono di riconoscergli un ruolo. I due versanti della sua attività di scrittore, quello delle opere letterarie e quello dell’attività editoriale, sono ancora discorsi aperti e a me sembra che si possa solo indicare gli elementi che in questi ambiti sono in movimento. Mi sembra innanzitutto utile ricostruire il quadro in cui apparvero i suoi libri, per spiegare tra quali spinte si inseriva, chi reagì e come, cosa ne fece il pubblico. C’è in primo luogo una barriera generazionale molto netta: Tondelli ha avuto una grande importanza per i suoi coetanei e per quelli più giovani di lui, ma non è stato quasi capito da chi era più vecchio. Io reagii, magari anche scompostamente, a una pagina di Alberto Arbasino su “Repubblica” quando Pier morì, forse perché sapevo quanta ammirazione e affetto aveva Pier per lui. Il tono un po’ liquidatorio con cui Arbasino, che pure ne piangeva la morte, parlava del contesto in cui era cresciuto Pier, mi sembrò allora ingiusto. Così pure Goffredo Fofi e il gruppo di “Linea d’ombra”, sempre un po’ troppo compatto, mantenne per tutti gli anni ottanta un tono piuttosto sufficiente nei suoi confronti. Per non parlare di Angelo Guglielmi o dei tanti altri che ostentarono una superiorità in nome di un’idea di letteratura che, a così pochi anni di distanza, è di una straordinaria eloquenza sulla propria miopia. Questa sufficienza, il senso di superiorità, lo ritrovo spesso quando, in dibattiti o in interviste, mi si invita a liquidare a mia volta il lavoro di Pier come fosse uno scrittore sopravvalutato di cui bisogna riprendere, anzi restringere, le misure. Eppure se c’è una sopravvalutazione non è certo reperibile nel mondo della critica o della letteratura. Pier non ha mai vinto un premio e non mi sembra sia stato il darling di nessuna delle nostre scuole letterarie; non è insomma la critica, che non lo ha mai molto lodato, a dover restringere le misure. Piuttosto si dovrebbe allargare il discorso, e in questo il lavoro di Carnero non può che essere prezioso. Tuttavia Carnero testimonia bene l’attenzione per il lavoro di Pier, ma è già un suo postero. Può essere utile, invece, ricordare l’attrito che la pubblicazione dei suoi libri provocò nell’Italia di allora, nominare alcune delle resistenze con cui vennero accolti. La diversa valutazione di Tondelli rispetto a quella che ne offrì la critica a lui contemporanea non è data dalle vendite e neppure da una riconsiderazione critica, ma piuttosto dalla scia che si allarga dietro di lui, che comprende molti nuovi autori, che testimonia una trasformazione della società italiana avvenuta nel corso degli anni settanta e che, nel momento di passaggio, tra il ’79 e l’82, mostrava molti dei suoi elementi vitali. A questa centralità di Pier Vittorio per i più giovani non si può che dare il benvenuto, ma si rischia di non vedere la solitudine di Pier e degli altri, le ragioni della non integrazione di una generazione intera con l’Italia di quegli anni. Si rischia di non vedere la furibonda omofobia di quegli anni. Finiva, negli anni settanta, una fase iperpoliticizzata, chiusa in una visione piuttosto asfissiante, tra ortodossie ed eterodossie marxiste, militanze cattoliche e organizzazioni fasciste; la società adulta era del tutto inadeguata ad accogliere e articolare le curiosità e gli interessi di chi come Pier aveva modelli letterari poco nazionali. Non è solo lo spirito di Autobahn a guardare al Nordeuropa, ma un po’ l’aria che si respira in tutto il suo lavoro, così lontana dai calligrafismi delle avanguardie letterarie e dagli impegni subordinati alla politica dei marxisti, a evadere dalla nostra tradizione. Il benvenuto che lui dà alla moda e in generale alla stravaganza degli anni ottanta è la ragione principale della disapprovazione di “Linea d’ombra”. Credo che lo abbiano trovato un confusionario; a me pare che senza attraversare la confusione di Pier si rimane un po’ al di qua di una frontiera, nelle ortodossie che poi inevitabilmente si trasformano, in un quadro ideologico frammentario come il nostro, in autoritarismi un po’ velleitari e giudizi allegramente arbitrari. “Linea d’ombra” è nata con un progetto importante grazie a un’intuizione significativa di Fofi: è vero che una linea d’ombra fosse passata allora attraverso la letteratura facendole abbandonare temporaneamente la politica, ma le difficoltà che hanno continuamente contrapposto il nucleo di origine ideologica della rivista agli autori con cui via via si è incontrata e poi scontrata (Claudio Piersanti e Giorgio Van Straten, per fare qualche nome, ma ce ne sono altri), e l’aver così poco capito Pier Vittorio, segnano un po’ il limite dell’esperienza della rivista piuttosto che quello di Tondelli. Le poesie e la letteratura non salvano nessuno, non vogliono essere votate né da una giuria né dal popolo per ottenere un mandato, non promettono nulla. Gli autori si mettono in ascolto della realtà in un suo punto sensibile, questo è tutto. Non possono organizzarsi e non possono venire organizzati. C’è probabilmente una componente di narcisismo e megalomania (ma davvero solo negli artisti?), che però può aiutare a riflettere su altre cose, sull’amore e la morte e certo, anche sulla giustizia, ma non per prospettare una trasformazione, solo per raccontare, come hanno sempre fatto gli scrittori, da Dante a Primo Levi. Persino l’ingiustizia sociale, per uno scrittore, finisce con l’essere elemento di un libro. In quanto cittadino, chi scrive è sottoposto come tutti ai casi della storia e può aderirvi o meno, ma in quanto scrittore, proprio come Pier, è interessato a trasformare il mondo che ha di fronte in tessuto del suo racconto; non può mettersi a suonare nessun piffero e se lo fa, prima o poi sceglierà (e può essere una scelta eticamente più alta) la politica, l’agire tra gli altri e il capitanare le loro scelte. Ma questo è diverso dall’ascoltare il mondo, che vuol dire ascoltare le invenzioni fantastiche di Boiardo, Ariosto, Calvino mentre naturalmente, come sempre, intorno a noi c’è anche la fame e la guerra. Questo non significa che la realtà venga estetizzata o che vi sia una rinuncia morale; la buona letteratura si tiene alla larga da entrambi questi pericoli, ma il suo rigore è diverso dall’organizzazione, dal volontariato, anzi diffida intimamente dell’agire, perché non ha nel cuore la salvezza dell’umanità, ma il capire gli uomini. Per “Linea d’ombra” ciò che davvero irritava di Pier, e di numerosi altri, era l’irriducibilità del suo innegabile impegno a un impegno politico, e in questo è il primo autore che ci ha portato oltre la contestazione. Senza banalizzare, in forza di una diversità generazionale. Il dissenso di Arbasino, e dietro di lui di Guglielmi e un po’ di tutti quelli legati alla Neoavanguardia, è più complesso. Pier aveva studiato al DAMS, che in quegli anni era una roccaforte del Gruppo 63. Vi insegnavano, tra gli altri, Eco, Celati, Barilli, Giuliani. Il contributo più importante del Gruppo 63, soprattutto nella sua fase originaria, fu lo scontro, che non si è mai veramente concluso, con una certa idea di cultura. Le belle pagine di Apocalittici e integrati in cui Eco descrive la funzione quasi sacerdotale di certi letterati nell’accogliere o respingere gli autori in un’idea di cultura alta, spesso superficialmente pomposa e retorica, lasciano intuire i problemi che dovette affrontare da giovane con la sua generazione. Tra i protagonisti del Gruppo 63 c’era certo anche gente più vicina ai modelli di Pier: non erano ripiegati su una tradizione nazionale ma avevano visto un po’ d’Europa e di America, sapevano cosa fosse un’industria culturale e quanto l’idea di cultura alta, ancorata ai licei classici e condannata a nutrirsi di sensiblerie, avesse fatto il suo tempo. Al di là dei modi poco cortesi, a parer mio, con cui attaccarono personalmente autori significativi (ma la scortesia, anzi un tono astioso e meschino, è grave anche nei confronti di quelli meno significativi ed è rimasta una venatura purtroppo profonda, caratterizzante, anche negli anni successivi, per alcuni di loro), c’era una battaglia da combattere, che per una parte del gruppo trovò il suo sbocco naturale nel Sessantotto e per altri seguì altre vie. Sicuramente, però, le battaglie del Gruppo 63 contribuirono ai profondi cambiamenti della società italiana da cui venne fuori Pier Vittorio. Adesso bisogna chiedersi se gli strali retorici lanciati da giovani e da una rivista come “Il Verri” contro l’establishment, non cambino di segno quando vengono lanciati, a un’altra età e dai quotidiani e settimanali più venduti del paese, contro i più giovani. Se insomma, detronizzati i vecchi satrapi della cultura italiana, molti di loro non si siano ritrovati seduti, non so quanto involontariamente, sugli stessi scranni, solo più incattiviti e acidi. Cosa non si perdona a Pier da parte di quell’ambito è abbastanza evidente: lo stile, le scelte ideologiche, tutto nei libri di Pier è straordinariamente indisciplinato e non offre nessun ossequioso omaggio ai protagonisti del Gruppo. L’ammirazione per Arbasino ha in alcuni punti della sua produzione una influenza riconoscibile, ma in generale Pier è di un’altra razza. Inoltre è ingrato. Si trova in un certo senso il pranzo pronto e non sa riconoscere chi l’ha cucinato. Gli interessa andare oltre, non continuare una scuola. La libertà nelle scelte letterarie, come nei comportamenti, è figlia da un lato della battaglia del Gruppo 63 e dall’altra dei movimenti degli anni settanta. L’abisso, per esempio, che c’è tra la sua omosessualità, tutto sommato serena, come mostra bene Carnero, comunque non più impugnata come elemento di scontro con la norma, e quella sofferta di un Comisso o quella politicamente aggressiva di un Pasolini, si deve alle coraggiose battaglie civili del FUORI e più in generale alle aperture di quegli anni. Quando poi, all’inizio degli anni ottanta, con la sconfitta della sinistra radicale, riapparvero abitudini nel mondo della cultura che nel decennio precedente o erano state sospese o avevano perso influenza, perché il dibattito culturale non era avvenuto all’interno delle istituzioni ma tra le istituzioni e un mondo giovanile sempre più disgregato e ribelle, il ruolo di questi intellettuali mutò notevolmente. Se negli anni settanta non si pubblicava nulla di giovane perché con quel mondo c’era una guerra (non solo quella delle Brigate rosse, ma una guerra a tutto campo che nell’editoria implicava o la scelta di una strada militante, assai poco adatta alla letteratura, o scarsissime possibilità di pubblicare), negli anni ottanta anche i grandi editori iniziarono ad accogliere nuovi autori; la generazione del Gruppo 63 riprese la sua battaglia, ma da una posizione sostanzialmente nuova. La mancata maturazione di molti dei suoi esponenti portò a ridurre, in modo irritante, concetti duttili, impugnati con fantasia nella passata stagione, a luoghi comuni svuotati. Che Susanna Tamaro vada bene perché scrive con frasette brevi e un altro invece non vada bene perché usa frasi troppo lunghe ha qualcosa di ridicolo. È a ben altro che bisogna guardare e se di stile si vuole parlare non ci si può ridurre a formulette tanto banali. I progetti e le utopie che in un’epoca diversa avevano avuto una funzione, si sono degradati a feticismo linguistico, al tentativo di reperire nel nuovo le tracce di quel che si era, perdendo completamente di vista la complessità dei significati. Umberto Eco, che è l’unico ad avere avuto una comprensione significativa dei problemi della linguistica, non si è mai azzardato a farne l’uso balordo che ha invece caratterizzato altri nel Gruppo 63. C’è poi qualcosa di paradossale nel celebrare i quarant’anni o i cinquanta di un’avanguardia, che nasce – se è autentica – da una frattura nella storia, e non si mantiene in aeternum con i sussidi di un assessorato. Era ormai un’altra età, l’invettiva aveva perso la sprovveduta freschezza di chi opera in un cambiamento e aveva invece inevitabilmente costruito una complessa genealogia; la prosa di molti ex membri del gruppo era diventata opaca, rancorosa, e soprattutto parlava a un’Italia completamente diversa. Arbasino pubblicò feroci stroncature collettive, Guglielmi continuò i suoi poco invidiabili anni d’intolleranza, Giuliani stroncò per l’ennesima volta la Morante, insomma si scatenò una polemica ininterrotta e a trecentosessanta gradi che diede un doloroso segnale di quanto faticoso fosse stato anche per loro vivere le trasformazioni di quegli anni. Gadda, innalzato come un vessillo (e quindi travisato, enfatizzando gli aspetti stilistici e comprendendo poco quelli psicologico-contenutistici), non veniva più letto; ancora oggi dalle schiere della ex neoavanguardia salta fuori ogni tanto qualcuno che si mette a fare strampalati confronti tra quello che loro vedevano annunciato in Gadda come futuro della letteratura e quello che oggi si scrive. La conclusione che forse si dovrebbe umilmente trarre è che non erano in grado, nel caldo della polemica, di elaborare un canone alternativo. Come ho detto, non voglio certo essere io a proporne uno nuovo e tantomeno a restaurarne uno precedente. Vorrei che il campo fosse aperto, ecco tutto. Era proprio la questione dello stile, così centrale per quella generazione, a essere estranea ai nuovi autori, almeno nei termini in cui era stata posta. Pier, con l’energia che lo ha sempre caratterizzato, avvertiva con urgenza la necessità di aprire la letteratura alla contaminazione con il cinema, la musica, la pittura, la moda. Una scrittura troppo sofisticata, dove se non era l’abolizione della punteggiatura era l’uso spregiudicato degli anacoluti, non avrebbe avuto alcuna speranza di entrare nei consumi culturali di una nuova generazione. Pier voleva partecipare di un mondo che premeva da fuori della letteratura e inevitabilmente, difendendo la propria visione, il Gruppo 63 aveva finito con l’arroccarsi entro una serie di parole d’ordine. Con Il nome della rosa, con cui Eco voltò pagina, divenne evidente che i talenti più significativi del gruppo originario (Vassalli, Celati) avevano fatto ormai molta strada per conto proprio, erano diventati come tutti persone che cambiano modo di vivere, di vedere le cose. Con questi il confronto è rimasto aperto e in Pier Vittorio si trovano numerose tracce riconducibili a Eco o a Celati. Altri hanno invece continuato a ribadire un ripudio, ora articolato, ora generico, che al di là delle opere si rivolgeva in realtà alla generazione. Sul valore delle opere di Pier, come dicevo, è comunque presto, almeno per me, per esprimere un giudizio definitivo. Quello che a me pare più interessante, in una produzione così eterogenea, è la libertà che ha sentito nel fare le proprie scelte, e la capacità di rinnovarsi che ha mostrato soprattutto in Camere separate. Ho scritto in un’altra occasione (Altra Italia, “Panta”, 9, 1992) cosa trovo particolarmente significativo, soprattutto nel racconto Postoristoro che apre il suo primo libro e in Camere separate. Non voglio tuttavia sovrappormi, a questo proposito, all’attenta ricostruzione del percorso letterario di Pier Vittorio fatta da Carnero, che offre una prospettiva decisamente diversa dalle due a cui ho fatto cenno, quella politica e quella della Neoavanguardia, e che sono state per così dire quel che c’era a monte di Pier. Carnero invece è a valle, sembra fortunatamente oltre le difficili battaglie che Pier ha dovuto sostenere, fuori dai gruppi come tutti noi, per esprimere il suo mondo poetico.
All’autore di Altri libertini, Pao Pao, Rimini, Camere separate, Un weekend postmoderno e l’Abbandono è dedicato il saggio Lo scrittore giovane – Pier Vittorio Tondelli e la nuova narrativa italiana (Bompiani) di Roberto Carnero, professore a contratto di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi di Verona. Ecco la postfazione (Bompiani/Giunti editore 2018) di…
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1946-1989, IL SECOLO BREVISSIMO DEL MODERNO GENOVESE
di VALTER SCELSI
Scrivere un elenco, anche breve e incompleto, di architetture genovesi del secondo Novecento, come lo chiamiamo, è scrivere di Genova, che poi è scrivere di molte città del mondo, in «un'idea di mondo dove ci si deve labirinticamente smarrire, ma dove, sempre, da qualche parte, si può scoprire un luogo privilegiato, quasi magico, dove tutto si ordina e si compone, almeno in emblema, almeno in allegoria» [1]. Poi dall'elenco, costruito a più mani, leggendo molte riviste di architettura, undici testate [2] nei numeri pubblicati tra l'inizio del 1946 e la fine del 1989, una sorta di “secolo brevissimo” ad uso pratico, o meglio, dalla combinazione dell'elenco con le memorie degli autori di questo lavoro collettivo, emerge la vecchia questione di quanto noi, comunemente, usiamo l'architettura come “fatto espressivo”, anche senza escluderne funzionalità o altri elementi di senso [3]. Ma in questa molteplice attribuzione di significato, l'architettura ci complica il lavoro, consegnandosi principalmente attraverso la propria immagine, che, come tale, pone resistenza a offrirsi come un sistema di significazione, per via di quello che viene definito il suo carattere “analogico”, che la distingue dal linguaggio articolato e organizzato.[4] Tale carattere analogico è espressione del carattere continuo delle immagini, organizzate in concatenazioni spaziali che poi, nel caso esemplare del cinema, vengono rafforzate dall'essere, secondo Roland Barthes, anche successioni temporali. Un edificio visto in un film, viene proposto secondo una sequenza selezionata e selettiva di punti di vista, ordinati linearmente. Così il film, che si pone come uno strumento, a suo modo classico, in grado di tentare la costituzione di un rapporto di senso tramite il montaggio, la scelta delle sequenze e la disposizione dei singoli “frame”, ha ospitato il racconto del nostro elenco, breve e incompleto, che è poi è anche una guida, ancor più lacunosa e parziale, di questa città.
La possibilità di montaggio-assemblaggio, o meglio, la combinazione di queste azioni con l'apertura dei personali archivi mnemonici, consente il recupero di due brevi (e lontani, e giacenti) testi dove, scrivendo di Genova, trattavo di cinema e di guide (il primo scritto nel 1996, il secondo nel 2004). In sostanza, la combinazione di questi depositi intende proporre una dialettica tra dimensione narrativa e codici di interpretazione di un'epoca.
La cinepresa viaggia verso ponente lungo la sopraelevata, filmando la palazzata della Ripa, il fronte della città storica. Con le immagini scorrono i titoli di coda del cortometraggio di Giorgio Bergami “Genova alla finestra”. L'anno è il 1977. Nell'ambito della rassegna “I set di Genova e della Liguria”, ospitata durante il mese di maggio nella sala Pietro Germi, il film di Bergami ci ha offerto, il solo, la testimonianza di un passato prossimo – gli anni settanta – di crisi e di sedimentazione dell'assetto urbanistico cittadino; nel centro gli ultimi sventramenti del tessuto antico, sulle alture la faticosa ricostruzione delle identità locali confuse o sovrastate dal caos edilizio del dopoguerra. Bergami racconta, sul sottofondo di voci e dialetti diversi, una città di finestre che si affacciano su strade strette dove, nella quiete della sera, si confondono i suoni e le parole delle televisioni, le grida dei bimbi, i rumori delle cucine.
Bergami è un fotografo genovese, uno di quelli che vogliono bene alla città – parlando la dice straordinaria, bellissima – e che sanno dove puntare l'obiettivo, dove cercare. Vent'anni fa, come prova generale alla vigilia di un incarico di direttore della fotografia in RAI, gira il documentario lungo 25 minuti che considera “riassunto e prodotto del suo lavoro sulla città”, e commette un errore.
Genova è, in quegli anni, una città senza turismo, sconfortata dalla crisi del porto e dal conseguente degrado generale della propria immagine, che conosce bene le proprie vergogne, sente parlare di speculazione edilizia e si accorge di esserne piena. Certo – a ben vedere – l'epoca d'oro dei palazzinari si è conclusa da un pezzo, ma, sotto la luce fredda della recessione economica (la crisi, come si dice), la cementificazione delle colline appare in tutto il suo irrimediabile squallore.
Intanto, nell'atmosfera di attesa fiduciosa del nuovo piano regolatore (quello che sarà il P.R.G. dell'80), si ritiene giusto, allo scopo di costituire un'immagine divulgabile della città, concentrare l'attenzione sull'enorme qualità del tessuto storico ancora pressoché intatto.
E le periferie? Di quelle si parla soprattutto in privato, a volte sulle pagine dei giornali cittadini, ma conviene non farle tanto vedere in giro, magari all'estero, se non si vuole rovinare tutto. Ecco perché Bergami ha sbagliato. E dire che era partito bene, la sua lunga soggettiva sui vicoli piaceva un po' a tutti. I tetti, le finestre, le vecchie botteghe, il colore dei carruggi sembravano cose ben esportabili. Erano le immagini di una città antica e misteriosa, ricca di una fotogenia mai completamente compresa e sfruttata prima. Le amministrazioni locali si interessarono al lavoro di Bergami, gli fecero sapere che avrebbero utilizzato volentieri il suo cortometraggio – che, intanto, a Roma negli ambienti vicini alla RAI raccoglieva consensi – come biglietto da visita della nascente anima turistica genovese. A un patto, però. I dieci minuti finali, con tutto quel caos edilizio, quella speculazione senza rimedio, quelle migliaia di metri cubi composti a caso sulle colline dovevano scomparire. Le periferie enormemente più estese e densamente popolate della città storica erano, nei tardi anni settanta, un dato di fatto che si poteva negare senza tanta pena. Non avevano, i quartieri collinari, neanche il diritto di possedere un'immagine.
La storia finisce con Bergami che rifiuta di mutilare il film.
Quando circa un anno fa, nel tentativo di mostrarmi arguto, chiesi a Edoardo Sanguineti se avrebbe mai potuto scrivere una guida turistica della propria città, sul tipo di quella scritta da Fernando Pessoa per Lisbona, lui mi rispose che, in effetti, lo stava proprio facendo. Città di mare Lisbona e poeta, come sapete, Pessoa. Città di mare Genova e poeta Sanguineti, come sapete. Un simile intreccio analogico impone un po’ di cronologia, così come di seguito. Nel 1888 Pessoa nasce a Lisbona. Nel 1905 Pessoa torna a Lisbona dopo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi a Durban, in Sudafrica. Nel 1925 Pessoa scrive in inglese, ma non pubblica, l’ultima stesura della guida “Lisbon, What the Tourist Should See”. Nel 1930 Sanguineti nasce a Genova. Nel 1934 Sanguineti si trasferisce con la famiglia a Torino. Nel 1935 Pessoa muore (o, come dicono, si spegne) a Lisbona. Nel 1974 Sanguineti torna a Genova, usque ad mortem, come egli suppone (mentre, per inciso, a Lisbona è l’anno della rivoluzione dei garofani). Nel 1988 è riscoperta tra le carte di Pessoa la guida di Lisbona, che viene pubblicata nel 1992 dalla casa editrice Livros Horizonte, di Lisbona. Nel 1994 Lisbona è città europea della cultura. Nel 2004 Genova è capitale europea della cultura (che poi è la stessa cosa della città europea della cultura: hanno solo cambiato il nome). Sempre nel 2004 esce la guida Genova per me, scritta da Sanguineti per Alfredo Guida Editore. Nel 2005 il libro raggiunge le nostre librerie. In occasione dell’evento GeNova 2004, chiedono a Sanguineti di partecipare, con una poesia (inedita) che parli di Genova, a un volume collettivo di testimonianze varie. Sanguineti risponde che non può: è proprio sul punto di partire per - pensate un po’ - Lisbona. Gli spiegano che può scriverla a Lisbona, una piccola poesia per Genova, e consegnarla al suo ritorno. «Così scrivo davvero, laggiù, un acrostico di s ei versi, che sono questi:
Guardala qui, questa città, la mia:
E' in riva al Tejo che io cerco Campetto,
Nel Barrio Alto ho trovato Castelletto,
O un Cable Car su in vico Zaccaria;
Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto
A replicarne un po' la psiche e il volto.»
Dalla combinazione di questi due reperti (combinazione variabile, per la verità: cinema e turismo, periferia e poesia, porto e città) potrebbe risultare, per via analogica, l'immagine di un luogo in carenza di definizione, in un paesaggio dove quello che perde l'architettura del secondo Novecento è la “levigatezza”, la qualità che Elias Canetti aveva individuato come espressiva dell'architettura moderna della prima parte del secolo [5], e dove, anzi, il carattere scabro delle superfici diventa programmatico; la bocciardatura in opera dei conci del museo del tesoro di San Lorenzo o della tomba Galli, il cemento scalpellato del Centro dei Liguri e l'intonaco a rinzaffo dell'impianto sportivo di Valletta Cambiaso [6] esprimono una volontà di opacità anti-purista, capace di farsi espressione di una posizione critica. Quello che restituisce, quindi, la Genova del secondo Novecento è l'espressione di un prodotto poetico, generato anche attraverso il suo variegato e incerto processo architettonico.
Nel 1972, quasi a metà di questo “secolo brevissimo” del Moderno genovese, una mostra [7] espone due immagini di soggetto analogo: il porto di Genova. Si tratta di un'opera di Max Beckmann, dipinta del 1927, e di una tela di Oskar Kokoschka, del 1933. Quasi simultanee opere di due pittori di lingua tedesca, praticamente coetanei [8].
Nel tentativo di aprire un discorso intorno all'immagine della città e di rendere Genova caso emblematico di tale ricerca, nel catalogo della mostra l'esposizione del “discorso per immagini” del movimento radicale viene affiancato alle letture strutturaliste che propongono l'architettura come “linguaggio debole” che si esprime secondo catene analogiche di immagini. In tale tentativo, i due dipinti che rappresentano la città e il porto nel pieno sviluppo dell'era della macchina descrivono un'architettura che, se perde alcuni dei propri connotati storici, lo fa fissandosi come elemento del paesaggio, al pari del mare, delle macchine e degli uomini. «La modificazione potrà avvenire - avverte Vittorio Gregotti nel testo “Architettura della città”, presente nella pubblicazione -, come nella lingua, secondo il contributo di opere di alta poesia, secondo piccoli spostamenti funzionali o secondo vasti rimaneggiamenti strutturali.»
[1] Edoardo Sanguineti, Genova per me, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2004.
[2] Abitare, Casabella, Controspazio, Domus, L'Architettura Cronaca e Storia, L'Industria delle Costruzioni, Lotus, Metron, Spazio e Società, Urbanistica, Zodiac.
[3] Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Milano, 1968.
[4] Roland Barthes, Sémiologie et Cinéma, 1964.
[5] «si parla di funzionalità, di chiarezza, di ma ciò che veramente ha trionfato è la levigatezza e il segreto del potere che vi è insito.» Elias Canetti, Masse und Macht, Hamburg, 1960; ed. it. Massa e potere, Milano, 1972.
[6] Franco Albini, Museo del Testoro di San Lorenzo, Genova, 1952-1956; Carlo Scarpa con P. Terrasan, G. Tommasi, M. Pastorino, Tomba Galli, cimitero di Sant'Ilario, Genova-Nervi, 1981; Marco Dasso, Angelo Bruzzone, Centro Direzionale dei Liguri, via Madre di Dio, Genova, 1972-1980; Franco Albini, Franca Helg, Stadio del tennis di Valletta Cambiaso, 1955-1956.
[7] L'immagine della città, a cura di Gianfranco Bruno, Palazzo dell'Accademia e Palazzo Reale, 8 aprile – 11 giugno 1972
[8] Max Beckmann, Lipsia, 12 febbraio 1884 – New York, 27 dicembre 1950.
Oskar Kokoschka, Pöchlarn, 1 marzo 1886 – Montreux, 22 febbraio 1980.
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Il Calice della Vita di Glenn Cooper: Alla ricerca del Graal tra storia e mistero. Recensione di Alessandria today
Un viaggio avvincente tra passato e presente sulle tracce del segreto più ambito della storia.
Un viaggio avvincente tra passato e presente sulle tracce del segreto più ambito della storia. Recensione dettagliata.“Il Calice della Vita”, romanzo , intreccia magistralmente due linee temporali: il XV secolo e l’epoca contemporanea. Nel passato, Thomas Malory, noto autore de La morte di Artù, si dedica a proteggere un segreto di inestimabile valore, lasciando dietro di sé una catena di…
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Le migliori serie tv del 2016
Westworld
Grande serie doveva essere e grande serie è stata. Dopo passi falsi al limite del grottesco HBO è riuscita ad imbroccare la serie perfetta, probabile erede per successo e ambizioni del fenomeno Game of Thrones. In cabina di regia Jonathan Nolan, fratello di Christopher abile a portare a casa una storia dal sapore classico (fantascienza+western) ma dal risultato tremendamente innovativo. Complessità oltre ogni limite, livello di scrittura altissimo e potenza narrativa a livelli estremi sono stati i punti di forza di un prodotto adulto e ambizioso, capace di farsi guidare dalle sue stesse tematiche e di costruire un discorso profondo e multistratificato. A puntellare il tutto un cast stellare e la volontà di puntare ancora più in alto per la seconda stagione. La televisione si è ulteriormente avvicinata al cinema e, di questo passo, potrebbe pure superarlo. Voto 9
The Young Pope
La serie italiana più bella di sempre? Il lavoro più bello di Paolo Sorrentino. Quando si parla di questa serie il termine capolavoro è quasi d'obbligo. La storia del giovane papa Pio XIII rappresenterà il punto di rottura definitivo nel mondo della serialità italiana e internazionale, l'ennesimo passo di Sorrentino verso l'olimpo dei migliori. Una serie rivoluzionario sotto tutti i punti di vista, un film di 10 puntate che raggiunge profondità e complessità impossibila da ritrovare in una pellicola di 90 minuti. Merito di un cast stellare e di una storia/non storia guidata da emozioni e sentimenti e dalla storia di personaggi tanto complessi e forti da commuovere. Il tutto con la solità profondità, il solito tatto e la solita forza espressiva di un regista in costante ascesa. Serie unica nel suo genere, capolavoro da ricordare per lungo tempo, pietra miliare che non dimenticheremo facilmente. Voto 10 Speechless
La comedy dell'anno e la nuova serie di Scott Silveri (già sceneggiatore di Friends) in onda su ABC. La storia è quella di una folle famiglia americana con figlio disabile al seguito. Gli schemi sono quelli classici di una sitcom moderna, ma con l'originalità del contesto e del tema della disabilità, finalmente affrontato con spirito sagace e ironico, con quel tocco di politicamente scorretto che mancava nel fino ad ora carente racconto televisivo sulla disabilità. In questa serie si ride e lo si fa di gusto, ad una velocità folle, con personaggi ben riusciti e un coraggio fuori dal comune. A svettare su tutto una forte vena critica sugli stereotipi e il perbenismo che da sempre intrappolano la disabilità ascrivendola a problema sociale. Aspettavamo da anni una serie del genere. Voto 8 Stranger Things
La sorpresa dell'anno, la serie che non ti aspetti capace di balzare in testa a tutte le classifiche del 2016. Lanciata in piena estate da Netflix, questo thriller è diventato il caso televisivo dell'anno, un successo senza precedenti per la serie capace di farsi apprezzare dal almeno 3 generazioni diverse. Merito di una storia semplice ma raccontata alla grande per un thriller come non se ne vedevano da tempo, cristallino omaggio in chiave moderna agli anni 80 tra tematiche, citazioni e un cast di bambini che vorremmo non crescessero mai. La storia perfetta che tanti aspettavano, l'omaggio definitivo per un'epoca d'oro che non tornerà più ma che continua a scaldare i nostri cuori. Tanto di cappello ai Fratelli Duffer e al loro coraggio. Voto 8 Gilmore Girls
Lungi da noi considerare A Year in the Life la serie più riuscita dell'anno ma sarebbe ipocrita non considerare il peso che questo revival ha avuto su un numero altissimo di spettatori in tutto il mondo. Netflix si eleva per l'ennesima volta regalando agli appassionati la degna conclusione ad una serie che, nel bene e nel male, ha segnato la televisione dei primi anni 2000. I quattro film di questo finale sono stati i più discussi e criticati dell'anno: in anni dove è la nostalgia per il passato a farla da padrone non possiamo non riconoscere il valore di determinate storie sulle nostre vite, capaci di mantenere intatta la loro magia nonostante anni di silenzio. Un ritorno atteso e ben riuscito, capace di centrare il segno e fare più o meno pace con un passato ingombrante finalmente spazzato via. Ne sentiremo ancora parlare, la storia non è chiusa qui. Voto 7
The Crown
Altra serie Netflix, altro prodotto di ambizioni infinite. Quella della regina Elisabetta è una storia delicata e difficile, qui affrontata con una maestria e una cura nei dettagli maniacale. Ricostruzione storica perfetta, grandi attori, libertà narrative ben riuscite: la serie non esagera mai, setta la sua asticella in alto e mantiene inalterata la sua forza dall'inizio alla fine. Mai vista una serie capace di tenersi sullo stesso livello dall'inizio alla fine senza il minimo segno di cedimento o sbandamento. La storia, pur navigando su acque tranquille e misurate, è affascinante e interessante, curata e imponente, capace di ammaliare indistintamente ogni fascia di pubblico. Quale che sia il vostro genere di riferimento una serie assolutamente da non perdere sotto tutti i punti di vista. Voto 8
This is us
Altro caso televisivo dell'anno, amatissimo negli USA e in Italia. Successo meritato per un dramma corale potente e moderno, come non se ne vedevano da troppo tempo. Merito di Dan Fogelman e di un'idea e di un cast ricco di personaggi con cui è facile empatizzare. Quelli dei protagonisti sono i problemi della vita di tutti noi, tanto forti da stordire, tanto reali da emozionare e commuovere. Una serie di sussulti emozionali imperdibili, con un Milo Ventimiglia in grande spolvero e una vicenda ancora tutta da scrivere e da scoprire ma già interessante e appassionante. Voto 7,5
American Crime Story – The People v OJ Simpson
Prendete un caso di cronaca che ha appassionato milioni di persone in tutto il mondo, unitelo ad un brand di successo come American Horror Story e alle possibilità infinite che può regalare una serie antologica e avrete come risultato uno dei prodotti più clamorosi del 2016. The People v OJ Simpson si è distinto per un cast stellare, una cura nei dettagli manicale e una forza emotiva fortissima per un thriller bellissimo e ben strutturato che ha meritato tutti i premi e le nomination che ha ricevuto e continuerà a ricevere. Voto 8
Game of Thrones 6
Risollevare la testa dopo il fallimento più o meno totale della quinta stagione era difficile, ma Benioff e Weiss ci sono riusciti. Allontanato lo spettro ingombrante dei libri di Martin, i due autori hanno costruito la loro storia, liberando tutte le corde letterarie e spiccando il volo come mai era accaduto. La vicenda si è lanciata a grandi passi verso il gran finale, regalando ai fan momenti finalmente felici e svolte narrative che ci si aspettava da tempo. Una stagione non perfetta ma costruita per essere un totale, sincero e appagante omaggio ai fan della serie tv e della saga in generale. Dopo anni di sofferenze la seste stagione è stata l'apoteosi dei grandi momenti, mai come prima d'ora così forti e potenti. Anche nel 2016 la serie non si smentisce, elevandosi a impareggiabile e ambizioso prodotto di intrattenimento, unico nel suo genere e irripetibile per parecchio tempo. Voto 8,5
Gomorra 2
La serie italiana più internazionale si conferma la migliore anche al secondo tentativo. Le ambizioni erano tante e non sono state deluse. La storia si è fatta ancora più cupa e forte, la vicenda violenta e sempre più reale, i personaggi si sono evoluti e la reale prova del nove è stata ampiamente superata. Per ora nessuna serie italiana è riuscita a raggiungere tali vette estetiche e narrative e non ce ne vogliano I Medici se non sono stati inseriti in questa classifica: il livello di Gomorra – La Serie è ancora troppo alto e la storia troppo appassionante, potente e iconica per non essere considerata come una delle migliori del 2016. Questa serie è grande, capace di catturare un pubblico eterogeneo e variegato: sia quello più vicino al mondo della fiction italico sia quello abituato ad una serialità internazionale molto più alta. Se non è un pregio riuscire a piacere a tutti diteci voi qual è. Voto 8,5
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La ragazza di Montmartre di Aimie K. Runyan: Due epoche, una città e una storia di resilienza. Recensione di Alessandria today
La ragazza di Montmartre, scritto da Aimie K. Runyan, è un'opera avvincente che ci trasporta in una Parigi dai contrasti forti, divisa tra le tensioni della guerra del 1870 e le cicatrici lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale nel 1946.
Un romanzo che intreccia passione, coraggio e tradizione culinaria La ragazza di Montmartre, scritto da Aimie K. Runyan, è un’opera avvincente che ci trasporta in una Parigi dai contrasti forti, divisa tra le tensioni della guerra del 1870 e le cicatrici lasciate dalla Seconda Guerra Mondiale nel 1946. Con un abile intreccio narrativo, l’autrice ci racconta le vite di due donne straordinarie,…
#Aimie K. Runyan#Aimie K. Runyan libri#Alessandria today#ambientazione storica#comunità e solidarietà#cultura francese#donne e guerra#donne nella storia#forno di Montmartre#Google News#italianewsmedia.com#La ragazza di Montmartre#Laurent Tanet#letteratura americana moderna#letteratura femminile#letteratura storica#Letture consigliate#libri ambientati a Parigi#Lisette Vigneau#Micheline Chartier#Montmartre#narrativa americana#narrativa contemporanea#narrativa emozionante#narrativa storica internazionale#narrativa sul cibo#narrativa sull’amore#panificazione e storia#Parigi#Pier Carlo Lava
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Recensione completa: Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn. A cura di Alessandria today
Pubblicato in Italia da Einaudi, Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn è un'opera monumentale, intensa e profondamente personale.
Introduzione all’opera:Pubblicato in Italia da Einaudi, Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn è un’opera monumentale, intensa e profondamente personale. Questo libro, a metà strada tra memoir, reportage e romanzo storico, esplora le radici familiari dell’autore attraverso un’indagine sulla sorte di sei membri della sua famiglia, vittime dell’Olocausto. Mendelsohn intreccia una narrazione che è al…
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Dario Galimberti torna con “Una lezione di rivalsa”: un atroce delitto porterà il delegato Beretta nel cuore delle tenebre, dove la verità è più oscura delle montagne che la circondano
“Una lezione di rivalsa”, in uscita il 9 gennaio per Indomitus Publishing, segna il ritorno di Dario Galimberti con il quinto, attesissimo capitolo della serie gialla noir dedicata al delegato di polizia Ezechiele Beretta.
“Una lezione di rivalsa”, in uscita il 9 gennaio per Indomitus Publishing, segna il ritorno di Dario Galimberti con il quinto, attesissimo capitolo della serie gialla noir dedicata al delegato di polizia Ezechiele Beretta. Un successo consolidato che, con ogni nuova uscita, conquista il cuore degli appassionati di gialli storici e noir, confermandosi come una delle serie più amate del panorama…
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L'armonia segreta di Geraldine Brooks: Un Viaggio nell'Età del Ferro attraverso la Vita di Re Davide. Recensione di Alessandria today
Un ritratto affascinante e intenso di uno dei leader più enigmatici della storia biblica
Un ritratto affascinante e intenso di uno dei leader più enigmatici della storia biblica Un romanzo che riporta in vita l’epoca antica “L’armonia segreta” di Geraldine Brooks è un’opera straordinaria che si addentra nelle pieghe dell’Antico Testamento, ricostruendo la vita di Re Davide, figura leggendaria e complessa dell’Età del Ferro. Con una scrittura potente e coinvolgente, Brooks combina…
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L'Ultima Città Perduta: un sequel mozzafiato tra avventura e mistero. Recensione di Alessandria today
Fernando Gamboa ci riporta nel mondo di Ulises Vidal con un viaggio indimenticabile verso l’ignoto
Fernando Gamboa ci riporta nel mondo di Ulises Vidal con un viaggio indimenticabile verso l’ignoto L’Ultima Città Perduta, scritto da Fernando Gamboa, è il secondo volume della serie Le avventure di Ulises Vidal, seguito dell’acclamato L’Ultima Cripta, che ha conquistato il titolo di romanzo più venduto nella storia di Amazon Spagna. Questo nuovo capitolo è un mix di azione, suspense e mistero,…
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Tango Freddo di Dora Ross: Un romanzo di emozioni congelate e destini intrecciati. Recensione di Alessandria today
Una danza tra passato e futuro, realtà e distopia.
Una danza tra passato e futuro, realtà e distopia. Recensione dettagliata Tango Freddo di Dora Rossi è un romanzo complesso e stratificato, che si muove tra la narrazione storica e un presente distopico. Non è un manuale di passi di danza, ma una metafora potente: il tango diventa il filo conduttore che unisce i personaggi, le loro paure, i rimpianti e le speranze. L’autrice dipinge una storia…
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"Quell’estate del 1980" di Giorgio M. Ghezzi: tra memorie storiche e intime riflessioni
Un romanzo che intreccia storia personale e collettiva in un’estate segnata dalle tragedie italiane
Un romanzo che intreccia storia personale e collettiva in un’estate segnata dalle tragedie italiane Giorgio M. Ghezzi torna in libreria con “Quell’estate del 1980”, un romanzo che cattura l’essenza di un periodo storico turbolento attraverso la prospettiva di due personaggi profondamente umani: Benito, un architetto affermato ma tormentato, e Alfredo, il nipote che trascorre l’estate con lui.…
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