#città perdute
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“The Lost Town” di Anonymous: un romanzo che racconta l’eco del silenzio tra le strade dimenticate dell’America profonda. Recensione di Alessandria today
Un viaggio narrativo tra rovine emotive, paesi abbandonati e la fragile identità di chi cerca ancora un senso Informazioni essenzialiAutore: AnonymousAnno di pubblicazione: 2025Genere: Narrativa contemporanea, introspezione, dramma esistenzialeValutazione: ★★★★☆ RecensioneThe Lost Town è un libro che riesce a essere potente senza mai urlare. Ambientato in un paesino fantasma dell’ovest…
#Alessandria today#alienazione#autore anonimo#autore misterioso#autori 2025#città perdute#desolazione americana#Google News#identità smarrita#introspezione#italianewsmedia.com#Lava#letteratura anonima#letteratura profonda#lettura consigliata#Lettura Intensa#libro ambientato in America#memoria e tempo#narrativa americana#narrativa contemporanea#narrativa riflessiva#narrativa simbolica#nuova narrativa#paesi fantasma#parole e vuoti#Pier Carlo#polvere e silenzio#Recensione libro#romanzo 2025#romanzo d’atmosfera
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«Quanto silenzio
che si accumula
nel breve spazio da una bocca a un'altra
fino a fondare il bacio. Quanti anni
per scoprire alla fine quanto lontano, sì, quanto lontani
si ritrovano sempre due corpi che si amano.
Tutto quello che mai siamo riusciti a dirci
in quella città d'autunno,
mi parla
col tuo accento di cose per sempre perdute.
E da qualche luogo
forse del disamore, o dell'oblio
di quello che mi ha reso felice, forse, un tempo,
– le tue mani, la tua pelle – mi giunge adesso
un odore di zagare che mi avvolge e che bacia
dolcemente i miei occhi, le mie labbra, un momento...»
(Inmaculada Mengíbar)

#silenzio#bocca#baciare#tempo#lontano#parole non dette#città d'autunno#cose perdute#disamore#oblio#momenti felici#zagare
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L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro.
Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Poi pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta: luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare. Nessuna di queste cose causerà disastri.
Ho perduto l’orologio di mia madre. E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case. L’arte di perdere non è difficile da imparare.
Ho perso due città, proprio graziose. E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente. Mi mancano, ma non è stato un disastro.
Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato).
Questa è la prova. È evidente, l’arte di perdere non è difficile da imparare, benché possa sembrare (scrivilo!) un vero disastro.
{Elizabeth Bishop — L’arte di perdere}
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Dio solo sa quanto tutti noi siamo attratti da ¢iò che è bello e dannato.
(Cassandra Clare, Shadowhunters, Città delle anime perdute)
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C’è un mondo vecchio, fondato sullo sfruttamento della natura madre, sul disordine della natura umana, sulla certezza che di sacro non vi sia nulla. Io rispondo che tutto è divino e intoccabile: e più sacri di ogni cosa sono le sorgenti, le nubi, i boschi e i loro piccoli abitanti. E l’uomo non può trasformare questo splendore in scatolame e merce, ma deve vivere e essere felice con altri sistemi, d’intelligenza e di pace, accanto a queste forze celesti. Che queste sono le guerre perdute per pura cupidigia: i paesi senza più boschi e torrenti, e le città senza più bambini amati e vecchi sereni, e donne al disopra dell’utile. Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra. Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è un luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli altri viventi. E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. Noi, oggi, temiamo la guerra e l’atomica. Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie -, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.
Anna Maria Ortese, "Corpo celeste", Adelphi, Milano 1997
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RITROVATA LA TALPA DORATA RITENUTA ESTINTA DA 86 ANNI

Non veniva avvistata dal 1936, la talpa d’oro di De Winton (Cryptocloris wintoni) temuta estinta, riscoperta nella sabbia vicino alla città costiera di Port Nolloth, nel nord-ovest del Sudafrica.
Il piccolo mammifero prende il nome “d’oro” dalle secrezioni oleose che lubrificano la sua pelliccia che le permettono di “nuotare” tra le dune di sabbia, senza creare tunnel ma seppellendosi tra esse e rimanendo praticamente impossibile da vedere. Si tratta di uno degli animali più sconosciuti del pianeta ed è stata ritrovata dopo due anni di ricerche da un gruppo di ambientalisti dell’Endangered Wildlife Trust e dell’università di Pretoria e grazie al fiuto di un cane appositamente addestrato per seguire le tracce. La talpa d’oro di De Winton è l’undicesima delle specie perdute più ricercate al mondo ad essere riscoperta dal programma Search for Lost Species lanciato nel 2017 insieme a Re:wild.
Il team di ricercatori ha utilizzato una tecnica mai utilizzata prima per rilevare la talpa d’oro, il DNA ambientale (eDNA) che è il materiale biologico che gli animali perdono mentre si muovono nell’ambiente, tipicamente sotto forma di cellule della pelle, peli ed escrezioni corporee. Oltre a vivere in tane in gran parte inaccessibili, le talpe dorate hanno un udito estremamente sensibile e possono rilevare le vibrazioni derivanti dai movimenti sopra il suolo, il che le aiuta a evitare di essere viste dalla superficie. “Questa frontiera dell’eDNA apre un’enorme quantità di opportunità non solo per le talpe ma per scoprire altre specie perdute o in pericolo” secondo C. Theron Dell’EWT.
___________________
Fonte: Re:wild; foto di Nicky Souness
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L'arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall'intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell'ora sprecata. L'arte di perdere non è difficile da imparare. Pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta: luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare. Nessuna di queste cose causerà disastri. Ho perduto l'orologio di mia madre. E guarda! L'ultima, o la penultima, delle mie tre amate case. L'arte di perdere non è difficile da imparare. Ho perso due città, proprio graziose. E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente. Mi mancano, ma non è stato un disastro. Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente, l'arte di perdere non è difficile da imparare, benché possa sembrare un vero (scrivilo!) disastro.
Elizabeth Bishop
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qualsiasi qualdove
ho cambiato i cuscini del divano, ora ci sono i verdi muschio di velluto di muschio, ché domani pioverà
sorella ha comprato un cerchietto ocra a pois al mercato a roma, quelli anni 50 dice, quelli che son intrecciati e pare che ci ho messo un foulard attorno, è contenta del suo caschetto, non vedo l'ora di vederla, intanto guido via dalla stazione e io ho un caldo strano.
babbo è in montagna, a mostrare l'eremo di santa sperandia, che è una santa che era una bambina speciale che poi è diventata badessa e ora c'è una grotta che era suo rifugio, ci arrivi dopo 430 scalini, ci va con gli alumni dell'università degli adulti, mi ha pure stampato il programma scritto in word che ora sta accanto ai cuscini verde muschio vicino ai ciclamini ciclamini che mi ha regalato lui
è mezzogiorno, io ho un caldo strano, sarà arrivato in cima a mangiar il panino con la mortadella
sole cocente, ho visto una castagna per terra sul marciapiede sotto casa, sola. son diventata triste, sembrava triste, come un pesce saltato fuori dal lago, e ora? dice, dove vado
guidavo e m'è passata davanti una gazza veloce, stavo cantando Fast car, mi chiedevo se stessi andando veloce pure io e magari fosse un segnale, e poi se tu andavi veloce al tempo, ma non credo, però quel cd ci piaceva tanto, ricordo la consistenza piatta quadrata e Tracy d'ombra che guarda in basso, di ocra e di nero, nessuno di noi andava veloce, chissà se ci capivamo qualcosa del senso, eppure quella canzone è arrivata intatta fin qui, oggi qualsiasi di sabato d'ottobre, siamo in montagna con le badesse al mercato a misurare i cerchietti che non avremmo mai indossato prima a guardare castagne fuori tempo perdute in città, e tu dove sei?
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L’arte di perdere non è difficile da imparare; così tante cose sembrano pervase dall’intenzione di essere perdute, che la loro perdita non è un disastro. Perdi qualcosa ogni giorno. Accetta il turbamento delle chiavi perdute, dell’ora sprecata. L’arte di perdere non è difficile da imparare. Poi pratica lo smarrimento sempre più, perdi in fretta: luoghi, e nomi, e destinazioni verso cui volevi viaggiare. Nessuna di queste cose causerà disastri. Ho perduto l’orologio di mia madre. E guarda! L’ultima, o la penultima, delle mie tre amate case. L’arte di perdere non è difficile da imparare. Ho perso due città, proprio graziose. E, ancor di più, ho perso alcuni dei reami che possedevo, due fiumi, un continente. Mi mancano, ma non è stato un disastro. - Ho perso persino te (la voce scherzosa, un gesto che ho amato). Questa è la prova. È evidente, l’arte di perdere non è difficile da imparare, benché possa sembrare un vero (Scrivilo!) disastro.
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L'Ultima Città Perduta: un sequel mozzafiato tra avventura e mistero. Recensione di Alessandria today
Fernando Gamboa ci riporta nel mondo di Ulises Vidal con un viaggio indimenticabile verso l’ignoto
Fernando Gamboa ci riporta nel mondo di Ulises Vidal con un viaggio indimenticabile verso l’ignoto L’Ultima Città Perduta, scritto da Fernando Gamboa, è il secondo volume della serie Le avventure di Ulises Vidal, seguito dell’acclamato L’Ultima Cripta, che ha conquistato il titolo di romanzo più venduto nella storia di Amazon Spagna. Questo nuovo capitolo è un mix di azione, suspense e mistero,…
#Alessandria today#autori spagnoli di successo#avventura nella giungla#avventure Ulises Vidal#città dimenticate#città leggendaria#città perdute#esplorazione archeologica#esplorazione e pericolo#Fernando Gamboa#Fernando Gamboa libri#Fernando Gamboa romanzi#Google News#italianewsmedia.com#L’Ultima Città Perduta#L’Ultima Cripta#Letture consigliate#letture imperdibili#libri consigliati Amazon#libri d’avventura storica#libri di avventura#libri Kindle#libri per esploratori.#migliori romanzi d’avventura#mistero e suspense#mitologia e archeologia#narrativa moderna#narrativa spagnola#Pier Carlo Lava#romanzi bestseller Amazon
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Quasi rubata agli abissi dell'oceano cosmico, strappata ai siderali silenzi dell'ignoto ove giace la memoria del tempo, la musica di JHLOS come un antico incantamento profonde in note vellutate e sfuggenti un arcaico sapore di ricordi. Suggerisce visioni remote : città di cristallo, terre perdute. Dalla combinazione di timbri e di accordi affiorano mondi sconosciuti dai ritmi velati e gravi giunge un richiamo ancestrale. Sonorità e melodie si intrecciano in un cielo immobile e lontano, suscitando, in un occulta e sapiente mistura alchemica, una ridda di sensazioni contrastanti e avvolgenti. Maurizio Cavallo Jhlos art by_imaginarydawning_ **************** Almost stolen from the depths of the cosmic ocean, torn from the sidereals silences of the unknown where lies the memory of time, the music of JHLOS like an ancient enchantment deep in velvety notes and an archaic flavor of memories escapes. It suggests remote visions: crystal cities, lost lands. Worlds emerge from the combination of timbres and chords unknown from the veiled and serious rhythms comes an ancestral call. Sounds and melodies intertwine in a still and distant sky, arousing, in an occult and wise alchemical mixture, a riot of contrasting and enveloping sensations. Maurizio Cavallo Jhlos art by_imaginarydawning_
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Le Antiche Città Misteriose: Verità o Mito?
Esplora con noi "Le Antiche Città Misteriose: Verità o Mito?" in questo avvincente viaggio attraverso rovine enigmatiche come Tiahuanaco, Machu Picchu e Göbekli Tepe.
Scopri come gli antichi popoli costruirono opere straordinarie senza strumenti moderni e se possedessero conoscenze perdute. Ci sono segni di contatti con entità superiori, o queste civiltà erano semplicemente incredibilmente avanzate? Attraverso ricostruzioni digitali e teorie affascinanti, ci addentreremo nei misteri delle città sotterranee dell'Anatolia e oltre. Unisciti a noi per svelare i segreti dell'umanità! Se ti è piaciuto, lascia un like e condividi il video!
#AnticheCittà #Misteri #Storia #Archeologia #CiviltàPerdute
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Ritratto
Ortese: chi sono io?
Amica, ma delle vittime
di Anna Maria Ortese
("La Stampa", 19 giugno 1990, a pag. 17)
Bisognerebbe essere grati – nel secolo dell’immagine, e della divorante ansia di essere guardati, o comunque ammirati – a una rivista come Leggere, e a una firma elegante e avveduta come quella di Ginevra Bompiani, per le sei pagine dedicate alla Ortese. Voglio dire: la Ortese dovrebbe essere grata. Ma chissà se lo è. Dico proprio così: «la Ortese», come se questo nome non mi riguardasse, e io fossi un semplice lettore della rivista. E, in realtà, nella mansueta figura qui rappresentata, divisa tra grigie preoccupazioni familiari, lodi ripetitive (che mi ricordano tanto un celebre personaggio della Austen) per la piccola città in cui vive, e trepidazione per trappole lontane («il Topo di Siena»), senza dire di assurde affermazioni di timore (in una città di «buonissimi»!), io non mi riconosco. Nè mi riconosco, se non in minima parte, in quel bellissimo titolo: «Amica al vivente». No, Ginevra s’inganna. Io non sono, se non qualche volta, e per stretto dovere, amica al vivente.
Se Ginevra avesse rintracciato (e guardato) qualcuno dei miei libri più perduti alla memoria dei lettori, o anche uno solo di essi, Toledo, avrebbe compreso che io non sono amica al vivente, altro che nel comune sentimento dell’orrore per l’inferno in cui apparentemente salvi o meno – viviamo tutti: e un istante solo. Non amica al vivente, dunque, se per vivente, o viventi, devono intendersi anche tutti gli esseri umani nella loro stagione del trionfo, della vanità, del cinismo, e infine della crudeltà e il disprezzo per i loro «inferiori» (in potere), e comunque per i vinti. Non in questo senso. Amica agli uccelli, e a tutti i figli della Natura, sempre; non amica – e non sempre, o quasi mai – alla natura umana.
Mi avesse interrogata, Ginevra, prima di scrivere (ma nessuno lo fa), avrei dato risposte precise, e mi sentirei, guardando il bel ritratto, meno tradita. Persona di pace avrei voluto essere (come Ginevra mi vede), ma vivendo sono diventata persona di guerra. E la mia guerra, ora in fine, è stata guerra silenziosa, il grido silenzioso di chi è oppresso dall’Universo intero, e dai suoi sicari: bellezza, tempo, primavera, fortuna; e poi giustizia ridotta ad esecuzioni continue, e sommarie, del più inerme, e sicuramente «prigioniero».
Non amica al vivente in genere, allora, ma al vivente che piange da ogni parte: nei boschi, all’alba, prima del massacro; nelle città perdute ad ogni ora del giorno; nei continenti desertificati (e derubati di quel che resta) eternamente. Viventi come orfani di giustizia, predati senza tregua dalle forze vincenti, cacciati come lupi, e – se lupi – accusati di non essere l’Uomo! Amica di tutto il vivente non è quindi possibile, senza tradimento della propria ragione. E io non voglio tradirla.
Ma non mi sento nemmeno di vivere in una illusione, o di vivere di una intelligenza senza speranza, come suggerisce una nota di redazione. Il disprezzo e l’ira contro il Male (riconoscibile nella perfetta definizione filosofica di Nulla Attivo) che domina tutto questo secolo, e tutto il pianeta (cosa mai accaduta prima), questo disprezzo e quest’ira non sono inutili, aprono invece la guerra inevitabile, se deve esservi una riconquista degli alti Territori perduti. Ed è forse vero che non vi è molta speranza di approdare a un futuro, di ottenere salvezza per questo pianeta e questa vita. Ma se (con l’eccezione degli Uccelli) tutto il pianeta ne fosse indegno? E solo qui, ora in questa condizione di terrore e malinconia, si effettuasse il carcere, la pena cui siamo (si può arguire dal grande silenzio) destinati? Non sarebbe già salvezza accettarla come «giustizia», come tale patirla?
Ecco, io oso sperare che oltre il carcere del tempo, e di questo pianeta, e anche di questo Universo bruciato dal tempo, vi sia qualcosa: di solido, di fermo, di purissimo, di senza fine calmo e bello. Il porto dov’è disceso finalmente Keats, la notte del 23 febbraio 1821, a Roma – vero Cristo della Bellezza – e dove forse è scampato Shelley, dalla improvvisa tempesta, con la sua «aziola»: «Oh come fui felice quando seppi / che non era per nulla cosa umana, nè un essere / simile a me da temere e da odiare!»
I Poeti inglesi, come un gruppo di arcangeli precipitati in questi deserti (nel medesimo periodo «apparvero» anche, come meteoriti, Pushkin in Russia e l’uomo delle Ricordanze in Italia), mi assicurano che da qualche luogo di gioia cadono qui, per essere crocifissi e illuminare il mondo, gli uomini della luce. Testimoni di una terra inimmaginabile, di cui solo l’alta matematica racchiude l’ipotesi. Terra imperitura, dove tornano con dolcezza tutti gli uccisi e i sacrificati dell’Essere. Non – credo – illusione, nè rifugio estremo alla assoluta desolazione. Ma calcolo eseguito nella notte della vita, nell’assedio della ragione, contabilità scintillante delle isole, i mari, i nomi, le navi di luce, di cui l’Essere – non il Nulla – ha scoperto una volta il passaggio, qui e ne ha fissato sulle mappe tormentate della memoria le orme indelebili, e la non vanificabile direzione.
…e poi questa lettera all’amico Giorgio Di Costanzo
Rapallo - 22 - 6 - 90
Caro Giorgio - se hai visto una mia "lettera" sulla Stampa - cancella - con la mente - il titolo perché non è mio - e mi è dispiaciuto vederlo. Avevo scritto solo: "Non a tutto il vivente." - E' andata così.
- Stai bene. Aff.te - Anna Maria
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“La prima volta che avevo letto il suo nome non era su un libro ma nei titoli di testa di un film in un cupo bianco e nero, Le mani sulla città di Francesco Rosi, di cui La Capria aveva scritto la sceneggiatura. Era il 1963. Nel mese di settembre il film aveva vinto alla Biennale di Venezia il Leone d’oro. In quello stesso settembre io avevo detto per sempre addio a Napoli, un addio silenzioso e affrettato al mare, agli affetti, alla stirpe, all’origine. Di Napoli non avevo mai più parlato con nessuno, fino a quando ero diventata amica di Raffaele. Perché per entrambi la città non era quella pittoresca né quella ribollente e noir, tantomeno la vitale ed eccitata Napoli di oggi in cui tutti vogliono andare, un ininterrotto teatro della meraviglia. No, la città a cui entrambi pensavamo parlandone era una città da cui tutti se ne andavano, un mare meraviglioso da cui tutti fuggivano, l’immagine perfetta delle illusioni perdute, un incrocio di rifiuto e rimpianto.”
Elisabetta Rasy,
Perduto è questo mare
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➡️🌼🙏Sabato 7 Dicembre 2024
👉🕍📖❤️S. Ambrogio (m); S. Maria Giuseppa Rossello; S. Urbano
1.a di Avvento
Is 30,19-21.23-26; Sal 146; Mt 9,35 – 10,1.6-8
Beati coloro che aspettano il Signore
👉🕍📖❤️VANGELO
Vedendo le folle, ne sentì compassione.
+ Dal Vangelo secondo Matteo 9,35-38 – 10,1.6-8
In quel tempo, Gesù percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e ogni infermità. Vedendo le folle, ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite come pecore che non hanno pastore. Allora disse ai suoi discepoli: «La messe è abbondante, ma sono pochi gli operai! Pregate dunque il signore della messe, perché mandi operai nella sua messe!». Chiamati a sé i suoi dodici discepoli, diede loro potere sugli spiriti impuri per scacciarli e guarire ogni malattia e ogni infermità. E li inviò ordinando loro: «Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele. Strada facendo, predicate, dicendo che il regno dei cieli è vicino. Guarite gli infermi, risuscitate i morti, purificate i lebbrosi, scacciate i demòni. Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date».
Parola del Signore.❤️🙏
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Capitolo 1: Ho delle faccende in sospeso
La dolce brezza che accoglieva la nave, intenta ad addentrarsi lungo le verdeggianti sponde di Balia Claea, anticipava una giornata che, su molti versi, si prospettava serena e pacifica.
Tra le varie stanze della nave, un pennino scivolava in una danza fluida sul rotolo, raffinando un tratto sottile che riempiva di un suono ipnotico la piccola cabina. Una donna dai lunghi capelli rossi, ramati e scintillanti come fiamme alla luce del sole, era china sulla sua scrittura, completamente immersa.
La luce dorata del primo mattino filtrava attraverso la finestra, avvolgendo i suoi tratti in un alone dorato, contribuendo a conferirle un'aura di mistero che lei apprezzava. I suoi occhi, due scintille penetranti di un verde vivido, erano fissi sul rotolo con un’intensità quasi disarmante, come se stesse tentando di trasmettere qualcosa di inafferrabile con ogni parola.
Di tanto in tanto, il suo sguardo si spostava dalla carta alla finestra, dove il paesaggio si stendeva davanti a lei, cullato dal moto lento della nave. Era un’immagine di quieta maestà: le mura di una città antica emergevano a poco a poco all’orizzonte, il loro profilo che si stagliava contro il cielo terso, come in una promessa di scoperta e mistero. La città si avvicinava, massiccia e imponente, quasi sospesa nel tempo, accarezzata dalla luce del sole che, con il progredire della giornata, tingevano le pietre di una sfumatura calda, quasi dorata. Sentiva il cuore batterle nel petto, spinta da una sorta di anticipazione mista a inquietudine.
Con un gesto delicato, intinse la punta della penna nel calamaio, immergendola nel liquido nero e denso come l’ombra della notte, e continuò a scrivere. Le sue parole scorrevano con eleganza e cura, come se ogni lettera fosse scolpita da pensieri profondi e mai dimenticati.
La mano avanzava sicura, ogni tratto impregnato di un’intima dolcezza. Fece un respiro, quasi come se stesse cercando di catturare la fragranza dell’aria, e iniziò la lettera.
«Care sorelle, mentre scrivo queste parole, osservo la nave che si avvicina a una nuova riva. Il viaggio verso Balia Claea è stato lungo, scandito da giornate di mare e di solitudine, ma ogni volta che metto piede in questa regione è come se tornassi a casa. Questa terra ha un modo tutto suo di abbracciare chi la visita. Vi piacerebbe molto, lo so. Non solo perché qui potete incontrare persone che ci somigliano, con capelli rosso vivo e occhi tanto brillanti da sembrare stelle, ma perché quest’isola ha un’anima accogliente. È un luogo che ti accetta, qualunque sia il peso che porti nel cuore, una terra generosa e imperturbabile, come una vecchia amica che ti stringe a sé senza fare domande.»
La donna posò il pennino, alzando nuovamente lo sguardo verso la città che si delineava oltre il vetro della finestra. Il fiume Darthais, un nastro di liquido argento che si snodava con grazia tra le colline, rifletteva il cielo sereno sopra di lui. Mentre la nave avanzava, i passeggeri si radunavano verso il parapetto, impazienti di avvistare la città che, come una sirena misteriosa, sembrava invitarli e respingerli al tempo stesso. C’era una bellezza sobria, quasi antica, nelle rive del Darthais, i cui riflessi argentati narravano di secoli passati e storie perdute. Il porto di Folach, con i suoi antichi moli e i palazzi di pietra che si affacciavano sull’acqua, portava il peso di racconti mai dimenticati, testimonianze di un passato che continuava a pulsare nelle sue vie strette e acciottolate.
La donna abbassò di nuovo lo sguardo sul rotolo, mentre un sorriso malinconico le addolciva i tratti. Con movimenti lenti, tornò a scrivere, riprendendo il filo dei suoi pensieri, come una tessitrice che annoda un filo invisibile tra passato e presente.
«Il viaggio di andata sta per terminare, e, come sempre, il mio pensiero corre a voi due. È difficile per me credere che non siate più delle ragazzine. Ormai siete cresciute, avete l’età che avevo io quando ho cominciato a vagare per il mondo, cercando avventure da vivere e storie da raccontare. Vi immagino accanto a me, pronte a partire verso terre sconosciute. Forse, la prossima volta, potrete davvero essere al mio fianco. È un desiderio che porto nel cuore da anni, sin da quando vi rimboccavo le coperte, mentre mi chiedevate di raccontarvi una storia prima di dormire. Mi piacerebbe così tanto vivere un’avventura insieme a voi, non soltanto per le risate e i racconti, ma per mostrarvi il mondo come io stessa l’ho scoperto: con meraviglia, e un pizzico di timore.»
Si fermò, come colpita dalla dolcezza di quei pensieri, e rilesse lentamente quanto aveva scritto. Sentiva quasi il calore di quei ricordi avvolgerla, ricordi di notti trascorse a raccontare storie di terre lontane alle sue sorelle minori che, con gli occhi sognanti, si addormentavano cullate dalle sue parole. Poi, con un’ombra negli occhi che sembrava appesantire il suo sorriso, aggiunse le ultime righe.
«Ora devo andare. La città di Folach mi attende, e il mio cuore sa che ciò che mi aspetta qui non è un semplice ritorno. Ci sono questioni da risolvere, faccende che da tempo richiedono la mia attenzione. Ho bisogno di impedire che questa faccenda diventi vana. So che finché non le avrò affrontate, la mia permanenza sarà inquieta, quasi in sospeso. Spero di potervi dare presto mie notizie, anche se non posso promettere che sarò di ritorno entro pochi giorni. Potrebbero passare mesi prima che torni a scrivervi. Ma sappiate che il mio pensiero sarà sempre con voi, ovunque io vada. Con amore, la vostra cara sorella maggiore…»
Con un sospiro, la donna posò il pennino e lasciò che l’inchiostro si asciugasse sul rotolo. Il silenzio era quasi palpabile, rotto solo dal rumore ovattato delle onde che lambivano lo scafo della nave. Continuava a guardare le parole scritte, come se potesse infonderle di vita o preservarle dalla polvere del tempo. Si era persa in quei pensieri quando un lieve bussare alla porta la distolse bruscamente dal silenzio.
La porta si aprì appena prima che potesse rispondere, e una voce esitante spezzò il silenzio nella cabina. «Ma...»
La donna sussultò, i suoi occhi di colpo spalancati in attesa di provare un forte timore. Quindi, si voltò verso l’uscio, dove una giovane figura si profilava con aria incerta e rispettosa. Davanti a lei stava una ragazza alta e minuta, dai lineamenti delicati, con i capelli neri raccolti in una treccia che scivolava leggera su una spalla. La tunica grigia che indossava, dal bordo leggermente sfilacciato e con le maniche rattoppate, parlava di umiltà ma anche di tenacia. Gli occhi marroni della ragazza erano stanchi ma vivaci, pieni di una curiosità che pareva travalicare ogni esitazione.
«Che succede?» domandò la donna, abbassando il rotolo e fissando con attenzione l’altra, cercando di cogliere l’emozione dietro la sua espressione.
La ragazza avanzò un poco, abbassando il capo in un gesto quasi di scuse. «Mi chiedevo… come mai non siete ancora pronta per l’arrivo, signorina. Tutti si stanno preparando, e il porto di Folach è ormai vicino.»
Un sorriso appena accennato increspò le labbra della donna. «Stavo terminando una lettera per le mie sorelle. Vorrei poter essere più presente per loro, ma ogni volta che parto il tempo non è mai dalla mia parte.»
La ragazza abbassò lo sguardo, in un misto di rispetto e timidezza. «Mi scuso per avervi interrotta, signorina.»
«Non c’è bisogno di tutta questa formalità, Lady Talulah» replicò la donna con un tono gentile e comprensivo. «Abbiamo condiviso questo viaggio, e mi sembra giusto poterci chiamare per nome, senza barriere.»
Talulah si arrossì leggermente, distogliendo lo sguardo per un istante, quasi intimidita. «In verità, signorina… una delle ragioni della mia esitazione è che… mi ero dimenticata del vostro nome.»
La donna sorrise indulgente, un sorriso che le illuminava il volto. Restò in silenzio per qualche istante, guardando il rotolo ancora una volta, prima di risponderle. «Capita, quando i giorni si confondono sul mare. Mi chiamo Vana.»
Un leggero sospiro di sollievo sfuggì dalle labbra di Talulah. «Lady Vana, grazie per la comprensione. La città è vicina, e la giornata promette di essere meravigliosa. Non vedo l’ora di scoprire Folach al vostro fianco.»
Vana si alzò lentamente, lisciando con le mani la sua veste di lino color crema, decorata con ricami azzurri che sembravano quasi fondersi con la luce morbida che penetrava dalla finestra. In un gesto fugace, si concesse un’ultima occhiata al rotolo.
Sapeva che una volta lasciata quella cabina, sarebbe stata difficile ritrovare la serenità per scrivere, ma l’attesa di ciò che l’attendeva in quella città vibrava nel suo cuore come un richiamo irresistibile. Era un misto di speranza e di apprensione.
Fece cenno a Talulah di seguirla, e insieme lasciarono la cabina, addentrandosi nei corridoi della nave, dove i marinai si affrettavano tra nodi e corde, la loro energia pervasa dall’euforia di un nuovo approdo. L’aria portava con sé un profumo intenso di salsedine e di resina, mentre il lento scorrere del Darthais sembrava accarezzare la nave con la sua brezza lieve e carezzevole.
Appena sbarcate, Talulah si fermò, rapita dalla maestosità della città che le si parava dinanzi. Folach si distendeva davanti a loro, con le sue mura antiche e i vicoli tortuosi, quasi protetta da un alone di mistero. Le strade acciottolate erano animate da figure di viaggiatori, mercanti, abitanti e curiosi, ognuno con la propria storia che scorreva sotto la superficie della vita di tutti i giorni.
«Lady Vana,» mormorò Talulah, lo sguardo pieno di meraviglia, «com’è questa città? Siete già stata qui?»
«Qualche volta,» rispose Vana, lasciando che un velo di mistero avvolgesse le sue parole. «È un luogo antico, Folach. Una città che ha storie da raccontare a chi è pronto a raccoglierle. Ma solo se le chiedi con rispetto e pazienza.»
Talulah la guardava, incuriosita, come affascinata dal suono di ogni parola. «E voi? Quali storie cercate qui?»
Un sorriso enigmatico increspò le labbra di Vana, mentre proseguiva con passo tranquillo, conducendo la ragazza lungo i vicoli di quella città misteriosa, dove ogni angolo sembrava nascondere un segreto. «Forse, una storia che non ho ancora ascoltato,» disse, preparandosi ad affrontare quel che l’avrebbe accolta.
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