#narrazione storica
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pier-carlo-universe · 10 days ago
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I cercatori di ossa di Michael Crichton: Un’avventura nel selvaggio West tra rivalità e scoperta. Recensione di Alessandria today
Una spedizione nel cuore del mistero, dove il confine tra scienza e avidità si dissolve
Una spedizione nel cuore del mistero, dove il confine tra scienza e avidità si dissolve. Recensione del libro I cercatori di ossa di Michael Crichton, pubblicato postumo, ci trasporta nel Wyoming del 1876, in un’epoca in cui la frontiera americana è teatro di spedizioni scientifiche e rivalità accese. Al centro della vicenda c’è il professor Othniel C. Marsh, un ambizioso paleontologo che guida…
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angelap3 · 7 months ago
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Chi liberò veramente l’Italia
25 aprile liberazione
Si può celebrare in tanti modi la Liberazione dell’Italia nel 1945 ma ci sono dati, numeri e vite che non si possono smentire e che sono la base necessaria e oggettiva per dare una giusta dimensione storica all’evento. Dunque, per la Liberazione dell’Italia morirono nel nostro Paese circa 90mila soldati americani, sepolti in 42 cimiteri su suolo italiano, da Udine a Siracusa. Secondo i dati dell’Anpi, l’associazione dei partigiani, furono 6882 i partigiani morti in combattimento.
Ricavo questi dati da una monumentale ricerca storica, in undici volumi raccolti in cofanetto, dedicata a La liberazione alleata d’Italia 1943-45 (Pensa ed.), basata sui Report of Operations di diversi reggimenti statunitensi, gli articoli del settimanale Yank dell’esercito americano e i reportage dell’Associated press. E naturalmente la ricerca storica vera e propria. Più un’ampia documentazione fotografica. L’autore è lo storico salentino Gianni Donno, già ordinario di Storia contemporanea, che ha analizzato i Reports of Operations in originale, mandatigli (a pagamento) da Golden Arrow Military Research, scannerizzati dall’originale custodito negli Archivi nel Pentagono. L’opera ha una doppia, autorevole prefazione di Piero Craveri e di Giampiero Berti e prende le mosse dallo sbarco di Salerno.
Secondo Donno, non certo di simpatie fasciste, il censimento dell’Anpi è “molto discutibile” ma già quei numeri ufficiali rendono le esatte proporzioni dei contributi. Facciamo la comparazione numerica: per ogni partigiano caduto in armi ci furono almeno 13 soldati americani caduti per liberare l’Italia. Senza considerare i dispersi americani che, insieme ai feriti, furono circa 200mila. E il conto risuona in modo ancora più stridente se si comparano i 120mila militari tedeschi caduti in Italia, soprattutto nelle grandi battaglie (Cassino, Anzio e Nettuno) contro gli Alleati e sepolti in gran parte in quattro cimiteri italiani.
Naturalmente, diverso è parlare di vittime italiane della guerra civile, fascisti e no, di cui esiste un’ampia documentazione, da Giorgio Pisanò a Giampaolo Pansa, per citare le ricerche più scomode e famose. Ma non sto parlando di fascismo e guerra civile, bensì di Liberazione d’Italia, ovvero di chi ha effettivamente liberato l’Italia dai tedeschi o se preferite dai “nazifascisti”.
Pur avendo un giudizio storico molto diverso dalla vulgata ufficiale e istituzionale, confesso una cosa: avrei voluto dire il contrario, che l’Italia fu liberata dalla Resistenza, dalla lotta di liberazione, dall’insurrezione popolare degli italiani contro l’invasore. Avrei preferito, da italiana, dire che furono loro a battere i tedeschi, fino a sgominarli, come suggerisce la narrazione ufficiale e permanente del nostro Paese. Ma non è così; e se non bastassero i giudizi storici, la conoscenza di eventi e battaglie, le sottaciute testimonianze della gente, bastano quei numeri, quella sproporzione così evidente di morti, di caduti sul campo per confermarlo. Furono gli alleati angloamericani, sul campo, a battere i tedeschi; senza considerare il ruolo decisivo che ebbero i bombardamenti aerei degli alleati sulle nostre città stremate e sulle popolazioni civili per piegare l’Italia e separarla dal nefasto alleato tedesco. Si può aggiungere che la liberazione d’Italia sarebbe avvenuta con ogni probabilità anche senza l’apporto dei partigiani; mentre l’inverso, dati alla mano, è impensabile. Dunque la Resistenza può conservare un forte significato sul piano simbolico e si possono narrare singoli episodi, imprese e protagonisti meritevoli di essere ricordati; ma sul piano storico non si può davvero sostenere, alla luce dei fatti e dei numeri, che fu la Resistenza a liberare l’Italia. Nella migliore delle ipotesi è mito di fondazione, pedagogia di massa, retorica di Stato. Il mito della resistenza di cui scrisse uno storico operaista di sinistra radicale come Romolo Gobbi.
Per essere precisi, la Liberazione non si concluse il 25 aprile a Milano come narra l’apologetica resistenziale, ma l’ultima, aspra battaglia tra alleati e tedeschi, sostiene Donno, si combatté nel comune di San Pietro in Cerro, nel piacentino, tra il 27 e 28 aprile. A San Pietro c’era anche il regista americano John Huston, inviato col grado di Capitano, a girare docufilm. Ma i filmati erano così duri che gli Alti comandi americani decisero di non diffonderli fra le truppe se non in versione edulcorata.
Sulle lapidi dei cimiteri di guerra disseminati tra Siracusa e Udine, censiti da Massimo Coltronari, ci sono nomi di soldati e ufficiali hawaiani, australiani, neozelandesi, perfino maori, indiani e nepalesi, francesi e marocchini, polacchi, greci, anche qualche italiano del Corpo italiano di liberazione, e poi brasiliani, belgi, militi della brigata ebraica; ma la stragrande maggioranza sono americani, caduti sul suolo italiano. Molti erano di origine italiana: si chiamavano Ferrante, Lovascio, Gualtieri, Rivera, Valvo, Pizzo, Mancuso, Capano, Quercio, Colantuonio, Barrolato, Barone…
“È stata e continua ad essere – dice Donno – una grande opera di mascheramento della “verità” quando non di falsificazione… i miei volumi hanno l’ambizione di rompere questa cortina di latta (che, ammaccata dappertutto, tuttora sopravvive nella discarica del tempo) facendo emergere dati e fatti oscurati ed ignorati”. Naturalmente possono divergere i giudizi tra chi considera gli alleati come benefattori e liberatori, chi come occupanti e nuovi invasori; chi avrebbe preferito che fossero stati i sovietici a liberarci; e chi si limita a considerarli combattenti, soldati in guerra e non eroi, soccorritori o invasori. La memorialistica sulla liberazione d’Italia minimizza e trascura l’apporto americano; invece, sottolinea Craveri, è evidente che furono loro i protagonisti della liberazione d’Italia.
La verità, vi prego, sull’onore.
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crazy-so-na-sega · 3 months ago
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Tito Livio utilizzò il metodo storiografico che alterna la cronologia storica alla narrazione.
Lo stesso Livio affermò inoltre che la mancanza di dati e fonti certe precedenti al sacco di Roma da parte dei Galli, nel 390 a.C., aveva reso il suo compito assai difficile.
A rendere più arduo il compito dello storiografo fu il fatto che non poteva accedere, come privato cittadino, agli archivi e dovette accontentarsi di fonti secondarie (documenti e materiali già elaborati da altri storici). Allo stesso modo, molti storici moderni ritengono che, per la mancanza di fonti puntuali e precise, Livio abbia presentato per le stesse vicende sia una versione mitica sia una versione "storica", senza privilegiare nessuna delle due versioni, ma lasciando alla discrezione del lettore la decisione su quale sia la più verosimile.
Nella prefazione è l'autore a spiegare che «quanto agli eventi relativi alla fondazione di Roma o anteriori, non cerco né di confermarli né di smentirli: il loro fascino è dovuto più all'immaginazione dei poeti che alla serietà dell'informazione».
Il suo talento non va tuttavia ricercato nell'attendibilità scientifica e storica del lavoro quanto nel suo valore letterario (il metodo con cui impiega le fonti è criticabile poiché non risale ai documenti originali, qualora ve ne siano, ma utilizza quasi esclusivamente fonti letterarie).
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Non è detto che la Storia sia sempre vera e la Narrazione sempre falsa, può darsi il contrario, ma c'è un passaggio che fa la differenza.
[Chi si chiede "che c'entra Tito Livio" suca...:-)]
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ross-nekochan · 1 year ago
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Ho finito L'Amica Geniale.
Mi ha dato tanto e mi ha fatto soffrire altrettanto.
Mi sono messa a cercare qui sopra citazioni che potessero rendere giustizia a quello che mi ha fatto provare ma non ne ho trovate.
Elena Ferrante ha il "genio" di scrivere cose in maniera molto banale ma diretta, tagliente, ti incolla al testo come se fosse una serie tv ed è questo che sicuramente le ha regalato il successo meritato. Non a caso, sono proprio di questo tipo le citazioni che si trovano facilmente qui su Tumblr.
Ma per chi è campano o del sud, è diverso.
Di nuovo, il successo internazionale non ha reso giustizia alla crudezza dei fatti raccontati. Così come con Gomorra, quasi sicuramente agli occhi degli anglofoni la verità delle parole si mescola con la fantasia e non hanno percezione di quanto la crudezza raccontata sia vera, palpabile, reale, quotidiana nel perimetro in cui i fatti sono raccontati.
Mi ricordai di Antonio, di Pasquale, di Enzo, arrangiamento quattro soldi fin da ragazzini per sopravvivere. Gli ingegnieri, gli architetti, gli avvocati, le banche erano altra cosa, ma i loro soldi venivano, pur tra mille filtri, dallo stesso malaffare, dallo stesso scempio, qualche briciola s'era mutata persino in mancia per mio padre e aveva contribuito a farmi studiare. Qual era dunque la soglia oltre la quale i soldi cattivi diventano buoni e viceversa? [Storia di chi fugge e di chi resta - cap. 106]
Tra i milioni di lettori, chi si è mai soffermato su questa frase? Quanta consistenza perde una frase del genere agli occhi non ha idea di cosa accade nella terra dove il malaffare è routine? A parte la potenza dell'ultima, tutto il resto scivola nella narrazione eppure racconta di come, in quella terra, siamo tutti indissolubilmente in mezzo allo stesso malaffare pur non avendo mai avuto problemi con la giustizia e pur conducendo una vita normale. Letteralmente. Così come è scritto.
Come una volta disse saggiamente Maura Gancitano dei Tlon, il malaffare è insito persino nel settore dei supermercati, "e allora che fai non vai a fare la spesa?", aveva giustamente aggiunto.
Lo so che è l'intero mondo a girare così. Ma il trauma di essere nata in un luogo del genere è di credere che esistamo posti con una netta separazione tra i soldi puliti e quelli sporchi e allontanarti dalla tua zona ti fa sentire più tranquilla.
L'eco di questi romanzi ha risuonato in me forte e chiaro in moltissimi punti; quelli del periodo rosso vissuto in Italia, pur raccontando di una verità storica, non mi ha risuonato allo stesso modo. Per cui non riesco ad immaginare quanto possano risuonare quegli stessi punti in un napoletano, né posso immaginare quanto si siano persi milioni di lettori esteri che non hanno lo stesso vissuto alle spalle.
È stato un trauma. Ma è un trauma che va vissuto.
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multiverseofseries · 8 days ago
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Il Gladiatore II: Un Viaggio Epico tra Politica e Cinema
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Sangue, rabbia e una narrazione epica per un sequel potente e, a tratti, visionario. Un film che può essere letto anche alla luce delle problematiche contemporanee. Sullo schermo, Paul Mescal, Pedro Pascal e un magistrale Denzel Washington sono i protagonisti.
Il titolo stesso, Il Gladiatore II, ha un impatto gigantesco. Un film che mira a riportare sul grande schermo un tipo di cinema spettacolare, emotivo e maestoso, che sembra essere scomparso, ormai rivolto solo a un pubblico più distratto. Ma, sin dalla prima scena, Ridley Scott ci trasporta in un universo che richiama i grandi kolossal del passato: Ben-Hur, Quo vadis? e Spartacus, con tanto di omaggi. Eppure, nonostante l’omaggio al passato, Il Gladiatore II non è solo un grande seguito, ma un progetto che guarda anche al futuro, pur mantenendo il legame con la tradizione del cinema epico.
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Le premesse erano alte, eppure il risultato non ha solo soddisfatto le aspettative, ma le ha superate. Creare un seguito per un film leggendario come Il Gladiatore - che ha segnato una generazione - non era certo facile, ma Ridley Scott è riuscito a mantenere intatto lo spirito originale, pur dando vita a un film indipendente, contemporaneo e quasi visionario. Inoltre, con la sceneggiatura di David Scarpa, il film risulta essere uno dei più politici del regista, un'opera che, soprattutto in un'epoca in cui pochi autori osano esprimere opinioni forti, si propone come una dichiarazione di intenti chiara e potente.
Il Gladiatore II: Il Testimone di Massimo Decimo Meridio
Tra vendetta, redenzione e un viaggio che tocca anche dimensioni spirituali, Il Gladiatore II si fa portatore di un messaggio forte. Pur essendo ambientato in un mondo antico, la storia è un riflesso critico di un mondo moderno, in cui il potere e la guerra sono il terreno fertile di una politica corrotta e amorale. È un mondo che, sfortunatamente, somiglia molto al nostro. In questo contesto, la Roma che viene ritratta nel film è sull’orlo del collasso, e la trama riesce a rendere tangibile questa sensazione di decadenza.
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A vent'anni dalla morte di Massimo Decimo Meridio, l'eredità del leggendario gladiatore viene raccolta da Lucio Vero (Paul Mescal), un uomo ridotto in schiavitù dopo essere stato deportato dalla Numidia (l'antico nome del Nord Africa) dalle legioni di Marco Acacio (Pedro Pascal), sotto il dominio degli imperatori Caracalla e Geta. Arrivato a Roma, Lucio viene costretto a combattere come gladiatore per il crudele Marcrinus (Denzel Washington), uno schiavista senza scrupoli che trama per raggiungere il potere.
Il sogno di Roma e il crollo dell'Occidente
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Ciò che distingue Il Gladiatore II da tanti altri sequel è la sua forte componente politica, che va oltre la trama e si intreccia perfettamente con la narrazione storica e i temi trattati. La storia, infatti, si presta a una lettura che richiama le analogie tra l'Impero Romano e gli Stati Uniti moderni. Il sogno di Roma, incarnato da Lucio e poi da Marco Acacio, è il medesimo sogno tradito dell'“American Dream” – una promessa di libertà e giustizia ormai svuotata di significato.
Con una regia impeccabile, che riesce a catturare l'essenza del passato con grande maestria, Scott affronta temi come la democrazia, l'oppressione, la civiltà, la rivoluzione e la resistenza. La scenografia, la fotografia (firmata da John Mathieson) e la colonna sonora (di Harry Gregson-Williams, che si fa portavoce della grande tradizione musicale di Hans Zimmer e Lisa Gerrard) accompagnano lo spettatore in un viaggio visivo che fa vibrare ogni singola scena. Eppure, un avviso: non cercate una riproduzione storicamente fedele; il cinema, come sempre, è prima di tutto un'arte, non una lezione di storia.
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In questo contesto, Lucio, interpretato da Paul Mescal, emerge come una figura potente e moderna, ancora più incisiva di quella di Massimo Decimo Meridio (Russell Crowe), che pur non essendo presente, si fa comunque sentire. Lucio è l'emblema di un eroe che cerca giustizia e libertà, ma che si scontra con la realtà di un mondo ormai corrotto. La sua lotta per il sogno di Roma è una riflessione sulla fine di un impero e sulla ricerca di un ideale che ormai è sfocato. In qualche modo, Lucio rappresenta un tentativo di riscatto in un’epoca che sembra incapace di cambiare. È la rivalutazione del sogno di Roma, ormai svuotato di significato e destinato a crollare sotto il peso della sua stessa corruzione. Una riflessione che si estende anche al nostro presente, dove le stesse dinamiche di potere e paura sembrano prevalere.
Conclusioni
Il Gladiatore II di Ridley Scott è un sequel che non solo rispetta, ma espande l'eredità del film originale. È un'opera cinematografica potente e significativa, che si distingue per il suo spirito politico e la sua visione. Con ogni scena, Scott ci regala un'esperienza che mescola perfettamente spettacolarità e riflessione profonda, facendo di questo sequel una delle migliori esperienze cinematografiche recenti.
👍🏻
Una regia imponente e maestosa.
L'approfondimento politico e sociale.
La performance di Denzel Washington.
Il sequel che mantiene lo spirito dell'originale.
👎🏻
Inaspettatamente, il film potrebbe sembrare durare meno rispetto alla sua ambizione narrativa.
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mucillo · 16 days ago
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(Le donne)
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È questa l’ora che amo: l’ora intermedia
né di qui né di là della sera.
L’aria in giardino ha il colore del tè.
E’ questo il momento in cui lavoro meglio,
salgo le scale in due stati d’animo,
in due mondi, portando stoffa o vetro,
lasciando giù qualcosa,
prendendo con me qualcosa che avrei dovuto lasciare giù.
L’ora del cambiamento, della metamorfosi,
delle instabilità che mutano forma.
Il mio momento del sesto senso e della seconda vista
quando nelle parole che scelgo, nei versi che scrivo,
loro mi appaiono davanti come visioni:
donne di lavoro, di piacere, della notte,
vestite di seta del color della stufa, di pizzo, di nulla,
con aghi da ricamo, con libri, con gambe spalancate
.................
Eavan Boland, poetessa irlandese(Dublino 24 9 1944)
da “The Journey”” in Tempo e violenza.
Poesia  estratta da una raccolta che affronta temi femminili quali il ruolo della donna nella cultura, nella società, nel mito, nella storia ma anche temi domestici come il matrimonio, la famiglia, le tensioni quotidiane legate all’identità, alla violenza, al dolore, il tutto però, senza forzature, senza la rabbia storica di certo femminismo.
La pacatezza della narrazione  sembra il modo per elaborare alienazioni e violazioni, in un  racconto della verità umana e poetica delle donne. 
“…ora potevo raccontare la mia storia/ Era diversa dalla storia che si raccontava su di me.
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passaggioalboscoedizioni · 2 months ago
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Giuseppe Scalici
1944: LA DISTRUZIONE
I bombardamenti contro l’Italia e la fine della sovranità nazionale
Prefazione di Francesco Ingravalle
Sebbene ancora vivi nella memoria collettiva, i bombardamenti Alleati sull’Italia non trovano lo spazio che meriterebbero nella narrazione accademica o mediatica della seconda guerra mondiale. Le incursioni aeree degli inglesi e degli americani – spesso programmate con cura per terrorizzare la popolazione civile – hanno provocato devastazioni senza precedenti e decine di migliaia di vittime.
Il presente volume – ricchissimo di dettagli tecnici e di dati storici – tratta il periodo compreso tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, soffermandosi sulla guerra aerea scatenata dagli Alleati e sulle vittime di quel conflitto, che ebbe molte sfaccettature e che – ancora oggi – presenta aspetti non del tutto chiariti.
Gli eventi descritti – in ogni caso – denotano una fase storica epocale per l’Italia, foriera di conseguenze che si riflettono sull’attuale status geopolitico della penisola.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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curiositasmundi · 1 year ago
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[...] Come giornaliste, giornalisti, video e fotoreporter siamo sconvolti dal massacro dei nostri colleghi, delle nostre colleghe e delle loro famiglie da parte dell'esercito israeliano. Siamo al fianco dei nostri colleghi e delle nostre colleghe di Gaza. Senza di loro, molti degli orrori sul campo rimarrebbero invisibili. Ci uniamo alle nostre colleghe e ai nostri colleghi statunitensi e francesi nel sollecitare la fine delle violenze contro i e le professioniste dell’informazione a Gaza e in Cisgiordania, e per invitare i responsabili delle redazioni italiane ad avere un occhio di riguardo per le ripetute atrocità di Israele contro i palestinesi. Le nostre redazioni, senza il lavoro di chi ora è sul campo, non sarebbero in grado di informare il pubblico italiano rispetto a ciò che sta accadendo nella Striscia. Eppure, la narrazione quasi totalitaria della nostra stampa sembra essere poco oggettiva nel riportare le notizie. Molteplici redazioni italiane e occidentali stanno continuando a disumanizzare la popolazione palestinese e questa retorica giustifica la pulizia etnica in corso. Negli anni sono state diverse le accuse di doppio standard. Tra le più eclatanti il caso della BBC, analizzato dalla Syracuse University nel 2011 e lo studio di come, negli ultimi 50 anni, la stampa statunitense ha coperto le notizie relative alla questione palestinese con una predilezione per il punto di vista israeliano. Nel 2021 più di 500 giornalisti hanno firmato una lettera aperta in cui esprimevano preoccupazione per la narrazione dei fatti di Sheikh Jarrah. Nelle stesse settimane, diversi accademici italiani hanno inviato una lettera aperta alla Rai in merito alla copertura delle stesse notizie. Le nostre redazioni hanno in troppi casi annullato le prospettive palestinesi e arabe, definendole spesso inaffidabili e invocando troppo spesso un linguaggio genocida che rafforza gli stereotipi razzisti. Sulla carta stampata e nei programmi di informazione, la voce palestinese è troppo spesso silenziata. Non è stato dato abbastanza spazio a giornalisti e giornaliste arabofone esperti ed esperte sul tema, che sarebbero in grado di dare anche il punto di vista dei Paesi della regione. La copertura giornalistica ha posizionato il deprecabile attacco del 7 ottobre come il punto di partenza del conflitto senza offrire il necessario contesto storico - che Gaza è una prigione de facto di rifugiati dalla Palestina storica, che l'occupazione di Israele dei territori della Cisgiordania è illegale secondo il diritto internazionale, che i palestinesi sono bombardati e attaccati regolarmente dal governo israeliano, che i palestinesi vivono in un sistema coloniale che usa l’apartheid e che in Cisgiordania continuano i pogrom dei coloni israeliani contro la popolazione indigena palestinese. Gli esperti delle Nazioni Unite hanno dichiarato di essere "convinti che il popolo palestinese sia a grave rischio di genocidio", eppure diversi organi di informazione non solo esitano a citare gli esperti, ma hanno iniziato una campagna denigratoria contro esperti indipendenti delle Nazioni Unite, come Francesca Albanese, Relatrice speciale sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati. Il nostro compito, però, è fare informazione, fare domande scomode e riportare i fatti. L’omissione delle informazioni e il linguaggio che incita alla violenza, come la richiesta della bomba atomica su Gaza, sono comportamenti che rischiano di diventare complicità di genocidio, ai sensi dell’art. II.c della Convenzione di Ginevra del 1948 sul genocidio. [...]
Via - Lettera aperta: Condanna della strage di giornalisti a Gaza e richiesta di una corretta copertura mediatica della pulizia etnica e del rischio genocidio in corso.
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valentina-lauricella · 4 months ago
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Partire da un mondo inviolato e dalla mente bambina delle prime generazioni storiche di uomini che lo percorsero e battezzarono con le loro sensazioni corporee e il loro stupore esistenziale, è ciò che fa Pavese nei Dialoghi con Leucò. In essi è il frutto delle sue ricerche e riflessioni antropologiche, psicologiche, religiose.
La terra, il sangue, il fuoco, la grotta, il mare, la selva, sono elementi primigeni, enti concreti diventati simboli condivisi che non perdono del tutto la materialità, come ad esempio la spiga e la vite, Cerere e Bacco, pane e vino, tornati terra (corpo) e sangue nel sacrificio di Cristo (non a caso, egli annota che la spiritualità estrema coincide con il materialismo).
Sebbene il sacro (o almeno la sua percezione) abbia origine umana, sorto dai bisogni fisici e psicologici dell'uomo, esso non è spodestato dalla sua funzione di conferire senso, attraverso la narrazione, all'esistenza. Questo libro è infatti l'autobiografia allegorica del narratore, attraverso la storia delle origini della narrazione: così come il narratore singolo rielabora il sacro del proprio passato, dovuto alla conoscenza del mondo nell'infanzia, così l'umanità rielabora la propria infanzia storica dando origine ai miti religiosi.
Le note estetiche più piacevoli di questo libro sono le tinte sanguigne e ferine degli slanci vitali (mortali) e la poesia attonita e quasi indicibile della seduzione divina e immortale: la quiete, la stabilità imperturbabile, il silenzio di fondo dal quale sorgono e al quale vanno tutte le cose.
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thegianpieromennitipolis · 1 year ago
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Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
L'IDEA IMPRECISA
La suggestione dell'idea come espressione della razionalità, come codice che fornisce identità comune alla comunità degli esseri umani, è molto antica. Il pensiero occidentale è debitore a Platone il quale seppe cogliere nel concetto di "anima" l'incontrovertibile della verità che viene in luce, in opposizione alla doxa delle sensazioni e delle espressioni soggettive: nell'anima, entità invisibile ma generatrice del pensiero, l'idea è "ἀλήθεια", svelamento, uscita dall'oblio, chiarezza, evidenza. Si comprende quale valore abbia la relazione tra luce e tenebre, non solo come metafora dell'incessante ricerca del significato: è la luce la condizione della "forma", del fenomeno, dell'apparire, del reale. "Ιδέαι" sono dunque le entità eterne costitutive della realtà, ne rappresentano l'essenza. Eppure, fuori dalle espressioni matematiche, dei numeri e delle forme geometriche, le idee circolano se fanno storia: si affermano qualora divengano una narrazione condivisa. Se con sant'Agostino l'anima platonica entra a pieno titolo nella dimensione teologica di una religione dei "corpi" - senza il concetto di corpo è impossibile capire il cristianesimo - il riflesso dell'idealismo primigenio che si porta dietro, induce a ritenere la razionalità delle idee il marchio della loro autenticità, del loro ancoraggio saldo alla verità. Così, il pensiero occidentale, da Platone in avanti, ha proseguito nel solco dell'idea come atto generativo, della creazione che ha un'origine rispetto al nulla. Il buio è il nulla. La luce è il primo atto. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l'abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: «Sia la luce!». E la luce fu. Dio vide che la luce era cosa buona e separò la luce dalle tenebre e chiamò la luce giorno e le tenebre notte.» - Genesi, capitolo primo - Dunque, l'occidente crede nell'essere e nel nulla, nella creazione e nel significato. Ma l'occidente cristiano. Non quello greco. Che non a caso, dimenticando la lezione di Parmenide, ha espresso, magistralmente, l'inquietudine di trovarsi di fronte al baratro del "nulla" nella tragedia. Ecco perché noi siamo cristiani e non più greci: abbiamo risolto la terribile percezione di un'assenza del significato, nella fede in un atto di creazione che ogni essente ha tratto dalle tenebre. Non importa che quest'idea sia imprecisa, non trovi fondamento in un'evidenza: l'idea stessa del rimedio alla morte nel nulla, per quanto inesplicabile, indefinibile, inconsistente sul piano materiale, ha conquistato il mondo e costituito la sua direzione storica. Ecco perché Nietzsche definì questa concezione il "colpo di genio del cristianesimo". Idea imprecisa quanto contraddittoria: Dio non è luce, ma è ciò che non può essere mai svelato. Altrimenti, Dio diverrebbe un concetto, una "cosa" come le altre cose del mondo. Per questa ragione, l'occidente designa il malefico con il termine "Lucifero", colui che porta la luce, colui che vuole svelare, colui che vuole "reificare" il Dio creatore. Idea imprecisa, dunque. Perché la perfezione dell'idea possiede qualcosa di luciferino, in sé. Mentre il dubbio e la ricerca, contengono una tensione vitale che spesso si dimentica o volutamente si tralascia. L'esperienza del viaggio ha più valore della meta. Presunta. Forse inutile.
- Gaetano Previati (1852-1920): "La creazione della luce" - 1913 circa, Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma - In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto" 1975, collezione privata
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wakeofourbetters · 2 years ago
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Milano
CERE ANATOMICHE
LA SPECOLA DI FIRENZE DAVID CRONENBERG
David Cronenberg durante le riprese del film, Museo La Specola di Firenze. Foto Flavio Pescatori, Courtesy Fondazione Prada
24 Mar – 17 Lug 2023
“Cere anatomiche” è una mostra ideata in collaborazione con La Specola, parte del Museo di Storia Naturale e del Sistema Museale di Ateneo dell’Università di Firenze, e il regista e sceneggiatore canadese David Cronenberg.
Il progetto rappresenta una nuova tappa del percorso di ricerca attraverso il quale Fondazione Prada vuole far conoscere importanti collezioni provenienti da ‘musei ospiti’, per offrire interpretazioni inattese del patrimonio culturale e innescare un dialogo tra una collezione storica e un’istituzione contemporanea. Creata nel 1775 e attualmente chiusa al pubblico per lavori di ristrutturazione della sua sede storica, La Specola è uno dei musei scientifici più antichi d’Europa. Al suo interno ospita più di 3,5 milioni di reperti animali, la raccolta più ampia al mondo di cere anatomiche del XVIII secolo e la collezione del ceroplasta siciliano Gaetano Giulio Zumbo (1656-1701). 1.400 elementi della straordinaria collezione di cere anatomiche sono stati realizzati tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo per ottenere un vero e proprio trattato didattico-scientifico che, senza bisogno di ricorrere all’osservazione diretta di un cadavere, si proponeva di illustrare l’anatomia del corpo umano.
“Cere anatomiche” si articola in due parti complementari. Una mostra riunisce tredici ceroplastiche del XVIII secolo provenienti dalla prestigiosa raccolta del museo fiorentino, e una serie di settantadue copie espositive di disegni anatomici raccolti in nove vetrine. In particolare, sono presentate quattro figure femminili distese, tra le quali una delle opere più importanti della collezione del museo La Specola, la cosiddetta Venere, un raro modello con parti scomponibili conosciuto per la sua bellezza. Un inedito cortometraggio, realizzato da David Cronenberg negli spazi della Specola, introduce queste quattro cere in una dimensione alternativa, esplorando temi come la fascinazione per il corpo umano e le sue possibili mutazioni e contaminazioni. Il film di Cronenberg rivela la dimensione vitale e sorprendente delle ceroplastiche con l’obiettivo di generare una pluralità di nuove risposte emotive, suggestioni intellettuali e intense reazioni.
Come spiega David Cronenberg: “Le figure di cera della Specola furono create prima di tutto come strumento didattico, in grado di svelare i misteri del corpo umano a chi non poteva accedere alle rare lezioni anatomiche con veri cadaveri tenute nelle università e negli ospedali. Nel loro tentativo di creare delle figure intere parzialmente dissezionate, il cui linguaggio corporeo ed espressione facciale non mostrassero sofferenza o agonia e non suggerissero l’idea di torture, punizioni o interventi chirurgici, gli scultori finirono col produrre personaggi viventi apparentemente travolti dall’estasi. È stata questa sorprendente scelta stilistica che ha catturato la mia immaginazione: e se fosse stata la dissezione stessa a indurre quella tensione, quel rapimento quasi religioso?”
Il progetto si configura come un duplice intervento: la narrazione scientifica e quella artistica prendono forma in due allestimenti indipendenti realizzati dall’agenzia creativa Random Studio. Al primo piano del Podium le cere del museo La Specola sono esposte seguendo un rigoroso approccio museale. Al piano terra le stesse opere accedono all’immaginario del regista diventando le protagoniste di un enigmatico processo di metamorfosi.
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chez-mimich · 9 months ago
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LA ZONA DI INTERESSE
“La zona di interesse” di Jonathan Glazer è un film raccapricciante e, anche se può sembrare paradossale, un raccapricciante capolavoro. La famiglia di Rudolf Höss vive in una algida villetta appiccicata al muro perimetrale del campo di concentramento di Auschwitz e Höss è lo spietato direttore del campo. Forse spietato non è l’aggettivo esatto, Rudolf Höss è un esecutore del male pianificato, messo in campo dal nazismo per far scomparire il popolo ebraico della faccia della terra. E’ una storia raccontata mille volte (per fortuna), ma mai o quasi mai in modo così persuasivamente e sottilmente inquietante. Non si tratta di una ricostruzione storica, ma di uno psicodramma che vive di allusioni, di segni, di dialoghi e di suoni, a cominciare da quello schermo buio iniziale, popolato da sussurri e grida e dalle tonalità della composizione di Mica Levi, possente come lo “Shemà Israel“ che prorompe da "Un sopravvissuto di Varsavia" di Arnold Schönberg. L’incubo si trasforma, nella scena di apertura, in un idillio campestre della famigliola di Höss che trascorre qualche ora di serenità in riva ad un lago. Questa dualità sarà presente in feroce contrasto in tutto il film, anzi “è” tutto il film. L’intimità domestica e famigliare del gerarca nazista è contigua alla più perversa idea di sterminio mai perpetrata dall’essere umano. A ricordarlo, sono le altane del campo di concentramento che quasi gettano la loro ombra funerea sulla serra e sulla piscina della casa di Höss, casa, ambientazioni e abbigliamenti molto “Neue Sachlichkeit”. La narrazione è statica, nel film non succede quasi nulla, ma quel che non succede lascia intravedere ciò che è stato. Il sordo rumore dei forni crematori in funzione, di cui Rudolf Höss era lo spietato pianificatore, gli spari, appena percepiti nel sottofondo delle garrule grida dei bambini in giardino, dell’abbaiare del cane, del rumore del vento. Una vita domestica che prosegue senza scossoni fino al trasferimento di Rudolf Höss ad altro incarico che lascia però inalterata l’atmosfera idilliaco-paranoica della famiglia del militare. Se Hannah Arendt aveva parlato di “banalità del male”, nulla meglio di questa villetta razionalista nella campagna bavarese e appiccicata al Konzentrationslager Auschwitz, può rendere al meglio il concetto della filosofa tedesca. Jonathan Glazer ha girato il film servendosi di telecamere ad altissima definizione che rendono iperreali luoghi, persone, fatti. Piani di ripresa fissi, nessun movimento, quasi a voler scegliere una neutralità che rende tutto ancora più agghiacciante, anche se nel film c’è molto del “Nuovo cinema tedesco”, quello di Rainer Werner Fassbinder in particolare; come non pensare infatti alla lattiginosa atmosfera in cui si muoveva Veronika Ross (interpretata divinamente da Hanna Schigulla), della cosiddetta “BRD-Trilogie” di Fassbinder. Anche in questo, come in quel film, straordinaria l’interpertazione di una donna, Sandra Hüller nei panni della moglie di Höss (interpretato da Christian Friedel). Per chi vi scrive Oscar già vinto e stravinto.
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klimt7 · 2 years ago
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Storie da conoscere
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Mary Austin, l’amore "oltre" di Freddie Mercury.
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Mary Austin è stata compagna, amante, amica di Freddy Mercury il cantante dei Queen. È stata la fede nel cuore e anche una canzone che risuona ancora oggi nelle radio di mezzo mondo. Mary è stata l'amore della vita di Freddie.
Ci sono storie che ci confermano che non è vero che l’amore è eterno finché dura.
E allora cos’è davvero l’amore?
A rispondere a questa domanda ci sono tutte le persone che l’hanno provato, che lo hanno sperimentato con tutti i muscoli del loro corpo.
Perché la verità è che esistono dei sentimenti così profondi, sconfinati che vanno oltre. Oltre ogni considerazione,  oltre l’attrazione fisica, oltre il corpo, oltre il sesso e anche oltre la nostra piccola limitatissima capacità di comprensione.
La letteratura, il cinema, la musica, ma soprattutto la storia, sono i custodi di grandi amori che non ci sappiano spiegare, perché sfuggono da ogni ragionevole definizione o categoria.
Come quell’amore tenuto in vita da Mary Austin e Freddie Mercury, nella vita e nella morte, nella buona e nella cattiva sorte.
Un sentimento gentile, delicato ma anche incredibilmente autentico e irragionevole da un certo punto di vista.
Lei, Mary, è stata l’amore della sua vita, la fidanzata storica, con la quale ha condiviso la povertà, i primi successi, le gioie, i dolori e tutte le successive difficoltà.
La loro storia è stata portata alla ribalta solo col film "Bohemian Rhapsody" nel 2018. Prima di allora, di tutto il loro rapporto, si conosceva molto poco e in modo frammentario, tanto che per molti dei fan dei Queen, Mary era solo una segretaria del gruppo e si ignorava la profondità del legame con Freddie Mercury.
Mary nel film è interpretata da una splendida Lucy Boynton. La pellicola ha avuto il merito di portare alla ribalta la figura della donna che è sempre stata al fianco del cantante dei Queen.
E non si tratta di una narrazione romanzata, ma di una storia reale, quella dell’amore tra due ragazzi che hanno scelto di restare insieme tutta la vita, pur senza un anello al dito, anche dopo il coming out di Freddie Mercury e perfino dopo la morte del cantante.
Mary e Freddie
Nata a Londra nel 1951, Mary Austin incontra Freddie Mercury quando lui, era solo Farrock Bulsara. Lei è una commessa in un negozio nella zona ovest di Londra, lui si arrangia lavorando insieme a Roger Taylor presso il Kensington Market, mentre coltiva il sogno di diventare cantante.
Nel 1969 i due si incontrano e si scelgono, senza immaginare che da quel momento sarebbero rimasti insieme tutta la vita.
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Mary e Freddie sono stati amici, amanti e soprattutto complici. Lo sono stati per tutti gli anni che hanno condiviso e cioè dal 1969 al 1991.
Lui fin dai primi anni, non ha dubbi: è lei l’amore della sua vita, così dopo pochi anni di relazione, le chiede di sposarlo.
Lei dice di sì, anche se ufficialmente non si sposeranno mai. Intanto però, viene fondata la rock band che avrebbe dominato la scena musicale degli anni successivi. Farrock Bulsara diventa Freddie Mercury, il frontman della band.
Mary e Freddie non si separeranno mai. Anche se le luci della ribalta sono fisse su di lui, anche se lui è sempre in giro per le tournée, torna sempre da lei, in quella casa calda e confortevole che hanno costruito da soli, giorno dopo giorno.
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Nel 1975 Freddy consacra la sua storia con Mary, per l’eternità, dedicandole una canzone che ancora oggi ricorda questo profondissimo amore.
Nella trasfigurazione musicale questo legame indistruttibile, diventa una canzone dell’album A Night at the opera :  "Love of my life".
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Love of my life, you've hurt me
You've broken my heart
And now you leave me
Love of my life, can't you see?
Bring it back, bring it back
Don't take it away from me
Because you don't know
What it means to me
Love of my life, don't leave me
You've taken my love (my love)
And now desert me
Love of my life, can't you see?
(Please bring it back)
Bring it back, bring it back (back)
Don't take it away from me
(take it away from me)
Because you don't know
(ooh-ooh-ooh know)
What it means to me (means to me)
You will remember
When this is blown over
And everything's all by the way (ooh)
When I grow older (yeah)
I will be there at your side (ooh)
To remind you how I still love you
(to remind you)
(I still love you)
Back, hurry back (back, back)
Please, bring it back home to me
(bring it back home to me)
Because you don't know
(ooh-ooh-ooh know)
What it means to me (means to me)
Love of my life
Love of my life
(Ooh, ooh)
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genmasp · 25 days ago
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'22: Ryse: Son of Rome
Sistema PC (Deck) | Produttore Microsoft | Sviluppatore Crytek | Versione Europea | Uscita 10 dicembre 2014
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Ambientato nell’antica Roma, Ryse: Son of Rome è un gioco d’azione sviluppato da Crytek che sfrutta appieno il potente motore grafico CryEngine, offrendo un’esperienza visivamente sorprendente. Ogni dettaglio, dalle architetture maestose alle battaglie epiche, viene reso con un realismo senza precedenti. La qualità delle ambientazioni è impressionante: le strade di Roma, le fortezze ai confini dell’Impero e i paesaggi naturali si rivelano affascinanti e immersivi, rendendo il mondo di gioco un autentico spettacolo per gli occhi. Le animazioni fluide, i personaggi curati nei minimi dettagli e i giochi di luce e ombra contribuiscono poi a creare un’atmosfera realistica, che immerge il giocatore in un’epoca storica ricca di fascino. Questo livello di cura si nota in particolare durante i combattimenti, dove ogni movimento, schivata e colpo viene reso con grande precisione.
Purtroppo, la spettacolarità visiva non trova riscontro in un gameplay altrettanto profondo e variegato. Le meccaniche di combattimento, che risultano inizialmente appaganti, tendono a diventare ripetitive nel corso dell’avventura. Il sistema si basa principalmente su combo e quick-time event che perdono presto di fascino a causa della loro prevedibilità. Questa limitazione riduce le possibilità strategiche e il gioco finisce per focalizzarsi su una sequenza di schivate e attacchi senza molte variazioni. Anche il sistema di progressione appare limitato, offrendo poche possibilità di personalizzazione e sviluppo del personaggio.
La trama, seppur interessante, si sviluppa in modo un po’ troppo lineare e non offre particolari sorprese. Il protagonista, Marius Titus, è un personaggio con un buon arco narrativo, ma non raggiunge mai la profondità emotiva che ci si aspetterebbe; anche i personaggi secondari soffrono dello stesso trattamento. Il rimo, tuttavia, si mantiene incalzante per tutta la durata dell’avventura, e il gioco riesce a offrire momenti di grande spettacolarità, come le epiche battaglie di massa che trasmettono la grandiosità dell’Impero romano. La sensazione di vivere un’epopea è palpabile, e questi momenti compensano in parte i limiti della narrazione.
Nonostante i suoi limiti, Ryse: Son of Rome offre un’esperienza affascinante. Grazie a una grafica di altissimo livello e a un’ambientazione ricca di dettagli, il gioco riesce a evocare l’atmosfera dell’Impero. Anche se manca di profondità, resta un’avventura visivamente spettacolare e coinvolgente.
G
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Agli ordini In alcune fasi dell’avventura, avremo l'opportunità di comandare un’intera legione romana. Queste sezioni mirano a variare il ritmo delle battaglie, ma ci riescono solo parzialmente. Le meccaniche di comando si rivelano infatti troppo elementari e poco coinvolgenti. Sebbene non manchino momenti di grande epicità, anche queste parti soffrono alla lunga di un’inevitabile ripetitività.
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Steam Deck info Prezzo 9,99 Euro 2,49 Euro | Stato Verificato | Tempo di gioco 8,1 ore
Immagini Genma SP
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lasko2017 · 1 month ago
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Il Castillo de Colomares, situato a Benalmádena, in Spagna, è una meraviglia architettonica che rende omaggio a Cristoforo Colombo e alla sua scoperta delle Americhe. Costruito tra il 1987 e il 1994 dal dott. Esteban Martín Martín, un chirurgo con la passione per la storia, questo monumento unico è una miscela di vari stili architettonici, tra cui gotico, romanico e bizantino, che riflettono il ricco patrimonio culturale della Spagna.
Sebbene spesso scambiato per un antico castello, il Castillo de Colomares è relativamente moderno, tuttavia trasuda un fascino antico. La struttura è piena di dettagli intricati, come pietra scolpita, mosaici e torri che simboleggiano le tre navi che Colombo utilizzò nel suo viaggio: la Niña, la Pinta e la Santa María. Il castello ospita anche la chiesa più piccola del mondo, dedicata a Santa Elisabetta d'Ungheria, riconosciuta dal Guinness dei primati.
Ciò che rende il Castillo de Colomares particolarmente affascinante è il suo ruolo di narrazione storica in pietra. Ogni angolo del castello racconta una parte della storia di Colombo, rendendolo non solo una bella struttura, ma anche un monumento ricco di simbolismo e significato storico. È una tappa obbligata per chi è interessato alla storia, all'architettura e all'eredità dell'esplorazione.
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gdsradio7 · 3 months ago
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Papa Francesco in Indonesia lancia un monito contro intolleranza e guerre
Un monito contro la “mancanza di rispetto reciproco” e ogni “volontà intollerante di far prevalere a tutti i costi i propri interessi, la propria posizione o la propria parziale narrazione storica”, anche quando ciò può “sfociare in guerre sanguinose”: è il monito rivolto da papa Francesco, durante il suo viaggio apostolico in Indonesia. Parole, le sue, pronunciate di fronte a circa 300…
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