Cl. '69, giornalista e scrittore, già dirigente d'azienda, 2 Master e 3 lauree da 110 e Lode: 1 in Comunicazione e 2 in Beni Culturali. "Sapere Aude": basterà una vita?
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ARTISTI CONTEMPORANEI - di Gianpiero Menniti
LA PITTRICE DEL MARE
Ha ricevuto in dono i colori del mare, il profumo della salsedine, il vento che accarezza l'acqua e rende tersa la linea impossibile dell'orizzonte in attesa.
E il suono dell'onda, antico richiamo, perenne invocazione.
Si tratta di Vittoria Suriano, vibonese, artista nascosta, pittrice rimasta fin qui nell'ombra, portatrice di queste qualità dello spirito.
Le sue opere, dipinte su ogni supporto come a dichiarare l'esigenza di fissare in immagine la grazia di sentimenti limpidi, sono grida che squarciano l'inebriante solitudine del "grande mare" vissuto dalla riva di una baia, tra i sassi e la sabbia che offrono un saldo confine, mentre il blu dilaga stemperando ogni altro colore.
È il mare vissuto come espressione di sé: non un rapporto tra soggetto e oggetto ma "relazione" inscindibile che plasma l'osservatore in un'incessante mutevolezza.
Così, i dipinti di Vittoria Suriano sono riflessi lirici che transitano oltre la sua percezione per divenire il suo modo d'essere, il suo carattere, il suo interpretare il mondo: l'anima riesce in lei a diventare rifugio.
Anima che, nella sua unicità, possiede il mare.
Poichè solo chi lo senta nel baratro dei propri sensi, può raccontarlo nel linguaggio speciale dell'arte, lasciandone traccia tra strati di pennellate intense, intrise di autentica passione.
Sovviene un'espressione di Jorge Luis Borges:
«Il mare è un antico idioma che non riesco a decifrare».
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RECENSIONI - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
PUREZZA IDEALE - di Gianpiero MennitI
Antonella Daffinoti, poetessa e scrittrice, proveniente da Rombiolo, un paesino incastonato nell'altopiano del Monte Poro in provincia di Vibo Valentia, possiede una particolare vocazione: la sua scrittura tende a dire l'impossibile, a superare i limiti della parola per proiettarsi, e così trascinare con sé il lettore, in un altrove che non appartiene alla materia comune.
Con il suo "Connessione mentale", appena uscito per la collana "Athena" di Protos Edizioni, segue questa personale linea ispirativa e costruisce un dialogo tra poesia e prosa che in nulla tende a piegare la prima alla seconda, quasi a fornirle una presa con il reale: al contrario, dimostra come il sogno e dunque un linguaggio onirico, possa rappresentare non solo un atto di stile ma l'espressione necessaria di una sensibilità gettata in un luogo ideale, un irraggiungibile orizzonte di purezza.
In questo caso, la purezza del sentimento amoroso, del suo costituirsi come traccia che istituisce un linguaggio originale, unico, appartenente in modo esclusivo a chi se ne senta parte e possa interpretarlo.
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LEGGERE PRIMO LEVI NEL GIORNO DELLA MEMORIA - di Gianpiero Menniti
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È divenuta una consuetudine, per me, onorare questo giorno di mesta riflessione con un articolo scritto tempo fa: si tratta di una lettura critica del celebre testo di Primo Levi "Se questo è un uomo", intensa e toccante autobiografia della prigionia dello scrittore torinese nel lager di Auschwitz.
Lo ripropongo anche nella versione "audio" per chi non avesse il tempo di leggere.
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE - di Gianpiero Menniti
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LA MENTE SENZA TEMPO
Essere stati bambini è come aver lasciato un'antica stazione ormai dimenticata. Nulla passa più di lì. Eppure nessuno l'ha demolita. I binari ci sono ancora. E anche l'orologio ingessato su un tempo infinito. E la campana pronta ad annunciare il treno. Si tratta di una stazione nella quale vivere una nuova attesa. È sufficiente sedersi e ricominciare a giocare.
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CONFERENZE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
IL SAN SEBASTIANO DI VIBO - di Gianpiero Menniti
Una conferenza insolita: organizzata sull'istante per una "scoperta" particolarmente importante e che nei prossimi tempi meriterà di essere valorizzata in maniera organica: ho avuto il piacere di presentare al pubblico una tela di notevole pregio, fin qui rimasta misconosciuta, il San Sebastiano conservato a Vibo Valentia, dipinto da Gian Simone Comandé in un periodo databile tra il 1595 e i primi anni del '600.
Ne ho ricostruita la breve storia, su impulso del Sindaco di Vibo, Enzo Romeo e per iniziativa del Parroco del Duomo di San Leoluca, Don Pasquale Rosano, grazie all'autorevole attribuzione del valente storico dell'arte e ricercatore Mario Panarello che un paio di decenni fa si occupò di questa tela.
Un excursus che mi ha permesso anche d'inquadrarne la caratura iconologica e il rapporto storico-iconografico con il più celebre San Sebastiano del "Sodoma", risalente agli anni 1525 - 1527 e conservato a Palazzo Pitti a Firenze.
Questo di Vibo risulta, senza dubbio, un dipinto molto più intenso di quello che lo precedette di settant'anni o poco più.
Tanto da suscitare, nella conclusione della breve disamina, la citazione di versi a me assai cari, di Montale (da "Ossi di Seppia", 1925):
[...] Se un'ombra scorgete, non è un'ombra - ma quella io sono. Potessi spiccarla da me, offrirvela in dono.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LA POTENZA DELL'IMMAGINE
Forse in pochi ne sono al corrente: a Vibo Valentia è custodita, nella casa comunale e precisamente nella stanza di rappresentanza del Sindaco, un dipinto di pregevole fattura e di notevole rilevanza storico-artistica.
Si tratta del "San Sebastiano" ascritto al pittore messinese Gian Simone Comandé (1558 - 1630) per attribuzione dello storico dell’arte calabrese e ricercatore insigne, Mario Panarello, nel suo corposo contributo al saggio “I dipinti e gli inventari di Francia e altri inediti documenti per il collezionismo nella Calabria del Settecento e dell’Ottocento: Cosenza e Vibo Valentia”.
Come rammentato dallo studioso, il quadro si rivela analogo a “una nota iconografia del Sodoma (Antonio Bazzi, 1477 - 1549), oggi nella Galleria Palatina di Firenze” meglio conosciuta come Palazzo Pitti.
Il raffronto della tela "vibonese" con l'opera assai celebre del "Sodoma" è impressionante: non si tratta di mimesi ma di una comparazione interpretativa "a distanza".
Il "Martirio di San Sebastiano" (risalente al 1525 - 1527) è, in realtà, un gonfalone per le processioni, richiesto al famoso artista di origine vercellese naturalizzato senese (ritratto nella Scuola di Atene accanto allo stesso Raffaello) dalla Compagnia di San Sebastiano in Camollia della città toscana.
Il potere salvifico della rappresentazione era dunque molto sentito: un'icona, una sorta di talismano, un'immagine dalla potenza guaritrice.
L'opera del Comandé apparteneva invece alla Chiesa del Carmine a Vibo Valentia, dove prima insisteva, appunto, la Chiesa di San Sebastiano e la confraternita del santo: “In essa chiesa antichissima - scrive Bisogni - c’era dipinta l’immagine di S. Sebastiano di Simone Comandia siciliano”.
Probabilmente anche quest'immagine doveva rivestire un valore di fede intenso e diffuso: non a caso, nei pressi della chiesa sorgeva (esistente tuttora) il caratteristico borgo denominato San Sebastiano nel centro storico della città.
Premesse fatte a richiamo sommario del significato che accomuna le due immagini.
Ora si tratta adesso di confrontarne la "potenza" nell'impatto sull'osservatore.
E qui l'allievo, a mio parere, supera il maestro: non ho dubbi che la tela del Comandé (fotografata magistralmente dal Maestro Tonio Verilio) s'innalzi a un livello di pathos molto più profondo, vissuto nella consapevolezza del martirio e in un'angosciata fede ormai piena e intensa.
Possiede già il nimbo, al contrario ancora tra le mani dell'angelo nel dipinto del Sodoma.
Ma quel che più conta è lo sfondo: il San Sebastiano di Vibo è opera che risente più marcatamente della lezione vinciana, delle apocalissi che sorgono alla vista per consumare il tempo delle cose create, dell'invisibile che cela l'archè, la forza primigenia, la terra strappata al suo manto di luce per essere gettata nella desolazione della materia.
Nella tela del Sodoma, la natura benigna e il mondo degli esseri umani proseguono il loro corso immemori del sacrificio.
Qui l'evento assume connotazione epocale.
Lì il corpo attende lo spirito.
Qui il corpo è già spirito.
È già Chiesa.
La matrice, nonostante la vicinanza mimetica, è divergente: l'opera del Sodoma appartiene a una storia ancora ingenua dei catastrofici mutamenti che devasteranno l'Europa delle guerre di religione, pur trovandosi sulla soglia del "Sacco di Roma", non può prevederne le conseguenze; il dipinto del Comandé, allievo del "Veronese" che dipinse una strepitosa "Ultima cena", risale alla fine del '500 inizi del '600, in piena controriforma tridentina (1545-1563) mentre già agisce il Caravaggio e il Barocco sta per avvitarsi sulle spoglie di un confuso Manierismo.
Immagine potente, evocativa, consapevole.
Non è la morte il destino immediato del martire trafitto dalle frecce: egli patirà la violenza brutale che l'ucciderà proprio per essere sopravvissuto al primo atto crudele.
Ma quella guarigione imprevista rimane il segno dell'impossibile, la rinascita oltre ogni drammatica condizione, la forza che respinse il motto rinascimentale albertiano, vinciano e infine machiavelliano del "tamquam Christus non esset", "come se Cristo non fosse mai stato".
No, il cristianesimo riemerge dalle sue paludi cinquecentesche per confermare la regola benedettina: "Omnes supervenientes hospites tamquam Christus suscipiantur", "Lasciamo che tutti gli ospiti che vengono siano ricevuti come Cristo".
Questo, forse, è il significato più autentico del San Sebastiano di Vibo Valentia.
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ARTISTI CONTEMPORANEI - di Gianpiero Menniti
LA MISTERIOSA VITA DELLE COSE
"Nulla esiste se non attraverso il linguaggio."
E ancora:
"Il focus della soggettività è uno specchio deformante".
Sono frasi pronunciate da Hans Georg Gadamer, il maestro di Marburgo, padre dell'ermeneutica contemporanea, arte e teoria dell'interpretazione dell'esistenza.
Davvero singolare la figura di Gadamer, nato esattamente nell'anno 1900 e scomparso nel 2002: si può affermare che nessuno meglio di lui sia stato un uomo del Novecento.
Eppure, raggiunse la notorietà solo negli anni '60 dopo la pubblicazione del suo capolavoro "Verità e Metodo".
Lo cito per raccontare un artista altrettanto singolare, calabrese, vibonese: Silvestro Bonaventura.
E per metterne in connessione le opere con il riferimento alla metafora dello "specchio deformante": la percezione soggettiva è influenzata da vari fattori culturali, sociali e storici che distorcono la visione della realtà.
In altre parole, ciò che vediamo e come ci vediamo è sempre mediato da questi "specchi" che non riflettono mai una verità pura e incontaminata.
Estrema espressione della soggettività: cosa c'è di più intensamente creativo di questo?
E di più profondamente reale?
Gli oggetti, la scena che li contiene e si costituisce innanzi agli occhi dell'osservatore, non è che l'effetto di un'interpretazione.
Non a caso Maurice Merleau-Ponty (filosofo francese dal pensiero raffinato, morì prematuramente nel 1961, quando Gadamer iniziava ad essere conosciuto) se ne fece carico per spiegare la controversa e resistente ricerca pittorica di Paul Cézanne: quella visione "im-mediata" che condusse alla mutazione dell'arte tra '800 e '900 e alla nascita dell'espressione artistica contemporanea.
Nelle sue tele, Silvestro Bonaventura racconta l'impossibilità dell'immagine ipostatizzata in una illusoria oggettività rivelandone, al contrario, l'incarnazione materiale, personificata, soggettiva.
Ed ecco che l'ermeneutica di Gadamer torna in campo.
E con lui l'idea che il linguaggio artistico formi l'esistenza delle cose.
Dopotutto, svelandone la natura: nulla di quanto appaia può essere astratto dalla relazione con l'osservatore, muta di sguardo in sguardo fino a quando il miraggio dell'oggettività non tracolli nell'utopia, in una fragilissima costruzione dalla consistenza chimerica.
La radicalità di quest'esperienza conduce, necessariamente, verso una pittura che stressa la concezione fino al limite possibile: non sfocia nell'astrazione ma riflette un modello di mondo nel quale le "cose" possiedono l'anima degli stessi occhi che le osservano.
Gli oggetti prendono vita e varcano la scena loro assegnata con la vividezza cromatica e l'impeto impedito alle "burrose" nature morte di Giorgio Morandi.
Dunque, da annullare in partenza ogni suggestione verso Derrida, nessuna "decostruzione", nessuna contraddizione con la "realtà" mentre è vivida la sensazione del "reale": l'irrappresentabile plasmato nella forma simbolica della deformazione, del dinamismo, del movimento.
Così, con Silvestro Bonaventura, il muro invalicabile della percezione viene saltato di slancio per approdare a un testo pittorico che si anima in una narrazione piacevolmente caotica e coinvolgente, imprevedibile, ricca di colpi di scena.
Come a teatro.
Il teatro come la vita.
La vita che si fa arte.
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ARTISTI CONTEMPORANEI - di Gianpiero Menniti
ANCHISE AL CONTRARIO
Seguo da un po' di tempo le espressioni artistiche di Corradino Corrado, architetto, poeta e pittore di Dasà, suggestivo paese arroccato sulle colline delle Serre nella provincia di Vibo Valentia.
Pittore di paesaggi naturali e urbani, caratterizzato da uno stile rarefatto e nostalgico, dal colore pastoso e da figure intrise in una solida apparizione, è uno degli ultimi epigoni di una marcata visione antropologica dell'arte: le sue opere sono racconti dai quali echeggiano tracce di storia ormai perdute e che lasciano il segno di un'umanità mediterranea rimasta ai margini della contemporaneità.
Giunto tardi alla rivelazione del suo talento, ha tuttavia bruciato le tappe ottenendo immediatamente premi e riconoscimenti in Calabria e in Italia, affacciandosi anche all'estero.
Ultimamente sta crescendo in lui la riflessione sul ritratto: tra i numerosi l'ultimo, recentissimo, presenta il volto del figlio.
Un volto sorridente, vitale, accogliente, bonario, arguto.
Riverbera lo sguardo di un padre verso un figlio: colmo di tenerezza, assorto nella contemplazione del mistero sulla vita, ancora protettivo e sensibile di muti sentimenti.
Non più Enea che porta sulle spalle il vecchio Anchise ma quest'ultimo, vigoroso e solido, ad essere guida e compagno e di viaggio.
Eppure non basta.
Non è sufficiente indicare la vissuta attenzione espressionista della quale l'opera si giova.
Lo sguardo dell'osservatore deve cogliere qualcosa di più e di più intenso: lo sfondo.
Una scena che si astrae dalla "realtà" per introdurre il tema del "reale", la fondamentale distinzione lacaniana : "realtà" si riferisce a quanto si percepisce e s'interpreta attraverso i sensi e la mente, il mondo come lo conosciamo e lo comprendiamo, influenzato dalle nostre esperienze, cultura e linguaggio; "reale", invece, è quello che esiste al di là della nostra capacità di comprensione, ciò che resiste alla simbolizzazione e dunque all'interpretazione.
Lacan descrive il "reale" come "inemendabile", che non può essere completamente compreso o spiegato attraverso il linguaggio o la percezione.
Ecco, lo sfondo nell'opera di Corradino Corrado possiede questo modello esegetico: sottolinea i limiti della comprensione e l'importanza di riconoscere che esista qualcosa di più profondo e inaccessibile nell'esperienza del mondo.
E qui si svela il focus drammatico, il tono elegiaco e sommesso che il dipinto propone in un singolare, tragico, radicale contrasto.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LA PUREZZA DELL'IMPOSSIBILE
Helen Frankenthaler (1928 - 2011) è stata un'artista peculiare nella New York del secondo dopoguerra, la "grande mela" divenuta centro vitale della produzione artistica occidentale.
Nella congerie dell'espressionismo astratto, da Pollock a Rothko, da De Kooning a Sterne, da Newmann a Motherwell (con il quale fu sposata dal 1958 al 1971), la pittrice trovò ispirazione ma aprì un varco diretto verso una strada ulteriore e feconda: il "Color Field", la campitura vasta di campi di colore dotati di una dimensione segnica limitata al significante e dunque lacunosa di significato.
Dal "dripping" di Pollock al “soak-stain” che conferiva alle sue espressioni pittoriche la consistenza visiva dell'acquerello.
In sostanza, l'artista s'immerse nella corrente di ricerca sul colore che dagli anni '50 corse lungo due filoni: come contrasto e armonia o nella direzione della monocromia ispirata dal suprematista russo Malevič e proseguita dal francese Kline.
Ma Frankenthaler rimase coerente con l'intuizione iniziale, esplorandola fino alle sue vaste possibilità, nel tentativo di trarre dall'astrazione un'impressione di natura: "Montagne e mare" del 1952, conservato nella Galleria nazionale d'arte a Washington, è considerato una pietra miliare nella storia dell'arte contemporanea, paesaggio strappato da una potente sensibilità visiva all'atto di coscienza.
Infine sublimato in fenomeno creativo capace d'imprimere sulla tela la suggestione organica e fluttuante del vivente.
Se nel commento all'opera Morris Louis la descrisse come «un ponte tra Pollock e ciò che era possibile», in realtà ad emergere è l'avventurosa ricerca di purezza nell'immagine impossibile.
L'immagine di emozioni sedimentate nell'abisso delle percezioni.
Che delle emozioni fa muto linguaggio lirico.
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE - di Gianpiero Menniti
PELLE CHE NARRA
Scatto di potente intensità.
Opera di Sebastião Salgado (1944): "Blind woman", Mali, 1985.
Può rammentare l'Annunciata di Antonello da Messina: vede oltre e dunque "pre-vede".
Così è questa donna, cieca di quanto sia altro intorno sé, vedente di quanto altri non scorgono nemmeno.
Profondità che non ha bisogno di una scena prospettica.
Fragilità che sorge come preghiera in ogni parola pronunciata.
Appello che dà voce al tocco di mani sapienti: tutto è racconto scritto sulla pelle.
Non lei, ma ciascuno è indifeso accanto a lei, capace di afferrare la cadenza del respiro, la storia di una cicatrice, il vento e il sole di una ruga.
Strega invocata, fonte di conoscenze arcane ormai perdute.
Come le "Madri" del Faust di Goethe:
[...] Dee sconosciute all'uom, da noi sono volentier taciute. Cerca giù negli abissi dove stanno; è colpa tua se ci abbisogneranno. [...]
Il nostro tempo ha sete di occhi che rendano visibile il pensabile.
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CONFERENZE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
L'ARTE COME RICERCA DI SENSO - di Gianpiero Menniti
Il mondo dell'arte è soprattutto il mondo degli artisti: la loro creatività, abissale mistero umano, è la principale traccia da seguire se l'obiettivo del "critico" è la ricerca della verità che soggiace all'espressione, a ogni forma di espressione, poetica, pittorica, plastica, performativa.
Con sincero piacere ho accettato l'invito di Antonella Di Renzo, artista intensa e profonda, a tenere una conferenza nella quale raccontare le sue opere, riversate sulla tela e sulla pagina, ripercorrendo attraverso queste alcuni dei tratti essenziali dell'arte contemporanea, indicandone seppure brevemente le matrici e le relazioni, nell'echeggiare del celebre "ut pictura poesis" di ovidiana memoria.
Così, mercoledì 18 Dicembre, nello scenario davvero accogliente dell'auditorium "Giubileo 2000" della Parrocchia di Maria SS. del Rosario di Pompei a Vibo Marina, generosamente ospitati da Don Enzo Varone, contornati dalle tele dell'artista vibonese, abbiamo dato corso al reading di alcune produzioni liriche - tratte dalla raccolta "Il suono del silenzio" con la lettura diretta e appassionata di Antonella Di Renzo - che hanno piacevolmente intervallato l'esposizione della mia tesi sul significato dell'arte contemporanea, in particolare dell'arte "astratta", nell'età della scienza e della tecnica.
Con una conclusione: l'arte è ancora necessaria.
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CONFERENZE - POLIS di Gianpiero Menniti racconta la Comunicazione l'Arte e la Politica
IL SACRO NELL'ARTE CONTEMPORANEA - di Gianpiero Menniti
Il racconto dell’arte e dell’arte occidentale in particolare, rimane aperto a domande irrisolte.
Tra queste, il rapporto con il sacro nel modello di rappresentazione del fervore religioso è forse il percorso di ricerca più proficuo per tentare di comprendere le singolarità e le contraddizioni di espressioni artistiche di straordinaria intensità.
Così, correndo lungo i secoli della cristianità, mutando ed esplorando sempre nuove vie, quelle antiche aporie hanno lasciato il segno anche nell’arte contemporanea, nonostante celate nei tratti caotici del tumultuoso “Secolo Lungo” e poi di un Novecento ancora vibrante nelle coscienze del sentire artistico.
Per questa ragione ho voluto che due apprezzate e premiate opere di due pregevoli artisti fossero accanto a me durante la dissertazione: "La Madonna della Consolazione di Dasà", mirabilmente dipinta da Corradino Corrado e la rappresentazione della croce che vede la marcata espressività di Antonella Di Renzo.
Così s'è snodata la conferenza tenuta a Vibo Valentia lo scorso 17 Dicembre, nella Chiesa del Rosario il cui impianto risale al 1284: sono stato accolto con rimarchevole gentilezza dal Rettore, Mons. Filippo Ramondino e dal Priore dell'Arciconfraternita di Maria SS. del Rosario e San Giovanni Battista, Pino Mirabello.
Di suggestivo interesse e indubbio pregio la "Cappella De Sirica-Crispo" che nell'occasione ho visitato: stile gotico angioino, fu eretta nel 1346 nell'allora tempio dei Frati Conventuali di San Francesco d'Assisi, unica superstite delle quattro cappelle monumentali originariamente presenti sul lato destro del luogo sacro.
La cappella che ospita un suggestivo sarcofago marmoreo con un altorilievo raffigurante il cavaliere angioino Domenico De Sirica, è dedicata a Santa Caterina e rappresenta uno dei più significativi esempi di gotico meridionale.
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IL MESTIERE DELL'EDITOR - di Gianpiero Menniti
CARILLON
Testo leggero e sognante scritto da due poeti - Angela Ada Mantella e Gaetano Interlandi - riuniti ciascuno con il proprio decalogo di liriche.
Ma non solo: la realizzazione, per ogni testo, di un'immagine realizzata con l'intelligenza artificiale.
Ne è scaturito un vero cammeo, un "Carillon" che ho avuto il piacere di curare nell'editing e nella redazione del "commento critico" affiancato all'ottima "prefazione" di Rossella Rafele.
Leggero e sognante ma non per questo meno intenso e profondo: una riflessione sulla limpidezza e la fragilità, l'amore materno e gli interrogativi incessanti sull'esistenza.
Ecco uno stralcio dal commento critico che ho intitolato "Melodia disarmata":
[...] Sullo sfondo, la sensazione di solitudine, freddo passaggio di una ricerca già sbiadita prima d’iniziare, destinata a stemperarsi come i sogni, i ricordi, il giorno che declina verso il tramonto. Passeggeri di una nave trascinata della corrente, ogni immagine scorre lontano. Imprigionati nei corpi sferzati dal declino e dal malanno imponderabile, memoria nostalgica di gioventù vigorosa o di gioventù interrotta e mai vissuta. Quanta pena nell’affanno di vivere come appendici di muscoli irrorati di misteriosa energia. Così, quando la fragilità ignorata e vilipesa si pone di fronte ai nostri occhi, è come il risveglio della coscienza sopita, ancestrale traccia, evidenza nascosta. “Carillon” è questa limpida, delicata, riscoperta: da leggere con muta partecipazione, a mo’ di preghiera, come riposta, antica carezza spezzata dalla hỳbris (ὕβρις), l’insolente tracotanza che già la cultura greca pose all’indice, pericolosa fonte del disastro, eccedenza smodata carica di egoismo. Carezza che scioglie il tormento, che rende onore al sorriso innocente di una fanciullezza perenne, alla delicatezza di un animo che mai sarà macchiato dalla prudenza della parola e del gesto. Tutto è terso, il nitore del cielo macchiato di leggere nuvole candide pennella il colore del mare increspato per rompere il silenzio con la cadenza di onde: anche loro sono un lieve tocco, tenera moina, lusinga amorevole. Dieci poesie di Angela Ada Mantella e dieci poesie di Gaetano Interlandi: da par loro, i due fecondi autori danno vita a recessi carichi di malinconico romanticismo: divengono parole per una voce mai udita. In questo, mi pare, si possa cogliere la semantica della piccola ma intensa raccolta di versi che dialogano a distanza per raccontarsi la nascosta bellezza della mancanza, della malinconia tramutata in sorriso da un’inspiegabile eppure percepita ricchezza interiore. Una percezione che può appartenere solo ai poeti. [...]
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LO STILE DI UN 'VAN GOGH' SPENTO
Il soggetto della tela non è originale: "La ronda dei carcerati" (1890) è ripreso con pedissequa ri-presentazione da un'incisione di Gustave Doré, "Newgate: The Exercise Yard" che risaliva al 1872.
Dunque, un van Gogh inedito: tiene in esercizio il proprio talento artistico ma solo per la qualità tecnica.
Non è creativo.
Allora, quale giudizio si può attribuire a un'opera che manchi di espressione?
Nessuno.
Ma è davvero così?
Davvero questa tela si può considerare priva di valore perchè la scena è la riproposizione di un atto artistico già esistente e originale?
Se si trattasse di un testo scritto, riproporlo sarebbe un plagio privo di contenuto.
Ma per un dipinto l'affermazione non regge: esiste qualcosa che lo caratterizza e lo differenzia.
Si tratta dello "stile".
Una traccia indelebile, un solco: come nel caso dello "stilo", lo strumento utilizzato per scrivere sulle tavolette di cera nell'antichità.
Stile: termine che deriva, paradossalmente, dalla già richiamata similitudine con i segni grafici, la calligrafia, l'ortografia.
Lo stile non racconta ma desta un sentimento indecifrabile che attrae o respinge.
È dunque, riflettendo bene, un modo d'espressione pieno, che caratterizza, che definisce un'identità, che provoca un illusorio, intenso, frenetico moto alla ricerca di parole descrittive, difficili, talvolta impossibili da trovare: così come lo stile non racconta, allo stesso modo non si può narrare, non si può indicare fino in fondo nelle sue caratteristiche.
Ma c'è.
S'impone alla vista e provoca lo spalancarsi di un abisso: manca la parola, domina il silenzio.
Infine, si afferma un principio inatteso: l'arte è un apparire dell'insostenibile gravame costituito dalle immagini mentali di un essere umano.
Così, mentre la penna tenta una descrizione, il pennello scorre attingendo a flussi caotici incessanti di sguardi interrotti.
Fino a quando la penna, esausta, si arresta mentre la mano del pittore rimane viva nel desiderio di lasciare sulla riva quel mare di figure e di scenari per abbandonarsi alla purezza di un'intonazione muta capace di rifondare l'atto creativo esclusivamente nello stile, inimitabile e per questo originale e a suo modo immutabile.
Ecco la ragione per la quale si ammira un'opera come questa di van Gogh: non si viene attratti dal contenuto ma solo dal riconoscere la mano dell'artista.
Forse, il complimento migliore che si possa attribuire a un'anima creativa.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
LA CRISI VISTA DA BOTTICELLI
"La calunnia" (Uffizi, Firenze) viene considerata una tavola appartenente a una terra di mezzo, tra la fine delle illusorie certezze umaniste di matrice neoplatonica e l'inizio di una consapevolezza intensa e profonda.
Risale a un periodo compreso tra il 1491 e il 1495, anni di svolta nella Firenze che assiste alla scomparsa di Lorenzo de Medici e all'ascesa effimera del frate ferrarese Girolamo Savonarola, con la successiva costituzione della "repubblica" che vedrà in Niccolò Machiavelli il più acuto tra i suoi protagonisti.
Sandro Botticelli (1445 - 1510) di quell'età di mutamenti radicali se ne fece imprevisto interprete: da artista di profonda sensibilità, artefice che aveva dipinto la gloria della "Signoria" medicea, seppe tuttavia intuire prima del tempo l'esigenza espressiva della crisi incombente, di una cupa caduta, dell'inesorabile e lunghissimo scivolamento che lascerà solo vestigia mute in una Firenze ingessata nel vanto fuggevole di impareggiabili forme architettoniche e artistiche.
Le fiamme alte dei "fuochi delle vanità" non bastarono a illuminare fino in fondo le piazze della città: quanta produzione artistica venne bruciata, sacrificata sugli altari di una rivoluzione di parole.
Ma non quest'opera del maestro della "Nascita di Venere" e della "Primavera": un quadro che segna, nei suoi chiaroscuri e nella concitazione drammatica della scena, l'avvento del tragico e grandioso "rinascimento" cinquecentesco.
Con la "Natività mistica", del 1501, il ciclo inaugurato da "La calunnia" si chiuse in un delirante, inascoltato appello.
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
L'ILLUSIONE DELL'ONFALO
Lo stile è davvero uno dei segni tangibili dell'arte, di ogni espressione, sia essa un testo pittorico o plastico, un'architettura oppure un'opera di scrittura.
In un luogo, qualcosa accade.
Si staglia, s'imprime nello sguardo e suscita un irrefrenabile moto d'animo.
È il primo passo.
Prima lentamente e poi con impeto, i luoghi si moltiplicano: non per mera imitazione ma per slancio creativo.
Così, quando nel 1874, a Parigi, nello studio del fotografo Nadar sul Boulevard des Capucines si tenne la prima mostra "Impressionista", il fuoco di quello stile già diffondeva i suoi lapilli nell'emisfero sud del globo, in Australia, a Melbourne.
Lì si formò la scuola detta di "Heidelberg" - dal nome di una località a est, nella periferia rurale della città - e sempre a Melbourne si tenne, nel 1889, la prima mostra passata alla storia con questo titolo: "9 by 5 Impression Exhibition".
Tra i 183 dipinti, almeno 40 erano di Arthur Streeton, non meno di 46 di Charles Conder, assieme ai contributi minori di Frederick McCubbin e Charles Douglas Richardson.
Ma la parte più cospicua spettò, con 63 opere, a Tom Roberts (1856 - 1931) artista di origine britannica.
E britannica sembra essere l'influenza "impressionista" - Turner, Whistler - che colse la vena figurativa di quella che venne annoverata come la prima scuola artistica veracemente australiana.
Ma il ceppo originario s'era già formato nella seconda metà degli anni '80, il "Box Hill artists' camp", con il gruppo di artisti "en plein air" che in seguito costituirono l'ossatura della "Heidelberg School".
Certamente, Roberts fu il più intenso nel lasciarsi cogliere dallo slancio di misurarsi con la cattura dell'istante nella naturalezza del primo impatto.
E se è vero che le sue tele echeggiano Whistler pur concedendosi inizialmente all'impronta vaga di Constable, le stesse mostrano un notevole coraggio nell'esplorare i fondamenti della visione sensibile, della costruzione im-mediata dell'immagine pittorica.
Così, le tracce irrequiete dell'arte migrarono lasciando l'Europa, annebbiata dalla "Belle Époque", nella tragica illusione di essere l'omphalòs (ὀμφαλός), l'ombelico del mondo.
- "Going home", 1889, National Gallery of Australia; "Treno serale per Hawthorn", 1889, Art Gallery of New South Wales; "Andante", 1889, Art Gallery of South Australia.
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IL RACCONTO DELL'IMMAGINE - di Gianpiero Menniti
SETTE ANNI
Ero un adolescente alla metà degli '80, quando il "secolo breve" prese la via del suo ripido declino.
I muri, patologia del confine, cominciarono lentamente a sgretolarsi come gesso sotto una minuta pioggia.
I "due blocchi", inatteso ma inevitabile residuo delle guerre suicide d'Europa della prima metà del '900, si affacciarono da un'unica soglia rimasta per un quarantennio nascosta.
L'aria aveva l'odore di una primavera di speranza e Sting cantava "Russians":
«[...] Condividiamo la stessa biologia, indipendentemente dall'ideologia. Ma ciò che potrebbe salvarci, me e te, è se anche i russi amassero i loro figli. »
Era il 1985, il mese di Marzo.
Michail Sergeevič Gorbačëv divenne Segretario Generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica.
La sua parabola durò fino all'estate del 1991.
L'anno prima era stato insignito del Premio Nobel per la Pace.
Mentre in Sudafrica Nelson Mandela riacquistava la libertà.
E nel 1989 la "cortina di ferro" di churchilliana memoria veniva abbattuta tra lo stupore e l'entusiasmo generale.
In quei sette anni di formidabile accelerazione degli eventi non finiva la storia, come qualcuno improvvidamente profetizzò: la storia riapriva i suoi volumi impolverati.
Nulla, poi, andò come previsto.
Il fragore sordo e potente del "Muro di Berlino" fece sentire i suoi effetti sismici in un mondo da tempo ridotto alla sua globalità.
E la mia generazione, senza più la macchina da scrivere ma catturata dagli schermi dei primi pc, orfana di un modello politico e incerta del futuro, visse l'ultimo decennio in corsa verso il XXI secolo osservando il paesaggio come su un treno che lascia appena l'istante di un'immagine sfocata.
Eppure, in quei sette anni, l'illusione della luce fu più ardente della sua stessa ombra.
- Michail Gorbačëv (1931 - 2022) fotografato da Francis Giacobetti (classe 1939)
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