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Exploding Kittens: un adattamento che fatica a trovare una sua compiutezza originale
Exploding Kittens, la serie originale Netflix tratta dal gioco omonimo, è un adattamento che punta ad una struttura semplice per guidare lo spettatore. Purtroppo le conclusioni raggiunte banalizzano l'impianto.
Non è di certo una novità che il mondo ludico e quello audiovisivo comunichino, specialmente in questi ultimi tempi, visto che titoli importantissimi lato videogiochi (The Last of Us, Fallout, The Witcher) e lato giochi di ruolo (Dungeons & Dragons) hanno trovato spazio su piccolo e grande schermo con degli adattamenti degni di questo nome.
Un gatto divino sputafuoco.
La chiave per una trasposizione di successo si è rivelata essere (e neanche questa è una novità) l'individuazione di una prospettiva sul materiale originale in grado di agevolare il salto mediale senza disconoscere il punto di partenza, sia essa una rilettura totale oppure una strada con cui "tagliare" l'immaginario con cui si lavora. Di solito quest'ultimo metodo nasce in seguito a riflessioni più produttive che artistiche. La serie Netflix tratta dal famoso gioco da tavola Exploding Kittens ne è una testimonianza.
Il famoso gioco di carte per grandi e piccini (ma soprattutto per grandi), in cui bisogna cercare di evitare di esplodere mentre si collezionano gatti, ha raggiunto un successo talmente importante da ingolosire il colosso dello streaming, che ha collaborato alla creazione dell'espansione Good vs. Evil per poi renderla la base dell'adattamento seriale. Tolto qualche altro riferimento, infatti, la più grande connessione tra il mondo del gioco da tavola e lo show sta lì, il resto è comprensibilmente molto libero. La bontà del lavoro di Matthew Inman e Shane Kosakowski si gioca tutto sull'equilibrio tra l'ironia dissacrante, che è lo spirito del gioco in sé, e una morale piuttosto telefonata, che permette di non uscire mai troppo dai limiti.
Punizioni divine in Exploding Kittens
Un gatto divino e i suoi cherubini in visita di supervisione.
Dio (in originale paradossalmente con la voce di Tom Ellis, il Lucifer per eccellenza), per incuria delle sue mansioni e per una totale indolenza nei confronti di coloro di cui si dovrebbe occupare, manda per aria mezzo paradiso e viene quindi spedito sulla Terra dal Consiglio di cherubini, nello specifico al capezzale della bisognosa famiglia Higgins, sotto forma di gatto.
Una vera e propria punizione che ha come scopo quello di riavvicinare l'Altissimo alla sua creazione per poi riportarlo, illuminato e motivato, al comando del Creato. Compito tutto sommato abbastanza semplice per un essere onnipotente, dato che tutto ciò che deve fare è aiutare una famiglia disfunzionale, dimostrando ai suoi collaboratori che ha ancora un cuore. Che ci vorrà mai? C'è chi lo fa senza essere una creatura divina.
Il Bene contro il Male in Exploding Kittens.
Tutto si complica enormemente quando la stessa sorte, per motivi diversi, tocca anche a Belzebù (Sasheer Zamata), che viene mandata sulla Terra e dalla famiglia Higgins, sempre sotto forma di gatto, per rendere l'esistenza di Dio un inferno, impedendogli così di ottemperare al compito assegnatogli. Questo servirà alla CEO degli inferi per dimostrare ai demoni la sua capacità di essere malvagia come suo papà. Ciò che nessuno aveva calcolato (compresi i diretti interessati) è che i due mici potessero in qualche modo cominciare a provare delle simpatie l'uno per l'altra.
Creatività vs. Interessi commerciali
Un gatto infernale in mezzo al fuoco.
Iniziamo con il dire che ci sono le esplosioni in Exploding Kittens, visivamente uno dei mantra che si ripetono per tutte quante le puntate, e testimoniano, così come i character design e il tratto con cui vengono pensati i vari background, la volontà di mantenere una fedeltà grafica al materiale originale. Una scelta che ripaga perché permette fin da subito allo spettatore di calarsi in un contesto riconoscibile nel quale tutti gli eccessi verbali e situazionali difficilmente risultano fuori luogo.
L'idea di partire da un'espansione (e quindi adattando solo una versione del gioco) ha permesso agli autori di ideare una trama il più dritta e comprensibile possibile, nonostante delle difficoltà si avvertano in questo senso. Lo testimoniano gli elementi didascalici presenti nei vari finali dei 9 episodi così come l'idea di affidarsi ad una struttura praticamente identica per ognuno di loro. Ci sono infatti sempre due trame che vengono portate avanti parallelamente, una riguardante lo scontro tra Paradiso e Inferno e un'altra che invece si occupa prevalentemente della storia famigliare.
Non è poi male la punizione in mezzo agli Higgins.
Al di là di queste modalità di messa in scena e di scrittura, che servono a ridurre la difficoltà di un adattamento altrimenti piuttosto complicato data l'anarchia del materiale di partenza, Exploding Kittens, come prodotto seriale in sé, gioca sull'umanizzazione delle realtà divine. Dio e il Diavolo sono più infantili e incasinati degli umani stessi e i loro regni sono burocratizzati in modo simile alle nostre istituzioni, siano esse grandi o piccole. Una bella trovata che serve ad ordinare tanta carne al fuoco, peccato che poi tutto venga limitato dalla morale di fondo e dalle conclusioni di trama, tutto piuttosto banale, il che mostra il fianco al fatto che il lato commerciale sia stato ovviamente più importante di quello creativo. Meglio uno show per grandi e in parte anche per piccini, che solo per grandi.
Conclusioni
In conclusione Exploding Kittens, la serie Netflix tratta dall'omonimo gioco di carte di successo, è risultato essere un adattamento difficile data l'anarchia del materiale di partenza. La show cerca la fedeltà grafica e di riproporne lo spirito, esplorandone le potenzialità e allo stesso adottando una scrittura che costruisce un percorso individuabile. Purtroppo le conclusioni, soprattutto morali, banalizzano l'impianto, soffocandone l'originalità e mostrando come il lato commerciale sia quello per cui la serie è stata creata.
👍🏻
La fedeltà grafica e la riproposizione dello spirito del gioco.
Il tono dissacrante non è mai troppo fuori giri.
L'idea delle due trame parallele funziona.
👎🏻
Si fatica ad individuare un'originalità centrale.
Le conclusioni, soprattutto morali, sono piuttosto banali.
La serie appare fatta per motivi commerciali più che creativi.
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House Of The Dragon S3 is confirmed to start filming Q1 2025
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New look at Gareth Edwards’ ‘JURASSIC WORLD: REBIRTH’, starring Scarlett Johansson, Jonathan Bailey & Mahershala Ali. In theaters on July 2, 2025.
(Source: EW)
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The Last of Us Season 3 is reportedly already in pre-production and is set to begin filming in the summer of 2025
(via Collider)
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Il Buco - Capitolo 2: un more of the same che non risparmia nessuno
A quattro anni dall'uscita del primo capitolo, torna su Netflix la "piattaforma" di Galder Gaztelu-Urrutia, più ghiotta e pruriginosa, pronta a superare (più o meno) la critica sociale per demonizzare anche fede e religione.
Si pensa generalmente che smascherare un'allegoria ne determini la sua fallacia, una certa semplicità. In verità, dipende dal modo in cui questa viene costruita. Se ad esempio la figura retorica è ben delineata e già evidente, utilizzata come fondamenta stessa dell'impianto narrativo di un'opera, paradossalmente si tratta di un metodo ricercato per raccontare qualcosa, per lasciare un messaggio, e ne Il Buco del 2019 questo era tanto chiaro quanto consistente: chi sta in alto deve immolarsi per il bene di chi sta in basso.
Zamiatin fissa il piano superiore della prigione
Riguarda l'assetto sociale e civile di un sistema consumistico destinato a fagocitare se stesso se nutrito soltanto con disinteresse, spietatezza e crudeltà. Compassione e sacrificio sono gli unici strumenti a disposizione per ripristinare un certo grado d'umanità ormai assente un po' ovunque, e ne Il Buco - Capitolo 2 - già disponibile su Netflix -, il regista non solo sottolinea nuovamente la sua posizione, rafforzando il messaggio, ma lo fa rendendo ancora più sanguinosa e brutale la sua allegoria, cristallizzando in concreto la sua critica astratta in un secondo capitolo curiosamente efficace al netto della sua ripetitiva retorica.
Quelli sopra, quelli sotto
Perempuan e Zamiatin insieme
L'ordine sociale andrebbe riformato, o per lo meno giustificato, inteso proprio nell'accezione etimologica del termine. Si canta così anche in Sweeney Todd: "La storia del mondo è che chi sta in basso serve chi sta in alto. Quanto sarebbe gratificante sapere, per una volta, che chi sta in alto serve chi sta in basso?". È un caso che anche nel capolavoro di Sondheim la giustizia più assurda e severa passi dall'allegoria culinaria? È un caso che la canzone da cui la citazione si intitoli "un piccolo prete"? Spoiler: per niente. Perché il cibo - per qualità e quantità - è da sempre sinonimo di ricchezza e salute, così come il sistema ecclesiastico e i suoi membri pasciono da secoli di piaceri e protezioni in nome di un Dio salvifico e misericordioso.
Galderz Gaztelu-Urrutia riprende queste due argomentazioni e ritorna nella sua prigione verticale in un intrigante more of the same, ampliando però lo schema della sua invettiva civile per toccare anche l'esasperazione dogmatica della fede, la contraddizione del fondamentalismo. Ne Il Buco - Capitolo 2 cambiano i protagonisti ed evolve il sistema: ci sono regole precise da rispettare, c'è un ordine prestabilito che non può essere infranto, pena un sistema inquisitorio che non conosce pietà. La produzione è spagnola, per altro, e conosciamo tutti i danni fatti dal cristianesimo alla fine del quindicesimo secolo per non cogliere il graffiante richiamo. Non è più una prigione, quella de Il Buco - Capitolo 2, ma un purgatorio (tanto per restare nell'analogia) dove espiare le proprie colpe.
La piattaforma è servita
Si parla di fedeli e infedeli, di barbari e lealisti, di traditori e pacificatori, di regole "che non vanno interpretate ma applicate", che diventano dogmi impossibili. L'unica strada funzionale sarebbe quella dell'auto-responsabilizzazione, della presa di coscienza che più stai in alto, più coscienziosità dovresti avere. E invece è sempre il contrario, in qualunque sistema si analizzi. Fa riflettere, perché se il primo capitolo puntava i riflettori sul consumismo utilitaristico e immorale, questo secondo atto scava nel torbido dello spirito di chi pensa di fare del bene rinunciando alla propria umanità. E quello non è sacrificio, ma opportunismo, paura, vigliaccheria.
La purezza del vero sacrificio si riscontra solo nel protagonista maschile del film, Zamiatin (un ottimo Hovik Keuchkerian), lì dentro per una serie di eventi scatenati da una scoperta per lui sconcertante: che persino la matematica è fallace. Come il Walter Sparrow di Jim Carrey in Number 23, anche Zamiatin perde il senno per un numero: la radice quadrata di -1, che non conosce soluzione. È chiamato "il numero immaginario", e per lui l'immaginario non ha valore. La verità ha valore, e la verità è che non c'è più valore in nulla, né in cielo né in Terra, figurarsi nel singolo e in chi sta sopra, sia uomo o Dio.
Terrore o speranza
Il leader dei pacificatori
Come detto, Il Buco - Capitolo 2 si regge nuovamente su di una base volutamente allegorica, trovando in essa una certa stabilità ma anche un certo limite. La struttura narrativa non si muove di un passo da quanto già visto nel primo capitolo, con Urrutia che tenta qualche movimento in più all'interno della prigione e un'alternanza fotografica dell'immagine che cerca di scaldare un'estetica altrimenti troppo ferma e asettica (al di là del gore permea la visione). Un cast più internazionale - c'è anche Natalia Tena - e variopinto non cambia molto lo status quo cinematografico del progetto, anche se la protagonista principale interpretata da Milena Smit, Perempuan, dà una nuova prospettiva all'intera storia.
Sussiste per altro la stessa problematica del primo film: il terzo e ultimo atto parte per una tangente onirica superficialmente elaborata, che male si adatta al resto del prodotto. La novità più importante, quella più sensibile, è proprio questo richiamo alla fede e alle sue incongruenze che invece bene si adattano al contesto del racconto, nei suoi lati positivi ma soprattutto negativi. Il dettaglio dell'inquisizione spagnola è forse il più importante per decifrare l'operazione, specie guardando all'azione che si muove dall'alto verso il basso, dove la punizione scenda impietosa per mano di chi sta sopra a danno di "chi non si adegua alle parole del Messia", come ebrei e musulmani nel 1400.
Un infedele punito
Al di là di tutto, nel finale de Il Buco era Trimagasi a suggerire a Goreng che il bambino era il messaggio e che non aveva bisogno di portatori, a suggerire la fiducia nella future generazioni, comunque da proteggere e salvare. In un inferno-purgatorio come quello, dal punto più basso esistente e in chiave sociale e civile, la speranza puntava in alto, alle stelle, verso il paradiso. Ne Il Buco - Capitolo 2 quella speranza viene rigettata in termini spirituali e fondamentalisti verso il basso, suggerendo che "solo la paura può sottomettere le bestie" e che "il terrore è il messaggio". Il film vuole dirci di combattere ogni possibile sistema e ogni possibile credo, che nella ciclicità storica non hanno fatto altro che creare disuguaglianze e competizione. Non armati di speranza né di fede, comunque, ma di coscienza, conoscenza e umanità. Nessuno si salva da solo. Tutti si salvano insieme.
Conclusioni
In conclusione, Il Buco - Capitolo 2 evolve la critica sociale del primo capitolo muovendo invettiva contro le contraddizioni della fede e i pericoli di un'esasperazione fondamentalista, guardando in questo senso ai crimini dell'inquisizione spagnola. Un film viscerale, drammatico, alimentato e sorretto da una chiara e forte allegoria che è vita e limite del prodotto, incapace di discostarsi dalla cinematografia precedente ma in grado di sovvertire l'ordine degli addendi e la prospettiva del messaggio, senza necessariamente cambiare il risultato.
👍🏻
La critica alla base di tutto, che qui si fa quasi invettiva sapientemente nascosta nell'allegoria.
Le interpretazioni di Milena Smit e Hovik Keuchkerian.
Il villain.
👎🏻
Non si muove di un passo dall'obiettivo cinematografico del primo capitolo.
Il terzo atto verte su di un'onirismo confusionario.
Poche novità in regia.
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Black Panther 3 is officially in the works at Marvel
(via Deadline)
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First ‘SUPERMAN’ poster has released
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New look at ‘THUNDERBOLTS*ʼ In theaters May 2.
(via EW)
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Fallout: pollice decisamente su per la serie creata da Jonathan Nolan
Jonathan Nolan pensa in grande. Ha detto di essere stato presente nel momento in cui i cinecomics sono diventati non solo un fenomeno, ma una parte importante dell'industria cinematografica hollywoodiana. La sceneggiatura di Batman Begins, diretto da suo fratello Christopher, è infatti sua. Ora, dopo la serie Westworld, afferma di essere pronto a cavalcare un'altra rivoluzione: quella degli adattamenti di videogiochi. E ha ragione: finalmente cinema e, soprattutto, televisione hanno capito come approcciarsi a questo tipo di storie. Pensiamo al recente The Last of Us. La nuova serie Prime Video è un altro tassello importante di questo percorso.
Benvenuti a Los Angeles!
Fallout si ispira all'omonimo videogioco sviluppato da Bethesda (ora di proprietà degli Xbox Game Studios). Siamo in un mondo post apocalittico, in cui la Seconda Guerra Mondiale ha avuto un esito differente da quello che conosciamo: l'atomica è stata infatti sganciata su suolo americano, cambiando completamente le sorti del mondo.
I ricchi si sono rifugiati nei loro bunker antiatomici (vault in originale) e ci sono rimasti, lasciando in superficie tutti quelli che non hanno avuto la lungimiranza, o la possibilità, di costruirli. Come vediamo dalla scritta all'inizio del primo episodio (otto in tutto), si parte dalla fine: è la conclusione della civiltà per come la conosciamo. Il racconto riprende più di 200 anni dopo: in superficie tutto sembra essere tornato indietro nel tempo, con una società che ricorda quella del vecchio west, mentre nei vault la tecnologia si è preservata. Unica costante è il personaggio interpretato da Walton Goggins: una volta attore di successo, Cooper Howard, ora è una creatura che ha viaggiato tra mondi diversi. Il Ghoul. Ed è proprio lui a farci da guida, come Virgilio a Dante nell'Inferno, in questo futuro che per noi sembra lontano eppure, contemporaneamente, ricorda il passato e racconta bene il nostro presente.
Fallout: tra fantascienza e western
Aaron Clifton Moten in una sequenza della serie
Sviluppata, come dicevamo, da Jonathan Nolan insieme a Lisa Joy, Fallout è un progetto perfettamente coerente per la coppia di autori che ha dato vita a Westworld. Ancora una volta gli sceneggiatori si trovano a giocare e bilanciare due generi che, nonostante sembrino superficialmente agli antipodi, in realtà si parlano molto: la fantascienza e il western.
La trama di Fallout segue infatti tre protagonisti principali: Lucy MacLean (Ella Punell), cresciuta in uno dei vault e totalmente digiuna della superficie; Maximus (Aaron Moten), scudiero della Confraternita d'acciaio, ordine quasi cavalleresco, erede dell'esercito americano e, appunto, Il Ghoul, metà mostro, metà pistolero. All'inizio della serie li conosciamo separatamente, ma poi le loro strade si intrecciano. Sì, Lucy sale su e vede il mondo per la prima volta. È un po' come quando Neo prende la pillola rossa in Matrix.
Una metafora di Hollywood
Fare un parallelo tra Fallout e il nostro presente, in cui attualmente ci sono diversi conflitti in corso e la minaccia dell'atomica è sempre più concreta, è immediato. Non solo: il cambiamento climatico e le temperature sempre più alte contribuiscono a creare sul serio un'atmosfera apocalittica.
Walton Goggins versione The Ghoul
Ma un altro sottotesto della serie è anche l'analisi, dall'interno, della moderna industria cinematografica hollywoodiana. E questo è uno spunto indipendente rispetto al videogioco. L'ambientazione passa infatti dalla California del 2077 a quella degli anni '50: è lì che incontriamo per la prima volta Cooper Howard, sorridente, affascinante e gentile. Avendo vissuto prima della Grande Guerra del 2077 tra Cina e Stati Uniti (da dove comincia il primo videogioco) ha visto, non soltanto la morte, ma il peggio dell'umanità. Più volte.
Ella Purnel in una scena di Fallout
Il Ghoul è il perfetto contraltare per Lucy che invece è ingenua e, senza volerlo, arrogante: è stata infatti cresciuta pensando che la sua gente, gli abitanti dei vault, siano destinati a salvare il mondo. Fuori invece tutti pensano che siano quelli che lo hanno abbandonato, lasciando al loro destino tutti gli altri. Dal loro confronto hanno origine riflessioni filosofiche sul concetto di bene e male, scopo e punto di vista. Ma anche diverse situazioni comiche: Fallout ha infatti il pregio di non rinunciare all'umorismo e a toni più comici, anche se vediamo cose come scarafaggi giganti che attaccano le persone. E appunto, anche un confronto tra la vecchia e la nuova Hollywood: forse più coraggiosa, anche se non priva di ombre la prima, rispetto all'asettica e sempre più digitalizzata produzione contemporanea, che segue l'algoritmo invece che concentrarsi su storie e personaggi con un'anima.
Grande cast e valore produttivo
Kyle MacLachlan in Fallout
Oltre alla scrittura, Fallout può contare su due grandi qualità. La prima è un ottimo cast: su tutti svetta Walton Goggins, un gigante. È l'interprete perfetto per un personaggio dalle infinite sfumature, metà demone, metà cowboy, metà essere umano. Poi sul valore produttivo: i set sono stati in gran parte ricostruiti e si vede: Fallout ha quella qualità propria dell'ottima fantascienza, in cui il metallo non è lucido e artificiale, ma sporco, vissuto. Confermata già per una seconda stagione, la serie Prime Video è uno dei titoli dell'anno. Pollice decisamente in su per Follout.
Conclusioni
In conclusione Follout, la serie sviluppata da Jonathan Nolan e Lisa Joy a partire dall'omonimo videogioco è uno dei titoli dell'anno. Ambientata in un mondo post apocalittico, gioca bene con la fantascienza e il western, potendo contare su un ottimo cast, con Walton Goggins ad alzare il livello, e un alto valore produttivo, con set e oggetti di scena ricostruiti nel dettaglio. Già confermata per una seconda stagione.
👍🏻
La scrittura di Jonathan Nolan e Lisa Joy.
L'alternanza sapiente di fantascienza e western.
Il cast.
Il carisma di Walton Goggins.
Il valore produttivo: set e oggetti di scena sono magnifici.
L'uso del senso dell'umorismo.
👎🏻
I primi episodi devono introdurre diversi mondi e personaggi, quindi bisogna avere la pazienza che tutti i tasselli si incastrino.
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Marvel’s What If…? season 3 episode title reveal!
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Haley Atwell is set to reprise her role as Agent Carter in ‘AVENGERS: DOOMSDAY’
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Emily in Paris 4, Seconda Parte: la svolta romana? Funziona a metà
Lily Collins e la sua Emily volano a Roma nella seconda parte delle quarta stagione. Il risultato: troppe svolte (e troppi cliché) in troppo poco tempo. In streaming su Netflix.
I cliché esistono per un motivo. Era partita col piede giusto la quarta stagione di Emily in Paris proponendo gli stessi lati positivi e negativi che l'hanno sempre caratterizzata, ma ricordandosi maggiormente della propria identità comunicativa e mostrando finalmente la scelta sentimentale della protagonista dopo anni di indecisione. La divisione della stagione in due parti era sembrata un'idea altrettanto vincente, anche perché spezzava la narrazione in modo convincente, chiudendo alcune storyline e aprendone volutamente altre in modo equilibrato. Ma dopo la visione delle ultime cinque puntate della stagione ho dovuto purtroppo ricredermi.
Cinque episodi come se fossero cinque stagioni
Eugenio Franceschini è Marcello
La trama delle puntate della seconda parte di Emily in Paris 4 non basterebbe a riempire un'unica annata. Il trasferimento temporaneo a Roma di parte del cast e relativi personaggi avviene in realtà solamente negli ultimi due episodi, mentre nei primi tre accade praticamente di tutto, e passano mesi (fin troppi) tra un accadimento e l'altro.
La fortuna continua ad arridere tutti i protagonisti, chiedendo una sospensione dell'incredulità davvero eccessiva: l'Agence Grateau ha mosso i primi passi ed ha appena iniziato a stabilizzarsi eppure ha i soldi per "regalare" a Emily Cooper (Lily Collins) un posto in prima classe per tornare a Chicago per le festività natalizie, con tanto di lounge & spa all'aeroporto, oltre che per tutti i suoi outfit. Lo stesso vale per Mindy (Ashley Park), che non ha tuttora i soldi per andare all'Eurovision insieme alla sua band ma si veste sempre impeccabilmente, complice il fidanzato ricco e inserito nel mondo della moda. Entrambe finiranno invischiate in triangoli amorosi tra vecchi e nuovi volti, in un rimescolamento romantico che fatica ad attecchire come "realistico".
Emily in Paris 4: Ashley Park in una scena a Roma
Emily però ha fatto la sua scelta, come sappiamo, ma è Camille (Camille Razat) ad insidiare l'amore tra la protagonista e Chef Gabriel (Lucas Bravo), rimasto senza Stella Michelin per il suo ristorante, con la sua finta gravidanza. Siamo alle festività natalizie e succederà praticamente di tutto in quel weekend, compreso l'arrivo di Genevieve (Thalia Besson), la figliastra del marito di Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu), mai nominata, pronta a passare le vacanze con la coppia a Parigi. La ragazza ha appena finito l'università eppure ha già ottenuto un colloquio nientemeno che con una collega di Sylvie. Apparentemente timida e impacciata, potrebbe diventare la nuova Emily in Paris… se quel ruolo non fosse già stato assegnato. Ci troviamo di fronte ad una sorta di reboot delle circostanze di base del serial, pronto a guardare al futuro lasciandosi aperta una porta: è proprio il finale ad averci sorpreso, paradossalmente, in positivo.
Emily in Paris: la fiera dell'ovvio?
Se i francesi si sono spesso lamentati di come Emily in Paris faceva apparire la loro capitale, potrebbe capitare lo stesso a noi italiani con le puntate girate a Roma. Citazioni e omaggi a Vacanze romane e Audrey Hepburn, l'immancabile Vespa Piaggio, gli scorci e le rovine romane, la carbonara e l'amatriciana: non manca davvero nulla nel menu di cliché e stereotipi serviti agli spettatori in rappresentanza del nostro Paese.
Non si può biasimare Darren Star in fondo perché è la sua visione da straniero americano, romantica e semplificata, come noi l'abbiamo a modo nostro verso gli Stati Uniti. Allo stesso tempo, però, possiamo incolparlo di aver voluto mettere davvero troppa carne al fuoco anche rispetto alla prima parte: se ci ripensiamo un attimo, coppie sono scoppiate e si sono rimesse insieme, esperienze lavorative si sono concluse e se ne sono aperte di nuove, nel giro di dieci episodi da mezz'ora (eccezion fatta per l'ultimo, di durata maggiore): nonostante si tratti di una romantic comedy, non riusciamo davvero a crederci.
Raoul Bova è l'altra guest star italiana dei nuovi episodi
Apprezzabile però, ad esempio, il non aver sfruttato il nome del personaggio di Eugenio Franceschini (la guest star italiana insieme a Raoul Bova), ovvero Marcello, quando lui ed Emily visitano la fontana di Trevi, tappa immancabile per un turista, e il non aver inserito un'inspiegabile accento napoletano ma italiani che parlano bene l'inglese senza maccheronismi di sorta. È soprattutto il contrasto tra Sylvie ed Emily, sempre più aminemiche e sempre più divise tra lavoro e vita personale che fa emergere proprio questo dilemma e binomio delle persone in carriera che faticano a bilanciare gli aspetti della propria vita. Non solo come donne, ma proprio come esseri umani di qualunque sesso.
Conclusioni
In conclusione Lavorare per vivere o vivere per lavorare? Questo è il dilemma, peccato che in Emily in Paris sembri non lavorare per davvero nessuno, o meglio ottenere il massimo risultato col minimo sforzo. Una telefonata ad hoc, un incontro fortuito, una coincidenza memorabile: tutto finisce sempre per il meglio per i nostri protagonisti, sempre pieni di risorse. In fondo la serie Netflix è proprio il comfort show da guardare spegnendo il cervello e accendendo il cuore, però forse anche quell'organo ha raggiunto il suo limite massimo di sospensione dell’incredulità. Devo però ammettere di essermi un pochino emozionata durante gli episodi romani, che mi hanno davvero lasciato a bocca aperta nell’epilogo.
👍🏻
Lily Collins e il resto del cast, oramai affiatatissimi.
La serie continua ad essere una favola ad occhi aperti a livello visivo.
Il finale: ci ha scioccato.
👎🏻
Una new entry insopportabile e prevedibile.
Troppi eventi (e stagioni) per soli cinque episodi!
Cliché e stereotipi: su Roma ci danno un po’ più fastidio.
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NEW trailer for Captain America: Brave New World, in theaters February 14
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New poster for ‘CAPTAIN AMERICA: BRAVE NEW WORLD’ In theaters on February 14.
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Emily in Paris 4, Prima Parte: tra cilché e fascino, una stagione all'insegna delle scelte
I nuovi episodi recuperano brio, ma sono anche inzuppati nei soliti cliché, mentre la serie si ricorda che dovrebbe parlare (anche) di comunicazione. In streaming su Netflix.
All'inizio della terza stagione ritrovavamo la protagonista di Emily in Paris alle prese con un'importante scelta professionale, divisa tra il suo ex capo a Chicago e la sua attuale dirigente nella capitale parigina. Alla fine, come quasi tutto nella sua vita, era stata quest'ultima a scegliere per lei, facendo innervosire non poco gli spettatori. Ora all'inizio della quarta stagione dopo gli sconvolgenti colpi di scena a ripetizione del finale del terzo ciclo, la ragazza deve fare i conti con quanto è successo e stavolta viene messa davanti ad un bivio sentimentale. Riuscirà a compiere una scelta almeno questa volta?
Questione di opzioni
Emily in Paris: Lily Collins e Lucien Laviscount nella stagione 4
Camille (Camille Razat) e Gabriel (Lucas Bravo) non si sono sposati, lei è incinta di un figlio suo, Alfie (Lucien Laviscount) è convinto che tra lo chef e la giovane responsabile della comunicazione ci sia qualcosa di più di un'amicizia, anche mentre loro due stavano insieme. Mentre deve affrontare nuove crisi professionali, la nostra Emily a Parigi è chiamata a guardare dentro al proprio cuore e - per una volta, udite udite! - riuscirà a farvi chiarezza. Ovviamente questo non semplificherà l'allargamento dei problemi attorno a lei, semmai tutto il contrario, ma almeno darà ritmo e vivacità nonostante alcuni sviluppi prevedibili e i soliti problemi che accompagnano oramai la scrittura di Darren Star.
Una Parigi sempre da cartolina nella serie Netflix
I mitici outfit della protagonista non si smentiscono mai
Non cambiano i difetti di Emily in Paris, e forse sono solamente attenuati in questa prima parte di stagione. Dopo tre annate gli autori si ricordano dell'esistenza di TikTok nella comunicazione, che però ritorna maggiormente centrale nella vita della nostra protagonista vestita in modo sempre eccentrico e allo stesso tempo impeccabile - ricordando molto il lavoro fatto su Sarah Jessica Parker in Sex and the City. Uno dei motivi che l'ha resa un'icona della moda, e infatti guarda caso le due comedy al femminile hanno in comune lo stesso creatore. I personaggi hanno problemi economici eppure non mancano - con un pretesto o con un altro, come il fidanzato milionario di Mindy (Ashley Park) - di indossare sempre abiti firmati e recarsi in ristoranti prestigiosi.
A proposito di stelle Michelin, Gabriel continua il suo percorso per provare ad ottenerne una per il suo ristorante, mentre anche l'aspirante cantante insieme alla sua band fa di tutto per riuscire ad andare all'Eurovision. Non mancano come sempre gli stereotipi e cliché, come quelli che caratterizzano oramai Julien (Samuel Arnold) e Luc (Bruno Gouery), non mancano gli scorci da cartolina di una capitale francese sempre magica e piena di possibilità in cui tutti vorremmo vivere guardando lo show. E non manca l'atteggiamento a volte fastidioso della protagonista a cui però Lily Collins dona tutta la propria dolcezza.
Emily in Paris: comunicazione e attualità
Quella di Sylvie è l'altra storyline più convincente di questa prima parte di stagione
Come dicevo, in quest'avvincente incipit del quarto capitolo della comedy Netflix, gli autori si ricordano della parte comunicativa, ovvero il lavoro di Emily, divisa tra presentazioni esclusive, promozioni a livello marketing, campagne social e coinvolgimento di influencer per photo opportunity. Parallelamente si tratta un argomento molto attuale - inserito se vogliamo con un certo ritardo ma che purtroppo non passa mai di moda - ovvero quello di un ambiente di lavoro sessista e tossico da denunciare, in cui si ritroverà coinvolta Sylvie (Philippine Leroy-Beaulieu), costretta anche lei a compiere un'importante scelta di carriera e visibilità, che potrebbe colpire anche il marito e la propria agenzia, l'Agence Grateau, che si sta ancora facendo largo nella competitiva scena parigina. Insomma le carriere di molti saranno a rischio nei primi cinque episodi che compongono la prima parte di questa quarta stagione. Una svolta che permette al serial di parlare anche di salto generazionale, ovvero di come padre e figlio possono affrontare in modo diverso una situazione scomoda e potenzialmente legale, e mostrare che il cambiamento in un'azienda può esistere e attuarsi, se dietro c'è una vera volontà.
Conclusioni
La prima parte della quarta stagione di Emily in Paris torna più frizzante della precedente, permettendo finalmente alla protagonista di fare una scelta chiara almeno in campo sentimentale, senza continuare con inutili e (dopo un po’) noiosi tira e molla. Si dà così opportunità ai personaggi di crescere un minimo e ritornare agli argomenti che avevano caratterizzato il ciclo inaugurale della serie: la comunicazione e l’attualità. Nuovi segreti e colpi di scena attendono Emily nella seconda parte.
👍🏻
La scelta di Emily e le sue implicazioni in campo sentimentale.
La storyline di Sylvie collegata a quella di Mindy (non in campo musicale).
Il rimettere un po’ più al centro il lavoro della protagonista.
👎🏻
Quelli di sempre: cliché, stereotipi, poco approfondimento dei personaggi, una Parigi sempre impeccabile.
Si parla di problemi economici ma non si vedono mai per davvero.
Il finale è prevedibile.
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L'amica geniale 4, cosa resta in fine? Il legame indissolubile di Lila e Lenù
Fresca di una nomination ai Critics Choise Awards come miglior serie non in lingua inglese, L'amica geniale 4 è arrivata alla sua conclusione. La serie italo-statunitense tratta dalla tetralogia di Elena Ferrante ha iniziato il suo cammino nel 2018 e, dopo sei anni, si è congedata dai suoi spettatori con i due episodi finali che scrivono la parola fine ad un racconto che ha attraversato sessant'anni di storia d'Italia e, soprattutto, dei personaggi nati dalla penna della scrittrice senza volto. Su tutti Lila e Lunù, le due amiche del rione Luttazzi che si sono amate, odiate, allontanate e riavvicinate senza smettere mai di pensare l'una all'altra.
L'amica geniale, il finale: la riflessione sul femminile
La piccola Tina in una scena de L'amica geniale 4
Una storia d'amore a suo modo, capace di raccontare un femminile profondo e sfaccettato. Donne, figlie, amiche, madri, compagne. Donne che sbagliano, lottano, invidiano, tradiscono, protestano, amano. C'è tutta la loro complessità umana nella scrittura di Elena Ferrante che le sceneggiature firmate negli anni da Saverio Costanzo, Francesco Piccolo e Laura Paolucci (con il contributo della stessa scrittrice) hanno saputo catturare nel corso delle varie stagioni.
Una riflessione sul rapporto tra donne attraverso diversi tipi di relazione, di sangue e amicale. In quest'ultima stagione, tratta da Storia della bambina perduta, tanta attenzione è stata data alla maternità. Da Immacolata alla piccola Imma, quattro generazioni di donne e modi diversi di esserlo anche condizionati dalla società che le circonda. Le discussioni sul cognome, passato di padre in figlio, hanno puntellato le puntate portando poi a riflettere sui "corpi informi" delle madri e la riappropriazione di se stesse così come le gravidanze delle due protagoniste vissute in modi diametralmente opposti.
La bambina scomparsa
Irene Maiorino è Lila
Il capitolo 33, La scomparsa, inizia con la piccola Imma che si rifiuta di vedere suo padre Nino, nel frattempo diventato deputato e definitivamente affrancato dalla miseria del rione. Ma quell'incontro nell'appartamento di Lenù con Dede, Elsa e anche la piccola Tina sarà determinante per il futuro di ognuno di loro. Dal confronto tra le due bambine che trafigge Lenù come una lama si passa all'evento che dà il titolo alla quarta stagione. Tina scompare tra le bancarelle del rione per non essere mai più ritrovata. Mille ipotesi, su tutte quella che i fratelli Solara abbiano fatto del male a Tina per punire Lila e riprendersi definitivamente il potere sul rione.
"Tina doveva essere meglio di tutti quanti voi", dirà Lila a Lenù quando ormai la sua vita è stata spezzata per sempre. Quella scomparsa consuma la donna che non ha più interesse in nulla. Se già Irene Maiorino aveva dato prova di essere la scelta perfetta per raccogliere l'eredità di Gaia Girace e incarnare una Lila adulta, gli ultimi due episodi - caratterizzati da un cambio di passo rispetto ai precedenti - ne confermano l'immensa bravura.
Un'immagine de L'amica geniale 4
La regia di Laura Bispuri, molto vicina ai corpi, attenta ai dettagli e ai primi piani, enfatizza ancor di più lo sconforto, la rabbia e l'abbandono di Lila messi in scena dall'attrice. La puntata si conclude con l'uccisione sulle scale della chiesa dei fratelli Solara per mano di Pasquale e Nadia e le parole di Lila. "Tina è uscita di nuovo dalla mia pancia e si sta vendicando con tutti. Li ha ammazzati lei".
Come nei capitolo 31 e 32, Il ritorno e L'indagine, anche ne La scomparsa la quantità di avvenimenti è densissima. Questo porta in alcuni passaggi ad avvertire un'accelerazione negli eventi messi in scena, sebbene la qualità della narrazione rimanga sempre alta.
Le bambole
Un momento della quarta stagione de L'amica geniale
Questa sensazione nel conclusivo La restituzione è ancor più amplificata dal passare degli anni. La maggior parte del racconto è dedicata alla rottura del rapporto tra Dede ed Elsa per l'amore provato da entrambe per Gennarino con tanto di fuga del figlio di Lila con la più piccole delle due figlie avute da Elena con Pietro Airota. Ormai cresciute e andate via di casa, Lenù decide di trasferirsi a Torino con Imma.
Confidata la scelta a Lila, l'amica le confiderà che anni prima ha pensato che la sparizione di Tina fosse riconducibile alla foto pubblicata su Panorama che ritraeva la sua bambina con Lenù accompagnata da una didascalia che, erroneamente, la definiva figlia sua. Lei che con quel romanzo di cui anche i politici parlavano in tv avrebbe potuto essere nel mirino di qualche male intenzionato. Un'ipotesi che gela Elena e alla quale non aveva mai pensato in tutti quegli anni in cui Lila era rimasta in un limbo di rabbia e dolore.
Alba Rohrwacher e Irene Maiorino in una scena della serie
Molti anni dopo l'episodio ci riporta all'inizio della prima stagione, Le bambole, nel quale una Lenù ormai adulta riceve una telefonata da Gennarino preoccupato perché sua madre è scomparsa. Lila non voleva lasciare niente di sé e così ha fatto. È sparita come la sua Tina. E mentre Elena si mette seduta al computer per scrivere della loro amicizia lunga oltre mezzo secolo nel tentativo di farla in qualche modo riapparire, Lila squarcia quel silenzio lasciando nella cassetta delle poste dell'amica un pacco.
Quando Lenù lo scarta si ritrova tra le mani Tina e Nu, le bambole di quando erano bambine e che hanno dato inizio alla loro amicizia. La prova "dell'inganno" di Lila nei confronti di Elena, ma anche del fatto che era ancora viva e lo era secondo le sue regole. Finalmente libera dai paletti che le erano stati messi e si era messa da sola. "Ora che Lila si era mostrata così nitidamente, dovevo rassegnarmi a non vederla mai più".
Le bambole Tina e Nu
Un racconto circolare
Alba Rohrwacher e Fabrizio Gifuni
I romanzi così come la serie hanno una struttura circolare rappresentata proprio dalle bambole delle protagoniste. Molto più di un gioco. Un simbolo. La bambola rappresenta l'amicizia, il femminile, la maternità. I temi sui quali si basa l'intera tetralogia. Lila getta nella cantina di don Achille Tina e Lenù subito dopo Nu, le bambole l'una dell'altra. "Quello che fai tu, faccio io" dice Elena all’ amica. E sarà così per gli anni a venire. Amicizia e invidia legate ad un livello profondo e due esistenze che comunicano tra di loro, si alimentano, si cercano e allontanano con la stessa intensità.
"Un'amicizia splendida e tenebrosa", uno sdoppiamento continuo che porta entrambe ad essere investite del titolo di "geniale" e a vivere in una competizione continua. Un paragone iniziato sui banchi di scuola e proseguito negli anni nel rapporto con l'altro sesso, il lavoro, la maternità. Tematiche che nella quarta stagione "esplodono" e costituiscono un ponte con l'infanzia e l'adolescenza.
Elisabetta De Palo è Elena Greco
L'amica geniale ha saputo raggiungere così tante persone, nonostante la cornice in cui si muove il racconto sia localizzata in un luogo e in un tempo precisi, grazie all'attenzione riservata a dettagli e temi in cui chiunque nel mondo può rispecchiarsi. C'è un'onestà nella scrittura che non censura le storture delle sue protagoniste. Dall'incapacità di Lenù di abbandonare una relazione tossica o il suo ruolo di madre che non risponde ai modelli accettati dalla società fino alla ferocia di Lila e la sua abilità di manipolazione.
Ma, soprattutto, mette in scena un rapporto umano stratificato caratterizzato da un'ambiguità costante e capace di slanci umani. Un rapporto profondo e, al tempo stesso, oscuro. Come lo scantinato di don Achille nel quale sono scese insieme per riemergere amiche per la vita.
Conclusioni
Con La scomparsa e La restituzione si conclude L'amica geniale. Due episodi densi, ricchi di avvenimenti e salti temporali nei quali in più di un passaggio si ha l'impressione di un'accelerazione degli eventi per riuscire a contenere quanto più possibile del romanzo di Elena Ferrante. Irene Maiorino, grande sorpresa di questa stagione, regala un'interpretazione magnifica e dolorosa della sua Lila disperata e piena di rabbia per la perdita di sua figlia Tina. Un finale imperfetto ma dalle emozioni autentiche, capace di mettere in scena tutta la complessità del rapporto delle due protagoniste e contraddistinto da un andamento circolare che ci riporta al primo episodio della prima stagione.
👍🏻
L'interpretazione di Irene Maiorino e Alba rohrwacher
L'andamento circolare del racconto
L'emozione scaturita della sequenza finale
La regia di Laura Bispuri
👎🏻
Una certa tendenza a condensare troppo gli eventi
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Il buco: su Netflix la distopia viene mangiando
Il buco è un film di fantascienza disponibile su Netflix.
Siamo in una misteriosa prigione, dove le celle sono disposte verticalmente. Due persone per ogni cella, e ciascuno ha il diritto di chiedere una cosa sola da tenere con sé (il protagonista del film ha optato per una copia del Don Chisciotte). Alla fine di ogni mese i detenuti si ritrovano in una cella nuova, su un piano diverso (ce n'è sono alemno un centinaio). In mezzo alla cella c'è un buco, attraverso il quale scende, di piano in piano, una piattaforma con abbondanti dosi di cibo, da consumare entro due minuti prima che la piattaforma scenda ai piani di sotto. Sulla carta, un sistema equo, ma come scopre ben presto il nuovo arrivato questa soluzione mette a repentaglio la vita di chi sta ai piani inferiori, poiché a loro il più delle volte arrivano solo le briciole, a causa dell'ingordigia di chi vive ai primissimi piani. Sarà possibile rovesciare quel sistema prima che sia troppo tardi, per il nostro eroe e per la donna misteriosa che periodicamente sale sulla piattaforma per esplorare i piani di sotto?
Aspettando il pasto
Il buco: un'immagine del film
Tra Cube - Il cubo (ma in verticale), Samuel Beckett e Luis Buñuel, il film mette in scena una distopia grottesca, terrificante nella sua efficace struttura minimalista (alcuni scenari cruenti ricordano anche la brutale semplicità di Saw - L'enigmista), costantemente in bilico tra analisi verosimile delle diseguaglianze sociali e ritratto assurdo e caricaturale dell'avidità umana. Un equilibrio che si mantiene costante per l'intera durata del lungometraggio, una dualità che si riflette anche nelle interpretazioni dei due attori principali: più misurato uno, più istrionico l'altro, quasi una sorta di Hannibal Lecter iberico che dà tutte le risposte con un sorriso inquietante. Un ambiente grigio e opprimente, la cui qualità claustrofobica aumenta sullo schermo casalingo, un microcosmo che, tramite attente scelte di angolazione, allude a un mondo più vasto il cui sapore è decisamente terrificante.
The Platform: una foto del film
Particolarmente significativo è il ruolo del cibo, inquadrato come un oggetto sacro e profano allo stesso tempo, simbolo di opulenza e sopravvivenza, la cosa più ambita al mondo ma anche, a seconda delle sequenze, la più disgustosa. E quando, per ragioni che vi invitiamo a scoprire vedendo il film, si elegge a simbolo della speranza una panna cotta, vi è una catarsi che accentua la crudeltà dell'universo immaginato dal regista, e nel contesto del momento preciso in cui il lungometraggio è arrivato su Netflix l'empatia tra spettatore e prigioniero non può che aumentare. Sperando, ovviamente, che chi fruisce del film non stia portando a termine la visione a stomaco vuoto, perché in tal caso i 94 minuti della distopia verticale possono sembrare ancora più lunghi.
Conclusioni
Il buco, un film dove il fondo, in teoria, non c'è. Un affascinante e coinvolgente esordio proveniente dalla Spagna, che trasforma il concetto della prigione in una satira grottesca a base di verticalità e cibo, con due ottimi interpreti principali.
👍🏻
I due protagonisti si sostengono a vicenda con stili diversi e complementari.
La premessa è perfetta nella sua semplicità.
Il minimalismo narrativo e formale nasconde in realtà livelli multipli molto interessanti.
👎🏻
Si sconsiglia la visione a stomaco vuoto.
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