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"Il Minchione e Oltre": Recensione della Poetica Provocatoria di Ivan Pozzoni
Esploriamo la potenza dissacrante della poesia di Ivan Pozzoni e il suo impatto sulla letteratura contemporanea.
Esploriamo la potenza dissacrante della poesia di Ivan Pozzoni e il suo impatto sulla letteratura contemporanea. Biografia dell’autore. Ivan Pozzoni, nato a Monza nel 1976, è una figura di spicco nella letteratura e filosofia italiana contemporanea. Ha introdotto in Italia la materia della Law and Literature, diffondendo saggi su etica e teoria del diritto antico. Poeta, saggista e teorico, ha…
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I ribelli del Dadaismo: un viaggio tra ironia e nichilismo
Il Dadaismo, nato durante la Prima Guerra Mondiale come reazione all'orrore e all'assurdità del conflitto, sconvolse il panorama artistico del XX secolo. Artisti provenienti da diverse discipline si unirono sotto l'egida di un'unica parola, "Dada", che in romeno significa "si", "no" e "bambino". Un'ironia intrinseca che permeava ogni loro opera, volta a sovvertire le convenzioni artistiche e a mettere in discussione il concetto stesso di arte. Zurigo, Cabaret Voltaire e la nascita del movimento Nel 1916, a Zurigo, un gruppo di artisti e intellettuali, tra cui Hugo Ball, Emmy Hennings, Tristan Tzara, Hans Arp e Marcel Janco, si rifugiò dalla guerra. Incontrandosi al Cabaret Voltaire, diedero vita al Dadaismo. Le loro serate erano un mix di performance caotiche, poesia fonetica, musica atonale e arte visiva provocatoria. L'obiettivo era quello di creare un'arte anti-arte, che distruggesse i valori borghesi e celebrasse l'irrazionalità. Dada a New York e Parigi Il movimento si diffuse rapidamente in altre città, come New York e Parigi. A New York, Marcel Duchamp scandalizzò il mondo dell'arte con i suoi "ready-made", oggetti quotidiani elevati a opere d'arte per il semplice fatto di essere stati scelti dall'artista. Man Ray, con i suoi fotogrammi e le sue opere surrealiste, contribuì a dare al Dadaismo americano una sua identità specifica. A Parigi, Francis Picabia con le sue riviste e i suoi dipinti satirici, e Sophie Taeuber-Arp con le sue opere astratte e i suoi dada-textiles, alimentarono la vena polemica e iconoclasta del movimento. Tecniche e linguaggi del Dadaismo I dadaisti utilizzarono una varietà di tecniche e linguaggi per esprimere la loro disillusione e il loro nichilismo. Il collage, il fotomontaggio, l'assemblaggio di oggetti trovati e l'utilizzo di materiali inusuali erano all'ordine del giorno. La poesia dadaista era spesso nonsense, fatta di suoni e parole senza senso, che rifletteva il caos e l'assurdità del mondo circostante. Eredità del Dadaismo Il Dadaismo, pur essendo durato solo un decennio, ha avuto un'influenza enorme sull'arte moderna. Il suo spirito di ribellione e di sperimentazione ha aperto la strada a movimenti successivi come il Surrealismo e l'Arte Concettuale. L'ironia dissacrante e il rifiuto delle convenzioni borghesi continuano a ispirare artisti e creativi ancora oggi. Oltre ai nomi già citati, altri artisti dadaisti di rilievo includono: - Hans Richter (Germania) - Kurt Schwitters (Germania) - Hannah Höch (Germania) - Beatriz Hastings (Inghilterra) - Marcel Janco (Romania) - Francis Picabia (Francia) - Man Ray (Stati Uniti) Foto di Robert Nilsson da Pixabay Read the full article
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fondamentalismo e (norma) lità
Secondo attentato islamico a Charlie Hebdò: nessuno ha sfilato in pompa magna, poca risonanza, sembra che ci si stia abituando. Sul problema della libertà e della laicità ripropongo questo articolo.
“Trucidando la redazione di Charlie Hebdo il terrorismo islamico ha inteso colpire il principio fondante dell’intera modernità: la libertà di espressione. E senza libertà di offesa, fino al sacrilegio, saranno i devoti e i fanatici a decidere sulla libertà di critica”. Nel giorno in cui a Parigi inizia il processo per la strage che nel gennaio 2015 uccise 12 redattori del settimanale satirico, riproponiamo questo intervento del direttore di MicroMega che apriva il numero monografico della rivista dedicato a Charlie Hebdo e alla libertà d'espressione. di Paolo Flores d’Arcais, da MicroMega 1/2015 La strage della redazione di Charlie Hebdo segna una svolta d’epoca. Il terrorismo fin qui aveva colpito edifici o simboli o gruppi politici e religiosi, o indiscriminatamente la «popolazione», cioè cittadini inermi (a migliaia, come l’11 settembre). L’assassinio di una dozzina di persone a rue Nicolas Appert 10 costituisce però il primo atto di terrore contro un principio fondante dell’intera modernità, anzi il suo principio istitutivo, la libertà d’espressione. Per questo una strage che conta infinitamente meno vittime di altre ha – giustamente e per fortuna – provocato la manifestazione popolare più grande che la Francia abbia conosciuto dai tempi della Liberazione, e la sua eco ha percorso il mondo. Ecco perché su questa strage, le reazioni che ha prodotto, gli effetti storici che sprigionerà (ma con inizio immediato), diventerà necessario esercitare una capacità di analisi inedita, che affronti dalle fondamenta cosa può e deve voler dire laicità, quale democrazia ciò implichi, e le condizioni materiali di entrambe, e le strategie di un’integrazione degli immigrati nella cittadinanza, e le condizioni stesse di esistenza o meno di tale identità repubblicana, il cui tratto è la sovranità, l’eguale sovranità dei cittadini, oggi palesemente introvabile. Su questi temi MicroMega si impegnerà, con la sua vocazione di sinistra eretica, illuminista, materialista, fin dal prossimo numero, e più che mai ne farà il filo rosso del suo lavoro di analisi e proposta. Quello che segue è intanto e solo un modesto e improvvisato zibaldone di riflessioni disorganiche ed eterogenee. *** «Je suis Charlie». Quanti i sinceri e quanti gli ipocriti? La parola d’ordine campeggia ovunque già qualche ora dopo la strage, ma quanti hanno diritto a fregiarsene e quanti sono gli abusivi, gli opportunisti, i sepolcri imbiancati? Non si pretende che chi indossa la scritta condivida tutte le vignette, al limite anche nessuna, ma se la sua azione pubblica e il suo vissuto personale non fanno prevalere il diritto alla pubblicazione dell’empietà su ogni altra considerazione, il loro «Je suis Charlie» è menzogna retorica. Perché quella di Charlie Hebdo è empietà, irrisione del Sacro in ogni paludamento e travestimento: religione, politica, buoni sentimenti e infine buon gusto. *** Libertini sessuomani, estremisti di sinistra, atei, anarchici-e-comunisti, e infine irresponsabili, come recitava cristallinamente e orgogliosamente il sottotitolo del settimanale. Eppure si ponevano dei limiti, eccome. Ruppero con Siné, che pure era un grandissimo come collega e come amico, ritenendo che fosse scivolato dall’antiebraismo all’antisemitismo, che avesse cioè oltrepassato il confine, il limes (il limite invalicabile!), che separa l’empietà dal razzismo. E non mi risulta che abbiano mai oltraggiato i valori della Resistenza, di quell’antifascismo che in Francia (ma in Europa!) ha ri-fondato, un secolo e mezzo dopo la rivoluzione della «liberté, égalité, fraternité», l’identità della «République». Quei limiti non erano, e non sono, contraddittori con la vocazione dissacrante, che come si vede non porta affatto al nichilismo, come lamenta la geremiade d’establishment, perché possiede – eccome – valori. Quei limiti – ma solo quelli! – sono lo strumento della libertà dissacrante e illimitata con cui gli «estremisti irresponsabili» appena assassinati avevano caratterizzato le loro vite, riempito le pagine di Charlie e nutrito le nostre libertà. *** A caldo, di Charlie Hebdo hanno fatto il ditirambo governanti reazionari e giornalisti d’establishment, despoti e finte sinistre, papi e leghe arabe, con tassi di ipocrisia diversi e che non proviamo neppure a misurare. Meglio così, hanno dovuto tutti allinearsi a difesa del diritto alle «enormità» di Charlie. Mentre avevano ancora la matita in mano li hanno solo attaccati, mal sopportati, diffamati. L’elogio che obtorto collo devono farne oggi è perciò la vignetta e l’editoriale che Wolinski e Charb avrebbero potuto scrivere sull’ipocrisia del potere. Non dimentichiamolo 1. *** Charlie è ateo, come ricorda il nuovo direttore, Gérard Biard (lo aveva già fatto su MicroMega 5/2013). Perché allora essere sacrilegi e blasfemi, se l’oggetto dell’irrisione non esiste? Una domanda che circola molto, ma la cui stravaganza è perfino più grande della sua (ampia) diffusione. Il sacrilegio non si rivolge a Dio, che non esiste, ma alla superstizione di chi vi crede. Che è presentissima. E che anzi è egemone, benché indirettamente, in tanti ambienti e tanti cuori che si ritengono laici. Il sacrilegio si rivolge all’oppressione che Dio ha esercitato, e ancora esercita, benché non esista, alla devastazione di intelligenze e sensibilità che ha prodotto, alle frustrazioni e infelicità che ha generato e genera. Il sacrilegio è anche generoso, perché lo praticano persone anche non più colpite e non più frustrate dai misfatti di Dio: per syn-pathos con chi ne è invece ancora vittima. *** La strage è stata fatta in nome di Dio, il dio monoteista, creatore e onnipotente, il Dio di Maometto, Allah il Clemente e Misericordioso (sono i primi due dei suoi novantanove nomi). L’islam dunque, ma quello fondamentalista e terrorista, si è detto. L’altro islam è una vittima, si sottolinea. Senza dubbio. A un patto: che questo altro islam parli in modo forte, chiaro, senza contorsionismi semantici, e con adamantina coerenza di comportamenti. Non basta perciò che condanni come mostruosa la strage di rue Nicolas Appert 10 (ci mancherebbe!). È ineludibile che riconosca la legittimità e la normalità democratica di quanto Charlie praticava in modo esemplare per intransigenza: il diritto di criticare tanto i fanti che i santi, fino alla Madonna, al Profeta e a Dio stesso nelle sue multiformi confessioni concorrenziali. Anche, e verrebbe da dire soprattutto, quando tale critica è vissuta dal credente come un’offesa alla propria fede. Questo esige la libertà democratica, poiché tale diritto svanisce se dei suoi limiti diviene arbitro e padrone il fedele. *** Sacrosanto il principio, ma meglio non applicarlo, anche i princìpi bisogna saperli usare cum grano salis, se creano sfracelli mettiamo la sordina, rinunciamo alla soddisfazione della coerenza, grande a parole ma tragica nei fatti. Etica della responsabilità contro etica della convinzione, insomma. Ma è davvero così ragionevole questo «realismo»? La migliore difesa, contro la volontà omicida che vuole punire i blasfemi, consiste nella circostanza che essi siano talmente tanti da rendere il sacrilegio banale, e dunque non più «eroica» – agli occhi dei propri correligionari e del proprio narcisismo – l’azione omicida di chi punisce in nome di Dio. Ma anzi palesemente vile e – ancor peggio per questi «ego» indigenti che hanno bisogno di essere surriscaldati – insignificante. Sono persone «a rota» di senso, cercano una trascendenza violenta che li consacri eroi/martiri, ma se l’irrisione blasfema e sacrilega diventa ordinaria quanto dare del «con» o etichettare di «connerie», anche l’azione per punire chi tali banalità pronuncia perderà ogni «aura» e non varrà più la candela. Se invece la profanazione resta socialmente sconveniente o addirittura tabù (come negli Usa), i pochi saranno un bersaglio e diventeranno sempre meno, perché cittadinanza non può implicare eroismo, non c’è bisogno di scomodare Brecht, e infine il terrorismo avrà vinto anche rinunciando a esercitarsi. Il terrorismo trionfa quando può fare a meno della violenza, quando la sola minaccia basta a terrorizzare, a ottenere lo stesso risultato (così le mafie). *** «L’ipocrisia è un omaggio che il vizio paga alla virtù». La fila dei potenti che per breve tratto hanno sfilato nella gigantesca manifestazione parigina di «Je suis Charlie» costituiva un monumento rochefoucauldiano che più quintessenziale non si può. Un terzo di loro governa praticando attivamente la persecuzione contro giornalisti, scrittori, blogger e ogni altra forma di dissenso dalle verità di regime. Gli altri difendono la libertà di espressione secondo alchimie di circostanza, ma che vivano il volterriano «disapprovo quanto dici ma difenderò alla morte il tuo diritto di dirlo» (che non è di Voltaire, ma una sintesi della sua biografa Evelyn Beatrice Hall) in quella schiera solennemente compunta non si è mai visto. Eppure, non condividendo le idee di Charlie Hebdo e quasi sempre detestandole, hanno dovuto assoggettarsi almeno per un giorno alla impegnativa identità repubblicana di «Je suis Charlie». Tradirla (lo faranno, state certi: più o meno, ma lo faranno, e anche in fretta) sarà d’ora in avanti un poco più difficile: l’ipocrisia dovrà pagare un prezzo più alto. *** La sagra dell’ossimoro (senza poesia) continua. Dopo l’ateo devoto Giuliano Ferrara abbiamo ora il liberal papista Eugenio Scalfari, che nella consueta omelia domenicale su Repubblica (18 gennaio) a proposito del «pugno» cui Bergoglio istiga contro chi insolentisce «la mamma» scrive: «Il pugno dovrebbe essere — credo io — una norma che vieti e punisca chi si prende gioco delle religioni». Alleluja! *** Se i governi non garantiscono i laici nel loro diritto alla critica, anche quando risulti offensiva ai credenti di ogni risma, non pochi (i meno accurati nell’esercitare ogni giorno discernimento illuminista) finiranno per ascoltare sirene antislamiche (visto che generalmente a punire con la morte i blasfemi sono credenti islamici): anche tanti fedeli «moderati» del Profeta ripetono il ritornello che «non si deve offendere ciò che è sacro», dunque li vivo come potenziale minaccia (e in effetti lo sono, perché la tiritera funziona da brodo di coltura). Ma come possono i governi garantire che il diritto alla critica, anche se risulti offensiva per chi la subisce, non metta chi la pronuncia in pericolo (dovrebbe essere l’abc della sicurezza, il primo dovere di un governo)? Con tutte le politiche di integrazione, welfare, scuola eccetera, che qui non si possono articolare, ma parallelamente e instancabilmente condannando senza se e senza ma l’idea corriva di libertà religiosamente castrata che papa Francesco sta rendendo egemone con i suoi modi da compagnone accattivante. *** Assordante silenzio su una circostanza clamorosa: per volontà delle famiglie (sostenute da gran parte delle comunità ebraiche di Francia) il funerale delle vittime del supermercato kosher di Parigi si è svolto a Gerusalemme. Uno schiaffo esplicito alla République, una dissociazione plateale dalla gigantesca manifestazione che ne ha incarnato lo spirito. Inutile nascondersi che lo schiaffo colpisce tanto la Nation quanto la Laïcité, che in Francia fanno ancora (per fortuna) corpo unico. Perché il silenzio o comunque la sordina? Per paura di passare per antisemiti? La colpa del governo nel non aver garantito la sicurezza dei suoi cittadini, anche quando notoriamente obiettivi potenziali del terrorismo islamico (perché atei bestemmiatori come Charlie o ebrei praticanti come chi osserva le prescrizioni della kasherut), è clamorosa e imperdonabile, ma svolgere i funerali a Gerusalemme è un gesto di «exit» che suona dissociazione dalla comune cittadinanza repubblicana, e pratica teorizzazione che quella ebraica è l’identità che viene prima, sentita come la veramente propria. In questo modo («exit»), però, si regala la titolarità della République al governo, anziché rivendicarla in critica – esplicita o implicita – dell’establishment, come avvenuto con la gigantesca manifestazione di domenica 11 gennaio. *** Identità, identità: tutti la cercano, tutti la vogliono, tutti la idolatrano. «Non abbiamo difeso abbastanza la nostra identità e i nostri valori» è la giaculatoria d’ordinanza delle destre che ormai ha saturato anche quella che un tempo si chiamava «sinistra». Dopo la strage degli atei libertin-libertari di rue Nicolas Appert 10 (alquanto estranei al «gregge» cristiano), la frase ha berciato da ogni schermo italiano soprattutto attraverso il dilagare catodico-botulinico dell’onorevole Santanchè. A cui nessuno ha posto l’altolà minimo della decenza: nostra e nostri, di chi? A parte l’uso dello stesso idioma italiano (praticato comunque assai diversamente) l’onorevole Santanchè e il sottoscritto, ad esempio, non hanno nulla, ma proprio nulla, ma nulla-di-nulla in comune. Né valori né identità. E così ho la ragionevolezza di presumere per la gran parte dei cittadini dello stivale. Non la Patria, che per chi sia davvero cittadino italiano vuol dire, da circa settant’anni, essere-insieme attraverso la comune Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza antifascista (per questo è festa nazionale il 25 aprile, giorno per il quale il messaggio del Clnai «Aldo dice 26x1» ha dato l’ordine dell’insurrezione generale). Non la giustizia, che per essere tale deve essere garantista/giustizialista (si scelga pure la prospettiva che si preferisce) esattamente nella stessa misura tanto per il più diseredato dei cittadini quanto per il più grufolante di ori e privilegi (Cucchi come Berlusconi o viceversa, insomma: d’accordo, onorevole Giovanardi?). Non le radici europee, che se parliamo di Europa democratica vengono messe a dimora con eresia e scienza, con Galileo e Spinoza, e attecchiscono con i Lumi, insomma con tutto ciò che la Chiesa mise all’indice, in ceppi, sul rogo, e i rabbini fulminarono di µrj (cherem, l’anatema ebraico: «escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo»). E mi fermo qui: per carità cristiana (secondo la quale «difficilmente un ricco entrerà nel Regno dei cieli. Ve lo ripeto: è più facile che un cammello…», Matteo 19, 23-4). *** Dany Cohn-Bendit ha detto che «erano il top della satira francese. […] Charlie Hebdo in un anno ha ricevuto dodici denunce per vilipendio del papa e di Gesù, e solo una da parte degli islamisti radicali. Il loro motto era: siamo radicali e facciamo caricature di tutti. […] Il direttore Charb, ammirevole. Avevano uno spirito di contestazione libertario, che non si fermava di fronte a nulla». Sacrosanto. Pochi anni fa, però, quando altre vignette di Charlie Hebdo avevano scatenato manifestazioni violente di fanatismo islamico, era stato ancor più tranchant: «Charlie? Moi, je les trouve cons! Il sont maso, surtout. Ils doivent aimer se faire mal, ce la manière dont ils font l’amour, je crois aussi» 2. Errare umano, perseverare diabolico, lo sappiamo tutti, ottimo quindi che Cohn-Bendit non abbia perseverato nelle sue presuntuose conneries del 2012. Tuttavia quando si migliora attraverso un revirement di 180 gradi, quasi una conversione, è opportuno spiegarsi (anche con se stesso), perché se è solo sull’onda dell’emozione un’emozione successiva e opposta potrà far tornare ai vecchi giudizi «diabolici». L’aberrazione del 2012 nasceva infatti da categorie assai diffuse in certa sinistra, che scambia riformismo con comunitarismo e per nemesi della storia ripropone lo staliniano «il ne faut pas désespérer Billancourt» nel politically correct del «non bisogna offendere l’islamico umiliato-e-offeso», anche a costo di opprimere la libertà di critica. Pregiudizi che vanno perciò riconosciuti, tematizzati, sradicati, altrimenti continueranno a lavorare come attive sinapsi di una «sinistra» in deriva oscurantista. *** All’uso dei kalashnikov si sono addestrati in Siria o altri campi di Is o al-Qa‘ida. Ma il desiderio di andare in quei campi per prepararsi al terrorismo dei martiri lo hanno maturato nella società civile, nella politica, nelle istituzioni delle democrazie occidentali, di cui spessissimo sono cittadini a tutti gli effetti. Qualche imbecille cui non basta neppure il fascismo dei Le Pen (post, soft, quello che volete: in filigrana sempre il fascismo si legge, per chi ha occhi per vedere) ne trarrà la conclusione che quella cittadinanza non andava data (magari è di terza o quarta generazione!). Al contrario, invece: poiché sono cresciuti nella nostra lingua, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, con la nostra televisione, sarà meno imbecille se ci domanderemo seriamente quali contraddizioni, quali inadempienze, quali tare vi siano nei nostri quartieri, nella nostra scuola, nelle nostre televisioni. Quali e quante promesse non mantenute e menzogne sempre più sfacciate impregnino le nostre «democrazie», dove la sovranità di-tutti-e-di-ciascuno ormai non è neppure belletto ma quotidiano cachinno con cui l’establishment del kombinat politico-finanziario-corruttivo ci sberleffa e oltraggia. «Democrazia» sempre più tra virgolette, terra desolata saturata di frustrazioni, pronta per il cortocircuito con una fede da Dio degli eserciti, che offra senso, e grandioso, a esistenze altrimenti nientificate. Eppure abbiamo promesso eguale diritto al perseguimento della felicità. Se pensiamo che sia retorica abbiamo sbagliato i conti. Quello che si mette nel patto fondativo verrà prima o poi chiesto in riscossione, con più spietatezza della libbra di carne dello Shylock di Shakespeare. È la democrazia, bellezza. Dunque si tratterà di mettersi all’opera per realizzarla. Ma poiché già la sovranità eguale, e tanto più con l’eguale diritto al perseguimento della felicità, non può darsi che come approssimazione, tale approssimazione dovrà essere asintotica, un impegno costante, infaticabile: ogni défaillance sarà un regalo a ogni fanatismo, che lievita sulla nostra incoerenza. *** Ebraismo, cristianesimo, islamismo non stanno sullo stesso piano rispetto alla modernità e alla democrazia. Sia chiaro, il jihad c’è già tutto nel Libro ebraico (Jahve Zebaoth, Dio degli eserciti), e quanto al cristianesimo fanno fede le crociate. L’odio per la democrazia di cui trasuda il Sillabo (1869, l’epoca dell’unità d’Italia) è ancora più che diffidenza in Pio XII 1944, radiomessaggio di Natale (la democrazia è «sana» solo se «fondata sugl’immutabili princìpi della legge naturale e delle verità rivelate», insomma se teocraticamente cattolica!). Resta il fatto che ebraismo e cristianesimo, per le persecuzioni il primo e obtorto collo (anzi obtortissimo) il secondo, siano dovuti venire progressivamente a patti con lo stratificarsi di libertà (plurali) che ha visto maturare la democrazia nell’orizzonte della modernità: dal disincanto della sinergia di eresia e scienza e dalla formula di Grozio «etsi Deus non daretur» con cui l’Europa evita l’incombente harakiri delle guerre di religione. L’islam no. O almeno, ma fin qui certamente, non ancora. Che possa avvenire non si può escludere per via ontologica, per loro natura le religioni possono evolvere in tutto e nel contrario di tutto, mentre i rispettivi teologi dimostreranno come si tratti solo di continuità, e del resto il Corano è sincretismo di ebraismo orecchiato e di cristianesimo in una versione condannata per eresia (ma all’epoca di Maometto uno dei tanti e conflittuali cristianesimi). Oggi però l’islam riformato e secolarizzato è pressoché introvabile, nasconderselo è colpevole cecità. Peggio: è la consapevole ipocrisia degli establishment occidentali a cui interessa in primo luogo che con gli interlocutori islamici in comune vi sia la suprema religione di Mammona, il Dio denaro che presiede al petrolio e alla Borsa. Ecco perché non hanno mai appoggiato nessun conato di islamismo riformato. *** Di che cosa sono nemici i terroristi islamici? E dunque chi esattamente sono? Dell’apostasia, della bestemmia, di chi viola la shari‘a, ma altrettanto di ogni islamismo diverso dal proprio (sunniti vs sciiti eccetera). Spesso tali criteri si sovrappongono più o meno parzialmente, comunque nemici e identità danno luogo a una varietà di configurazioni. Che rende ridicola la categoria «moderati/estremisti» in cui si ostina la pigrizia dei media occidentali di establishment. In Arabia Saudita la shari‘a viene praticata alla lettera e con coreografia mostruosa, ma all’Occidente del potere va benissimo così. In realtà il terrorismo islamico è strumento di lotta tra gruppi islamici per l’egemonia sull’intero mondo islamico, e l’Europa è diventato un campo di battaglia sempre meno periferico di questa guerra d’egemonia, che ha il suo epicentro nell’espansione territoriale del califfato. *** La compatibilità dell’islam con la democrazia si gioca sul terreno dell’accettazione (che oggi è rifiuto) della secolarizzazione, cioè della separazione tra religione e politica. Con una conseguenza e un paradosso. La conseguenza: la democrazia non si riduce al voto di maggioranza, tanto è vero che ci può essere una «democrazia» islamica con elezioni perfettamente democratiche ma dentro l’endiadi Costituzione/ Corano. Di più: ci sono state vittorie elettorali della teocrazia annullate «manu militari», in Algeria e altrove. La sovranità democratica non è la regola della maggioranza, che ne costituisce la tecnica essenziale ma non l’essenza, la sovranità democratica è, prima ancora, rispetto dei princìpi che rendono effettivo «una testa, un voto», e che sono assai più esigenti, sotto il profilo egualitario e libertario, di quanto non pensi la vulgata liberaldemocratica. Il paradosso: la condizione fondamentale perché l’islam sia compatibile con la democrazia, la secolarizzazione, è quanto pezzi importanti di establishment occidentale hanno combattuto e ancora combattono, utilizzando a piene mani la «volontà di Dio» (il Dio cristiano) nelle loro campagne elettorali, rifiutando di esiliare Dio (ogni Dio) dalla sfera pubblica. Inventandosi una «laicità positiva» che castra la laicità, che fa acqua sul versante sia della logica sia della politica. Acqua, ma ora succube del sangue. *** Negli Usa puoi proclamare il tuo nazismo ai quattro venti, finché non passi all’azione sei intoccabile. Insomma, fino a che non metti su il tuo forno crematorio privato e la tua doccia a gas in cui ammazzare cittadini «semiti» (secondo il tuo criterio razziale, magari sono atei da generazioni) puoi predicare i meriti del Mein Kampf e del Führerprinzip. In compenso, la satira antireligiosa è considerata talmente intollerabile che l’intero mondo dei media neppure si pone il problema se darvi spazio o meno, la censura a priori (tranne eccezioni di nicchia). Eppure per combattere il nazismo sono morti milioni dei «loro ragazzi», dalla spiagge della Normandia a quelle di Anzio e della Sicilia (oltre che migliaia di donne e uomini della Resistenza). Contano meno della suscettibilità di Dio, evidentemente. *** Di identità abbiamo bisogno per vivere. Praticamente come l’aria e il pane. Delle due l’una, perciò: o la democrazia consente a ciascuno di noi di vivere come identità propria la condizione della cittadinanza, esistenzialmente appagante e comunque più significativa di ogni altra appartenenza, o ciascuno cercherà identità vicarie, dalla curva sud alla guerra santa in nome del Profeta. Tanto più verranno inseguite, e più radicali, quanto più grande è lo scarto tra promessa e realtà. Perché ciascuno possa vivere la cittadinanza come la propria identità è indispensabile che essere cittadino significhi esercitare effettiva sovranità con gli altri perché eguale agli altri. Se ne vedono indizi, che vadano oltre il simulacro, nelle democrazie realmente esistenti? Ogni agire politico che non operi per l’eguale sovranità, oggi introvabile, porta già con la semplice omissione il suo vaso alla Samo delle appartenenze, che minano la comune Res Publica. *** Se si ammette che Dio possa avere dimora nello spazio pubblico, come «argomento» per statuire le leggi, non si può poi pretendere che sia il Dio che piace a noi: vale qualsiasi Dio, qualsiasi sia la Sua Parola. Solo l’esilio di Dio dalla scena pubblica è la premessa (necessaria ma non sufficiente) perché le leggi nascano da un dia-logos di argomenti anziché dal «perché sì» di narcisismo tossico che si nasconde dietro ogni «volontà di Dio». *** Lo spazio pubblico è lo spazio dei cittadini, di coloro che argomentano a partire da elementi comuni: i fatti accertati, la logica, i valori costituzionali della democrazia repubblicana che fondano il comune essere-insieme come cittadini. Il di più viene dal demonio: se nello spazio pubblico è legittima la parola di Dio, non sarà più spazio di civile dia-logos ma arena di ordalia, scontro tra «argomenti» di fedi dove il più forte si assicura il «giudizio di Dio». Logica incompatibile con democrazia e cittadinanza. Solo se Dio (cioè chiunque pretenda di parlare in Suo nome e riferirne Legge e Volontà) viene tenuto fuori dallo spazio pubblico, custodito nel privato delle coscienze, la democrazia è al riparo dalla tentazione di virare a ordalia. Ma il culto di ogni religione per essere libero deve essere pubblico. Come fare dunque che un culto pubblico non interferisca con lo spazio pubblico, dell’agorà deliberativa, tale solo se affidato esclusivamente all’argomentazione, ad esclusione quindi di ogni «volere di Dio»? Solo se il rifiuto dell’interferenza politica di qualsiasi «legge di Dio (massime in bocca a un «clero») assume l’automatismo del tabù, diventa una «seconda natura», almeno come per antropofagia e incesto. Il prete, l’imam, il rabbino, dicano pure al fedele cosa deve e non deve fare per guadagnarsi la vita eterna, ma mai pretendano che tale prescrizione possa imporsi erga omnes attraverso quel braccio secolare che è la legge. Mai. Anzi, nel proibire al fedele il peccato mortale gli rammentino che il diritto al peccato deve essere rispettato negli altri, che non mirano alla vita eterna o la ritengono raggiungibile diversamente. Se questo sembra un «giogo» troppo pesante non ci si meravigli poi se qualche fedele cristiano considererà l’esecuzione di un peccatore mortale gesto veniale (o addirittura di giustizia) rispetto al «genocidio del nostro tempo» (così Ratzinger e Wojtyła) cui partecipa il medico abortista. E qualche fedele musulmano altrettanto doveroso mandare all’inferno anzitempo chi insulta il Profeta. *** Nella capitale della Cecenia un milione di cittadini islamici manifestano contro le vignette di Charlie Hebdo e pretendono che i governi occidentali mettano al bando il sacrilegio. In molti altri paesi islamici non si arriva al milione, ma le dimostrazoni di massa si moltiplicano. Del resto era avvenuta la stessa cosa nel 2006, sempre a causa di vignette (e le democrazie con la memoria corta sono già per questo di fibra debole). Non tutti i credenti in Allah sono fanatici, ça va sans dire, ma nelle banlieues di Francia, nelle periferie italiane, tra le minoranze di origine turca in Germania, nelle comunità islamiche inglesi (dove tribunali di shari‘a applicano il relativo diritto familiare con la benedizione del vescovo di Westminster), liberalmente parlando, le cose vanno davvero molto meglio? Sono gli insegnanti dei beurs e i sociologi sul campo a dire che strati assai cospicui di giovani francesi di origine magrebina, che si erano costruiti un’identità «etnica» come reazione all’emarginazione sociale, trovando magari nel rap la loro «religione», sono in calorosa sintonia emotiva con la pretesa clericale di ostracismo al sacrilegio: postmoderni sempre più sensibili agli imam premoderni. Che si tratti, in Europa, in Cecenia, nel mondo arabo, di masse di «umiliati e offesi» della cui povertà, emarginazione, sofferenza, gli establishment occidentali (e i cittadini che li hanno legittimati, ovviamente) portano colpa, dovrebbe essere motivo di rivolta democratica contro questi establishment, non di acquiescenza, neppure la più soft, verso la teorizzazione (con cui gli establishment al dunque vanno a nozze) che il bando all’offesa del Profeta sia il doveroso risarcimento simbolico per le umiliazioni sociali loro inflitte. La povertà, l’ingiustizia sociale, l’oppressione, vanno combattute socialmente, non raddoppiate con nuove oppressioni clericali contro la libertà di critica (di empietà), alibi per continuare a calpestare socialmente i diseredati. Eppure c’è tanta «sinistra», magari «più a sinistra», che non ci arriva. *** La libertà empia, la libertà senza autocensure, era diventata un principio di nicchia, ora la più grande manifestazione in Francia dai tempi della Liberazione, e i potenti della terra costretti per ipocrisia a parteciparvi, la ricollocano al centro della vita pubblica democratica.
La macchina mostruosa del terrorismo (mostruosa anche perché ormai metastatizzante), che aveva colpito le due torri, ha considerato Charlie Hebdo l’emblema del Satana occidentale, dei valori occidentali, delle libertà, rendendogli inconsapevolmente il più grande, anche se mostruoso, omaggio. I troppi cittadini che affatturati dalle ipocrisie mediatiche d’establishment stanno via via prendendo le distanze dal «Je suis Charlie» non si rendono conto che stanno addentrandosi nelle sabbie mobili della «servitù volontaria».
***
Chi dice che in fondo erano solo vignette, e anzi inguardabili, ed effettivamente lurida blasfemia, si illude se pensa che per critiche meno «indecenti» il fanatismo si addolcirà in tolleranza. Fanatismo che purtroppo da anni è ideologicamente condiviso (non nel suo agire violento, beninteso!) da organizzazioni per i diritti umani accreditate in ambito internazionale. Come Gherush92, che ha seriamente chiesto, durante conferenze mondiali contro il razzismo, la messa al bando delle cantiche dantesche dedicate a Maometto, agli omosessuali (omofobia!) e ai versi in cui padre Dante usa il termine «giudeo». Mentre minacce contro l’affresco di San Petronio a Bologna, che illustra le pene dantesche per Maometto, erano già venute anni fa (si sono rifatte vive in questi giorni). Anni fa, del resto, la Deutsche Oper Berlin soppresse la produzione dell’opera mozartiana Idomeneo perché, nella versione riadattata e messa in scena dal regista Hans Neuenfels, una scena mostrava le teste decapitate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e del dio greco Poseidone. Mentre l’Europa democratica ha già dimenticato l’assassinio di Theo van Gogh da parte di un «giustiziere dell’islam» che ha trovato blasfemo il suo cortometraggio Sottomissione. Anni fa, del resto, la Deutsche Oper Berlin soppresse la produzione dell’opera mozartiana Idomeneo perché, nella versione riadattata e messa in scena dal regista Hans Neuenfels, una scena mostrava le teste decapitate del profeta Maometto, di Gesù, di Budda e del dio greco Poseidone. Mentre l’Europa democratica ha già dimenticato l’assassinio di Theo van Gogh da parte di un «giustiziere dell’islam» che ha trovato blasfemo il suo cortometraggio Sottomissione.
La lista del passato sarebbe lunga, oltre che vergognosa. Ora la Oxford University Press (non è omonimia, si tratta proprio dell’università nata oltre un millennio fa, quella di Wyclif, Guglielmo di Occam, Bacone, Swift, Hobbes, Wilde, Shelley) ha deciso di proibire nei suoi cataloghi qualsiasi libro che menzioni il maiale e la carne di maiale. «Vade retro Peppa Pig!» allora e tanto per cominciare. Progresso occidentale. *** Gli ateniesi per empietà condannarono a morte Socrate, ma nelle Rane di Aristofane Eracle e Dioniso (v. 236: «da tempo il mio deretano è in sudore e presto curvandosi dirà…»: è la cosa più lieve!), due tra le massime divinità greche, si scambiano empietà e oscenità, sghignazzano sull’Ade, sui Misteri e su ogni aspetto del Sacro. Della morte di Socrate i suoi concittadini dovettero pentirsi presto, della libertà di blasfemia mai. Potremmo passare a Rabelais. E ad altri grandi. Questa è l’identità occidentale. *** La libertà deve essere eguale, altrimenti è privilegio. La libertà di ciascuno ha il limes – confine invalicabile – nell’eguale libertà dell’altro. Assoluta è solo la libertà di fronte alla quale gli altri sono sudditi. La libertà eguale non può dunque, per sua natura, essere illimitata. Ma quali sono i limiti della libertà eguale? Poiché al di qua di tali limiti, ogni limitazione sarebbe vulnus inguaribile alla libertà stessa. Il razzismo nega alla radice l’eguale dignità degli appartenenti al genere Homo sapiens, perché rende addirittura impossibile argomentare qualsiasi libertà. I fascismi sono i regimi recentissimi che, in coerenza assoluta con la loro ideologia, hanno fatto strame di tutte le libertà democratiche (a differenza dei comunismi che tali libertà hanno negato contraddicendo quanto proclamato). L’esaltazione del razzismo e dei fascismi non può dunque far parte della libertà d’espressione 3. *** Dice papa Francesco, ormai – ahimè – l’unico leader globale occidentale: «Non si può provocare, non si può insultare, non si può prendere in giro la fede degli altri». Facciamo bene attenzione, perché questo è l’argomento che sta diventando egemonico nelle democrazie, malgrado (e contro) i milioni di francesi che hanno sfilato gridando: «Je suis Charlie». E che le mette a repentaglio.
Se la libertà di ciascuno deve fermarsi dove comincia l’eguale libertà dell’altro, non può essere consentita la libertà di offendere ciò che per qualcuno è sacro. Libertà di critica sì, libertà di offesa no. Sembra un sillogismo, ma è una fallacia, una conclusione abusiva che nega la logica, oltre che la libertà.
Per cominciare: chi decide cosa sia critica e cosa sia offesa? Wojtyła e Ratzinger hanno tuonato in ogni enciclica che l’illuminismo, con la pretesa di rendere l’uomo autos nomos (legislatore di se stesso, anziché ricevere la legge da Dio), è la causa e la radice dei totalitarismi del secolo scorso, poiché ha aperto la strada alla pretesa smisurata della sovranità (senza la quale la democrazia non è neppure pensabile, però!) e dunque al baratro del nichilismo di cui nazismo e stalinismo saranno il prodotto. «Dal frutto conoscerete l’albero…» eccetera. Cosa c’è di più insultante per ciascuno di noi? Cosa c’è di più fanatico che imputare lager e gulag a Voltaire e Hume? Cosa c’è di più oltraggioso per la democrazia? *** Non basta. Molti credenti immaginano che gli atei, privi di fede, siano spiritualmente meno ricchi. Se non lo pensassero, del resto, non prenderebbero sul serio la fede, che è il dono incommensurabile, poiché ne va della salvezza eterna. Noi atei siamo esistenzialmente menomati, poiché incapaci di attingere il trascendente (anche di questo nelle encicliche si trova traccia). Potrei sentirmi offeso di essere considerato un minorato spirituale, esattamente come un credente può sentirsi offeso della mia fermissima convinzione che ogni religione sia superstizione: la presenza reale, corpo e sangue, di un profeta ebreo giustiziato sotto l’imperatore Tiberio, in pochi grammi di impasto di acqua e farina, è stravaganza ��� offensiva per la ragione – più allucinante che credere a oroscopi, congiunzioni astrali e fattucchiere. E storicamente assai più pericolosa, come secoli di crociate, roghi e notti di san Bartolomeo ci ricordano. ***
Se il criterio dell’offesa diventa il paradigma della libertà, a decidere sarà la suscettibilità. Ma la tua libertà trova un limite nella mia eguale libertà, non nella mia suscettibilità, per definizione soggettiva e presso ciascuno diversa. Io sono libero di irridere la tua fede, perché con il mio scherno non ti impedisco affatto di praticarla, e tu resti libero di irridere le mie convinzioni, ma non puoi impedirmi di praticarle, benché la tua sensibilità le viva come offensive: libertà simmetrica.
Diversamente, non solo ogni credente diventa titolare di un diritto di censura, ma a decidere dei limiti della libertà sarebbero alla fine i fondamentalismi di ogni confessione. Non è un paradosso. Si ragioni freddamente: una volta accettato il divieto dell’offesa per ciò che è vissuto come sacro, tanto maggiore sarà la suscettibilità del credente e tanto più ampia la sfera delle espressioni che per lui costituiscono non solo offesa ma addirittura sacrilegio. Maggiore la suscettibilità (che è massima nel fanatismo!) e maggiore il diritto a far tacere gli altri, questo il risultato della logica che nelle parole di papa Francesco sembra così ragionevole di ecumenica tolleranza. Più grave ancora: il criterio della suscettibilità, inerente alla categoria della «offesa», crea un meccanismo sociale che incoraggia la surenchère: più sono intollerante più ho titolo a far tacere, dunque vengo premiato in termini di potere se faccio lievitare il mio cruccio per la critica (naturale in ciascuno) dapprima in risentimento, poi in rabbia e infine in fanatismo, dando libera stura (anziché civile repressione) alla pulsione di onnipotenza che si annida in ciascuno di noi. Non basta: se è giusto censurare ciò che offende ogni religione, a fare legge saranno l’ipersuscettibilità degli ebrei, dei cristiani, dei musulmani, ma anche ogni idiosincrasia dei testimoni di Geova, dei mormoni, di quanti adorano il Grande Manitù (tra i nativi americani c’è un bel ritorno alle radici), dei fedeli al Verbo di Scientology, e molto altro ancora. Tutto ciò che ognuna di queste fedi (comprese le loro varianti più integraliste, ovviamente) trova molesto diventa legittimo oggetto di anatema e ostracismo. Cosa resta della libertà di critica dopo questo bel rogo di libertà «offensive»? Ogni pretesa di Verità ha diritto di mettere il bavaglio a ciò che vive come ingiuria. Ma per centinaia di milioni di uomini furono sacri Stalin e Mao, e la «supremazia bianca» è dogma di fede del Ku Klux Klan: guai a chi li critica! La logica del «non si può offendere» è spietata, non consente un «on, off» secondo i propri comodi. *** Per le religioni non è provocazione solo la satira, può esserlo anche una legge democratica. Tale per centinaia di milioni di islamici quella francese sul velo, tale per milioni di cristiani quelle che in gran parte dell’Occidente consentono alla donna di abortire. Negli Usa ci sono stati (e prevedibilmente ci saranno ancora) omicidi di medici e infermieri che avevano garantito il rispetto della legge. Cristiani fanatici? Comunque cristiani, che si sentivano mortalmente offesi da quelle leggi. Ma non erano fanatici, bensì sommi pontefici, Joseph Ratzinger e san Giovanni Paolo, che hanno bollato l’aborto come «il genocidio dei nostri giorni», e dunque come SS postmoderne medici e infermieri che lo praticano, se le parole hanno un senso (e le parole di un papa sono macigni). Francesco non ha solo sposato il divieto di prendere in giro ogni fede. Ha esemplificato che «se un grande amico dice una parolaccia contro mia mamma, gli spetta un pugno, è normale». Normale tra bulli e teppisti, o nel machismo d’antan. Ma il pugno di Francesco diventa kalashnikov nel fanatico islamico, come è stato revolver nel cristiano antiabortista. Se a decidere sul diritto di critica è la suscettibilità alla critica, la stessa suscettibilità ha diritto a decidere la pena.Questa logica oscurantista mette in mano alla benevolenza del fanatico se il bestemmiatore della fede meriti un pugno, i mille colpi di frusta con cui nell’ignavia dell’Occidente l’islam moderato (sic!) dell’Arabia Saudita sta torturando a rate settimanali Raif Badawi, o la raffica di pallottole. Escalation di una medesima logica, che ha sentenziato: i blasfemi se la cercano. En passant, Francesco: e l’altra guancia?***Una volta vissuta l’esperienza tragica dei fascismi, che hanno annientato le libertà, sarebbe assurdo, ai limiti del masochismo, che altre generazioni debbano rischiare nuovamente di «sortir de la paille les fusils, la mitraille» per riconquistarle nel sangue e nella sofferenza. Tenendo ben fermo che l’antisemitismo è razzismo, ma l’antiebraismo riguarda una religione (benché il nazismo abbia voluto farne l’amalgama) e l’antisionismo una politica.Non si tratta, dunque, del «pas de liberté pour les ennemis de la liberté», poiché la praxis di Saint-Just ha dimostrato il pericolo che si occulta nell’accattivante frase. Si tratta del diritto/dovere dell’Europa di non dimenticare i morti e i calpestati che i fascismi (non «i nemici della libertà» in astratto) hanno coerentemente e strutturalmente prodotto a milioni, e impedire il brodo di coltura che può farne rinascere il virus. Con leggi ad hoc, e/o con un più efficace e onnipervasivo tabù morale e sociale: starà alle varie democrazie deciderlo. Quanto al resto c’è il codice penale che sanziona l’istigazione a delinquere, dunque all’omicidio (e massime al terrorismo), o la diffamazione, che deve essere però personale, non può riguardare idee e fedi.Senza perifrasi, allora: la Repubblica laica e la «laicità» di Francesco sono incompatibili, e soprattutto tertium non datur. Tra l’illuminismo di massa di «Je suis Charlie» e la libertà papale di «je suis chaque religion», l’Europa deve scegliere. Aut, aut. Questa Kulturkampf è già in mezzo a noi.***Se l’Europa non sceglie la strada libertaria, e non l’accompagna con l’impegno instancabile per l’eguaglianza sociale, si illude di potersi salvare dal fanatismo, perché ne avrà legittimato l’alambicco e alimentato la fucina.L’eguale libertà deve esserlo anche materialmente, socialmente. Ma questo è l’altro capitolo dello stesso discorso – che troppi preferiscono ignorare.
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La dissacrante sacralità di Pier Paolo Pasolini.
L'estetica razionale e introspettiva di Michelangelo Antonioni.
La melanconica e scanzonata poesia onirica di Federico Fellini.
La paradossale satira sociale di Marco Ferreri.
Il manierismo melodrammatico di Luchino Visconti.
Il totalitarismo cinematografico di Stanley Kubrick.
Il barocco postmoderno del pop di David LaChapelle.
Il pernacchio di Totò.
L'insieme di tutto questo è il cinema di Paolo Sorrentino.
#paolo sorrentino#pier paolo pasolini#michelangelo antonioni#federico fellini#marco ferreri#Luchino Visconti#david lachapelle#stanley kubrick#totò#cinema#arte#the new pope#the young pope#la grande bellezza
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..la maestria di una grande mente che prende forma in prosa e poesia...Pasolini era un genio e questo testo lo conferma in tutta la sua grandezza...Romanzo a tratti sconnesso, dissacrante, forte come un pugno nello stomaco, ma anche tenero e disperato. Teorema ebbe due versioni: quella cinematografica, portata a termine nel 1968 e questa in forma di romanzo, scritta durante la lavorazione del film e pubblicata l'anno successivo. Il testo, inframmezzato da interventi poetici è l'impietosa descrizione dei comportamenti e dei conflitti in un interno borghese durante un momento di crisi, e insieme una parabola sull'irruzione del religioso nell'ordine famigliare e sulle sue dirompenti conseguenze. Provocatorio e profetico, Teorema segna una svolta nell'opera di Pier Paolo Pasolini, con l'approdo a una visione sacrale, vivacemente simbolica della realtà ed il risultato è un'opera che si fa leggere bene e fa riflettere sull'ipocrisia della nostra società e sui ruoli che essa impone. Lavoro complesso e forse non per tutti, ma ancora attuale ad oltre 50 anni dall'uscita...consigliato #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #pierpaolopasolini (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CR29G_iH3D1/?utm_medium=tumblr
#libridisecondamano#ravenna#booklovers#instabook#igersravenna#instaravenna#ig_books#consiglidilettura#librerieaperte#pierpaolopasolini
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Ascolta & Leggi: Mike Oldfield con La produzione poetica di Flavio Almerighi (letta da Maria Allo pt. 2)
Ascolta & Leggi: Mike Oldfield con La produzione poetica di Flavio Almerighi (letta da Maria Allo pt. 2)
La poesia di Almerighi si mostra specchio attento e sensibile di una realtà che sta vivendo dei mutamenti profondi, contraddizioni e tensioni destinati a perdurare e a segnare intimamente la vita del paese negli anni a venire. Il poeta sente la necessità di dare testimonianza di un momento particolarmente difficile delle nostre vite con una visione beffarda e dissacrante che ne ripudia il…
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Relazione surrealismo in Spagna tra cinema e letteratura Peter Rostovsky
Monica28812 aprile 20185-7 minutes
Surrealismo in Spagna tra cinema e letteratura Il 30 Novembre 2017, in aula Shakeaspere, nella sede didattica G.Tucci, si è svolta una conferenza il cui tema principale è stato quello del Surrealismo in Spagna. A cominciare la conferenza, il Professor Gabriele Morelli che, inizialmente, espose i primi movimenti d’avanguardia spagnola. Il primo è quello del Futurismo, un movimento in cui troviamo un rifiuto del passato. Ma questo tema risalta anche nel Dadaismo che propone una nuova forma di linguaggio. In Spagna questo movimento è detto Ultraismo, poiché guarda soprattutto alla figura della macchina fotografica e dell’immagine che deforma la realtà. Dalla sua evoluzione si passa al Creazionismo dove troviamo un rifiuto dei maestri e della letteratura. Fa riferimento al poeta cileno Vicente Huidobro il quale afferma che: “come la natura crea l’albero, così il poeta deve inventare l’immagine.” Il sentimento dentro il nostro cuore è quadrato, l’unica forma di libertà è l’orizzonte. La capitale di questi movimenti è Parigi. Un altro movimento che precede il surrealismo è il Cubismo dove l’autore principale è Picasso. Il Surrealismo è un movimento che nasce in Francia nel 1924. Il maggiore esponente di questa corrente è Peter Rostovsky, artista contemporaneo russo, che predilige raffigurazioni di tipo magico-fantastiche o realistico-macabre, due temi di grande impatto emozionale. Il professor Morelli ha voluto dare una definizione a questo movimento con queste parole: “Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente che in ogni altro modo il funzionamento reale del pensiero in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.” Infatti esce fuori un pensiero disordinato e libero.
Poi il professore ha fatto riferimento ad alcuni testi letterari del poeta e drammaturgo Federico Garcia Lorca, il quale scrive poesie tradizionali e poesie surrealiste. Un esempio di poesia tradizionale è “Poema del cante jondo” (1931) in cui si parla della morte. Oppone all’immagine della morte tutte immagini positive, ad esempio: (chitarra = canto della vita) (aranci = sapore, colore, profumo) (banderuola = immagine irrazionale/surreale = indica vita, movimento, gioco). In seguito abbiamo analizzato “Canciones” (1921-1924) in cui anche gli oggetti più insignificanti partecipano alla passione d’amore che fa soffrire. Poi il professore ci ha analizzato “Poeta en Nueva York” (1929-1930) in cui Federico Garcia Lorca sta ricordando quando alla sorella gli è stata regalata una rana e il gatto se l’ha mangiata. Queste immagini che sembrano surreali hanno poi una proiezione della vita. Successivamente abbiamo osservato la poesia “New York” (1929) in cui ci sono delle immagini irrazionali. Sta facendo una critica contro New York. Esempio: (Anatra = sacrificio di essere mangiata) (Marinaio = sacrificio di un lavoro pericoloso.) (Sangue tenero = sacrifico degli innocenti).
Per quanto riguarda il cinema surreale abbiamo assistito alla visione del film: “Un Chien Andalou” di Luis Bunuel, del 1929. In questo film troviamo l’annullamento di tutti i sentimenti e l’affermazione dei sensi. I principali nuclei tematici sono: il desiderio dell’uomo impedito dal peso che si trascina dietro, rappresentato dall’immagine del
pianoforte; la corruzione, rappresentata dall’immagine dell’asino putrefatto; la punizione dell’uomo che entra nella stanza, in questa immagine troviamo il riflesso della biografia di Dalì perché aveva un padre molto autorevole. La prima immagine dell’occhio tagliato con il rasoio è un’immagine violenta, dissacrante e crea un rapporto istintivo e non sentimentale. In questo film ci sono anche delle immagini surrealistiche, ad esempio, le formiche e la farfalla, che è tipico del mondo di Freud.
Successivamente il professore ha fatto riferimento a Ramon Gomez De La Serna il quale creò per la prima volta nel 1910 la “Gregueria” ovvero, accostare un oggetto con un altro. Ad esempio:
- Una macchina da scrivere silenziosa è una macchina in pantofole
- Dante andava tutti i sabati dal parrucchiere per farsi tagliare la corona d’alloro
- La forchetta è il pettine degli spaghetti
- L’ateo non dovrebbe avere osso sacro
- La A è la tenda dell’alfabeto
- Le spighe fanno il solletico al vento
Complessivamente ho trovato la conferenza tenuta dal Professor Gabriele Morelli molto interessante, anche se, personalmente, sono stata attratta dalla storia del surrealismo spagnolo. Essendo interessata molto di più al cinema e alla fotografia, sono stata molto colpita dalle immagini del cortometraggio di Luis Bunuel: la scena dell’occhio tagliato, quella dell’investimento, la mano invasa dalle formiche, l’asino putrefatto e il pianoforte. Queste, oltre ad aver scosso la mia vista per la loro crudeltà, accompagnate dal silenzio del film muto sono l’emblema di un malessere interiore che viene trasmesso pienamente dal regista.
Monica De Santis
Scienze Politiche, della comunicazione e delle relazioni internazionali
INDIRIZZO: Amministrativo-Gestionale
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Report surrealism in Spain between cinema and literature
Monica28812 April 2018
5-7 minutes
Surrealism in Spain between cinema and literature On November 30, 2017, in the Shakeaspere classroom, in the G.Tucci teaching site, a conference was held whose main theme was that of Surrealism in Spain. Beginning the conference, Professor Gabriele Morelli, who initially exhibited the first Spanish avant-garde movements. The first is that of Futurism, a movement in which we find a rejection of the past. But this theme also stands out in Dadaism which proposes a new form of language. In Spain this movement is called Ultraism, because it looks above all at the figure of the camera and the image that deforms reality. From its evolution we move on to Creationism where we find a rejection of masters and literature. He refers to the Chilean poet Vicente Huidobro who states that: "how nature creates the tree, so the poet must invent the image. "The feeling inside our heart is square, the only form of freedom is the horizon. The capital of these movements is Paris. Another movement that precedes surrealism is Cubism, where the main author is Picasso. Surrealism is a movement that was born in France in 1924. The greatest exponent of this current is Peter Rostovsky, a Russian contemporary artist, who prefers magical-fantastic or realistic-macabre-type representations, two themes of great emotional impact. Professor Morelli wanted to give a definition to this movement with these words: "pure psychic automatism with which one proposes to express both verbally and in every other way the real functioning of the thought in the absence of any control Exercised by reason outside of any aesthetic or moral preoccupation. " In fact it comes out a messy and free thought. Then the professor referred to some literary texts of the poet and dramatist Federico Garcia Lorca, who wrote traditional poems and surrealist poems. An example of traditional poetry is "Poema del cante jondo" (1931), which speaks of death. Opposes the image of death all positive images, for example: (guitar = song of life) (orange = taste, color, scent) (vane = irrational / surreal image = indicates life, movement, game). Later we analyzed "Canciones" (1921-1924) in which even the most insignificant objects participate in the passion of love that makes us suffer. Then the professor analyzed "Poeta en Nueva York" (1929-1930) in which Federico Garcia Lorca is remembering when his sister was given a frog and the cat has eaten it. These images that seem surreal then have a projection of life. Later we observed the poem "New York" (1929) in which there are irrational images. He is criticizing New York. Example: (Duck = sacrifice of being eaten) (Sailor = sacrifice of a dangerous job.) (Soft blood = sacrifice of the innocents).
As for the surreal cinema we witnessed the vision of the film: "Un Chien Andalou" by Luis Bunuel, from 1929. In this film we find the annulment of all the feelings and the affirmation of the senses. The main thematic nuclei are: the human desire prevented by the weight that is dragged behind, represented by the image of the
piano; corruption, represented by the image of the rotten ass; the punishment of the man who enters the room, in this image we find the reflection of Dali's biography because he had a very authoritative father. The first image of the eye cut with a razor is a violent, irreverent image and creates an instinctive and non-sentimental relationship. In this film there are also surrealistic images, for example, the ants and the butterfly, which is typical of the world of Freud.
Subsequently, the professor referred to Ramon Gomez De La Serna who created the "Gregueria" for the first time in 1910, that is, approaching one object with another. Eg:
- A silent typewriter is a machine in slippers
- Dante went every Saturday to the hairdresser to get his laurel wreath cut
- The fork is the spaghetti comb
- The atheist should not have a sacred bone
- A is the tent of the alphabet
- The ears tickle the wind
Overall I found the conference held by Professor Gabriele Morelli very interesting, even though, personally, I was attracted by the history of Spanish surrealism. Being much more interested in cinema and photography, I was very impressed by the images of Luis Bunuel's short film: the scene of the cut eye, that of the investment, the hand invaded by the ants, the rotten ass and the piano. These, in addition to shaking my sight for their cruelty, accompanied by the silence of the silent film are the emblem of an inner malaise that is fully transmitted by the director.
Monica De Santis
Political Sciences, Communication and International Relations
ADDRESS: Administrative-Management
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Letture medievali N. 1: Guilhem de Peitèus, Farai un vèrs de dreit nient
Ho deciso, anche se, come per tutte le cose che imprendo, non so quanto durerà, di condividere regolarmente qualcuna delle mie letture medievali, in particolare dei testi galloromanzi in lingua d’oc e d’oïl, che sono la mia grande passione (nel corso del quinquennio universitario ho accumulato 42 CFU di filologia romanza juste parce que).
Dopo breve dibattito interiore con prosopopea dei concetti astratti in perfetto stile da romanzo medievale, ho deciso di incominciare dal primo di tutti, Guglielmo d’Aquitania, e di accantonare per il momento Chrétien di Troyes, il primo del mio cuore (posizione condivisa ex aequo con Proust), su cui mi riservo di tornare quando avrò più tempo. Considerando comunque che Guglielmo è il nonno di Eleonora d’Aquitania, madre di Maria di Champagne, protettrice di Chrétien, tutto torna.
Gugliemo VII conte di Poitiers e IX duca d’Aquitania (1071-1126) è considerato non soltanto il primo trovatore, ma anche il primo poeta in volgare dell’Europa medievale. Nominalmente vassallo del re di Francia, era di lui più potente (non che al tempo ci volesse molto).
Avventuriero senza scrupoli e gran seduttore, fu due volte sposato e due volte scomunicato per le violazioni del diritto ecclesiastico e gli scandali della sua vita privata. Per dire, fu anche accusato, ci dice Guglielmo di Malmesbury, di aver voluto fondare un monastero di prostitute (abbatiam pellicum).
La sua vida* lo presenta in questo modo:
Lo coms de Peitieus si fo uns dels majors cortes del mon e dels majors trichadors de dompnas, e bons cavalliers d’armas e larcs de dompnejar; e saup ben trobar e cantar. Et anet lonc temps per lo mon per enganar las domnas.
Il conte di Poitiers fu uno degli uomini più cortesi del mondo e uno dei più grandi ingannatori di donne, e fu buon cavaliere d’arme e generoso nel corteggiare, e seppe ben comporre e cantare. E se ne andò lungo tempo per il mondo ad ingannare le donne.
Tra le tante cose, tentò anche una sfortunata crociata in Terrasanta (1101) e di annettere più volte Tolosa senza successo.
*Le vidas sono delle brevi notizie biografiche, databili a partire dal XIII secolo, composte su un centinaio di trovatori. Le razos, invece, riportano le circostanze di composizione delle canzoni.
Farai un vèrs de dreit nient
Della decina di canzoni che ci sono giunte sotto il nome di Guglielmo ho scelto Farai un vèrs de dreit nient perché adoro la prima cobla*, soprattutto per la storia del cavallo, che forse potrebbe pure intendersi come allusione erotica, conoscendo il soggetto.
La critica, al solito, si è sbizzarrita e ha dato della canzone le interpretazioni più varie, da quella che la vuole una meditazione filosofica sul niente a quella che la vede come visione onirica, o forse, semplicemente, prendendo per buone, come faceva J. Duggan, le parole dello stesso poeta, non vuole dire proprio nulla.
Ricordo che le canzoni erano pensate per essere cantate su un accompagnamento musicale.
*Le coblas sono le strofe, in genere cinque o sei, che compongono la canzone, chiusa da una tornada, che equivale al congedo delle canzoni italiane.
I.
Farai un vèrs de dreit nient:
Non èr de mi ni d’autra gent,
Non èr d’amor ni de jovent,
Ni de ren au,
Qu’enans fo trobats en dorment
Sobre chevau.
II.
Non sai en qual’ora⸳m fui nats,
Non soi alegres ni irats,
Non soi estranhs ni soi privats
Ni non puèsc au,
Qu’enaissí fui de nuèit fadats
Sobr’un puèg au(t).
III.
Non sai quora⸳m fui endormits,
Ni quora⸳m velh, s’om non m’o ditz;
Per pauc non m’es lo còr partits
D’un dòl corau:
E non m’o prètz una fromits,
Per sant Marçau!
IV.
Malauts soi e cre mi morir:
E ren non sai mas quand n’aug dir.
Mètge querrai al mieu albir,
E no⸳m sai tau;
Bon mètges èr, si⸳m pòt guerir,
Mor non, s’amau.
V.
Amig’ai ieu, non sai qui s’es:
Qu’anc non la vi, si m’ajut fes:
Ni⸳m fes que⸳m plassa ni que⸳m pes,
Ni non m’en cau:
Qu’anc non ac Normand ni Francés
Dins mon ostau.
VI.
Anc non la vi et am la fòrt;
Anc non n’aic dreit ni no⸳m fes tòrt;
Quand non la vei, ben m’en deport;
No⸳m prètz un jau:
Qu’ie⸳n sai gençor e belasor
E que mas vau.
VII.
Non sai lo luèc ves ont s’està,
Si es en puèg o es en pla(n);
Non aus dire lo tòrt que m’a,
Abans m’en cau;
E pesa⸳m ben car çai rema(n)
Per aitan vau.
VIII.
Fait ai lo vèrs, non sai de qui;
E tramentrai lo a celui
Quel lo⸳m trametrà per autrui.
Envers Peitau,
Que⸳m tramesés del sieu estui
La contraclau.
Traduzione
I.
Farò una canzone su un bel niente:
Non sarà su di me né su altra gente,
Non sarà sull’amore né sulla giovinezza,
Né su nient’altro,
Ché prima fu composta mentre dormivo
Sopra un cavallo.
II.
Non so a che ora fui nato,
Non sono allegro né triste,
Non sono straniero né del posto
E non posso farci niente,
Ché così fui di notte stregato
Sopra un alto poggio.
III.
Non so a che ora mi fui addormentato,
Né a che ora sto sveglio, se nessuno me lo dice;
Per poco non mi si è il cuore spezzato
Di un dolore mortale:
E non me ne importa una cicca,
Per san Marziale!
IV.
Malato sono e credo di morire:
E nient’altro so più di quanto sento dire.
Un medico cercherò a mio piacimento,
Ma tale non ne conosco;
Buon medico sarà, se mi può guarire,
Ma no, se peggioro.
V.
Ho un’amica, non so chi sia:
Ché mai non la vidi, in fede mia;
Niente mi fece che mi piaccia o che mi pesi,
E non me ne importa:
Ché mai fu normanno o francese
In casa mia.
VI.
Mai non la vidi ma la amo forte;
Mai ne ebbi diritto né mi fece torto;
Quando non la vedo, me ne diverto bene;
Non me ne importa un fico:
Ché io ne conosco una più nobile e bella
E che vale di più.
VII.
Non conosco il luogo in cui dimori,
Se è in montagna o in pianura;
Non oso dire il torto che ha nei miei confronti,
Piuttosto sto zitto;
E mi pesa molto rimanere qui,
Perciò me ne vado.
VIII.
Ho finito la canzone, non so su chi;
E la manderò a colui
Che la manderà per un altro
Verso il Poitou,
Affinché mi mandi del suo astuccio
La controchiave.
NOTE
Il testo originale è tratto da Fabre Paul, Anthologie des troubadours: XIIe-XIVe siècle, Paradigme, Orléans, 2010, che si distingue per i testi modernizzati nella grafia, che hanno, se non altro, il vantaggio di poter essere più agevolmente letti dai non specialisti che vi si volessero provare. Il motivo è presto detto: si tratta dell’edizione che al momento ho a portata di mano (criterio molto filologico, direi…). La traduzione, invece, è tutta mia e non ha alcuna pretesa di artisticità (non rispetta né la metrica né le rime dell’originale), anche perché l’ho portata a termine in una mezz’oretta.
Ho scelto di tradurre con “canzone” il vers dell’originale, perché con questo termine si designava fino alla fine del XII secolo la forma poetica poi più comunemente conosciuta come canso. Beltrami traduce con “versus”, che è il genere poetico paraliturgico medio-latino da cui il vers provenzale etimologicamente deriva, per il fatto che la canzone di Guglielmo ha probabilmente un valore dissacrante nei confronti della poesia religiosa.
La penultima cobla non è mantenuta da tutti gli editori. In effetti non aggiunge molto al testo.
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“Mentre tutto cade”. Andrea Caterini e Andrea Di Consoli raccontano una poesia italiana contemporanea. Con Dario Bellezza nel “caos miserabile” della vita
La distruzione è l’unico movimento dell’eterno. Prendere lucciole per lanterne non serve a niente, s’inganna solo se stessi. Meglio, molto meglio inghiottire i bocconi amari, ascoltare le folli sirene decadute nel mare grondante del sangue stinto di feroci umani, cantare la trista canzone dei posseduti dalle maternità senza parto possibile, che coltivano l’angoscia come prezzemolo nel loro privato vaso privilegiato, dove l’orina monta le scale della pigrizia, travasa, scivola piano verso il letto profanato come un sudario dalla sporcizia dei corpi, dal seme seccamente sprecato nel desolato amore,
ricovero degli animosi non cresciuti, rimasti eternamente bambini, ostilmente amici delle loro madri senza incesto, a piangere la loro equivoca sterilità, il loro coraggio degradato a passare per diversi, nel caos miserabile dell’ingiusta totalità.
Dario Bellezza
da Invettive e licenze, Garzanti, 1971
*
Bisogna pensare all’impatto che ebbe un poeta come Dario Bellezza al suo esordio. Non soltanto perché quel suo primo libro, Invettive e licenze, fu battezzato da Pier Paolo Pasolini, che già lo annunciava (con una lungimirante intuizione critica) come il miglior poeta della nuova generazione, quella dei nati negli anni Quaranta. La questione è un’altra e più rilevante. Era il principio degli anni Settanta, e l’egemonia culturale era quella della neoavanguardia. Lo stesso Pasolini si era opposto a quel gruppo, scrivendo feroci articoli e saggi. In Empirismo eretico sentenzierà: «le avanguardie di oggi conducono la loro azione antilinguistica da una base non più letteraria, ma linguistica: non usano gli strumenti sovvertitori della letteratura per sconvolgere e demistificare la lingua: ma si pongono in un punto linguistico zero per ridurre a zero la lingua, e quindi i valori. La loro non è una protesta contro la tradizione ma contro il Significato». Il contesto, anche culturale, in cui appariva Bellezza era evidentemente ideologizzato. Per questa ragione Invettive e licenze rappresentò prima di tutto una possibilità nuova per la poesia italiana, una poesia che rischiava di restare impigliata nel suo canto funebre. Quella possibilità era soprattutto la riscoperta di una lingua avulsa da qualsiasi legame con un impegno politico, e meno che mai costruita nell’asettico laboratorio del significante. La lingua di Bellezza si presentava come un corpo nudo – la carne sporca per una notte di sesso o più spesso di masturbazione –; Bellezza stesso era la sua lingua: un «Amleto» che smaschera la morta coscienza della borghesia. Ma non era, Bellezza, un nuovo Pasolini, con il suo “corpo gettato nella ressa” per il sogno di ritorno a un mondo contadino e arcaico e libero dal “consumo” e quindi con una sottesa volontà pedagogica, che poi significa una volontà a voler essere padre, anche padre di una Nazione. Bellezza fu invece eternamente figlio e cosciente di non poter essere altro, per questo parente, ma un parente profondamente italiano, di Baudelaire e Rimbaud (fuori però da ogni banale maledettismo – e si legga l’importante monografia che ha scritto di recente Colasanti, Dario il grande, per comprendere il valore reale di questo poeta). Bellezza aveva già accettato la distruzione, e nell’accettazione giocava col suo narcisismo sfrontato e ribelle. Ma è in quella consapevolezza della distruzione che cerca il suo canto – un canto sempre disincantato, perché già conscio che sia inutile illudersi, «prendere lucciole per lanterne». Eppure, in quella distruzione, Bellezza sente che è possibile vivere; vivere eternamente in quello spazio di immaginazione e distruzione che è la lingua della poesia. Che in quella distruzione esistono e appunto vivono creature che non possono crescere, dannate alla loro sterilità, in cui il seme è pura e stanca dissipazione. Creature che sono figli orfani e madri «senza parto possibile» – e madri impossibili, a cui chiedeva ferocemente e disperatamente amore, Bellezza ha cercato per tutta la vita (basti immaginare il rapporto esasperato che ebbe con Elsa Morante, e quello poi successivo, meno impetuoso, con Anna Maria Ortese). Poi giunse la malattia, l’AIDS, con la quale convisse per nove anni, fino alla morte nel 1996. Nella raccolta del ’94, L’avversario, in una poesia scriveva: «Autobiografia solenne […] non morire, rispetta/ il mio gioco d’infinito». Questo per dire quanto per Bellezza la poesia sia stata, nella consapevolezza della distruzione, una vita possibile – la sola possibilità di salvare la vita.
Andrea Caterini
*
La poesia di Dario Bellezza è figlia di Leopardi e di Rimbaud, ma anche di Catullo e di Saffo. I due poli tematici entro cui si muove sono l’erotismo e la morte. È una poesia ontologicamente “giovane”, romantica, di grande energia vitale, ma anche di angoscia e di terrore per l’ineluttabile. Immagini sublimi s’intrecciano a immagini “basse”, da “ragazzi di vita”. Raffinatezze icastiche si amalgamano a cronachismi diretti, maledetti. Dario Bellezza è l’espressione massima, insieme a Sandro Penna, della “flânerie” romana. Ma mentre Penna scriveva per sottrazioni e limature, Bellezza scriveva per accumulo, non disdegnando moti “impoetici” come lo sfogo, l’invettiva, il lamento, la confessione immediata, il diarismo. Questo scarso controllo sui versi ha reso la sua figura massimamente amabile, poiché scoperta, contaminata, fraterna in quanto discontinua e claudicante. Bellezza non superò mai l’assedio di eros e thanatos, e fino alla fine fu agito da queste due nevrosi, che danno una sostanziale unità tematica e stilistica alla sua opera. L’aspetto più dirompente della poesia di Bellezza, che si diffuse rapidamente a partire dai primissimi anni ’70 del secolo scorso, fu l’esibizionismo, talvolta provocatorio, dell’io, uno scrivere confessionale a partire dalle proprie vicende private che fu una salvifica boccata d’ossigeno per una poesia che in quegli anni tendeva a rimuovere l’io e a trovare forme di poesia più oggettive, scientifiche, ideologiche. Fu la parola “io” la rivoluzione di Bellezza. Nel mentre in ogni dove infuriavano lotte e terrorismi politici, Bellezza coltivava l’ossessione per la morte e il movimento interiore della distruzione, ed esibiva – con stati d’animo alterni: rabbia, dolore, estasi, delusione, ecc. – un desiderio erotico totalizzante, ora in direzione sublime, ora in direzione “bassa”, da suburra. Si faccia caso proprio ad alcune immagini di questa poesia:«l’orina monta le scale della pigrizia»; «dalla sporcizia dei corpi, dal seme / seccamente sprecato nel desolato amore». In fondo Bellezza smascherò l’ipocrisia della Neoavanguardia, perché attraverso l’esibizione di sé – e richiamando in servizio permanente, sia pure con impeto a volte adolescenziale eros e thanatos – mostrò tutti i limiti di una poesia che nel mentre demoliva il sentimentalismo della poesia ermetica si autocensurava sentimentalmente, condannandosi all’aridità o, nella migliore delle ipotesi, a una durezza dissacrante e demolitoria, censoria e autocensoria. Con Bellezza siamo nel “caos miserabile” della vita, in un vitalismo bastonato, ferito, frustrato, pornografico e mistico, pieno di desideri e cadute, di estasi erotiche e di angosce devastanti. Ma siamo anche in una poesia romantica, finanche “puerile”, ma sempre coraggiosamente risucchiata nel tragico, che espresse con versi tra i più commoventi e solenni della sua generazione. È vero sì che fu anche poeta di moine e di umoralità mal governate, ma la sua poesia rimase coerentemente fedele a una vocazione poetica confessionale e diretta, e a un’idea di ispirazione tutta ottocentesca, di poeta rapito da sentimenti tumultuosi per eccesso di disponibilità verso la “vita bassa”, i corpi, l’amore, a cui si esponeva senza difese. Un poeta eternamente giovane, Bellezza, che avrebbe trovato indecente invecchiare, e che morì guardando fino in fondo negli occhi i due miti (le due nevrosi) che segnarono interamente la sua leggendaria e indifesa esistenza: la morte e l’erotismo.
Andrea Di Consoli
*In copertina: Dario Bellezza (1944-1996) in un ritratto fotografico di Dino Ignani
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Ivan Pozzoni: La Rivoluzione della Poesia Contemporanea attraverso "Selezione di Testi"
Un viaggio nei meandri della società e dell'anima attraverso la poesia dissacrante di Ivan Pozzoni, maestro del NeoN-avanguardismo.
Un viaggio nei meandri della società e dell’anima attraverso la poesia dissacrante di Ivan Pozzoni, maestro del NeoN-avanguardismo. Ivan Pozzoni, uno dei maggiori esponenti della NeoN-avanguardia italiana, ritorna sulla scena poetica con la sua raccolta “Selezione di Testi”. Dopo sei anni di ritiro accademico, il poeta, filosofo e studioso monzese (nato nel 1976), offre un’opera che mescola…
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A Pontelagoscuro si è conclusa la prima edizione del nuovo corso di Totem Art Festival, contesto virtuoso in cui il teatro si fa «strumento di evoluzione sia per lo spettatore che per l’attore».
Se la questione delle barriere economiche (American First di Trump) e patriottiche (l’Ungheria di Orban) è ormai tornata a essere assoluta protagonista nel dibattito pubblico e politico internazionale, il rapporto dell’arte con il territorio promosso da Teatro Nucleo suggerisce una possibile prospettiva ostinata e contraria e, con il Totem Art Festival, prova a sublimare nell’esperienza estetica un mondo senza barriere. Un mondo nel quale il teatro rappresenta un autentico linguaggio universale e, ribaltato il pessimismo pirandelliano, chiunque ha uguali diritti di cittadinanza e nessuno è clandestino.
Dopo cinque edizioni sostanzialmente riservate alle location del Teatro Julio Cortázar e del Parco Solomoni, il Totem si apre, infatti, alla contaminazione di ambienti di vita quotidiana per agirvi direttamente dall’interno, dalla Piazza Buozzi al cortile del Centro Civico, dalla casa priva di Carla (per sole donne) alle scuole Carmine della Sala (primaria) e Braghini Rossetti (dell’infanzia).
L’orizzonte dell’esperienza artistica e antropologica dei due giorni cui abbiamo assistito è quello emotivo e poetico di un’arte che prova a organizzare il vuoto (di risorse, di senso comunitario, di visione politica), che evita – per esempio – di indagarsi quale manifestazione sintomatica dell’estro fantasmatico di un artista e, così facendo, cerca di sfuggire a ogni compromesso riduzionista dell’atto spettacolare a oggetto di consumo per, quindi, riaffermare il perturbante legame che intreccia etica ed estetica – dimostrato da diversi progetti pedagogici, d’intrattenimento e di formazione e dall’aver eretto il contesto en plein air (tale può essere considerato anche lo spazio aperto del Teatro Cortázar) a luogo prioritario nel quale attuare il proprio desiderio di autenticità condivisa con il pubblico.
Non è più la tensione all’avanguardia o un anelito rivoluzionario a muovere la direttrice artistica Natasha Czertok, la cui intenzione appare muoversi in uno splendido ossimoro, la provocazione degli interessi pubblici nel privato. La Czertok, infatti, rivendica con orgogliosa lucidità le proprie radici nel Terzo Teatro, di chi «vive ai margini, spesso fuori o alla periferia dei centri e delle capitali della cultura» (Manifesto del Terzo Teatro, Eugenio Barba) e, allo stesso tempo, si pone in curiosa attesa e ascolto di ogni possibile germe di tensione e rinnovamento, di ricerca di un’arte performativa concepita quale momento di incontro con una precisa comunità storico-sociale, quella di Pontelagoscuro, scampolo di confine tra Emilia e Veneto, terra non lontana dalla Lombardia, nonché ambiente affine – almeno idealmente dopo le migrazioni degli anni ’50 – alle Marche, dunque stabile perché radicata, ma anche hic et nunc perché di passaggio e attraversamento.
Tre giorni di eventi, tra laboratori, performance urbane, spettacoli di circo, danza e teatro. E poi, una mostra fotografica (Oggi so di Francesca Marra), «giochi antichi al giardino della scuola dell’infanzia Braghini Rossetti», un mercatino in piazza, un «progetto di poster art ispirato agli spettacoli dell’edizione 2018». Se, di certo, non bastano i numeri a sintetizzare la portata dell’ambizioso tentativo operato da Teatro Nucleo di «attivare» una trasformazione del e nel borgo di Pontelagoscuro, altrettanto sicuramente (i numeri) rendono l’idea dello sforzo messo in atto dalla «compagnia di origine argentina che da più di 40 anni opera sul territorio estense» (fondata nel 1974 a Buenos Aires da Horacio Czertok e Cora Herrendorf, nel 1978 venne trasferita a Ferrara in seguito alla repressione di Videla) e della sua strenua volontà di crescita in stretta sinergia con le realtà associative locali (Comitato Vivere Insieme, Pro Loco, Biblioteca Bassani, Istituto Comprensivo Cosmè Tura, Cooperativa Il Germoglio, Associazione Un bel dì).
Sin con Salvatore Sciancalepore e Rocco Suma, nostro spettacolo di esordio al Totem Art, rappresenta splendidamente la portata narrativa del tango. Accompagnati da musiche più o meno celebri del genere (Por una cabeza di Carlos Gardel e Alfredo Le Pera, Tango to Evora di Loreena McKennitt, Misterienzo di Electrocutango), i due interpreti maschili cui Mario Coccetti affida la coreografia riescono a dissimulare con realismo la complessa verità di una relazione che, nata infuocata, va – tra passione e delusione, tra amore e freddezza – lentamente spegnendosi (nonostante alcuni passaggi risultino didascalici, sono opportunamente compensati da sfumature più ironiche).
È seguito, al cortile del Centro Civico, Shame in Italy, diritti? No, grazie, performance di Simona Argentieri ispirata «agli scandali nei settori tessile e calzaturiero che in Asia, Est Europa e nelle nostre regioni da nord a sud coinvolgono milioni di lavoratori, a cui sono negate dignità professionale e condizioni minime di sicurezza». Vestiti ammassati come rifiuti «da idolatrare a totem simbolico» e semplici movimenti coreografici se ne restituiscono l’idea di fondo, ossia quella del rischio, della standardizzazione, della miseria cui intere generazioni (sia di lavoratori, sia di cittadini) sono state consegnate da un’ansia di consumo tanto propria, quanto indotta, allo stesso solo in nuce lasciano apparire i contorni di una possibile soluzione (il riciclo differenziato).
Chiude questa prima giornata, all’interno dello stupefacente Teatro Cortázar, lo spettacolo Digito ergo sum della compagnia Gandomi-Lorenzetti, «atto unico tragicomico, nato dalla necessità di sensibilizzare il pubblico al tema dell’identità e delle dinamiche relazionali nell’epoca digitale», realizzato grazie al Premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzaro (BO).
Scelto «grazie all’intenso lavoro della giuria composta da Teatro Nucleo, Manuela Rossetti (regista e storica del teatro), dal collettivo Altre Velocità di Bologna e dalla Giuria dei ragazzi composta da due classi delle scuole medie dell’Istituto Comprensivo Comsè Tura» (Selezione call Totem Arti Festival), lo spettacolo soffre tremendamente un’interpretazione sembrata, in realtà, arrangiata e un testo troppo piegato sul facile sarcasmo nei confronti di un fenomeno, la rivoluzione digitale, nei confronti del quale sarebbe opportuna ben altra analisi per offrirsi credibile.
La nostra ultima giornata ha visto in scena un ensemble misto di «professionisti di teatro, educatori esperti in ambito teatrale e persone con disabilità congenita fisica e cognitiva» con Il corpo traduce. Lodevole per la caratura disciplinante di sensibilità complesse da strutturare all’interno di una coreografia rigorosa come quella realizzata dal Gruppo Teatro Danza Fragile, siamo rimasti increduli dall’aver assistito a un allestimento declinato sull’occultamento della sensibilità dietro l’apparente normalità scenica in cui lo spettacolo si disvela. Una scomparsa che, se dal un lato depriva ingenuamente l’arte della propria connotazione espressiva, dall’altro tradisce l’assunzione di un anacronistico e pericoloso paradigma di integrazione e non di inclusione. Ossia di un’ottica normativa eterodiretta e, di conseguenza, incapace di sostenere l’idea che con la e nella disabilità possano affermarsi creativamente le differenze delle singole individualità, modalità esistenziali irriducibili a ogni astratto modello di appartenenza a categorie di abilità o disabilità. Il corpo traduce contraddice non solo le proprie nobili intenzioni nel fiume di parole, video e didascalie in cui si presenta, ma anche negando la possibilità che ogni persona possa contribuire a valorizzare e valorizzarsi attraverso le relazioni artistiche, sociali e di tutti i giorni e, quindi, di essere portatrice di una propria connaturata e originale dignità.
A far calare il sipario su questa sesta edizione del Totem Art Festival, Dialoghi con Trilussa di Teatro Potlach, sontuosa prova d’attrice di una Daniela Regnoli in stato di grazia nel gestire il corpo, la voce e lo spazio. Spettacolo in romanesco, Dialoghi con Trilussa ha convinto, in modo particolare, per la capacità di utilizzare la poesia tragicomica, satirica e dissacrante del maestro Trilussa per sbeffeggiare i potenti di un tempo (in taluni aspetti non così tanto diversi da quelli di oggi), oscillando tra ironia e malinconia, tra amore e tristezza con splendido equilibrio e ritmo sostenuto.
Provando a fare un bilancio dell’esperienza, rispetto all’imponenza delle premesse, non ogni singolo evento (almeno delle giornate di sabato e domenica) ha suonato all’unisono con la condivisibile impostazione di «individuare lavori che […] aiutassero a porre domande sul tema delle relazioni e ad approfondire la nostra indagine in tal senso».
Soprattutto il processo di «coinvolgimento del territorio […] attraverso la selezione degli artisti […] tramite la call Totem Arti Festival 2018» sembra ancora da affinare. Tuttavia l’impressione è che il complessivo progetto di «rigenerazione urbana, dell’apertura alla bellezza, del diritto/dovere alla cultura, della articolazione di una proposta culturale partecipata, in un’ottica di maggior coinvolgimento degli abitanti del territorio non solo per quanto concerne la fruizione culturale, ma anche in termini di audience engagement» non risulti inficiato dall’uscita dalle confortevoli braccia delle location abituali; e che tanto meno lo sia la sua audace proposta di «una partecipazione pratica della comunità alla progettazione e realizzazione di eventi/momenti socio-culturali capaci di significare, modificare e, talvolta, migliorare il contesto urbano in cui si agisce». Nella virtuosa convinzione che un’arte scevra delle proprie stesse sovrastrutture e grotowskianamente povera sia effettivamente in grado di provocare positivamente il rapporto dei cittadini col proprio ecosistema.
Dialoghi con Trilussa. Foto Di Giulia Paratelli
Il corpo traduce. Foto Di Daniele Mantovani
Gli eventi sono andati in scena all’interno di Totem Art Festival location varie, Pontelagoscuro 19, 24-25-26-27 maggio
Tutti i giorni INTERVENTI CREATIVI a cura di Silvia Meneghini e della classe I F della scuola media Ferruccio Mazza di Barco
dalle ore 19 alle ore 23 Teatro Julio Cortázar OGGI SO mostra fotografica di Francesca Marra
sabato 26 maggio IL BAULE IN PIAZZA Mercatino in collaborazione con la Proloco
ore 18:00 Giardino della Scuola Braghini Rossetti SIN Teatro fisico e danza contemporanea coreografia Mario Coccetti con Salvatore Sciancalepore e Rocco Suma produzione Associazione Culturale Cinqueminuti con il sostegno di De Micheli Festival e Teatro Due Mondi Compagnia Progetto S / CINQUEMINUTI – Reggio Emilia Selezione call Totem Arti Festival
ore 20:00 Cortile Centro Civico Pontelagoscuro SHAME IN ITALY, DIRITTI? NO, GRAZIE performance danza urbana di Simona Argentieri produzione Babel Crew
ore 21:30 Teatro Cortazar DIGITO ERGO SUM di e con Ulduz Ashraf Gandomi e Cecilia Lorenzetti voce Fabrizio Carbone regia Alessandra Tomassini aiuto regia Fabrizio Carbone Marta Sappa adattamento drammaturgico Camilla Mattiuzzo movimenti di scena Daniela Mariani sound designer Marianna Murgia lighting designer e locandina Daniela Gullo costumi Jone Filippi Elena Sueri video proiezioni Aras Ashraf Gandomi tecnico audio Fabio Vassallo progetto realizzato grazie al Premio Giovani Talenti Creativi 2016 del Comune di San Lazzaro (BO) Selezione call Totem Arti Festival
domenica 27 maggio IL BAULE IN PIAZZA Mercatino in collaborazione con la Proloco
ore 15:00 Wunderkammer BICICLETTATA COLLETTIVA in collaborazione con Fiab e con animazioni a cura di Andrea Zerbin
ore 17:00 Teatro Cortázar IL CORPO TRADUCE regia Cinzia Cervi aiuto regia Elena Bonfa’, Beatrice Ferrari, Adele Gazzotti con Chiara Atti, Giulia Barban, Francesco Chierici, Marco Chierici, Matteo Fusi, Massimo Peroli, Taryn Soriani e con Cinzia Cervi, Beatrice Ferrari, Adele Gazzotti, Chiara Scaglianti voce Sergio Fortini video Beatrice Ferrari testi di Fragile Teatro Danza
ore 21:30 Teatro Cortázar DIALOGHI CON TRILUSSA di Teatro Potlach con Daniela Regnoli regia Pino Di Buduo
Estetica dell’apertura / Totem Art Festival A Pontelagoscuro si è conclusa la prima edizione del nuovo corso di Totem Art Festival, contesto virtuoso in cui il teatro si fa «strumento di evoluzione sia per lo spettatore che per l’attore».
#Adele Gazzotti#Alessandra Tomassini#Associazione Culturale Cinqueminuti#Beatrice Ferrari#Cecilia Lorenzetti#Chiara Atti#Chiara Scaglianti#Cinzia Cervi#Cora Herrendorf#Daniela Regnoli#Elena Bonfa&039;#Fragile Teatro Danza#Francesca Marra#Francesco Chierici#Giulia Barban#Horacio Czertok#Julio Cortázar#Marco Chierici#Mario Coccetti#Massimo Peroli#Matteo Fusi#Natasha Czertok#Pino Di Buduo#Premio Giovani Talenti Creativi#Recensione DIALOGHI CON TRILUSSA#Recensione IL CORPO TRADUCE#Recensione SHAME IN ITALY#Recensione SIN#Rocco Suma#Salvatore Sciancalepore
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Lo spleen di Bari raccontato da Charles, di Alessandro Tota
Una nuova narrazione per una nuova Bari “Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere vorresti che l’autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira”. (J. D. Salinger)
Charles – breve volume di Alessandro Tota, autore barese residente a Parigi – ripercorre i versi e la personalità del presimbolista francese, calati nel contesto di quella che si presuppone essere stata la giovinezza dell’autore. Charles Baudelaire – il dandy, il poeta – catapultato nella Bari contemporanea, condivide il Tavernello e il fumo da quattro soldi sugli scalini delle Poste di via Nicolai e va a guardare il mare – perché, si sa che se Parigi avesse avuto il mare… – per lasciarsi ispirare dai frangiflutti squadrati. Charles racconta la familiarità del lettore con il letterato e dà un segnale, fin dalla scelta del titolo, della demitizzazione della letteratura, sabotando il piedistallo che isola l’artista dal pubblico, privando quest’ultimo del suo naturale diritto alla poesia e alla bellezza.
Per questo racconto, Tota si serve di un tratto dissacrante – erede del più feroce fumetto satirico francese – e di personaggi che interagiscono in sequenze regolari, in cui l’espressione si alterna alla parola e costituisce la robusta vena comica dell’opera. La decadenza del personaggio e dell’ambiente è, però, stemperata dall’uso dell’acquerello che la bilancia con una lirica contemplazione della natura, così come nella poesia del vero Charles Baudelaire.
Una nuova narrazione per una nuova Bari
Claudio, Carlotta, Giulio, Cesare e Nicola sono un gruppo di debosciati che trascorrono le loro giornate a contemplare, nella poesia di Baudelaire, la trasfigurazione lirica del loro cazzeggio. Allo stesso modo, il vecchio dandy sembra trovarsi a suo agio nel disagio punk, dove porta a compimento la sua vocazione per l’isolamento e l’autodistruzione. Risulta estremamente gustoso il modo in cui Tota dona sfumature umane a Baudelaire, pronto a rinnegare il suo ruolo di vate per amore di un’indigena e a ironizzare sulla propria figura di poeta maledetto, calato in una Bari riconoscibile, pur senza elementi di folklore.
Charles di Alessandro Tota piacerà molto ai lettori che stanno vivendo in questi anni il tentativo di internazionalizzazione del capoluogo pugliese. I millenials sono i protagonisti e primi fruitori del fermento culturale che sta iniziando pigramente a mettere da parte l’idea di un Sud isolato dal resto del mondo e che si è posto il difficile obiettivo di adeguarsi al trend europeo, senza abbandonare le proprie tradizioni. Charles è una delle manifestazioni di questo cambiamento, un prodotto ironico e colto, in grado di rispecchiare il desiderio barese di una nuova narrazione, libera dalla cifra meridionalista.
Pubblicato il 15 dicembre 2017 su www.borderline24.com
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VOLTAIRE DA CORTIGIANO A PATRIARCA
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VOLTAIRE DA CORTIGIANO A PATRIARCA
“Vivi nascosto”, Voltaire interpretò il precetto epicureo a modo suo. Trascorse gli ultimi ventitré anni della sua vita lontano dai salotti mondani e soprattutto dalle corti, al riparo della longa manus della censura e della repressione, ma non rinunciò mai ad essere al centro della vita culturale del suo tempo. Si attribuì il titolo onorifico di primo albergatore d’Europa, fece delle sue residenze un luogo di pellegrinaggio per spiriti liberi, aspiranti poeti, avventurieri, dotti e semplici curiosi, impartendo con la sua tagliente ironia lezioni di tolleranza, razionalità, arguzia e gioia di vivere a centinaia di ospiti. Usò i suoi rifugi ai piedi delle alpi non per nascondersi e sottrarsi così agli affanni del mondo, ma per mettersi fuori dalla portata dei potenti e poterli impunemente deridere, provocare ed esecrare, lanciando il suo grido di battaglia: “écrasez l’infâme!”, schiacciate l’infame fanatismo, scuotendo dalle fondamenta l’Antico Regime con opere come Candido, il Trattato sulla tolleranza ed il Dizionario filosofico.
Quando contemplava lo splendore della natura racchiusa entro i confini delle sue proprietà nei pressi del lago Lemano, opportunamente distribuite tra il territorio ginevrino e quello francese, si compiaceva di aver dimenticato i re, le corti, la stupidità degli uomini e di aver scoperto il piacere di una vita patriarcale, un dono di Dio capace di alleviare il peso della vecchiaia. La celebre esortazione a coltivare il proprio giardino, posta a conclusione del Candido, non conteneva soltanto un potente antidoto al veleno degli ideologismi e della fatalistica rassegnazione ai disegni imperscrutabili della provvidenza, ma anche un compiaciuto riferimento autobiografico. L’approssimarsi della primavera moltiplicava le energie dell’anziano filosofo che si poneva, con un fervore degno dei fondatori di Cartagine, alla testa di legioni di giardinieri e di braccianti, ordinando di tracciare ampi viali alberati, di seminare aiuole piene di fiori per rendere i suoi giardini una gioia per gli occhi e per la ragione, di dissodare terreni per metterli a frutto e produrre così prosperità. Amava ripetere: “Preferisco rampognare i miei giardinieri piuttosto che fare la corte ai re.”
A ricordargli le meschinità ed i rancori del passato non vi erano che un’aquila in gabbia ed una scimmia dispettosa dai denti aguzzi di nome Luc. Entrambi gli animali evocavano il re di Prussia. L’aquila era l’animale araldico degli Hohenzollern ed il filosofo si divertiva ad intrattenere i suoi numerosi ospiti suggerendo somiglianze, nel becco e negli artigli, con qualcun altro di sua conoscenza, di cui per prudenza si rifiutava di pronunciare il nome. Quanto alla scimmia, portava lo stesso nome con cui Voltaire nella cerchia dei suoi intimi era solito chiamare Federico di Prussia. A chi leggendo le sue lettere gli rimproverava la fastidiosa ambiguità tra il re e la scimmia ogni volta che compariva il nome Luc, ribatteva imperturbabile: “Quando Luc indica Federico bisogna leggere all’inverso per capirmi.”.
La decisione di smettere i panni del cortigiano per indossare quelli del patriarca, orgogliosamente appartato nei suoi possedimenti, finalmente libero di disporre del proprio tempo e della propria penna dissacrante, non fu repentina, ma travagliata e sofferta.
Dopo aver abbandonato precipitosamente la corte di Federico II, che da sovrano illuminato, da Salomone del nord, si era tramutato in un despota meschino e capriccioso, il primo pensiero di Voltaire fu di mettersi sotto la protezione di Luigi XV e di riprendere il suo posto a Versailles. A rafforzare tale proposito contribuì la barbara accoglienza riservatagli nel giugno del 1753 da Francoforte, libera città imperiale, fuori dalla giurisdizione di Berlino, ma tutt’altro che immune dalla sua influenza politica. Giunto in città sulla sua elegante carrozza stracarica di bauli e valige, prese alloggio presso la locanda del Leon d’oro, dando disposizione di preparare i cavalli per l’indomani. Al mattino, poco prima della partenza, si presentarono alla locanda un paio di funzionari prussiani, spalleggiati dalla gendarmeria locale, intimandogli senza troppi complimenti di restituire immediatamente alcuni doni ricevuti da Federico: la croce dell’ordine al merito, la chiave d’oro da ciambellano di corte, gli scritti del sovrano e soprattutto un volumetto di poesie. Quei doni oltre ad essere un segno di distinzione sociale, rappresentavano i pegni di una amicizia intima, profonda ed appassionata che risaliva a diciassette anni prima.
Nell’agosto del 1736, il ventiquattrenne Federico, allora principe reale di Prussia, aveva trovato il coraggio di esprimere in una lettera la propria sconfinata ammirazione per un uomo così grande da padroneggiare poesia, filosofia e scienza, da essere per l’umanità intera un maestro di pensiero, azione e sensibilità poetica. Lusingato da tante entusiastiche lodi, il filosofo aveva replicato definendo il giovane erede al trono “…un principe che pensa da uomo, un principe filosofo che renderà felici gli uomini.”. Lo scambio di lettere era proseguito impetuoso negli anni successivi. Le reciproche attestazioni di stima e di affetto si erano moltiplicate, intrecciandosi con dotte dissertazioni sui temi più disparati, spaziando dalla letteratura alla politica, dalla scienza alla storia, dalla metafisica alla poesia. Con l’accrescersi dell’intimità e della confidenza, il desiderio di Federico di illuminare la propria corte con la presenza del suo idolo si era fatto via via più imperioso. Gli inviti dapprima timidi erano diventati insistenti, finché nel luglio del 1750, dopo tanti cortesi rifiuti, Voltaire aveva finalmente deciso di acconsentire, non prima però di aver ottenuto rassicurazioni in merito ad un generoso contributo reale per le spese di viaggio e di mantenimento. Era giunto a Berlino ancora scosso dalla recente scomparsa della marchesa Émilie du Châtelet con cui aveva condiviso anni di appassionata complicità, frustrato dal clima di indifferenza con cui erano state accolte a Parigi le sue ultime fatiche teatrali ed umiliato dalla malcelata ostilità nei suoi confronti di Madame de Pompadour, l’intrigante e potentissima favorita di Lugi XV. Ben presto però le premurose attenzioni di Federico avevano lenito tutte le sue ferite, aiutandolo a ritrovare all’età di cinquantasei anni, tra feste, parate, caroselli, concerti, rappresentazioni teatrali, ricevimenti ed argute conversazioni filosofiche, quella gioia di vivere che credeva di aver perduto per sempre. La nomina a ciambellano di corte, corredata da una ricca pensione, gli aveva fornito la momentanea certezza di aver trovato un porto sicuro in cui coltivare i propri studi, sotto la protezione di un amico sincero che aveva le inestimabili qualità di un re filosofo. Oltre alla sua borsa anche il suo ego era stato gratificato dalla consapevolezza di essere la stella più luminosa della corte, mettendo in ombra gli altri dotti accorsi prima di lui a Berlino, attirati dalla munificenza di Federico. Alcuni, di carattere mite e conciliante, come Francesco Algarotti, il brillante divulgatore veneziano del newtonismo presso le dame del bel mondo, si erano rassegnati ad una posizione defilata, altri, rosi dall’invidia, come il fisico Pierre-Louis Moreau de Maupertuis, presidente dell’accademia prussiana delle scienze, si erano decisi a dare battaglia per contrastare un primato che consideravano immeritato, nonché pericoloso per i propri privilegi. Tuttavia ad intaccare irrimediabilmente il credito di cui Voltaire godeva presso il sovrano non erano state né le invidie dei dotti, né i risentimenti dei grandi dignitari di corte, né le trame dei principi della famiglia reale, ma la sua sfrontata avidità, che gli aveva consigliato di mettersi in società con un losco faccendiere ebreo, tal Hirsch, per la speculazione illegale su titoli di prestito dello stato sassone. Quando la spregiudicata condotta di Voltaire, a seguito di un’azione legale da lui intentata contro Hirsch, era finita sulla bocca di tutti, a Berlino come a Parigi, l’incondizionata amicizia di Federico si era tramutata prima in disprezzo e poi in gelida indifferenza. La contrizione del filosofo difronte agli sferzanti rimproveri del suo signore e la successiva riappacificazione tra i due non avevano potuto ricreare un idillio che era svanito, lasciando Voltaire ben più vulnerabile agli attacchi dei suoi tanti nemici. L’ostentata sicurezza di poter osare qualsiasi impudenza senza timore di castigo aveva lasciato il posto ad un senso di precarietà, alimentato da una frase di Federico giunta, forse non per caso, alle orecchie del filosofo: “Avrò bisogno ancora di lui tutt’al più per un anno: si spreme l’arancia e la buccia si getta via.”. Incoraggiato dall’animosità del re, Maupertuis non aveva esitato a passare all’offensiva diffondendo maldicenze. Gli era bastato sussurrare che in privato Voltaire derideva i versi sgraziati del sovrano, che aveva velleità poetiche, perché Federico si convincesse che l’uomo che aveva stimato più di ogni altro era un traditore ed un volgare approfittatore. Voltaire non era rimasto impassibile mentre Maupertuis distruggeva giorno dopo giorno il suo prestigio, aveva prontamente reagito indirizzandogli un libello anonimo in cui denunciava il suo operato dispotico come presidente dell’accademia prussiana delle scienze. Sempre in forma anonima, Federico era intervenuto nella querelle con un altro libello a difesa di Maupertuis che era stato accolto da Voltaire con una pubblica ed irresistibile canzonatura. Quando aveva scoperto che l’autore che aveva sbeffeggiato era Federico, Voltaire aveva rincarato la dose scrivendo la Diatriba del dottor Akakia medico del papa, in cui con un brio indiavolato aveva demolito la credibilità scientifica di Maupertuis e di riflesso quella dell’accademia da lui presieduta e del sovrano che la finanziava con tanta generosità. Difronte ad un libellista così abile e pungente Federico, che pure era uomo di spirito, aveva momentaneamente placato la sua ira. Dopo aver riso di gusto dei suoi sberleffi, Federico aveva chiesto a Voltaire di distruggere il manoscritto come atto di suprema riconciliazione. Il filosofo aveva acconsentito di slancio, sapendo di aver messo al sicuro in Sassonia parecchi esemplari già stampati della sua opera. In breve tempo la menzogna era stata scoperta e Federico si era visto costretto a far sequestrare le copie dell’opera dai suoi gendarmi per farle bruciare sotto le finestre di Voltaire, affinché non potesse sfuggirgli il senso dell’avvertimento. Dopo quel rogo purificatore a beneficio di Maupertuis e del buon nome della Prussia e della sua accademia, Voltaire, adducendo a pretesto la sua malferma salute, aveva a più riprese implorato il sovrano di concedergli il permesso di abbandonare la corte e di fare rientro in Francia nella speranza che le acque di Plombières potessero guarirlo. Per dare maggior forza alla sua richiesta aveva rimesso la chiave d’oro da ciambellano e la croce dell’ordine al merito al re, il quale gliele aveva fatte prontamente restituire. A nulla era valso quel gesto di riconciliazione, Voltaire aveva continuato ad implorare il permesso di togliere il disturbo. Federico esasperato aveva finito per concederglielo. Riconquistata la libertà, il filosofo era tornato a sbeffeggiare Maupertuis, facendo ben presto rimpiangere al Salomone del nord la leggerezza con cui aveva rinunciato ad avere in ostaggio la penna più velenosa d’Europa. Da questo ripensamento era scaturito l’ordine di bloccare Voltaire a Francoforte e di frugare nei suoi bagagli.
Quel 1° giugno 1753 a Francoforte, Voltaire, tremante di paura e di sdegno difronte ai rappresentanti prussiani, acconsentì, dopo ben tre svenimenti, a tutte le richieste, tranne una, quella che stava più a cuore a Federico. Non poté infatti restituire il volumetto di poesie, avendolo lasciato a Lipsia in un baule destinato ad essere spedito a Strasburgo. I funzionari prussiani reagirono buttando all’aria i suoi effetti personali ed imponendogli di non lasciare la locanda finché non fosse giunto a Francoforte il baule che conteneva il prezioso volumetto.
Gli ordini del re erano stati inequivocabili. Federico voleva recuperare ad ogni costo quelle pagine che contenevano un poema comico, intitolato Palladium, da lui composto in un latino maccheronico per prendersi gioco, imitando lo stile di Voltaire, di personalità di alto lignaggio. Se quei versi sgraziati ed irriverenti fossero stati pubblicati per vendetta da un cortigiano in collera con il suo signore, l’imbarazzo per la corona prussiana sarebbe stato enorme. Probabilmente la forma più ancora del contenuto preoccupava Federico, che ben conosceva quanto fosse tagliente il sarcasmo di Voltaire per i poeti dilettanti, soprattutto quelli che portavano sulla testa la corona regale al posto di quella d’alloro.
Per più di due settimane Voltaire, sua nipote Madame Denis, nel frattempo giunta a Francoforte, ed il suo segretario personale, Cosimo Alessandro Collini, un giovane e brillante fiorentino che aveva trovato la sua fortuna a Berlino, rimasero confinati nelle proprie stanze, interrogandosi con angoscia sul proprio destino dopo la restituzione di quei versi così contesi. Il barone Freytag, il funzionario prussiano che di fatto aveva ordinato l’arresto, si era impegnato, addirittura per iscritto, a rilasciare il filosofo ed il suo seguito non appena il Palladium fosse stato depositato nelle sue mani. Tuttavia Voltaire non dormiva sonni tranquilli, temendo tanto il temperamento collerico e vendicativo di Federico quanto la cieca obbedienza dei suoi funzionari. Per placare l’angoscia che lo opprimeva si affrettò a scrivere a Vienna invocando la protezione del sacro romano imperatore, che aveva giurisdizione su Francoforte. Da Vienna però non giunse nessuna risposta. Quel silenzio fu reso ancora più sinistro dalla lettera non troppo velatamente minacciosa inviata a Madame Denis dall’ambasciatore prussiano a Parigi, Lord Keith, in cui si ricordava quanto fossero lunghe le braccia dei re e quanto fosse utile per la salute del suo illustre zio dissuaderlo da quegli improvvisi colpi di testa che gli riuscivano bene quanto i versi.
Quando giunse il baule contenente il Palladium i timori del filosofo parvero trovare una conferma. Freytag infatti si rifiutò di aprire il baule sinché non avesse ottenuto da Berlino l’autorizzazione a farlo. Quell’ulteriore lacerante attesa infiammò l’immaginazione di Voltaire che si convinse che un sicario fosse in arrivo da Berlino con l’incarico di strangolarlo. Prese quindi la decisione di tentare una evasione con l’aiuto del fido Collini. I due scivolarono di soppiatto in una carrozza di posta, lasciando Madame Denis al Leon d’oro insieme ai bagagli. Freytag non tardò ad accorgersi della fuga e ad inviare sbirri, qualcuno persino ansioso di mettere mano alla pistola, in ogni direzione. Poco prima di mettersi in salvo oltre le porte di Francoforte, i fuggitivi furono riacciuffati e ricondotti in città, a casa di un certo Schmidt, un ricco mercante che ricopriva l’incarico di consigliere del re di Prussia. Qui Freytag ed i suoi sgherri requisirono ai prigionieri tutto ciò che di prezioso avevano con sé: denaro, gioielli, orologi, tabacchiere e persino una paio di fibbie per le scarpe incrostate di brillanti.
Voltaire temendo per la propria incolumità, improvvisò un disperato tentativo di fuga: infilò una porta rimasta socchiusa che si affacciava su di un cortile senza vie d’uscita. Trovandosi in trappola, per evitare una reazione violenta dei suoi inseguitori, non riuscì ad escogitare nulla di meglio che simulare un conato di vomito ficcandosi due dita in gola. La sua finzione fu così convincente che allarmò Collini e convinse Freytag ad ordinare il trasferimento dei prigionieri, compresa Madame Denis nel frattempo prelevata a forza dal Leon d’oro, presso una squallida locanda alla periferia della città. I gendarmi montarono la guardia con le baionette innestate davanti alle stanze dei prigionieri sinché non giunse da Berlino, dopo una settimana, l’ordine di scarcerazione a patto che Voltaire firmasse l’impegno a non serbare copia alcuna degli scritti del re di Prussia.
Voltaire restituì il poema e si affrettò a firmare di buon grado quanto richiesto, tuttavia Freytag temporeggiò ancora una paio di settimane prima di lasciarlo ripartire, forse allo scopo di non trovarsi impreparato nel caso di un eventuale contrordine dal suo sovrano, ed ebbe persino l’impudenza di presentare al filosofo, attraverso un notaio, una nota spese per la sua detenzione pari quasi all’ingente somma che gli era stata sequestrata. Tale sopruso fece infuriare a tal punto Voltaire da spingerlo a brandire una pistola contro il notaio che scappò a gambe levate a sporgere denuncia al magistrato locale. Il procedimento fu archiviato con la stessa rapidità con cui era stato aperto e Voltaire ed il suo seguito furono finalmente liberi di lasciare Francoforte, rassegnandosi di essere stati derubati dai funzionari prussiani, probabilmente all’insaputa dello stesso Federico.
Le umiliazioni subite a Francoforte dovettero imporre a Voltaire profonde riflessioni sul valore dell’indipendenza, sull’inaffidabilità della parola delle teste coronate e sulla vulnerabilità dei filosofi, ma non generarono in lui un immediato rifiuto della vita di corte. Si premurò infatti di inviare subito Madame Denis a Parigi a sondare il terreno per una rapida riconciliazione con la corona di Francia. In attesa di segnali incoraggianti da Versailles, si rifugiò in Renania presso la corte dell’elettore palatino, cercando di dimenticare i soprusi di Federico tra cene mondane, serate teatrali ed austere giornate di studio per completare gli Annali dell’impero, un compendio della storia tedesca da dedicare alla duchessa di Gotha, che lo aveva generosamente ospitato prima della spiacevole permanenza a Francoforte. A Mannheim, mentre faceva “asciugare i panni inzuppati dopo il naufragio”, ritrovò persino la sua ispirazione teatrale, iniziando la stesura della tragedia L’orfano della Cina, in cui i toni gravi e le battute di spirito si intrecciano sullo sfondo di una Cina improbabile, ma non per questo meno seducente per i suoi contemporanei, innamorati del misterioso oriente.
Voltaire non assaporò a lungo le delizie del Palatinato, nell’agosto del 1753, con l’intento di penetrare in punta di piedi nel regno di Francia, si trasferì a Strasburgo dove riallacciò i rapporti con la contessa di Lutzelbourg, un’amica di Madame de Pompadour che sperava potesse spendere qualche parola in suo favore. Mentre si prodigava, anche nella periferica Alsazia, ad intessere utili relazioni sociali, tempestava la nipote di lettere per spronarla a perorare presso i personaggi più influenti della corte la sua riabilitazione, anziché sperperare nel vortice della mondanità parigina tutto il denaro che generosamente le inviava. Nonostante i rimproveri e le esortazioni, Madame Denis non faceva che comunicargli cattive notizia. Una in particolare lo gettò nello sconforto: a Parigi circolava un libello satirico sull’avarizia del re di Prussia. Nessuno a corte dubitava che Voltaire ne fosse l’autore, perciò il suo esilio appariva più che giustificato, in nome delle buone relazione diplomatiche tra i due paesi. Il marchese d’Argenson, un vecchio compagno di collegio di Voltaire che dirigeva il ministero degli affari esteri, non mancò di osservare quanto fosse opportuno accontentare Federico su di una questione secondaria per continuare a dispiacerlo su tutto il resto.
Al cinismo ed alle maldicenze di Versailles Voltaire reagì gettandosi nello studio, sottopose i suoi scritti di storia tedesca ad una attenta revisione, avvalendosi dei dotti suggerimenti del professor Schoepflin. In ottobre, per seguire da vicino l’edizione dei suoi Annali dell’impero, ormai prossimi alla stesura definitiva, decise di trasferirsi a Colmar dove il fratello del professor Schoepflin possedeva una stamperia. Prese alloggio in una piccola casa isolata nei pressi di una cartiera a qualche chilometro da Colmar. La sua vita ritirata ed operosa fu ben presto turbata da un nuovo scandalo, destinato a rendere incolmabile la distanza che lo separava da Versailles.
Sul finire del 1753 un libraio dell’Aia, rimaneggiando goffamente un manoscritto incompleto e non revisionato di cui era entrato fortunosamente in possesso, diede alle stampe, senza alcuna autorizzazione, il Compendio di storia universale, un’opera di Voltaire risalente a tredici anni prima. I passi violenti e rudi contro la chiesa e persino contro l’istituto monarchico abbondavano, offrendo nuovi e più efficaci argomenti a tutti i detrattori di Voltaire che, per quanto si affannasse a disconoscere il testo pubblicato in Olanda ed a strepitare contro la truffa di cui era vittima, finì per irrobustire i sospetti nei suoi confronti. Incaricò un notaio di certificare, alla luce di un meticoloso confronto con il manoscritto originale in suo possesso, quanto l’edizione dell’Aia fosse infedele, lacunosa e zeppa di grossolane manipolazioni. Tornò a tempestare, senza successo, la nipote di incitamenti ad agire ai più alti livelli per ottenere un provvedimento di sequestro delle copie circolanti in Francia. Disperato, si rivolse direttamente a Madame de Pompadour implorandola di intercedere in suo favore affinché gli fosse concesso di rientrare a Versailles a reclamare la sua innocenza difronte al re. Ancora una volta non ottenne altro che un rifiuto.
Il baccano sollevato dall’edizione pirata olandese destò l’attenzione anche dei gesuiti, onnipotenti in Alsazia. Dapprima Voltaire, troppo impegnato a riconquistare il favore di Versailles, sembrò non curarsene, poi, quando apprese che appena quattro anni prima i padri gesuiti avevano celebrato sulla piazza principale di Colmar un autodafé, con tanto di rogo dell’empio Dizionario storico e critico di Pierre Bayle, si sentì quasi soffocare dall’angoscia. E non poté certo tranquillizzarlo la clemenza di cui si era dimostrato capace il vescovo-principe di Colmar, che ad un orefice, reo di aver osato reclamare una revisione degli statuti della sua corporazione, aveva graziosamente risparmiato, prima della decapitazione, il tradizionale supplizio di vedersi strappare la lingua di bocca.
Per allontanare da sé roghi, patiboli e supplizi, Voltaire decise di agire d’anticipo, scrisse ad un prelato con cui aveva stretto amicizia presso la corte di re Stanislao di Polonia pregandolo, dopo essersi dipinto, sfidando il ridicolo, come un fiero difensore dell’ordine gesuita nell’atea Berlino, di persuadere i buoni padri di Colmar a non credere alle perfide calunnie circolanti sul suo conto. La manovra sortì gli effetti sperati, tuttavia la sua soddisfazione per lo scampato pericolo svanì non appena da Parigi Madame Denis lo informò che a corte circolava la voce che il re, cedendo alle pressioni clericali, avesse dato ordine di spiare tutti i suoi movimenti alla ricerca di indizi che potessero provare il suo sommo disprezzo per la religione.
L’ipocrisia gli parve subito l’unico stratagemma per aggirare questo nuovo imponente ostacolo sulla via di Versailles. Approssimandosi la Pasqua del 1754, Voltaire a beneficio di gesuiti, bigotti e spioni reali si apprestò a mettere in scena la recita del fervente cattolico. Prima convocò un frate cappuccino a cui rese una contrita confessione, poi il giorno di Pasqua, in compagnia del suo inseparabile segretario, si recò a messa per ricevere il sacramento dell’eucaristia. Secondo il racconto di Collini, nel ricevere l’ostia Voltaire tenne bene aperti gli occhi sul prete, immaginiamo sfoggiando uno dei suoi sguardi traboccanti di sarcasmo. A ringraziamento dell’ingenua complicità in quella ipocrita farsa, il filosofo si premurò di inviare al convento dei cappuccini dodici bottiglie di buon vino ed una lombata di vitello: un piccolo prezzo per tentare di riconquistare la benevolenza di un re.
Le notizie provenienti da Colmar furono accolte a Versailles e nei salotti parigini con compiaciuti risolini per quella che fu subito definita la prima comunione di Voltaire, alla veneranda età di sessant’anni.
Da consumato uomo di teatro Voltaire certo non poteva ignorare che sul palcoscenico una volta indossati i panni di un personaggio occorre portare la recita sino in fondo. Pertanto sulla via di Plombières, dove intendeva passare le acque per ristabilire la sua salute, resa più malferma dalle tensioni degli ultimi mesi, e riabbracciare Madame Denis, con cui elaborare una nuova strategia che gli consentisse di rimettere piede a Versailles, decise di trattenersi per qualche settimana presso l’abbazia benedettina di Senones, retta da un dotto priore che godeva della sua stima. Nella ricchissima biblioteca del convento trovò finalmente un po’ di pace e di studioso raccoglimento, convinto che fosse “…un’ottima astuzia andare in casa dei nemici a provvedersi di artiglieria contro di loro.”.
L’eco del suo ritiro tra i monaci arrivò sino a Berlino, destando il divertito interesse di Federico, ansioso di sapere come fosse fatto il crocifisso che il suo ex ciambellano portava appeso al collo tra le mura conventuali. Informato di tale impertinente curiosità, Voltaire si affrettò a spedirglielo: un modo come un altro per riallacciare i rapporti, per aprire uno spiraglio. Ormai gli era chiaro che senza un benevolo gesto di Federico le porte di Versailles per lui erano destinate a rimanere sbarrate. Per ottenerlo non trascurò di continuare a coltivare l’amicizia della margravia di Bayreuth, Dorotea, sorella maggiore di Federico, che durante la sua permanenza in Prussia era stata soggiogata almeno quanto il fratello dal fascino del suo spirito mordace e della sua sensibilità poetica.
A Plombières più delle acque gli giovarono le premure e la devozione della nipote che si lasciò convincere a rinunciare alle seduzioni parigine per rimanere accanto allo zio, confortandolo, prendendosene cura, amandolo, di un amore non solo spirituale, in attesa di una riabilitazione sempre più improbabile.
Da una decina d’anni la passione e l’attrazione avevano spodestato l’affetto nel rapporto tra lo zio e la nipote, Marie Louise Mignot, rimasta precocemente vedova di Nicolas Charles Denis, un agiato funzionario del ministero della guerra. Quando l’amore per Madame du Châtelet aveva incominciato ad affievolirsi, lasciando il posto ad una tenera amicizia, il filosofo aveva trovato consolazione nella gioventù e nella sensualità della nipote. In pubblico il loro comportamento era irreprensibile, nulla poteva far sospettare legami incestuosi, tanto che Collini non poté spingersi oltre la formulazione di un vago sospetto, ma nell’intimità dell’alcova la loro complicità si tingeva di sensualità, come testimoniano le loro lettere ardenti e piccanti.
Una vita errabonda per l’Europa mal si addiceva tanto al gusto per il lusso e le comodità di Madame Denis quanto agli sforzi di un uomo anziano e dalla salute perennemente in bilico per mantenere viva la passione in una donna di vent’anni più giovane e neppure troppo incline alla fedeltà. Per quanto si trovasse alla porte del regno di Francia, abbastanza vicina a Parigi ed ai suoi pettegolezzi, Colmar, con i suoi gesuiti intriganti ed i suoi spioni, non rappresentava un rifugio sicuro. Al contrario la Svizzera, francofona, prospera, civile, immune dall’influenza gesuitica, fuori dalla giurisdizione dei sovrani che avevano condizionato tutta la sua vita, ma al tempo stesso non troppo lontana da loro, apparve a Voltaire come un territorio ideale in cui prendere dimora.
Non perse tempo, incaricò un amico di Losanna, il giurista Jacques Clavel de Brenles, di ricercare, con la più grande discrezione, una proprietà sulle sponde del lago Lemano. Questi nell’estate del 1754 gli segnalò che il castello di Allaman era stato messo in vendita. Voltaire si mostrò subito interessato all’affare, raccogliendo informazioni sui cavilli legali che avrebbero potuto creargli degli ostacoli e soprattutto mercanteggiando sul prezzo. Anche se la considerevole ricchezza accumulata nel corso dei decenni, trascorsi non idolatrando il denaro, ma considerandolo un prezioso strumento di libertà, una indispensabile protezione contro i capricci della sorte e della benevolenza dei potenti, gli garantiva la tranquillità di poter spendere qualunque cifra per conquistarsi un confortevole rifugio.
Le generose pensioni ricevute dai sovrani nel corso della sua lunga e tormentata carriera di cortigiano, così come i beni ricevuti in eredità dal padre e dal fratello, non rappresentavano che una parte del suo patrimonio. Neppure i proventi, talvolta rilevanti, delle sue molte opere teatrali, letterarie, storiche e filosofiche erano la voce principale delle sue entrate. In gioventù, promuovendo personalmente presso l’aristocrazia inglese una sottoscrizione per la pubblicazione di una magnifica edizione di un suo poema, dedicato alle gesta di Enrico IV, aveva ricavato un consistente profitto. Tuttavia, in un secolo in cui i diritti d’autore erano assai poco tutelati, Voltaire non sempre era riuscito così bene a convertire in moneta sonante i prodotti della sua penna. A sua insaputa circolavano per l’Europa decine di edizioni pirata delle sue opere più rinomate che mutilavano e stravolgevano il suo pensiero, senza fruttargli neppure un centesimo. Ed anche gli stampatori onesti non lasciavano agli autori altro che le briciole.
La maggior parte della fortuna di Voltaire era costituita ed alimentata dalle rendite finanziarie. Il giovanile esilio londinese aveva acuito il suo fiuto per gli affari e lo aveva incoraggiato a comportarsi con il proprio denaro come uno spericolato speculatore. Al suo rientro in Francia nel 1729 aveva incominciato a riempirsi d’oro le tasche mettendosi in società con alcuni compari per acquistare tutti i biglietti di una lotteria maldestramente organizzata dal controllore delle Finanze Lepelletier. Immancabilmente aveva incassato una quota di tutti i premi messi in palio, facendo saltare il banco, oltreché i nervi dell’ingenuo controllore. Dopo aver messo a segno questo primo colpaccio, non si era più fermato. Aveva investito nel commercio di grano, caffè, cotone, nella fabbricazione della carta a partire dalla paglia, nel noleggio di navi da carico per le Indie occidentali, nella spedizione organizzata dal re di Spagna per reprimere i riottosi gesuiti del Paraguay e persino nella lucrosissima tratta degli schiavi dall’Africa verso il nuovo mondo. Il filosofo della tolleranza ignorava la finanza etica, non andava troppo per il sottile quando si trattava di tutelare la sua indipendenza economica ed il proprio agiato tenore di vita. Se ragionava pensando all’intera umanità considerava la guerra una atroce assurdità, almeno quanto la schiavitù, ma era subito pronto a dimenticarsene non appena vi intravvedeva un allettante tornaconto. La grande disponibilità di denaro liquido, le ottime relazione con personaggi influenti a corte e nel governo e l’amicizia con la famiglia di finanzieri Pâris-Duvernet gli avevano consentito addirittura l’accesso alla ristretta cerchia degli appaltatori dell’esercito. Rifornire le truppe di uniformi, vettovaglie e foraggi era un ottimo affare che poteva fruttare anche il cento per cento del capitale investito.
Pur subendo temporanei rovesci, a causa di naufragi piuttosto che del fallimento di qualche banchiere con una propensione al rischio ancora più pronunciata della sua, Voltaire nel corso degli anni aveva finito per ampliare e consolidare la sua ricchezza, applicando meticolosamente la regola aurea di diversificare l’impiego del proprio denaro. In ossequio a tale regola, il filosofo non disdegnava di offrire prestiti ai gran signori del bel mondo. Gli aristocratici alla disperata ricerca di contanti, per placare amanti incontentabili, per illudersi di rifarsi delle perdite subite al tavolo da gioco, per continuare a frequentare la corte mantenendo uno stile di vita fondato sull’ostentazione del lusso, abbondavano e Voltaire non aveva certo scrupoli a trarne vantaggio. Nel lungo elenco dei suoi debitori comparivano i nomi altisonanti di principi, duchi, conti e marchesi con cui sapeva trattare mescolando cortesia, pazienza, fermezza, tatto ed una buona dose di scaltrezza. Al duca di Württemberg che durante il suo soggiorno in Alsazia gli aveva proposto, a pagamento del debito contratto, una vasta proprietà nei pressi di Colmar aveva opposto un garbato rifiuto, dopo essersi personalmente accertato dello stato di grave abbandono in cui versavano la tenuta ed il maniero.
Ai prestiti ad interesse, che pure praticava, spesso avvalendosi di prestanome, prediligeva quelli a rendita vitalizia, ben più remunerativi, a patto ovviamente di avere una salute di ferro. Trovandosi difronte ad un uomo che appariva decrepito già a quarant’anni, dagli occhi vivissimi, dal sorriso seducente, ma con pochi denti in bocca, un volto emaciato segnato dal vaiolo ed un corpo di una magrezza spettrale, i suoi debitori accettavano con malcelato entusiasmo di pagargli altissime rendite vitalizie, convinti di aver turlupinato un moribondo. La vera fonte della ricchezza di Voltaire era la sua straordinaria longevità.
Nelle decine di lettere che spediva ogni giorno ai suoi tanti corrispondenti, alcuni dei quali in debito con lui, non dimenticava mai, fin dalla giovinezza, di lamentare il suo deplorevole stato di salute, di dichiararsi agonizzante, ad un passo dalla tomba a causa delle coliche, dei reumatismi, della gotta, dei crampi allo stomaco, del mal di denti o semplicemente del rigore del clima. Soffriva il freddo, si sentiva gelare in ogni stagione, d’estate come d’inverno le fiamme nel focolare non erano mai abbastanza vive per scaldare il suo corpo ossuto, secondo alcuni testimoni, le stanze in cui soggiornava, spesso avvolto in una pesante vestaglia foderata di pelliccia con tanto di berretta ben calata sulla fronte, dovevano ardere come l’incendio di Troia.
Eterno malato, consultava di rado i medici e diffidava della loro scienza che consisteva “…nell’introdurre droghe che non si conoscono in corpi che si conoscono ancora meno…”. Praticava invece con accanimento l’automedicazione, riteneva il clistere una panacea miracolosa. Al minimo malessere di qualunque natura, prima di tutto ricorreva ad un clistere. In un mese poteva torturare le sue budella con otto purghe e dodici clisteri. Al termine di un giro di visite ufficiali presso le corti tedesche, aveva presentato a Federico di Prussia una salatissima nota spese in cui i clisteri di acqua saponata costituivano la voce più onerosa.
Diceva di aver preso l’abitudine alle lavande intestinali a Londra in gioventù e da allora di non poterne più fare a meno. Dall’Inghilterra oltre ai valori del liberalismo aveva portato con sé anche un pratico apparecchio che gli consentiva di somministrarsi clisteri ovunque, anche stando comodamente seduto in carrozza. Quando non faceva uso del suo prodigioso apparecchio inglese, ingurgitava, seguendo il consiglio fornitogli dal medico della duchessa di Marlborough, cassia e rabarbaro in quantità, oppure certe pillole misteriose confezionate da una farmacista berlinese. Se nonostante tutti questi lassativi la stipsi si ostinava a farlo soffrire, non esitava a sperimentare rimedi improbabili. Una volta dando ascolto ad un ciarlatano aveva ingoiato dei granuli di ferro usati per il lavaggio delle bottiglie: aveva sofferto atrocemente, aveva rischiato di morire, ma alla fine era riuscito a liberarsi l’intestino. Certamente si preoccupava più di svuotarsi le viscere che di riempirle. Mangiava pochissimo, soprattutto uova, verdure e lenticchie, e beveva ancora meno, giusto un bicchiere di borgogna a cena. Per sostenere i ritmi forsennati di lavoro che si imponeva anche in vecchiaia, ingollava litri di caffè e di cioccolata e si lasciava tentare da qualche dolciume.
Tra una colica ed un clistere, tra un piatto di lenticchie ed un bricco di caffè, scriveva lettere, componeva versi, faceva fruttare il proprio denaro, analizzava documenti storici, sbeffeggiava le teste coronate che lo perseguitavano, ideava stratagemmi per sottrarsi al loro controllo ed al tempo stesso tramava per riconquistarne il favore. Pur vagheggiando i territori affacciati sul lago Lemano come una nuova Attica, le sue più intime speranza erano sempre rivolte a Parigi, anche se la via per raggiungerla continuava a passare per Berlino. Nell’ottobre del 1754 la notizia che la margravia Dorotea era di passaggio con il marito a Colmar lo fece accorrere ad adularla per strapparle qualche parola gentile che potesse intenerire il suo rancoroso fratello.
Mentre si genufletteva deferente difronte a Federico, seppur per interposta persona, non smetteva di mantenere vivi i contatti con personaggi influenti a Versailles come il duca di Richelieu, maresciallo di Francia, pronipote del celebre cardinale, nonché suo debitore. Su invito dell’aristocratico amico, Voltaire accettò di recarsi con tutto il suo seguito a Lione. In cuor suo forse sperava di poter fare un balzo in avanti verso la capitale, ma si vide costretto ad imboccare la strada verso le alpi svizzere. Dopo aver riabbracciato con trasporto il maresciallo e ravvivato con tutto il suo brio una antica amicizia senza ottenere in cambio altro che vaghe, seppur sincere, promesse di interessamento, il filosofo, per non calare la maschera del buon cattolico, si premurò di rendere visita anche al cardinale de Tencin, arcivescovo di Lione, che lo ricevette con imbarazzata freddezza, nel timore di compromettersi con un personaggio così sgradito alla corte. Lo stesso sdegnoso trattamento gli fu riservato persino dal comandante della guarnigione della città. Né le acclamazioni ricevute in teatro dai lionesi, né le altisonanti orazioni lette in suo onore dagli accademici poterono curare il suo orgoglio ferito. L’onnipresente Collini ci informa che Voltaire uscì da quel brevissimo colloquio con l’arcivescovo accigliato, mormorando: “Amico mio, questo paese non è fatto per me.”.
Il tempo di strisciare, implorare, adulare, umiliarsi e sperare era finito.
Al tramonto del 12 dicembre 1754, Voltaire a bordo della sua lussuosa berlina varcò le porte di Ginevra, rimaste aperte, in segno di benvenuto, ben oltre l’orario abituale. Avrebbe rimesso piede a Parigi soltanto nel 1778 per morirvi, all’età di ottantaquattro anni, non prima però di aver assaporato ancora una volta il piacere del trionfo.
Bibliografia
JEAN ORIEUX, Voltaire. La sua vita, le sue opere, i suoi tempi, i suoi segreti, Milano, Longanesi, 1971.
ALFRED J. AYER, Voltaire, Bologna, Il Mulino, 1990.
MASON HAYDN, Vita di Voltaire, Bari, Laterza, 1984.
MAX GALLO, « Moi, j’écris pour agir ». Vie de Voltaire., Fayard, 2008.
COSIMO ALESSANDRO COLLINI, Mon séjour auprès de Voltaire, Paris, 1807.
LOUIS NICOLARDOT, Ménage et finances de Voltaire, Paris, 1854.
THEODOR SCHIEDER, Federico il Grande, Torino, Einaudi, 1983.
PIERRE GAXOTTE, Federico II re di Prussia, Novara, De Agostini, 1990.
EDOUARD DE POMPERY (a cura), Corréspondance de Voltaire avec le roi de Prusse, Paris, Librairie del la Bibliothéque Nationale, 1889.
VOLTAIRE, Lettere d’amore alla nipote, Milano, Longanesi, 1959.
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Paolo Longarini
BRANDO Edizioni Efesto - 2016 -
LA PORTA SEGRETA SEMPRE APERTA
recensione di Claudio Montini
L'anticonformismo può essere una valida alternativa stilistica per emergere dalla massa di artigiani della parola; lavorare di fantasia è un esercizio lecito, innocuo e concesso a tutti e a tutte le età, tanto quanto mettere su carta i prodotti della spremuta di meningi: sarà, poi, la presa sull'uditorio o sui potenziali lettori a determinare l'efficacia e il successo del nuovo discorso confezionato con vecchi arnesi e materiali comuni, immutati e levigati dai secoli ma capaci di illustrare scenari sorprendenti e mai uguali, toccando corde recondite negli animi sensibili ai dettagli, alle sfumature della punteggiatura e della coniugazione dei verbi finalmente corretta. Con BRANDO (Edizioni Efesto 2016), Paolo Longarini realizza con successo una camminata sul filo sospeso nel vuoto e senza rete di protezione, utilizzando a piene mani tutti gli strumenti e le abilità di cui gli scrittori menan vanto senza possederne oppure sfruttano senza rendersene conto, pur prendendo le distanze da questi ultimi sin dalla prefazione e smentendosi a partire dall'introduzione: ogni capitolo, è una continua sorpresa e, perchè resti tale, non si può dire altro nè sulla trama nè sui personaggi se non che la storia segue l'ordine che deve avere, a parere dell'autore, pur nella confusione della numerazione dei capitoli. Una volta che la lettura avrà incrementato il suo abbrivio, non vi importerà un fico secco della numerazione stessa perchè sarete rapiti dall'elegante snellezza e agilità del periodare, comunque spinti a terminare il capitolo per capire cosa succederà nel successivo, quale nuovo personaggio o quale situazione si rappresenterà per fare luce sul reduce sconfitto dalla Storia ma baciato dalla fortuna di essere sopravvissuto a scapito di altre vite. Forse è il fu Mattia Pascal che ha letto Primo Levi o Palazzeschi o Vittorini o Moravia guardandosi intorno, più che dentro, e notando che, in fondo, settant'anni di repubblica non hanno cambiato in meglio l'Italia e neppure gli italiani: infatti in BRANDO troverete satira di costume, ironia dissacrante, pudore e poesia dei sentimenti, cattiveria divertente e divertita, momenti di neorealismo e retorica intesa nel senso migliore del termine, cioè come arte del bello scrivere e del bel parlare, brividi e tensione emotiva che, forse, spegnerà l'acida ilarità di certe pagine ma si stempererà nella magia dell'incontro col cane femmina, solitaria randagia non priva di coraggio e dignità, che verrà battezzata col titolo del libro che Paolo Longarini chiude con una rivisitazione della favola di Biancaneve e i sette nani. Ammetto d'essere rimasto perplesso da un finale di tal fatta; invece, ripensandoci e riflettendoci e anche rileggendo qua e là, BRANDO di Paolo Longarini edito da EDIZIONI EFESTO non poteva terminare altrimenti proprio per il fatto che è una navicella (si tratta di poco più di centotrenta pagine) la quale, fin dal varo, ha issato sul pennone la bandiera corsara della trasgressione elegante, intelligente, limpida e onesta vale a dire fedele al detto oraziano castigat ridendo mores e, ancora di più, a un aforisma poco conosciuto di Voltaire: "Ho deciso di fare ciò che mi piace perchè fa bene alla salute". Probabilmente, esiste davvero nell'anima degli artisti, consapevoli o incoscienti, una porta sempre aperta cui bussano le storie e le idee e i sogni che vogliono lasciarsi fissare su qualche supporto per entrare nel mondo degli esseri umani, quello che per convenzione chiamiamo realtà: BRANDO ha trovato quella di Paolo Longarini che, ha sua volta, ha trovato quella di Edizioni Efesto e troverà anche la vostra non appena varcherete la soglia di una libreria.
© 2017 Testo di Claudio Montini disponibile anche su blog digitociòchepenso.blogspot.com
© 2017 Foto di Orazio Nullo
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Dissòi Lògoi al Telegiornale di Ivan Pozzoni: Ironia e critica sociale sulla comunicazione contemporanea. Recensione di Alessandria today
Con la sua poesia "Dissòi Lògoi al Telegiornale", Ivan Pozzoni offre una riflessione dissacrante sul panorama dell'informazione contemporanea, dove le notizie sembrano sdoppiarsi, contraddirsi e plasmarsi a seconda delle prospettive offerte dai media.
Quando le notizie si sdoppiano: un’analisi ironica dell’informazioneCon la sua poesia “Dissòi Lògoi al Telegiornale”, Ivan Pozzoni offre una riflessione dissacrante sul panorama dell’informazione contemporanea, dove le notizie sembrano sdoppiarsi, contraddirsi e plasmarsi a seconda delle prospettive offerte dai media. Attraverso un linguaggio ironico e una struttura ritmica incisiva, Pozzoni…
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“Andare contro lo slam poetry è da reazionari e troppe riviste sono servili alla gerontocrazia poetica”: Gabriella Montanari risponde alle posizioni avanzate da Matteo Fantuzzi
La scorsa settimana, credendo di rivolgerci ai nostri soliti venticinque lettori di manzoniana memoria, abbiamo intervistato il poeta e Direttore di “Atelier”, Matteo Fantuzzi, senza neppure immaginare a quante polemiche saremmo andati incontro. Tutto per due righe in cui l’autore di La stazione di Bologna esprimeva la sua sacrosanta opinione, secondo la quale il poetry slam non sarebbe assimilabile alla poesia vera e propria. Ci sono stati momenti in cui si è rischiato l’accoltellamento virtuale e la minaccia di morte. Queste e altre spiacevoli quisquilie ci hanno rubato tanto tempo nei giorni a seguire, ma siamo fortunatamente sopravvissuti.
Tralasciando, per un attimo, la massa di esagitati isterici, ci ha colpito molto il breve ma mordace commento che in merito ha scritto Gabriella Montanari, poetessa ed editrice. Abbiamo quindi deciso di ospitarla sulla nostra pagina essendo lei, diversamente dagli altri, una che parla fuori dai denti, piuttosto che con un coltello tra i denti. E ne ha dette, ne ha dette tante sulla situazione dell’attuale universo letterario nazionale!
Commentando l’intervista a Matteo Fantuzzi, hai scritto una breve ma intensa critica alle idee da lui avanzate. La tua replica inizia con queste parole: “Reazionari sono tutti coloro che hanno per le mani una parvenza di potere decisionale e morirebbero piuttosto che perderlo o cederlo. Qui mi pare evidente che si cerchi di conservare uno status quo provinciale”. Spiegami meglio questo concetto, per favore.
Comincerei precisando che, chiaramente, il termine “reazionario” non ha qui una valenza politica. In prima istanza, desideravo riconnettermi alle posizioni avanzate in merito allo slam poetry. Questo filone è qualcosa di relativamente nuovo dal punto di vista formale, ma mi pare venga inteso da Fantuzzi come un’involuzione rispetto al modo in cui di solito si concepisce il fare/comunicare poesia. Personalmente, pur non praticando né frequentando questo genere di espressione poetica, non condivido questa sorta di timore reverenziale che secondo certe persone dovrebbe legarsi al pronunciare la parola poesia, per cui lo slam e lo spettacolo che lo accompagna sarebbero di conseguenza viste come qualcosa di svilente, di dissacrante. Con reazionario volevo dunque indicare chi si pone nella posizione di giudicare la forma attraverso cui l’artista della parola sceglie di esprimersi, stabilendo in maniera del tutto soggettiva e spesso autocentrata una sorta di scala di valore: serietà e professionalità tra le modalità di comunicare il proprio sentire poetico. Reazionario è chi non tiene conto della diversità, tra i fruitori di poesia, di gusti, esigenze, capacità e aspettative, sia in materia di contenuti che di forma. Non tutti hanno due lauree, sono addetti ai lavori, hanno a che fare professionalmente con la letteratura. L’“intrattenimento poetico” non è da condannare, anzi, se riesce ad avvicinare il pubblico più ostico, ossia i giovani, alla poesia, deve essere incoraggiato. A volte una lirica recitata in un certo modo o in un certo contesto riesce a toccare corde altrimenti poco sensibili agli approcci più classici di presentazione e reading. Nell’etimo di poesia vi è l’azione di fare, produrre e creare, ma non vi è alcun riferimento a modalità più o meno consone o “nobili”. Il suono, il ritmo, la musicalità del linguaggio giocano un ruolo fondamentale. Le primissime forme di poesia, in epoca arcaica, erano orali, si sposavano con il canto. Dai trovatori medievali, ai cantastorie popolari, ai moderni cantautori la parola poetica non ha forse trovato nell’esibizione in pubblico il suo vettore? Mi sembra quindi che gli slammer non si allontanino più di tanto dall’origine. In ultimo, andare ad ascoltare uno slam è sempre e comunque più edificante che stare davanti alla televisione o al telefono. Non credo sia da condannare come pratica. Per non essere reazionari è dunque necessario non fermarsi a uno status riconosciuto come l’unico degno di essere considerato “fare poesia”. Nell’intervista si parlava, inoltre, di “metodo”. Devo dire che questa parola non mi sembra applicabile al di fuori dello studio e dell’analisi critica. Possiamo utilizzarlo entro tale approccio, ma nel fare poesia mi pare un concetto assolutamente fuori luogo.
Al di là del cosa possa dirsi poesia, tu contesti, sempre in questa prima trance del tuo intervento, il fatto di arrogarsi un potere decisionale in ambito letterario, se non comprendo male.
È tipico di troppe realtà, oggi, in Italia. Non so se si tratti deliberatamente di appropriazione del potere, ma mi pare evidente e sotto gli occhi di tutti un determinato modus operandi: a quale “tipo” di poesia dare considerazione e visibilità, di quali poeti circondarsi, come valorizzarli escludendone altri. Chi si presta a questo gioco entra a far parte di una cerchia, chi non lo fa opera da cane sciolto, fatica, si isola. Ho sempre avuto il sospetto che dietro tale modo di agire si nascondesse molta paura. Solitamente chi tenta di conservare uno stato acquisito, che non consente a chi sta fuori di entrare e di apportare un contributo diverso, ha solo il timore di vedere crollare il proprio fortino, specie se gli avversari sono di spessore e quindi reali concorrenti. Tutto ciò mi fa sorridere, in un ambito che non è neppure quello della narrativa, in cui quindi non c’è alcun interesse economico in ballo. È casomai un potere che nasce dalla frustrazione, un potere pari a quello dei soldi del Monopoli.
Gramscianamente, se certo non si può parlare di potere economico, esiste in senso lato un potere dato dal costituirsi come classe intellettuale. Ciò è sempre accaduto, sia chiaro – solo che la Destra non è riuscita a portare avanti un simile percorso.
Sì, ma sempre si tratta di un’auto proclamazione! Io, poi, sul piano politico non sono una praticante, e nemmeno una teorizzatrice, e ho capito in fretta che questo vuol dire stare fuori da certi giri. Non faccio poesia “civile” o impegnata socialmente, come si suol dire – si tratta di una scelta personale, frutto di lunga riflessione. Già questa è ragione sufficiente per non essere considerata da realtà editoriali che, attraverso le opere di determinati autori, diffondono un pensiero politico più che una linea editoriale. Non credo che un editore debba pubblicare unicamente quello che corrisponde al suo modo di vedere. Il valore estetico, intrinseco ed emozionale di un’opera letteraria dovrebbe essere valutato in maniera autonoma rispetto alla visione del mondo del suo autore o dell’editore che intende diffondere poesia nella maniera più democratica possibile. Ci sono gruppi di influenza, formati da poeti, critici e giornalisti proclamati o autoproclamatisi “establishment”, spesso di dubbio valore letterario e umano, onnipresenti come il prezzemolo e restii a fare spazio, a consigliare, a condividere, ma soprattutto ad ascoltare e a mettere in discussione il piccolo mondo di favori e scambi a cui sono saldamente ancorati.
Perdona la curiosità, ma che cosa avresti tu di tanto diverso da dire che non si possa proprio incontrare con la loro visione delle cose?
La mia è una visione che disturba perché non incline ai compromessi, alle cordate, alle mode. L’onestà nel raccontare le bruttezze, nel denunciare o nell’estraniarsi non è mai stata merce apprezzata, di certo non da chi della poesia ha la pretesa di farne mestiere. Non scrivo per piacere a “quelli che contano”, ma per avvicinarmi a lettori curiosi, aperti e in cerca di emozioni.
Stai forse cercando di dire che la loro visione ideologica preclude l’apprezzamento della tua espressività?
No. Semplicemente ritengo non sia giustificata questa esclusione di chi non è di loro gradimento. Purtroppo, è prassi diffusa allontanare chi non va a genio, o evitare di menzionarlo, fare come se non esistesse. Ultimamente, proprio perché ci sono tanti autori che semplicemente non vengono mai citati in quanto atipici o non schierati, mi sono presa la briga di farlo io sui social. Vorrei far circolare i nomi di tutti quelli che ritengo siano stati messi da parte, pur avendo qualcosa di veramente forte da dire.
Fammi qualche nome, ti prego.
In primis, Ivano Ferrari. Mi chiedo di cosa abbiano paura gli altri, quelli i cui nomi circolano sulla bocca di tutti, rispetto a poeti come lui. Io non credo sia un caso che i grandi, quelli fuori dai sistemi, siano volontariamente messi da parte. Infatti non ho mai sentito un accenno, una parola, per esempio su Filippo Strumia, perché quelli come lui e Ferrari non stanno tutto il giorno a cercare conferme della propria poesia, pur essendo pubblicati dai maggiori editori. E credo che ciò avvenga anche perché gli altri sanno che i reali concorrenti sono loro, perché quella è la poesia che piace al lettore. Poi c’è quella che piace agli altri poeti, ai critici, agli addetti ai lavori. Io ci vedo una scissione…
Parli di una scissione tra alto e basso, tra il popolo e gli intellettuali?
Parlo di una poesia che si rivolge al lettore e quindi arriva anche a chi va verso di essa disarmato, semplicemente con la propria sensibilità, senza sapere “chi sta con chi”, per quale editore pubblica l’autore in questione. Invece tutto l’apparato che si muove dietro questo mondo, alla fine, se la racconta, se la legge e se la pubblica da solo. Non credo che siano intellighenzia. Spesso mancano lucidità e criticità sul proprio lavoro, manca l’autoironia, e da qui tutti i mali. Il bisogno di esercitare una qualche forma di potere sugli altri cela molto spesso grandi insicurezze e incolmabile esigenza di riconoscimenti e conferme.
Veniamo all’ultima parte del tuo commento: “Certe riviste emanano aria stantia. Si avvalgono di giovani vecchi dentro e servili alla geriatocrazia poetica”. Chiariscimi il punto.
La rivista è solitamente la meta per chi inizia a scrivere, o per chi vuole continuare a far circolare il proprio nome tra un libro e l’altro. Dovrebbe anche essere un mezzo per tenersi aggiornati sulle novità e per conoscere le tendenze. Purtroppo, oggi, le riviste non offrono molto spazio a chi non ha conoscenze, a chi non è amico di uno dei redattori, a chi non è stato “raccomandato”. Non si può più sperare di mandare qualcosa a una redazione che liberamente selezioni, senza una mediazione. E questo vuol dire che la rivista è anch’essa uno strumento in cui si ritrovano determinate dinamiche dell’editoria, dei “circoli intellettuali”, dei festival letterari. Forse nei blog c’è più autenticità: chi pubblica altri autori lo fa semplicemente seguendo il proprio gusto personale.
E i giovani nati vecchi?
Mi capita di incontrarli, leggerli, di ricevere i loro manoscritti e mi dispiace a volte riscontrare che si tratta già di ombre, emuli o potenziali portaborse di chi ha raggiunto una posizione in ambito letterario. Il coraggio di osare, di distinguersi, di non avere un protettore, di usare un linguaggio e uno stile propri, mi pare sia andato perduto. Forse interessa di più avere una voce seguita e sostenuta che possedere una voce unica. A me è capitato di ricevere e leggere scritti in cui un giovane autore autodefiniva il proprio stile, per esempio “alla Cucchi” o “alla Magrelli”, e lo faceva con orgoglio. Tutto ciò è abbastanza triste, perché ti chiedi su chi riporre le speranze se non sui giovani, temi che anche la poesia viva di corsi e ricorsi storici e che tutto rimanga identico a oggi. Le nuove generazioni avranno le stesse aspirazioni di quelle che le hanno precedute. Questo demone del riconoscimento credo sia la bestia più difficile da sconfiggere.
Scusa ma tu ritieni che queste riviste siano fucine entro cui vengono allevati dei cloni?
Io dico che quando s’incominciano a vedere spuntare come funghi queste realtà di aggregazione, con un unico e rigido modo di pensare, di scrivere, di concepire la letteratura… non è molto rassicurante. In economia si parla di monopoli e cartelli… Ci vedo molte similitudini. Quando nasce quella che io chiamo una triade (vale a dire una casa editrice, una rivista, un premio), allora dubito che si possa parlare di una realtà aperta, democratica, libera, a disposizione di chi ha qualcosa da proporre. Diventa un accumulo d’influenze che ovviamente si autoalimenta. Che oggi si debba essere obbligati, quando si ha il desiderio di partecipare a un premio letterario, di controllare chi è in giuria, chi è l’editore di riferimento, vuol dire che sussiste un problema. Spesso sai già che in alcuni casi sarà inutile partecipare (non sempre l’anonimato è rispettato come si dovrebbe), perché non sarà il tuo testo a essere valutato, ma ciò che tu rappresenti.
Matteo Fais
*In copertina: Gabriella Montanari con Dan Fante, il figlio di John Fante, lo scrittore, geniale, di “Aspetta primavera, Bandini” e “Chiedi alla polvere”
L'articolo “Andare contro lo slam poetry è da reazionari e troppe riviste sono servili alla gerontocrazia poetica”: Gabriella Montanari risponde alle posizioni avanzate da Matteo Fantuzzi proviene da Pangea.
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