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persinsala · 2 days ago
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https://artegrafica.persinsala.it/razza-umana/13991 Razza umana di Luciano Ugge A Palazzo Blu di Pisa, fino al 29 giugno, in esposizione la retrospettiva dedicata ai ritratti di Oliviero Toscani. Il fotografo e pubblicitario Oliviero toscani ha frequentato molto la Toscana e Pisa in particolare. Oltre ad aver ideato il logo e il nome del Palazzo che ne ospita la mostra, nella Tenuta di San Rossore, nel 2004, ha fondato La Sterpaia Bottega della Comunicazione avviandovi, con i propri collaboratori, nel 2007, lo studio e l’esperienza del progetto Razza Umana. Un archivio di immagini che, a oggi, ha raggiunto la ragguardevole cifra di 100.000 ritratti di soggetti diversi - per cultura, costumi, provenienza etnica e geografica. Da subito, la mostra presenta lo spirito più scabroso e irriverente dell’artista - per le campagne pubblicitarie di United Colors of Benetton. Era il 1992 e lo scatto di Toscani ritrae un bacio di per sé casto che fece, però, molto discutere (come altre sue geniali intuizioni fotografiche). Una luce tenue e che rende le figure quasi evanescenti, circonfonde i due giovani protagonisti, coi propri abiti talari. Il contrasto tra il velo bianco di lei e il nero della tonaca, di lui, è reso soffuso da un’aura di amore universale che ci unisce tutti. 

Di fronte, campeggia la denuncia di un dramma che coinvolge generazioni di adolescenti e non, Nolita, No. Anorexia, del 2007. Uno sguardo quasi di sfida, quello della giovane anoressica che ci osserva, forse a rivendicare la fragilità del corpo nella sua cruda nudità. Fu un terremoto quando l’artista volle esporre quell’unico manifesto durante la Settimana della moda milanese, in Piazza San Babila. La denuncia di un mondo - quello della moda - che, al di là dell’apparenza, non si preoccupa di quale effetto può avere sulle più giovani e su quali modelli di bellezza propugna. Non poteva mancare, nella stessa Sala, colui che ha trasformato l’immagine della polaroid in un mito. L’uomo Vogue è Andy Warhol, nel 1975, immortalato in tre scatti che racchiudono l’essenza del lavoro dell’artista newyorkese - padre non solo della pop art ma anche, e soprattutto, della riproducibilità dell’arte in epoca industriale e di imperio mass mediatico. Fulminante e senza inutili giri di parole, lo scatto sempre per United Colors of Benetton del 1996, in cui sono messi a confronto tre cuori pulsanti: siamo tutti umani - e uguali - perché possediamo tutti lo stesso cuore. La pubblicità, l’anima del commercio (come si dice), che non esita a usare la femminilità - anche rozzamente - pur di vendere qualsiasi prodotto, nel caso di Jesus Jeans, scandalizzò soprattutto per il messaggio cattolico utilizzato: “Chi mi ama mi segua”. Era il 1973 e sui manifesti campeggiava il sedere di una bella ragazza fasciato in microscopici jeans che, più che coprire, lasciavano intravvedere. Sempre per Benetton, del 1991, molto più poetico anche se inflazionato l’abbraccio tra bambini di etnia diversa.
Sulle pareti campeggiano alcune frasi di Oliviero Toscani, che ci descrivono l’uomo e l’artista: “l’unico vero obiettivo dell’arte è testimoniare la condizione umana”; “la mia ricerca è fotografare, facendomi guardare dritto negli occhi”. Dopo questo breve accenno all’attività pubblicitaria di Toscani, inizia la serie di primi e primissimi piani di Razza Umana. Donne e uomini ci guardano, dritto negli occhi - sorridenti nella maggioranza dei casi. Alcuni tra i ritratti ci colpiscono più di altri - anche per il contrasto dei colori degli indumenti indossati dai vari soggetti. L’Europa, l’Africa, il Medio Oriente e il resto del mondo: cinque continenti raccolti in poche sale. Gli occhi intensi di un giovane africano trafiggono: uno sguardo che buca la stampa fotografica. Non solo volti di persone comuni ma anche i ritratti degli invisibili, con la loro umanità spesso non contraccambiata: coloro che ignoriamo, schiviamo, per i quali proviamo al massimo pena. L’importante è che, in silenzio, fatichino per noi e per il capitalismo - che li sfrutta e che si guarda bene dall’accoglierli, anzi li addita come nella canzone di Ligabue: “Con la finale dei casi umani / Meno meno umani che mai”. E ancora, giovani donne dagli abbinamenti contrastanti: volti dipinti per apparire, distinguersi, e altri per mostrare di appartenere a un preciso clan. Costumi tradizionali che arricchiscono le nostre conoscenze con il loro contenuto di memorie passate; copricapi che esemplificano un segno di distinzione o identificazione; e acconciature che intrinsecamente vogliono esprimere un messaggio o un’appartenenza e, a volte, più semplicemente uno stato d’animo. Uomini e donne che portano il segno di una vita vissuta su facce rugose, tirate, arse dal sole e dal vento. Ragazze che cercano di far risaltare i propri lineamenti o sentono la necessità di rendersi visibili agli occhi degli altri - a volte con un senso di sfida verso l’umanità che le osserva. Ci si sente al centro del mondo - un mondo variegato e ricco proprio grazie alla sua prorompente e vitale diversità - percorrendo le sale di questa esposizione (che si estende su due piani). E nel contempo ci si rende conto di quanto si sia nudi di fronte all’obiettivo di una macchina fotografica. Al pianterreno è possibile (e consigliato) assistere alla video-intervista a Toscani, per apprendere dalla sua viva voce le motivazioni di alcune scelte. Un agire che pare abbia sempre corrisposto ai suoi desideri rispetto a un mondo (pubblicitario e non) sempre più coercitivo, al quale ha contrapposto scelte che rispondevano solo alla sua coscienza. Senza paura di esporsi a critiche anche andando, a volte, contro gli interessi economici della sua committenza (si ricordi l’ultima campagna per United Colors of Benetton sulla pena di morte che è costata il boicottaggio di alcuni negozi statunitensi da parte di clienti favorevoli alla condanna capitale). Una mostra in cui è possibile incontrare etnie da tutto il mondo - nella loro singolarità - per ricomporre quel puzzle che giustamente Toscani definiva “razza umana”. All’uscita resta la speranza che l’umanità, quella vera, prevalga un giorno rispetto alle barbarie e alle divisioni che la caratterizzano - oggi come duemila anni fa. La mostra continua: Fondazione Palazzo Blu Lungarno Gambacorti, 9 - Pisa fino a domenica 29 giugno 2025 orari: dal lunedì al venerdì, dalle ore 10.00 alle 19.00; sabato, la domenica e festivi, dalle ore 10.00 alle 20.00 Razza Umana mostra organizzata da Fondazione Palazzo Blu in collaborazione con Oliviero Toscani Studio con il sostegno della Fondazione Pisa
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persinsala · 5 days ago
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https://www.persinsala.it/web/recensione-moon-il-panda-2315.html Moon Il Panda di Alessio Neroni Dal 17 aprile, arriva al cinema Moon Il Panda, un film diretto da Gilles de Maistre, che esplora il rapporto tra umani e animali con una bella morale, per tutta la famiglia. Tian ha appena compiuto dodici anni, ma la bella festa in famiglia viene rovinata dal padre, che lo rimprovera per il suo scarso rendimento scolastico, proprio durante la cena di compleanno. L'uomo dopo un confronto con la moglie, decide di mandarlo, insieme alla sorellina, a studiare lontano dalle distrazioni della città, fra le suggestive montagne cinesi, a casa della nonna. Dopo aver perso il suo videogioco, che lo ha chiuso a lungo nel mondo virtuale, mentre è alla ricerca della legna, Tian scorge un cucciolo di un panda e gli si apre davanti agli occhi un universo del tutto inaspettato. Da quel giorno, infatti, Tian non potrà fare a meno di quel peloso animaletto, che tra una coccola e una carota sottratta a casa, in gran segreto, diventerà il suo miglior amico, al quale darà nome Moon, per via della sua tonda testa bianca. Le cose prenderanno un altro corso quando il padre costringerà Tian a ritornare in città. Gilles de Maistre, dopo Emma e il giaguaro nero, Mia e il leone bianco e Il lupo e il leone, torna dietro la macchina da presa per dirigere un'altra avventura indimenticabile, con tanti spunti di riflessione e soprattutto ricca di contrasti. Il primo, che balza subito all'occhio, è il divario che c'è tra la vita nella metropoli, dominata dai grattacieli, e quella incontaminata della foresta, dove per lo più si sviluppa la storia. Il film, infatti, è ambientato a Sichuan, nella Cina centrale, intorno a Chengdu, “una regione montagnosa, che ospita le più grandi riserve di panda e in cui le autorità si adoperano per la reintroduzione della specie”. C'è inoltre l'intenso confronto tra l'umano e l'animale e il diverso modo di educare i bambini visto dalla prospettiva di un padre severo e da quella di una nonna, molto saggia, affabile, attenta ai comportamenti dei nipoti, che si rivelerà una guida preziosa non solo nei boschi, ma soprattutto all'interno di una famiglia completamente smarrita. I dialoghi della straordinaria nonnina sono vere e proprie perle di saggezza, in grado di risvegliare sensazioni sopite o semplicemente mai analizzate, tutte volte a celebrare il tempo trascorso insieme. Ogni personaggio riscopre sé stesso e vive un'evoluzione straordinaria dando forma a un film avventuroso, emozionante con bravi interpreti - i bambini tra tutti -, in grado anche di divertire, ma orientato a far conoscere tutto quanto la natura, in special modo quella umana, nasconde, addentrandosi tra quella vegetazione in cui scoprire mondi meravigliosi. Nelle sale italiane dal 17 aprile, Moon Il Panda, è dunque un vero toccasana per tutta la famiglia, poiché compie un viaggio nel cuore e nella mente di chiunque si abbandona alla magia di questa storia. Dopo la visione viene voglia di trascorrere del tempo in quella palafitta incastonata tra le montagne, nella finzione la casa della nonna, ma in realtà una sala da tè, dove ritrovarsi e vivere il contatto con la natura. Un viaggio fantastico che si può compiere con un biglietto del cinema. Titolo: Moon Il Panda Regia: Gilles de Maistre Attori principali: Noé Liu Martane, Sylvia Chang, Liu Ye, Nina Liu Martane, Alexandra Lamy Sceneggiatura: Prune de Maistre Montaggio: Julien Rey Primo assistente alla regia: David Campi Lemaire (AFAR) Direttore della fotografia: Marie Spencer Musica originale: Armand Amar Suono: Yves Bémelmans, Olivier Mortier, Étienne Carton, Thomas Gauder Produttori esecutivi: Sidonie Dumas, Catherine Camborde e Gilles de Maistre Coproduttori: Bastien Sirodot e Cédric Iland Produzione: Mai-Juin Productions, Gaumont Distribuzione: 01 Distribution Genere: Avventura Uscita in Italia: 17 aprile 2025
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persinsala · 5 days ago
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https://teatro.persinsala.it/sebbe/69615/ Sebbe di Alessio Neroni Al Teatro Ivelise di Roma, Massimo Stinco ha portato in scena il suo Sebbe, interpretato dal bravissimo Vieri Raddi. Dopo il debutto a Stoccarda in Germania, nel giugno del 2023, Sebbe è giunto finalmente a Roma, dove ha vinto il primo premio del Bando del Teatro Ivelise La Novelle Saison 2024-2025. Si tratta dunque della sua prima italiana, che ha commosso quanti lo scorso 12 aprile hanno assistito alla pièce. Sebastian, detto Sebbe, è nato in una brutta città industriale della Svezia meridionale, circondato da cantieri perenni, rumori assordanti e nessun abbraccio. La sua è una vita difficile, orfano di padre e con una madre assente, che, lavorando di notte, di giorno dorme. Quando non è al pub a bere birre tra il fumo delle sigarette, vive tra la scuola, dove è bullizzato, e la spiaggia, nient'altro che una discarica. È lì che si reca sempre con la sua bicicletta per riempire lo zaino di qualunque cosa attiri la sua attenzione: giocattoli, cappelli, maschere, libri e dispositivi tecnologici ancora funzionanti. La meccanica è sempre stata il suo forte e di fronte alla miniera ama ascoltare le esplosioni. Vieri Raddi, il giovane attore che interpreta l'adolescente Sebbe, da solo sulla scena, è straordinario, superlativo. Una mimica facciale incredibile in grado di colmare appieno tutti i momenti di silenzio del protagonista e di far emergere le innumerevoli emozioni che prova, l'ennesimo litigio con la madre o semplicemente mentre ritorna bambino, quando, con un giocattolo, simula una situazione di svago, che spesso lo riporta alla guerra o a inventare una telefonata con un oggetto di plastica che emette suoni. Musiche avvolgenti, intime, rumori di sottofondo in grado di restituire la natura del luogo in cui è immerso e tanti oggetti che formano la scene, protagonisti anch'essi di questa storia amara, dura, ma ricca di forza e sentimento. Massimo Stinco, che per scrivere il soggetto si è ispirato a un film svedese del 2010 di Babak Najafi, con lo stesso titolo, dimostra ancora una volta di essere un uomo, ancor prima che sceneggiatore e regista, attento a tutte le problematiche sociali. Un osservatore acuto e sensibile della realtà che ci circonda e di saper dirigere egregiamente i suoi giovani attori, i quali con spiccata maestria riescono a riportare sulla scena quanto intimamente pensato. Il tutto con semplici e pochi mezzi, perché anche con solo tre sedie e qualche suppellettile usata con cura, si può fare uno spettacolo di successo. Sul palcoscenico emerge tutto il gran lavoro emotivo scritto con passione nei riguardi di quest'arte straordinaria, i temi affrontati lo sono con la giusta sfumatura: ci sono dei notiziari che parlano di violenze e usi d'armi nelle scuole, fogli con insulti omofobi nei riguardi del protagonista e le mancanze affettive racchiuse nei gesti, che non diventano mai estremi. Un lavoro delicato, con un finale al quale Stinco ha dato nuovi stimoli e quindi un impeccabile pagina di buon teatro, che meriterebbe più spazio, per le tante riflessioni che suscita. Sebbe resta nel cuore così come una scarpa, un pupazzo, un filo di luci a led e della dinamite su quelle tavole di legno, per poter brillare ancora, in altri luoghi, altre menti, a lungo. Lo spettacolo è andato in scena: Teatro Ivelise via Capo D'Africa 8\12 – Roma sabato 12 aprile ore 21.00 Teatro Ivelise presenta Sebbe di Massimo Stinco con Vieri Raddi assistente alla regia Leonardo Paoli foto di scena Fulvio Bennati
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persinsala · 5 days ago
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https://teatro.persinsala.it/il-bacio-della-donna-ragno/69612/ Il bacio della donna ragno di Alessio Neroni Al Teatro Lo Spazio di Roma Guido Del Vento, Simone Faucci e Ludovica Di Pasquale riportano sul palco Il bacio della donna ragno di Manuel Puig. Diretto da Alessandro Di Marco, lo spettacolo è andato in scena fino al 13 aprile. El beso de la mujer araña, scritto nel 1976, in Argentina, da Manuel Puig incontrò ben più di uno ostacolo. Per l'epoca, infatti, con il regime vigente, venne considerato un romanzo scomodo, pericoloso e addirittura sovversivo, per la tematica omosessuale e politica, tanto che la pubblicazione venne osteggiata e proibita. Nel corso degli anni, poi, è esploso il successo. Al cinema questo titolo giunse nel 1985, con la regia di Hector Babenco, che valse a William Hurt (Molina) l'Oscar come miglior attore e a Cannes il premio per la miglior interpretazione maschile, al suo fianco nel ruolo di Valentin un bravissimo Raul Julia. A Broadway, invece, il musical conta oltre novecento rappresentazioni. Sul palcoscenico,ha visto diverse rappresentazioni e in questi giorni a ridar vita a Luis Molina e Valentin Arregui sono Guido Del Vento e Simone Faucci, che con la loro interpretazione hanno riportato alla luce quelle tematiche, che continuano a far discutere. È il teatro Lo Spazio di Roma a ospitare questo lavoro curato da Alessandro Di Marco. La cella dove si muovono i due protagonisti occupa il centro della scena con le brandine, i bauli e un tavolo, mentre la passerella, che fiancheggia il palco, vede muoversi Ludovica Di Pasquale, che interpreta la visione dei racconti cinematografici di Molina. Sono proprio queste immagini, in cui spicca sempre una donna elegantissima, "narrate" da Molina a Valentin a riempire le giornate dei due detenuti, il primo “un omosessuale condannato per oscenità e corruzione di minorenne, l’altro prigioniero politico incarcerato per le sue idee di matrice socialista”. Molina, in realtà, sta facendo il doppio gioco: in cambio di una riduzione della pena ha promesso ai carcerieri di ottenere informazioni sulle mosse escogitate da Valentin per rovesciare il governo. Il suo ruolo di spia, dunque, si alterna a quello di romantico nostalgico, che per evadere mentalmente rievoca le scene di quei film che continuano a farlo sognare. Col trascorrere dei giorni, l'iniziale resistenza di Valentin a quei racconti e ai modi affabili di Molina sfocia in qualcosa che va oltre la semplice tenerezza. La storia ha tanti punti di forza, di base tessuta con cura proprio come un abile ragno sa fare, per cui attira per la potenza del testo. La messa in scena necessita però ancora di qualcosa che possa coinvolgere lo spettatore, scuoterlo e imprigionarlo in quell'ora e venti minuti circa. La struttura del teatro, le sedute, semplice sedie che cigolano al minimo movimento e che non hanno una pendenza verso il palco, non permettono la visione completa di questo e si perdono dei particolari, come gesti ed espressioni. Le colonne all'interno poi complicano il resto. Alcuni spettatori, infatti, non hanno per nulla la visione di quello che accade sulla passerella laterale, tanto che “la donna ragno” è quasi totalmente invisibile all'occhio di chi occupa le ultime file, che nel complesso sono solo dieci. Suoni come il ticchettio dell'orologio segnano tempo e altre voci, che simulano gli altri personaggi, sono off e permettono di avere una visione chiara del contesto, seppur delle musiche accattivanti renderebbero più fluido e avvincente quel legame che si crea tra i due compagni di cella. Si sviluppa invece per lo più quasi un botta e risposta tra Del Vento e Faucci, come se stessero leggendo un copione; quel «A che pensi?» o quel «Ne vuoi un po'?» hanno bisogno di un trasporto diverso da costruire. Intonata e sublime Ludovica Di Pasquale, che accarezza la sua parte, essendo le sue donne interpretate delle vere e proprie visioni. Il bacio della donna ragno è rimasto in scena fino al 13 aprile a Roma. Un lavoro interessante, ma la rete può essere resa più filante, cosi da rendere quest'intrigante storia ancor più indimenticabile. Lo spettacolo è andato in scena: Teatro Lo Spazio Via Locri 42/44 - Roma orari: giovedì e venerdì ore 21.00, sabato ore 18.00, domenica ore 17.00 fino a domenica 13 aprile Bluestocking presenta Il bacio della donna ragno di Manuel Puig Regia Alessandro Di Marco con Guido Del Vento, Simone Faucci e Ludovica Di Pasquale Voci Off Simone Lilliu, Lorenzo Schinella e Marco Zicari Scene e costumi Nicola Civinini Assistente alla regia Simone Lilliu e Marco Zicari Foto di scena Marcella Cistola e Luca Marcelli Grazie a Lucilla Lupaioli Ufficio stampa Maresa Palmacci
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persinsala · 12 days ago
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https://teatro.persinsala.it/mastu-franciscu/69597/ Mastu Franciscu di Lorena Martufi In tempi sempre più bui di accanito conformismo e omologazione culturale, in cui è difficile stabilire confini e mantenere le identità, autonome e collettive, la strategia è quella di guardare a Sud, dove abitano le cose semplici, le verità più autentiche, che oggi ci permettono di sopravvivere, nell'unico posto dov'è possibile farlo: in fondo all'anima. Ci accorgiamo che rimpiangere il passato non è assurdo, tornare indietro non è impossibile, anzi. Forse è l'unica cosa per restare umani, se il progresso si è rivelato improvvisamente violento e ha fallito la sua promessa di benessere. C'è tanta verità e poesia nell'opera di Aldo Schettini, autore prezioso della terra di Calabria, riscoperto con entusiasmo dal Gruppo teatrale Associazione culturale Aldo Schettini che si diletta a far conoscere la bellezza dei testi sconosciuti anche agli autoctoni. Qui la vita è rimasta come la si era conosciuta da bambini, con i suoi valori e perfino le sue apparenze dotate del dono dell'eternità. Mastu Franciscu è una commedia in vernacolo, tratta dall’originale Mastu Franciscu Tatoscia, in tre atti, ambientata nella Castrovillari degli anni Venti. Una stanza modesta, ma bella, nella scenografia di Carmine Martino, una cucina umile, un tavolo e delle sedie, una delle quali spagliata dove siedono Francesco, Filomena, Lucia e Nicolinu. Si mangia aria, perché Mastu Franciscu (Massimo la Falce), muratore, non lavora da mesi, e Filumena (Rossana Russo), sua moglie, deve mettere insieme con fatica il pranzo con la cena. Una minestra tutt’acqua, anche nel piatto del piccolo Nicolinu (Amedeo Francesco Maiolino), che chiede se ce n’è ancora, mentre il padre domanda alla moglie nu pucu i vvuccularu, nu stuzzu i savuzizza. Una volta si mangiavano queste cose, e ancora si mangiano alla tavola di ogni calabrese che si rispetti. Curioso pensare che nella commedia originale Schettini a questo punto avesse inserito nei canti, che qui mancano, il patrimonio culturale autentico dei calabresi, leggeri anche nella miseria, sorridenti perfino nelle proprie tragedie. Domani vidimu filosofia di resistenza pura, dalle mie parti, il pensiero che c’è una Provvidenza che non risparmia neanche quel poco di vino che c’è rimasto sulla tavola, soprattutto se devi offrirlo agli ospiti, nell’unica vera politica che ci appartiene, quella dell’accoglienza. Sul palco è Emanuele Piroli, nei panni di Firdinannu, a portare la mmasciata, il messaggio, cioè che il notaio va truvannu a Mastu Franciscu. È una terra superstiziosa la Calabria che, nonostante sia intrisa di fede, di credenze, resta legata ai riti, alle dicerie di paese, nel pettegolezzo delle cummare, che in scena sono tre. Come le Parche greche, tessono mondi, anche quando sono lontanissimi dalle verità, bruciano di una saggezza popolare che ci taglia, ci indicizza, per filo e per segno, ci squadra da ogni lato e forma, nella crudezza del dialetto di Gnesa (Nunzia Aieta) , Tirisina (Agnese Russo) e ‘Ndonetta (Filomena Furiato) quando raccontano gli ultimi fatti sulle guagliune di paese, usciti dalle fimmine i chjsia a cui non bisogna credere mai.   Sono loro, queste donne, diverse dalle fimmine da chiazza, a tenere in mano i destini delle persone, a deciderne la vita e la morte, tutti i santi giorni. Eppure sono donne di fede. Parlano coi santi, appesi alle pareti, a cui affidano le loro infinite disgrazie, e indirettamente anche quelle degli altri. Perché in Calabria una sola ingiustizia è di tutti, sia che una ragazza da marito non abbia nu linzulu pi curredu, sia che si gnuttisce vacante. Siamo tutti figli degli stessi santi. Per questo la fede non ci abbandona. Per questo la fede non ci abbandona. Don Camillo (Benedetto Donato) parroco del paese, che mostra, contandole, le caramelle a Nicolinu, mentre è seduto per terra a leggere un libro, è un quadro che restituisce la bellezza dell’innocenza a noi che ce la siamo dimenticata, diventando grandi facendo l’elemosina, con le dispense vacanti. Finalmente arriva il lavoro per Mastu Franciscu, deve costruire una chiesa per il notaio del paese. E finalmente può sposare sua figlia, Lucijedda (Serena Alessandria) con Linardu (Angelo Pellegrino). È proprio vero che la vita è come l’altalena. Può cambiare in un istante. Bellissimo quadro, sullo sfondo delle fontane di san Giuseppe, che salutano il centro storico di Castrovillari ed emergono tra quinte, che qui hanno anche le tegole e reggono una bici, la quale fa da sfondo alla scena tra i due fidanzati. Fidanzati che, pensando al matrimonio, devono resistere, almeno finché la chiesa non sarà finita. La bellezza dei dialoghi, ma ancor di più negli sguardi, dello scandalo che non c’è, se non negli occhi di chi guarda. La fatica del resistere, il desiderio di baciarsi e non potere, la paura di abbracciarsi, davanti alla gente perché è peccato fare le cose prima del tempo, prima del matrimonio, ancora oggi. Ma tu mi ni vu bene? Chiede Linardu a Lucjiedda, mentre le va incontro con desiderio. Lei risponde, ma fredda come la neve, imbottita delle sue paturnie e delle sue paure. È l’inizio del secondo atto. Sono trascorsi sette mesi, finalmente Mastu Franciscu si è deciso per il matrimonio della figlia. Ma imprevedibilmente, muore il notaio. Unica soluzione per Mastu Franciscu è che paghino i parenti, ossia gli eredi. In uno studio ben arredato, si svolge il terzo e ultimo atto. Protagoniste assolute sono Margarita e Rosina, moglie e serva di Sandro. Notevole Marilena La Polla, credibilissima attrice, nascosta da lenti spesse come fondi di bottiglia e copricapo da cameriera di fine Ottocento, quasi una caricatura del teatro di Molière. Mostra una valigia chiusa che è sul tavolo del notaio, la apre, caccia giornali, riviste, cartoline, fotografie. Romina Alberti, nei panni di Margarita, trova finalmente una lettera, e la scena qui diventa esilarante. Con una forza espressiva che tiene in piedi un intero atto e trascina tutti i personaggi, giocando su mimesi, ritmo, azione, pathos verosimilmente alternato tra il tragico e il comico, dirige gli eventi fino alla fine, tenendo alta l’attenzione degli spettatori, ancora per niente stanchi. Nobile l’equivoco, squisitamente teatrale, che si cela dietro al significato delle parole della lettera, indecifrabile, fin quando non arriva Sandrucciu (Adriano Moretto), che si attiva per la ricerca della chiave che dovrà aprire il tesoro nascosto dentro una cassetta di legno. Intanto le tre cummare bussano alla porta, unendosi in un pianto corale di shakesperiana memoria, tragicomico come la vita, unito difatti subito dopo alla riflessione sulla morte di Linardu che torna con Lucijedda e tutti i personaggi sulla scena per il gran finale. È la rissa, tra Sandrucciu e Mastu Franciscu. La passione che non ottiene perdono, la follia, la rabbia buona, la disgrazia di chi s’è visto gli occhi pieni e le mani vacanti, il lavoro vanificato senza guadagno. Il sacrificio fine a sé stesso, nell’immagine di una chiesa fatta, ma che non restituisce grazie. L'immagine più vera e più autentica del nostro Sud resta quella di un mondo che, diversamente dai suoi personaggi, non ha niente da perdere e che non è fedele a nessun patto, se non a quello della sua sopravvivenza, anche attraverso l'uso del dialetto. Bisogna tornare a lezione da Pasolini, quando scriveva: «il popolo è sempre sostanzialmente libero e ricco. Può essere messo in catene, spogliato, avere la bocca tappata, ma è sostanzialmente libero. Gli si può togliere il lavoro, il tavolo dove mangia, ma è sostanzialmente ricco. Perché chi possiede una propria cultura e la esprime attraverso di essa è sempre libero e ricco, anche se ciò che esprime è mancanza di libertà e miseria» (Scritti Corsari). Lo spettacolo è andato in scena: Teatro Sybaris Contrada Calandrino, 14C, Castrovillari 6 aprile 2025 Mastu Franciscu commedia teatrale in vernacolo castrovillarese in tre atti di Aldo Schettini regia Romina Alberti, Massimo La Falce, Rossana Russo personaggi e interpreti Mastu Franciscu (Massimo La Falce) Filumena (Rossana Russo) Lucijedda (Serena Alessandria) Nicolinu (Amedeo Francesco Maiolino) Linardu (Angelo Pellegrino) Sandrucciu (Adriano Moretto) Margarita (Romina Alberti) Rosina (Marilena La Polla) Tirisina (Agnese Russo) Gnesa (Nunzia Aieta) ‘Ndonetta (Filomena Furiato) Firdinannu (Emanuele Piroli) Don Camillo (Benedetto Donato) scenografie Carmine Martino, Tommaso Visciglia, Maddalena La Polla graphic designer Maria Gilda Piovaccari
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persinsala · 13 days ago
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https://teatro.persinsala.it/contemporaneo-ammarato/69542/ Contemporaneo ammarato di Daniele Rizzo Al Teatro Franco Parenti, due calzanti esempi dei vizi e delle virtù dei nuovi linguaggi della scena contemporanea. Il XX, come è noto, è stato il secolo delle grandi sistemazioni teoriche, poiché, nel variegato panorama della teatrologia, intellettuali e artisti, specialisti e non, si misero a confronto su questioni cruciali per le sorti dell'estetica contemporanea. Pur partendo e confluendo da posizioni non di rado divergenti, quegli sforzi concettuali mostravano però di muoversi su una traccia comune, quella del combinato disposto della connessione tra scena rappresentata e realtà evocata e delle conseguenze individuali e sociali determinate da tale relazione. Questa premessa è ovviamente opinabile, ma collocarsi sul suo solco consente di comprendere la grande attenzione rivolta alla dimensione spettatoriale, la cui fruizione ha da tempo smesso di essere considerata come naturale, eterodiretta o passiva, ed è assunta a privilegiato oggetto di ricerca. Secondo Hans-Thies Lehmann, nello spazio contemporaneo «corpi, gesti, movimenti, posizioni, timbri, volumi, ritmi, altezze e profondità delle voci vengono strappati via al loro continuum spazio-temporale e riallacciati ex novo» e se, dal secondo Novecento, la scena teatrale è diventata «un intero complesso di spazi associativi come poesia assoluta» (Il teatro postdrammatico), ciò impone allo spettatore il compito di riempire i vuoti generati dalla fuga postmoderna dai significati standardizzati grazie all'assolutizzazione dei significanti esperiti nella loro materialità e autonomia. Quella che a prima vista può apparire arzigogolata e tecnica si rivela, in realtà, una questione estetica e di valore: se la mimesi e l'integrità psicologica sono pilastri del dramma tradizionale, la loro messa in crisi diventa necessaria per superare modalità sceniche intrise di disvalori antropologici e sociali - quali patriarcato, autoritarismo e discriminazione. Non è questa la sede per sviscerare l'argomento, ma val la pena notare come le contestazioni del teatro narrativo non avevano come bersaglio una modalità dell'arte ormai stantia e genuflessa alle regole accademiche, quanto il suo pericoloso aderire a un immaginario occidentale in cui la realtà veniva restituita in modo ideologico e privo di autenticità. Il teatro, se vuole allinearsi alla vita, deve invece intraprendere sentieri spezzati, frammentare sé stesso e farsi incoerente fino a prendere definitiva distanza da un immaginario centrato sul logos attraverso il rifiuto del modello discorsivo e dualistico di un autore onnipotente e un osservatore isolato. Tale approccio aprì la strada a forme postnarrative in cui il confine tra arte ed esistenza è diventato labile e in continua negoziazione. Altro che teatro tout court, parafrasando Erika Fischer-Lichte. Se Lips of Thomas (Marina Abramović, 1975) può esemplificare la svolta irruente e dirompente della performatività contro la tradizione e impattare dall'interno l'opposizione fra arte e vita, è perché «ciò che conta non è la comprensione delle azioni compiute dall’artista ma le esperienze che essa suscita negli spettatori nel corso di queste azioni: ciò che conta, in breve, è la trasformazione di coloro che partecipano alla performance» (L'estetica del performativo). Oggi, ai margini di quella duplice urgenza (estetica e sociopolitica), le attuali arti sceniche, sicuramente dal punto di vista teorico, ma anche da quello performativo, sembrano spesso aver assunto un atteggiamento di contraddittoria riverenza o volenteroso disorientamento rispetto all'azione nell'immediato passato-presente. Due spettacoli, a cui abbiamo assistito in una delle principali istituzioni culturali meneghine, restituiscono con efficacia questa situazione di impasse in cui, non di rado, sembra ammarare la teatralità del nuovo millennio. Al Franco Parenti, sono state infatti rappresentate La sparanoia (di Niccolò Fettarappa) e Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo (di Fausto Cabra con la drammaturgia di Gianni Forte). Il primo si configura come un paradossale dialogo sia tra gli attori (Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri), sia tra gli attori e un pubblico chiamato a subire le invettive frontali del duo tanto dal punto di vista dell'ininterrotto fluire verbale, quanto da quello fisico (dall'acqua sparata da pistole e fucili al malcapitato spettatore momentaneamente allontanato). L’intento dichiarato è mettere "in scena un manifesto incendiario della generazione Z" (tra virgolette citazioni dalle presentazioni degli spettacoli), ma pare evidente come la velleità tradisca la solita prosopopea in cui si pretende di incarnare nella prospettiva del singolo (l'ipotetico progressista deluso) un'intera epoca, mostrando il miopismo culturale di chi riduce la conoscenza storica alla propria opinione e l'indifferenza emotiva di chi nullifica l'altro al proprio sé. Nulla da dire sulla tenuta attoriale e sui tempi serrati della recitazione, tra Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri c'è intesa, presenza e invidiabile favella, anche se la banalità delle argomentazioni, sempre e comunque poggiate sugli stereotipi del senso comune, restituisce la spaesante sensazione di assistere a un Bagaglino di sinistra, dove non manca mai il facile sarcasmo, lo stigma sessantottino delle forze dell'ordine, l'anticapitalismo da salotto, il benaltrismo, l'enfasi sui giovani. Elementi che suscitano la risata per la loro ingenuità, ma che sono evidenti tentativi di piacere al pubblico radical e trasformao la sala in una specie di contenitore di smorfie, versi e battute a doppio senso, manifestando la triste inconsistenza di chi pure viene considerato un nuovo astro del panorama artistico italiano. Cifra dell'incapacità di interrogarsi sull’essenza dei tempi contemporanei è il fatto che non si tocchi nulla delle convinzioni di chi assiste, tanto è vero che il pubblico ride, ride quando, se prendesse sul serio le accuse che gli vengono mosse, dovrebbe provare ben altro ("le colpe di quella generazione ormai matura che non è riuscita a donare ai giovani un futuro certo, determinando insoddisfazione, repressione, depressione e ansia"). La sparanoia è il tipico esempio di un teatro ermeneuticamente inutile, non in grado di rappresentare un momento di esperienza trasformativa o di condurre lo spettatore a una attivazione cognitiva, in cui tutto risuona di già pensato e già fatto, a partire dall'estremizzazione della litote nel sottotitolo (Atto unico senza feriti gravi purtroppo). Se c'è un merito culturale che è possibile ascrivergli è allora quello di specchiare la stessa pochezza che critica e il moralismo di chi pretende di assegnare a terzi le responsabilità che, non si capisce perché, non vengano prese in prima persona. Se La sparanoia, trascura i propri contenuti, senza accorgersi di quanto la sua forma sia antiquata, presso la Sala A2A, Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo evidenzia una marcata intenzione drammaturgica. Il contenuto è tratto da un episodio di cronaca riguardante "Billy Milligan, riconosciuto colpevole di aver rapito e violentato tre ragazze" che "fu assolto per infermità mentale perché affetto da disturbo di personalità multipla: in lui ne coabitavano addirittura ventiquattro". La cronaca viene utilizzata per rifrangere la triplice questione dell'indagine legale, psicologica e metatetrale. Gianni Forte si conferma una raffinata penna pirandelliana nell'incrociare, rispettivamente, "il legal-thriller, viaggio intorno al criminale, tra vittime, avvocati, polizia e riscontri evidenti", "il dramma psicoanalitico, viaggio intorno alla patologia, al trauma, alla famiglia, nei labirinti della mente fratturata di Billy" e "la metanarrazione, in cui il teatro stesso cerca di ricostruire una storia ordinata da un magma confuso di piani ed eventi". Dunque, la vicenda di Billy funziona in parte da pretesto per la costruzione drammaturgica, ma dall'altro come grimaldello per riflettere sull'attualità, dato che quanto accaduto(gli) è stato reale. L'incredibile storia del criminale statunitense mette in discussione qualcosa su cui l'occidente contemporaneo sta disperatamente cercando di orientarsi tra femminismo di maniera e pervicace maschilismo, vale a dire la definizione della persona fragile, il rapporto (ri)educativo tra pena e giustizia e il ruolo dell'arte nei nostri tempi. A rendere particolarmente interessante il lavoro di Fausto Cabra sono la tenuta rispetto ai cedimenti nel qualunquismo e la coerenza del suo "azzardo a guardare l’inguardabile" e a "sbrogliare l’incomprensibile", tenuta e coerenza che si palesano in particolare nella determinazione con cui il ruolo delle vittime viene dato per scontato. La violenza subita dalle tre donne non è mai oggetto di opinione, bensì viene "assolutizzata" e costituisce il punto di partenza su cui sviluppare la triplice questione (legale, psicologica e metateatrale) e affermare - con la loro ovvietà - che l'essere vittime di un carnefice da capire ed eventualmente curare non deve prestare il fianco a operazioni di sottovalutazione o colpevolizzazione. Nonostante la materia di Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo sia di un alto livello, la decostruzione scenica della performance sembra però indugiare su modalità note (la violenza, il multimediale, l'autonarrazione, l'iperrealismo), il che ammonisce su quanto il teatro sia ancora lontano una ricostruzione dopo l'implosione delle pratiche tardonovecentesca. Man mano che il trio indossa e si spoglia delle proprie mise simboliche, oscillando senza soluzione di continuità tra persona e personaggio, è come se ci si accontentasse di un montaggio di maniera fondamentalmente edificato sulla qualità di Raffaele Esposito, Anna Gualdo ed Elena Gigliotti. Gli spettacoli presentati al Franco Parenti rivelano con forza le tensioni e le contraddizioni insite nel teatro contemporaneo. Pur offrendosi entrambi come esperimenti linguistici e performativi agganciati, a vario titolo, alla dimensione politica, essi lasciano l’impressione di un’arte ancora in cerca della propria identità, incapace di abbracciare pienamente una visione che possa integrare critica sociale ed estetica innovativa. Gli spettacoli continuano Teatro Franco Parenti Via Pier Lombardo, 14, Milano 1 - 13 Aprile 2025 La sparanoia Atto unico senza feriti gravi purtroppo progetto ideato e scritto da Niccolò Fettarappa regia Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri con Niccolò Fettarappa e Lorenzo Guerrieri contributo intellettuale di Christian Raimo produzione Sardegna Teatro - AGIDI con il sostegno di Armunia Teatro, Spazio Zut, Circuito Claps, Officine della cultura 18 Marzo - 13 Aprile 2025 Schegge di memoria disordinata a inchiostro policromo di Fausto Cabra drammaturgia Gianni Forte con Raffaele Esposito, Anna Gualdo, Elena Gigliotti scene Stefano Zullo disegno luci Martino Minzoni costumi Eleonora Rossi musiche Mimosa Campironi grafica e contributi video Francesco Marro produzione Teatro Franco Parenti aiuto regista Anna Leopaldo direttore di scena Riccardo Scanarotti elettricista Martino Minzoni sarta Giulia Leali scene costruite presso il laboratorio del Teatro Franco Parenti costumi realizzati dalla sartoria del Teatro Franco Parenti diretta da Simona Dondoni si ringrazia Leslie Kee per l’immagine di locandina e Pietro Micci per la partecipazione in video
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persinsala · 16 days ago
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https://teatro.persinsala.it/baccanti-2/69539/ Baccanti di Vincenzo Carboni Archiviozeta rimette in circolo venoso una splendida rilettura di Le baccanti di Euripide, ponendoci a vista il limite oltre il quale ogni legame può essere spezzato. La drammaturgia secca, asciutta come un ciottolo, non indulge a nulla che non sia suono, voce, corpo, colore. È sempre più raro imbattersi in un teatro al suo grado “zero” (o zeta), un teatro rituale, dove la parola – soprattutto nella sua parte in ombra - è detta al di là della sua comprensione. Servono altri sensi, o meglio, un senso che li raggruppa tutti, in un abbandono mistico che depone razionalità e intrattenimento, per permettere al pubblico un’esperienza pressoché religiosa. Darsi a questo teatro è come bere vino, quello donato da Dioniso per lenire dolore e disperazione. L’oblio che sopraggiunge alleggerisce il peso dell’esistenza assediata dalla morte, certo, ma individua anche il limite sul quale si danza, e oltre cui vi insiste un aldilà pericoloso. Non ci poteva essere occasione migliore per proporre questa tragedia euripidea. Se a oggi la civiltà occidentale si è cullata in una illusoria “fine della storia”, grazie a un progressivo sviluppo socioeconomico e all’assenza di guerre in Europa, ci troviamo smarriti, come a risvegliarci da un bel sogno di armonia apollinea, per imbatterci in fantasmi di dissoluzione che credevamo sepolti per sempre. Dioniso non è solo il dio di un oblio consolatorio, ma l’espressione di quel persistente “negativo”, impossibile da porre fuori dall’ordine, che ci chiama alla fatica di una simbolizzazione che – malgrado le meraviglie “artificiali” della tecnica - mai potrà dirsi soddisfatta. Era stato già Nietzsche a gettare allarmi sul rischio di una fiducia eccessiva sulla ragione umana. Tra l'arte figurativa di Apollo, razionale ed equilibrata, e quella non figurativa della musica (propriamente dionisiaca), l’Occidente crede di potersi cullare nel miglior mondo possibile, abitato tuttavia dal terrore di guardarsi dentro, col sospetto di non essere figli solo di un dio “buono”, che una parte di sé è oscura, negletta, non riconosciuta. Dioniso che sorge da questa parte tramontante, si vendica, vuole il suo posto. Offre all’uomo e alla donna un’occasione “dialettica”, ma una dialettica paradossale, non esercitata nel logos, ma nello spingersi dentro alle viscere della terra e di sé stessi, in un abbandono temperato dal rito di cui il dio “negativo” allestisce il setting. Dioniso ci permette di toccare la morte, la dissoluzione, e poi tornare, a patto di riconoscerne la signoria. Se perfino Apollo non può tollerare la scomparsa di Dioniso (ne ricompone i resti dopo che i Titani ne hanno fatto a pezzi la sostanza), chi siamo noi per credere di poterne fare a meno? Ecco la questione che pone la drammaturgia, con le Baccanti che, non più contenute dal rito, divengono furie annichilenti. Anche noi come Agave, rischiamo di pavoneggiarci col trofeo della nostra caccia, creduto una testa di leone, essendo piuttosto lo straniero che ci abita, il negativo che ci costringe all’infelicità più nera, la nostra parte più fragile, il figlio deforme di noi stessi. Questo è il bambino “onnipotente” e impudico che vuole essere amato solo per diritto di nascita. Se non otterrà il riconoscimento che chiede, ci farà danzare immemori su un abisso, e sempre immemori ci farà precipitare, condensando in una caduta un’arroganza oscena per essere solo esseri umani, per non essere affatto dèi. Lo spettacolo è andato in scena Teatro Palladium Piazza Bartolomeo Romano 8, Roma venerdì 4 aprile 2025 ore 20.30 Baccanti di Euripide drammaturgia e regia Gianluca Guidotti e Enrica Sangiovanni con Diana Dardi, Gianluca Guidotti, Pouria Jashn Tirgan, Giuseppe Losacco, Andrea Maffetti, Enrica Sangiovanni, Giacomo Tamburini partitura musicale Patrizio Barontini movimenti scenici Giuditta de Concini produzione archiviozeta
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persinsala · 16 days ago
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https://teatro.persinsala.it/lucio-incontra-lucio/69535/ Lucio incontra Lucio di Alessio Neroni Al Teatro Ghione di Roma, Sebastiano Somma ha portato in scena Lucio incontra Lucio, una performance musicale dedicata a Dalla e Battisti. Un viaggio musicale che ripercorre le vite dei due grandi artisti, tra aneddoti, similitudini e indimenticabili brani. Ci sono canzoni intramontabili, ma soprattutto cantautori indimenticabili, che hanno lasciato un segno indelebile nella storia della musica italiana, tanto che anche le nuove generazioni tutt'oggi canticchiano quei ritornelli orecchiabili e familiari. Lucio Dalla e Lucio Battisti, con i loro testi, sono due di questi esponenti, vivi ancora nella memoria della gente, a cui Sebastiano Somma, da ben nove anni, dedica uno spettacolo dal titolo Lucio incontra Lucio. Anche quest'anno è stato il Teatro Ghione, a Roma, a ospitare dal 28 al 30 marzo, quello che a tutti gli effetti è un concerto, con intermezzi narrati, a cui Somma ha dato voce, cucendo uno spettacolo in grado di mettere insieme questi due talentuosi artisti accomunati da varie cose a partire dal nome di battesimo. Lucio e Lucio, inoltre, sono nati entrambi nel marzo del 1943, a sole dodici ore di distanza l'uno dall'altro. Dalla è venuto alla luce a Bologna il 4 marzo, mentre Battisti a Poggio Bustone il 5. Due artisti sorprendenti amanti del mare che, però, stranamente non si sono mai incontrati su un palco. Tra di loro ci fu un incontro privato, parlarono di un progetto, ma poi non si fece nulla, soprattutto perché Battisti in quel momento stava sperimentando altro. Le loro note e le loro parole intrise d'amore, in cui spesso s'è infranto il rumore del mare, arginato magari da uno scoglio, però possono coesistere insieme, così come hanno fatto la penna di Liberato Santarpino e la voce narrante di Sebastiano Somma. Una storia ricca di Emozioni, Pensieri e parole legate Con il nastro rosa, rievocando quella Piazza Grande e Caruso insieme a Il gigante e la bambina. Questi solo alcuni dei titoli che sono risuonati in platea accompagnati dagli applausi e dalle voci del pubblico sulle note delle canzoni più iconiche. Diversi anche gli aneddoti che Somma, un po' il Deus ex machina della situazione, ha raccontato facendo scoprire anche particolari ai più non così noti, sulla genesi di una canzone o su un lato del carattere dell'uno o dell'altro Lucio. Sodalizi artistici di successo, come quello con Dalla e Paola Pallottino, a cui si deve 4/3/1943 e quello maggiormente conosciuto con Battisti e Mogol, poi conclusosi perché divergevano le ispirazioni, descritti tra un brano e l'altro riproposto con nuove sonorità dalle voci di Alfina Scorza, Elsa Baldini, Paola Forleo e Francesco Curcio. Volendo fare un appunto, si ci potrebbe soffermare proprio sulle voci e le nuove interpretazioni date a questi successi senza tempo. Pur riconoscendo la bravura delle interpreti, alcuni brani con voci maschili sarebbero stati più incisivi (Caruso su tutti), proprio perché insito nella canzone il ruolo e il sentimento espresso. Anche alcuni arrangiamenti, nonostante la bellezza di cui sono stati arricchiti, non hanno trasmesso l'emozione desiderata. Del resto si tratta pur sempre di un omaggio a due figure di inarrivabile calibro e non si può avere la sensazione di essere seduti a un piano bar, dove semplicemente si cantano (benissimo) delle canzoni di Dalla e Battisti. Lucio incontra Lucio è comunque un appuntamento irrinunciabile, perché si rievocano due modi e due mondi distinti di descrivere sensazioni e sentimenti che non hanno età e disegnano quell'arcobaleno tra cielo e terra, che fa palpitare cuori. Lo spettacolo è andato in scena: Teatro Ghione via delle Fornaci, 37 – Roma dal 28 al 30 marzo Lucio incontra Lucio di Liberato Santarpino regia Sebastiano Somma con Sebastiano Somma e con le voci di Alfina Scorza, Elsa Baldini, Paola Forleo, Francesco Curcio pianoforte Marco De Gennaro sassofono Gianmarco Santarpino contrabbasso Aldo Vigorito batteria Giuseppe La Pusata vibrafono Lorenzo Guastaferro
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persinsala · 20 days ago
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