#Gabriella Montanari
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Gianfranco Berardi con “Io provo a volare” per la rassegna “SCIAPITO’ - Il Circo del Teatro” a Villa Bonelli a Roma Giovedì 2 novembre 2023 è andato in scena lo spettacolo di Gianfranco Berardi e Gabriella Casolari, all’interno della seconda edizione della rassegna teatrale “SCIAPITO’ - Il Circo del Teatro” - da mercoledì 25 ottobre a domenica 5 novembre 2023 a Villa Bonelli , via Camillo Montalcini, 1 a Roma. Io provo a volare è una drammaturgia originale che, a partire da cenni biografici di Domenico Modugno, racconta la vita di uno fra i tanti giovani cresciuti in provincia e che cercano di realizzare il sogno di diventare artisti. Ed è proprio attraverso la descrizione delle aspettative, delle delusioni e degli sforzi che si articola il racconto. La storia vede lo spirito di un custode di un teatrino di provincia che, a mo’ di vecchio capocomico, torna in scena ogni notte, a mezzanotte, in compagnia dei suoi musicisti all’interno del teatro in cui mosse i primi passi. Così, fra racconto, musica e danza, accompagnati dalle musiche di Modugno, interpretate da chitarra e fisarmonica, si rivivono episodi della sua vita: i sogni, gli incontri, gli stages, le prove, la fuga, la scuola, il primo lavoro e l’amaro rientro al paesino a cui, dopo aver provato tutte le strade possibili, è costretto a tornare. Il lavoro quindi, utilizzando la figura di Modugno come simulacro, rende omaggio agli sforzi ed al coraggio dei lavoratori in genere - e dello spettacolo in particolare -, i quali, spinti da passione, costantemente si lanciano all’avventura in esperienze giudicate poco dignitose solo perché meno visibili. Gianfranco Berardi è stato fra i vincitori dei Premi Ubu 2018, premi che fanno emergere un panorama teatrale che da anni produce alcune fra le esperienze artistiche più importanti. Artisti che, nel corso degli anni, hanno lavorato in modo continuativo e sotterraneo, modificando il sistema teatrale. I premi offrono conoscenza e stimolano il dibattito. I migliori attori/attrici del 2018 sono stati/state Ermanna Montanari, Lino Guanciale e Gianfranco Berardi appunto, che lavora con Gabriella Casolari nella compagnia Berardi Casolari. SCIAPITO’ - Il Circo del Teatro - dal 25 ottobre al 5 novembre 2023 Rassegna di quindici spettacoli di drammaturgia contemporanea a Villa Bonelli a Roma La seconda edizione del Festival SCIAPITÒ - Il Circo del Teatro, una rassegna che prevede dodici giorni di programmazione di spettacoli di drammaturgia contemporanea all’interno di uno chapiteau posizionato a Villa Bonelli (Municipio XI). Il Circo del Teatro propone quindici spettacoli, di cui quattro di teatro per l’infanzia in un variegato programma di performances teatrali, con una programmazione che ospita sia compagnie romane sia provenienti da tutta Italia, portando avanti la progettualità di decentramento della cultura e ponendo l’attenzione su luoghi periferici della città. Il festival si è aperto il 25 ottobre con uno spettacolo/reading della compagnia Tony Clifton Circus (Italia/Francia/Inghilterra), e proseguirà fino a domenica 5 novembre con artisti romani quali Daniele Timpano, Andrea Cosentino,Lorenzo Lemme, Teatro Forsennato, Rampa Prenestina e Teatro Rebis. In cartellone, a completare il programma serale, compagnie e artisti quali Francesca Sarteanesi, Compagnia Berardi/Casolari, Lucia Raffaella Mariani con la produzione di Trento Spettacoli, Teatro Segreto e Rossella Pugliese. Per gli spettacoli della sezione Infanzia il programma prevede Teatro Macondo, Illoco Teatro, Francesco Picciotti con la produzione di Florian Metateatro e Marco Ceccotti, e Simona Oppedisano. La scelta del titolo SCIAPITÒ - Il Circo del Teatro nasce dall’incontro fra le due anime del progetto: lo chapiteau ed una programmazione totalmente teatrale. Lo Chapiteau, utilizzato in modo non convenzionale, ospita esclusivamente spettacoli dal vivo non di circo, bensì di drammaturgia contemporanea, sia nella programmazione serale sia nella programmazione per bambini.
La manifestazione è promossa dall’ Associazione Culturale Teatro Macondo, la direzione artistica è curata da Dario Aggioli per conto dell’impresa di produzione Consorzio Altre Produzioni Indipendenti (C.A.P.I.). La manifestazione è raggiungibile con i mezzi pubblici: Linee bus 44, 775, 780, 781, C7, Treno FL1 (fermata Villa Bonelli). Il progetto è realizzato con il sostegno del Ministero della Cultura - Direzione Generale Spettacolo ed è vincitore dell’Avviso Pubblico Lo spettacolo dal vivo fuori dal Centro - Anno 2023 promosso da Roma Capitale - Dipartimento Attività Culturali.
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Il mio lavoro Ritorni è parte di Sciame Project.
Il progetto nasce dall’esposizione annuale d’arte contemporanea Lucisorgenti, iniziativa ideata nel 2008 da Franco Troiani a sostegno dei giovani artisti, la cui X edizione è stata interrotta a causa del terremoto che ha colpito il centro Italia nel 2016.
SciameProject, fondato da Miriam Montani, è una pagina web, una raccolta di pensieri e opere di oltre cento partecipanti tra artisti, curatori, critici, operatori culturali e voci sul territorio.
Impermanenza, Memoria, Abitare, Disabitare, Radicamento, Sradicamento e Motus sono le tematiche affrontate, scandagliate dal terremoto come causa ed effetto. SciameProject si pone come contributo immateriale per far rigermogliare la materia ceduta, in un momento in cui ci troviamo nel punto di scegliere se disabitare la terra o radicarci ancora, con tutte le forze sensibili.
Sciameproject è:
Fabio Giorgi Alberti, Marta Allegri, Francesco Amato, Bruno Amplatz, Marco Andrighetto, Claudia Angrisani, Daniela Ardiri, Alexo Athanasios, Sara Baggini, Giulia Maria Belli, Stefano Baldinelli, Rob Van Den Berg, Elisa Bertaglia, Bianco-Valente, Marta Bichisao, Jaspal Birdi, Sofia Bonato, Federico Borroni, Thomas Braida, Giovanni Sartoti Braido, Gianluca Brando, Annarosa Buttarelli, Alessandra Caccia, Gruppo Cairn, Cristina Calderoni, Riccardo Caldura, Simone Cametti, Chiara Campanile, Tiziano Campi, Lucilla Candeloro, Francesco Capponi, Daniele Capra, Sauro Cardinali, Simone Carraro, Tommaso Ceccanti, Giorgia Cereda, Francesco Ciavaglioli, Adelaide Cioni, Nicola Cisternino, Luca Clabot, Jonathan Colombo, Irene Sofia Comi, Isabel Consigliere, Corale, Cristina Cusani, Gabriella Dalesio, Maria Elisa D’Andrea, Emanuele De Donno, Matilde Di Pietropaolo, Maurizio Donzelli, Simone Doria, Arthur Duff, Léa Dumayet, Chiara Enzo, Tommaso Faraci, Silvia Faresin, Diana Ferrara, Giulia Filippi, Penzo+Fiore, Danilo Fiorucci, Roberta Franchetto, Enej Gala, Benedetta Galli, Elisa Gambino, Maria Luigia Giuffrè, Maddalena Granziera, Aldo Grazzi, Gabriele Grones, Silvia Hell, Interno3, Myriam Laplante, Virginia Di Lazzaro, Iva Lulashi, Annamaria Maccapani, Rita Mandolini, Valerio Magrelli, Fabio Mariani, Luca Marignoni, Nereo Marulli, Alice Mazzarella, Stefania Mazzola, Vittoria Mazzoni, Cecilia Metelli, Leila Mirzakhani, Montanari Testoni Norcia-Cascia, Miriam Montani, Jessica Moroni, Francesca Mussi, Aran Ndimurwanko, Valerio Niccacci, Matteo Nuti, Laura Omacini, Mattia Pajè, Monica Palma, Valeria Palombini, Federica Partinico, Laura P, Ugo Piccioni, Mary Pola, Gianluca Quaglia, Emanuele Resce, Sofia Ricciardi, Paolo Romani, Maria Diletta Rondoni, Marco Rossetti, Antonio Rossi, Elisa Rossi, Marotta & Russo, Giulia Sacchetto, Carlo Sala, Gabriele Salvaterra, Matilde Sambo, Michele Santi, Thomas Scalco, Sa Paradura (fotografie di Massimo Chiappini, testo di Alessia Nicoletti), Sachi Satomi, Carlo Scarpa, Catia Schievano, Alice Schivardi, Davide Serpetti, Nicolò Masiero Sgrinzatto, Hsing-Chun Shih, Davide Silvioli,Thoms Soardi, Meri Tancredi, Sio Takahaschi, Eva Chiara Trevisan, Cristina Treppo, Carmine Tornincasa, Franco Troiani, Sacha Turchi, Matteo Valerio, Silvia Vendramel, Alberto Venturini, Matteo Vettorello, Luigi Viola, Medina Zabo, Andreas Zampella, Vincenzo Zancana, Karin Zrinjski.
In occasione del terzo anniversario del terremoto che ha colpito il centro Italia, il 30 ottobre 2019 SciameProject è ospite al MACRO ASILO per una presentazione e talk con i partecipanti presenti.
Programma della giornata:
10.00 – 10.30: colazione di benvenuto
10.30- 10.50/11.00: introduzione del progetto e degli artisti che prenderanno parola, verrà inoltre annunciato il preludio di un nuovo progetto all’interno di SciameProject (“Sciame Mobile Residence”, ideato insieme a Athanasios Stefano Alexo, Stella Stefani, Karin Zrinjskj, Vincenzo Zancana, Andreas Zampella).
11.00- 13.00 Talk con: Elisa Bertaglia (artista), Jaspal Birdi (artista), Alessandra Caccia (artista), Isabel Consigliere (artista), Cristina Cusani (artista), Emanuele de Donno (curatore, autore, editore Viaindustriae), Giulia Filippi (artista), Maddalena Granziera (artista), Gabriele Grones (artista) Myriam Laplante (artista), Rita Mandolini (artista), Fabio Mariani (artista), Alice Mazzarella (artista), #VittoriaMazzoni (artista), Mary Pola (artista), Francesca Mussi (artista), Matteo Nuti (artista), Gianluca Quaglia (artista), Emanuele Resce (artisti), Davide Serpetti (artista), Comitato Sa Paradura (Cascia), Davide Silvioli (curatore), Franco Troiani (artista), Luigi Viola (artista), Medina Zabo (artista), Vincenzo Zancana (artista).
INFO
Museo Macro Asilo
Via Nizza, Roma
30 ottobre 2019 H 10-13
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“Andare contro lo slam poetry è da reazionari e troppe riviste sono servili alla gerontocrazia poetica”: Gabriella Montanari risponde alle posizioni avanzate da Matteo Fantuzzi
La scorsa settimana, credendo di rivolgerci ai nostri soliti venticinque lettori di manzoniana memoria, abbiamo intervistato il poeta e Direttore di “Atelier”, Matteo Fantuzzi, senza neppure immaginare a quante polemiche saremmo andati incontro. Tutto per due righe in cui l’autore di La stazione di Bologna esprimeva la sua sacrosanta opinione, secondo la quale il poetry slam non sarebbe assimilabile alla poesia vera e propria. Ci sono stati momenti in cui si è rischiato l’accoltellamento virtuale e la minaccia di morte. Queste e altre spiacevoli quisquilie ci hanno rubato tanto tempo nei giorni a seguire, ma siamo fortunatamente sopravvissuti.
Tralasciando, per un attimo, la massa di esagitati isterici, ci ha colpito molto il breve ma mordace commento che in merito ha scritto Gabriella Montanari, poetessa ed editrice. Abbiamo quindi deciso di ospitarla sulla nostra pagina essendo lei, diversamente dagli altri, una che parla fuori dai denti, piuttosto che con un coltello tra i denti. E ne ha dette, ne ha dette tante sulla situazione dell’attuale universo letterario nazionale!
Commentando l’intervista a Matteo Fantuzzi, hai scritto una breve ma intensa critica alle idee da lui avanzate. La tua replica inizia con queste parole: “Reazionari sono tutti coloro che hanno per le mani una parvenza di potere decisionale e morirebbero piuttosto che perderlo o cederlo. Qui mi pare evidente che si cerchi di conservare uno status quo provinciale”. Spiegami meglio questo concetto, per favore.
Comincerei precisando che, chiaramente, il termine “reazionario” non ha qui una valenza politica. In prima istanza, desideravo riconnettermi alle posizioni avanzate in merito allo slam poetry. Questo filone è qualcosa di relativamente nuovo dal punto di vista formale, ma mi pare venga inteso da Fantuzzi come un’involuzione rispetto al modo in cui di solito si concepisce il fare/comunicare poesia. Personalmente, pur non praticando né frequentando questo genere di espressione poetica, non condivido questa sorta di timore reverenziale che secondo certe persone dovrebbe legarsi al pronunciare la parola poesia, per cui lo slam e lo spettacolo che lo accompagna sarebbero di conseguenza viste come qualcosa di svilente, di dissacrante. Con reazionario volevo dunque indicare chi si pone nella posizione di giudicare la forma attraverso cui l’artista della parola sceglie di esprimersi, stabilendo in maniera del tutto soggettiva e spesso autocentrata una sorta di scala di valore: serietà e professionalità tra le modalità di comunicare il proprio sentire poetico. Reazionario è chi non tiene conto della diversità, tra i fruitori di poesia, di gusti, esigenze, capacità e aspettative, sia in materia di contenuti che di forma. Non tutti hanno due lauree, sono addetti ai lavori, hanno a che fare professionalmente con la letteratura. L’“intrattenimento poetico” non è da condannare, anzi, se riesce ad avvicinare il pubblico più ostico, ossia i giovani, alla poesia, deve essere incoraggiato. A volte una lirica recitata in un certo modo o in un certo contesto riesce a toccare corde altrimenti poco sensibili agli approcci più classici di presentazione e reading. Nell’etimo di poesia vi è l’azione di fare, produrre e creare, ma non vi è alcun riferimento a modalità più o meno consone o “nobili”. Il suono, il ritmo, la musicalità del linguaggio giocano un ruolo fondamentale. Le primissime forme di poesia, in epoca arcaica, erano orali, si sposavano con il canto. Dai trovatori medievali, ai cantastorie popolari, ai moderni cantautori la parola poetica non ha forse trovato nell’esibizione in pubblico il suo vettore? Mi sembra quindi che gli slammer non si allontanino più di tanto dall’origine. In ultimo, andare ad ascoltare uno slam è sempre e comunque più edificante che stare davanti alla televisione o al telefono. Non credo sia da condannare come pratica. Per non essere reazionari è dunque necessario non fermarsi a uno status riconosciuto come l’unico degno di essere considerato “fare poesia”. Nell’intervista si parlava, inoltre, di “metodo”. Devo dire che questa parola non mi sembra applicabile al di fuori dello studio e dell’analisi critica. Possiamo utilizzarlo entro tale approccio, ma nel fare poesia mi pare un concetto assolutamente fuori luogo.
Al di là del cosa possa dirsi poesia, tu contesti, sempre in questa prima trance del tuo intervento, il fatto di arrogarsi un potere decisionale in ambito letterario, se non comprendo male.
È tipico di troppe realtà, oggi, in Italia. Non so se si tratti deliberatamente di appropriazione del potere, ma mi pare evidente e sotto gli occhi di tutti un determinato modus operandi: a quale “tipo” di poesia dare considerazione e visibilità, di quali poeti circondarsi, come valorizzarli escludendone altri. Chi si presta a questo gioco entra a far parte di una cerchia, chi non lo fa opera da cane sciolto, fatica, si isola. Ho sempre avuto il sospetto che dietro tale modo di agire si nascondesse molta paura. Solitamente chi tenta di conservare uno stato acquisito, che non consente a chi sta fuori di entrare e di apportare un contributo diverso, ha solo il timore di vedere crollare il proprio fortino, specie se gli avversari sono di spessore e quindi reali concorrenti. Tutto ciò mi fa sorridere, in un ambito che non è neppure quello della narrativa, in cui quindi non c’è alcun interesse economico in ballo. È casomai un potere che nasce dalla frustrazione, un potere pari a quello dei soldi del Monopoli.
Gramscianamente, se certo non si può parlare di potere economico, esiste in senso lato un potere dato dal costituirsi come classe intellettuale. Ciò è sempre accaduto, sia chiaro – solo che la Destra non è riuscita a portare avanti un simile percorso.
Sì, ma sempre si tratta di un’auto proclamazione! Io, poi, sul piano politico non sono una praticante, e nemmeno una teorizzatrice, e ho capito in fretta che questo vuol dire stare fuori da certi giri. Non faccio poesia “civile” o impegnata socialmente, come si suol dire – si tratta di una scelta personale, frutto di lunga riflessione. Già questa è ragione sufficiente per non essere considerata da realtà editoriali che, attraverso le opere di determinati autori, diffondono un pensiero politico più che una linea editoriale. Non credo che un editore debba pubblicare unicamente quello che corrisponde al suo modo di vedere. Il valore estetico, intrinseco ed emozionale di un’opera letteraria dovrebbe essere valutato in maniera autonoma rispetto alla visione del mondo del suo autore o dell’editore che intende diffondere poesia nella maniera più democratica possibile. Ci sono gruppi di influenza, formati da poeti, critici e giornalisti proclamati o autoproclamatisi “establishment”, spesso di dubbio valore letterario e umano, onnipresenti come il prezzemolo e restii a fare spazio, a consigliare, a condividere, ma soprattutto ad ascoltare e a mettere in discussione il piccolo mondo di favori e scambi a cui sono saldamente ancorati.
Perdona la curiosità, ma che cosa avresti tu di tanto diverso da dire che non si possa proprio incontrare con la loro visione delle cose?
La mia è una visione che disturba perché non incline ai compromessi, alle cordate, alle mode. L’onestà nel raccontare le bruttezze, nel denunciare o nell’estraniarsi non è mai stata merce apprezzata, di certo non da chi della poesia ha la pretesa di farne mestiere. Non scrivo per piacere a “quelli che contano”, ma per avvicinarmi a lettori curiosi, aperti e in cerca di emozioni.
Stai forse cercando di dire che la loro visione ideologica preclude l’apprezzamento della tua espressività?
No. Semplicemente ritengo non sia giustificata questa esclusione di chi non è di loro gradimento. Purtroppo, è prassi diffusa allontanare chi non va a genio, o evitare di menzionarlo, fare come se non esistesse. Ultimamente, proprio perché ci sono tanti autori che semplicemente non vengono mai citati in quanto atipici o non schierati, mi sono presa la briga di farlo io sui social. Vorrei far circolare i nomi di tutti quelli che ritengo siano stati messi da parte, pur avendo qualcosa di veramente forte da dire.
Fammi qualche nome, ti prego.
In primis, Ivano Ferrari. Mi chiedo di cosa abbiano paura gli altri, quelli i cui nomi circolano sulla bocca di tutti, rispetto a poeti come lui. Io non credo sia un caso che i grandi, quelli fuori dai sistemi, siano volontariamente messi da parte. Infatti non ho mai sentito un accenno, una parola, per esempio su Filippo Strumia, perché quelli come lui e Ferrari non stanno tutto il giorno a cercare conferme della propria poesia, pur essendo pubblicati dai maggiori editori. E credo che ciò avvenga anche perché gli altri sanno che i reali concorrenti sono loro, perché quella è la poesia che piace al lettore. Poi c’è quella che piace agli altri poeti, ai critici, agli addetti ai lavori. Io ci vedo una scissione…
Parli di una scissione tra alto e basso, tra il popolo e gli intellettuali?
Parlo di una poesia che si rivolge al lettore e quindi arriva anche a chi va verso di essa disarmato, semplicemente con la propria sensibilità, senza sapere “chi sta con chi”, per quale editore pubblica l’autore in questione. Invece tutto l’apparato che si muove dietro questo mondo, alla fine, se la racconta, se la legge e se la pubblica da solo. Non credo che siano intellighenzia. Spesso mancano lucidità e criticità sul proprio lavoro, manca l’autoironia, e da qui tutti i mali. Il bisogno di esercitare una qualche forma di potere sugli altri cela molto spesso grandi insicurezze e incolmabile esigenza di riconoscimenti e conferme.
Veniamo all’ultima parte del tuo commento: “Certe riviste emanano aria stantia. Si avvalgono di giovani vecchi dentro e servili alla geriatocrazia poetica”. Chiariscimi il punto.
La rivista è solitamente la meta per chi inizia a scrivere, o per chi vuole continuare a far circolare il proprio nome tra un libro e l’altro. Dovrebbe anche essere un mezzo per tenersi aggiornati sulle novità e per conoscere le tendenze. Purtroppo, oggi, le riviste non offrono molto spazio a chi non ha conoscenze, a chi non è amico di uno dei redattori, a chi non è stato “raccomandato”. Non si può più sperare di mandare qualcosa a una redazione che liberamente selezioni, senza una mediazione. E questo vuol dire che la rivista è anch’essa uno strumento in cui si ritrovano determinate dinamiche dell’editoria, dei “circoli intellettuali”, dei festival letterari. Forse nei blog c’è più autenticità: chi pubblica altri autori lo fa semplicemente seguendo il proprio gusto personale.
E i giovani nati vecchi?
Mi capita di incontrarli, leggerli, di ricevere i loro manoscritti e mi dispiace a volte riscontrare che si tratta già di ombre, emuli o potenziali portaborse di chi ha raggiunto una posizione in ambito letterario. Il coraggio di osare, di distinguersi, di non avere un protettore, di usare un linguaggio e uno stile propri, mi pare sia andato perduto. Forse interessa di più avere una voce seguita e sostenuta che possedere una voce unica. A me è capitato di ricevere e leggere scritti in cui un giovane autore autodefiniva il proprio stile, per esempio “alla Cucchi” o “alla Magrelli”, e lo faceva con orgoglio. Tutto ciò è abbastanza triste, perché ti chiedi su chi riporre le speranze se non sui giovani, temi che anche la poesia viva di corsi e ricorsi storici e che tutto rimanga identico a oggi. Le nuove generazioni avranno le stesse aspirazioni di quelle che le hanno precedute. Questo demone del riconoscimento credo sia la bestia più difficile da sconfiggere.
Scusa ma tu ritieni che queste riviste siano fucine entro cui vengono allevati dei cloni?
Io dico che quando s’incominciano a vedere spuntare come funghi queste realtà di aggregazione, con un unico e rigido modo di pensare, di scrivere, di concepire la letteratura… non è molto rassicurante. In economia si parla di monopoli e cartelli… Ci vedo molte similitudini. Quando nasce quella che io chiamo una triade (vale a dire una casa editrice, una rivista, un premio), allora dubito che si possa parlare di una realtà aperta, democratica, libera, a disposizione di chi ha qualcosa da proporre. Diventa un accumulo d’influenze che ovviamente si autoalimenta. Che oggi si debba essere obbligati, quando si ha il desiderio di partecipare a un premio letterario, di controllare chi è in giuria, chi è l’editore di riferimento, vuol dire che sussiste un problema. Spesso sai già che in alcuni casi sarà inutile partecipare (non sempre l’anonimato è rispettato come si dovrebbe), perché non sarà il tuo testo a essere valutato, ma ciò che tu rappresenti.
Matteo Fais
*In copertina: Gabriella Montanari con Dan Fante, il figlio di John Fante, lo scrittore, geniale, di “Aspetta primavera, Bandini” e “Chiedi alla polvere”
L'articolo “Andare contro lo slam poetry è da reazionari e troppe riviste sono servili alla gerontocrazia poetica”: Gabriella Montanari risponde alle posizioni avanzate da Matteo Fantuzzi proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2FlKASi
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Anatomie comperate di Gabriella Montanari: gli approdi linguistici scremati dal superfluo
Anatomie comperate di Gabriella Montanari: gli approdi linguistici scremati dal superfluo
Se c’è un poeta in Italia che sa rompere gli schemi, uscire dal seminato e mutare sentimenti e liricità, immagini di fuoco e densità emozionale è Gabriella Montanari.
Anatomie comperate
La sua è una irriverenza che sconvolge non solo per gli approdi linguistici scremati dal superfluo, ma anche per le realizzazioni emozionali che, proprio perché hanno pesato troppo nella realtà e nell’immaginario…
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FECONDAZIONE INSISTITA Mi portava al parco perché lì non lo aveva mai fatto. Tra le famiglie della domenica, sopra l’erba sgualcita da radioline e vinaccio. Russava e mi dormiva addosso come una lapide sulla terra. Ho fatto male ai ranuncoli, senza volerlo. Il cielo spargeva luce e volantini. Mi accostai a una vecchia col sottabito sfiorito, lei aveva le carte, io puntai le ore. Disse, "potessimo evaporare a primavera tra i pollini e le distrazioni... " S’iniettò qualcosa in vena. Vinsi una mano alla gracilità del tempo. Lei, la cena. * Gabriella Montanari, ANATOMIE COMPERATE Edizioni WhiteFlyPress (Dicembre 2018)
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The Italian town where they eat 500-year-old meals (CNN) — The signs of the Renaissance are everywhere in Italy. Grand piazzas and palazzos. Metal-spiked doors. Looming archways. And, of course, all that ever-present art in the churches and galleries. But in one city, you also get a taste of the Renaissance every time you enter a restaurant. Ferrara, in the northern region of Emilia Romagna, was once home to the Estense court, or House of Este, which ruled the city from the 13th to the 18th centuries. The court, on the bank of the River Po, was one of the most formidable cultural powers during the Renaissance. Writers including Boiardo, Ariosto and Torquato Tasso were employed by the court, and artists such as Bellini, Mantegna and Piero della Francesco worked for the Este family in their domineering, moat-surrounded castle in the center of town. Their works have survived the centuries — but so have those of Cristoforo di Messisbugo, the court’s master of ceremonies and steward. Messisbugo was one of two celebrity chefs of the Renaissance, and his prowess with multicourse banquets to impress visiting heads of state and fill the bellies of the Este great and good, led to him writing one of the world’s earliest cookbooks. His tome, “Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio generale” (“Banquets, Recipes and Table-laying”) was published in 1549, a year after he died. In it, as well as sample dinner menus and drinks pairings, he lists 300 recipes. And it’s thanks to Messisbugo that that, nearly five centuries later, the Ferraresi are still eating the Estes’ favorite meals. Because while every town in Italy has its signature dishes, Ferrara’s are straight from the cookbook of that 16th-century court. Yes, these dishes are real Salama da sugo, a centuries-old sausage and mash. Archivo Fotografico Provincia di Ferrara First things first. To enjoy Ferrara’s best known dishes, you don’t want to visit in summer. And you’ll want an elasticated waistband — because the signature food here is heavy. The city’s best known dishes are pasticcio — effectively a pie filled with macaroni cheese, meat ragu, and bechamel sauce — salama da sugo, a centuries-old kind of sausage and mash, and cappellacci di zucca, pumpkin-stuffed pasta. Each, though, has a twist. Pasticcio’s pie crust is sweet — yes, a meat pie in sweet pastry — while salama da sugo is a kilo-heavy salami that’s soaked in water for several days and then boiled for 10 hours to soften it into a spicy, spreadable meat that’s then served on mashed potato. Meanwhile, that super-sweet pumpkin pasta is usually slathered with meat ragu on top. All date back to the Renaissance. In fact, salama da sugo was said to be the favorite dish of Lucrezia Borgia — yes, that Lucrezia Borgia — who came to Ferrara in 1502 when she married the Duke, Alfonso d’Este. In fact, her famously long, blonde, curly locks are said to be the inspiration for another of Ferrara’s famous foods: the coppia, a spiraling, four-horned bread roll, like two croissants welded together. It was supposedly created by Messisbugo for a banquet in honor of Lucrezia. Sergio Perdonati is at work by 3 a.m. each morning to bake around 1,000 coppie per day, such is his devotion to the bread. “I think it’s one of the best breads in the world,” he says proudly. His grandfather, Otello, started the family bakery, Panificio Perdonati, 90 years ago — Sergio’s sourdough starter is Otello’s original, which has survived the bakery’s bombing in the Second World War, and two property moves. All the rolls are formed by hand and the dough is made using vintage mixing machines. Today, they’ve branched out into the sweet stuff — including panpepato, a cake also dating back to the Renaissance, made with chunks of almonds and orange peel, and covered in dark chocolate. Think Renaissance cocktail flairers Cappellacci di zucca — pumpkin-stuffed pasta. Archivo Fotografico Provincia di Ferrara People have always come to Ferrara to eat. “For sure, other courts had banquets, but Ferrara was particularly well known for them,” says Dr Federica Caneparo, a historian at the University of Chicago specializing in the culture of the Italian Renaissance. “It was especially refined, and food and banquets were a demonstration of power in front of their guests, some of whom would be ambassadors from other courts.” Italian courts had a raft of foodie professions, including the “scalco” (like Messisbugo, the supervisor), the “bottigliere” (an ancient sommelier) and the “trinciante” — the “carver”, who would put on a show for the entire table by carving meat or vegetables held in the air on a giant fork (think of a Renaissance cocktail flairer, only with knives and sides of beef instead of bottles). “They were trusted people close to the Duke,” says Caneparo. “Usually gentiluomini [nobles] by birth, or by merit. The scalco was responsible for organizing banquets and, on ordinary days, the household. The trinciante also had to be a trusted person — after all, he was right next to the master of the house with all those big knives.” Ferrara’s banquets were so famous, in fact, that poet Ludovico Ariosto included a description of one in his epic work “Orlando Furioso,” she says. And no wonder — she says that they were “spectacular, with music, dance, theater, and sculptures made of sugar or ice. They’d start with a play, or music, or both, and then they’d prepare the table.” And forget our single-figure tasting menus — these banquets could have well over 100 courses. Mac and cheese with a sugary twist Pasticcio is a pie filled with macaroni cheese, meat ragu, and bechamel sauce. Archivo Fotografico Provincia di Ferrara With so much food to choose from you can be sure that the dishes to have made it into modern Ferrarese cooking are the classics. At the modern Ca’ d’Frara restaurant, guests sit on hip mustard-colored chairs and cream banquettes to eat these centuries-old dishes. And those used to molecular cuisine might find Renaissance gastronomy equally boundary-pushing. “You often find this sweet-savory combination in the Estense cuisine — it’s unique,” says chef Elia Benvenuti. His pasticcio is an intriguing mix of a dense, meaty mac and cheese, wrapped in a cookie-sweet crust. You approach it with trepidation — how can this ever taste good? — but, somehow, it works. The sweet crust even seems to cut through the richness of the white ragu and bechamel sauce. “They’re symbols of the city — part of our DNA,” says chef of the traditional dishes. “I think Lucrezia [Borgia] would be happy,” adds his maître d’ wife, Barbara. Sweetening up the savory Sweet dishes include panpepato, a cake made with chunks of almonds and orange peel, and covered in dark chocolate Archivo Fotografico Provincia di Ferrara A few minutes’ walk away, locals are spilling into Ristorante Raccano, in a 15th-century cloister. Some are here for meat cooked in the oh-so-21st-century Josper oven — what owner Laura Cavicchio describes as “one of the most technically advanced grilling machines.” But others? They’re here for Lucrezia’s beloved salama da sugo. This is normally one of Ferrara’s more savory dishes — the salama is so heavily spiced, it hardly needs sugar. But Cavicchio and her children, Gabriella and Luca Montanari, like to take it right back to its Este roots by serving it with fried custard. The salama — made with different cuts of the pig including neck, belly, liver and tongue, with neck fat binding it all together — is seasoned with spices including cloves, cinnamon, red wine and Ferrara’s ubiquitous spice, nutmeg. It’s then aged in a pork casing for around a year, soaked in water for three days to soften it up, and then boiled for up to 10 hours. By that point, it’s as soft as jam, and chef Luca scoops it out, sprinkles it on top of potato mash, and adds mostarda (like a sweet chutney), plus the crowning glory: a cube of fried custard. “This isn’t a reinterpretation — in the old recipes, you find it served with custard,” says Cavicchio, who’s combed through Renaissance recipes and history books to make it authentic. Alongside modern dishes, they also serve “Crostino alla Messisbugo” — chicken liver and sauteed herbs pate, smeared on toasted bread. It’s another hit from the great man’s recipe book. Meanwhile, their cappellacci di zucca — handrolled pasta pillows, like oversized tortellini, filled with sweet pumpkin and nutmeg — come drenched in meat ragu and topped with parmesan cheese. Again, it’s a combination that shouldn’t work, but does. Alone, the cappellacci are offputtingly sweet to 21st-century tastes. Douse them with meat and cheese, though, and it slices through the sweetness, while amping up the taste of the sauce. Ferrrara was ruled by the powerful House of Este from the 13th to 18th centuries. Shutterstock The Estes’ signature “agrodolce” (sweet-savory) flavor was a conservation method, says Cavicchio. “People had vinegar, wine and salt. Marco Polo used it.” And although at the restaurant they use modern techniques, including that Josper oven, they want to keep the tastes as similar as possible to their heritage. “Over the years I’ve acquired a way of interpreting a recipe — I change the cooking techniques and some of the ingredients, but you need to know the product to do that,” says Cavicchio. Born just over the border in Veneto, where agrodolce flavors are also fundamental, she reads as many books about the Estes’ food habits as she can and experiments to keep the final product as authentic as possible. “Messisbugo was studious,” she says. “He invented recipes with the ingredients he had and the methods available to him. He didn’t have a fridge, so he used vinegar, wine and sugar. We’re much luckier, but I think he’d still appreciate what we do. For us, [the heritage] is a richness.” The modern day foodie courtiers Ferrara’s local bread is supposedly inspired by Lucrezia Borgia’s hair. Archivo Fotografico Provincia di Ferrara Like everywhere in Italy, restaurants and food heritage are important to the locals. Over at Da Noemi — a restaurant named after his grandmother, who opened up by herself in 1956 — 23-year-old Giovanni Matteucci has a hobby unlike many people his age. He buys antique copies of Ferrarese history and recipe books. “Sweetness was synonymous with the food of the rich,” he explains. “They used lots of spices and sugar to show off their wealth.” Even recipes for glammed-up egg yolk, and lasagne, had sugar and cinnamon on top, he says. And although he says it isn’t proven that Lucrezia Borgia really did love salama da sugo above all else, we do know that she adored apples — from the shopping list she compiled for her country estate. “She ordered loads of apples and different varieties,” he says. “It’s also said that she liked garlic.” At Da Noemi, Giovanni and his mom, Maria Cristina Borgazzi, run the kitchen. Brother Luca, meanwhile, is the maître d — the modern equivalent of Messisbugo. In fact, Luca takes his role as master of ceremonies so seriously that he’s decided that their reduced pandemic seating plan will stay forever. “We can pay more attention to the client this way,” he says. Speak to anyone in Ferrara, and they’ll wax lyrical about their pride in their food heritage. Yet, although Italians flock to the city to eat cappellacci, pasticcio, salama da sugo and coppie, the dishes have never really conquered the rest of Italy, as other regional dishes like pizza or tortellini have. Not that the Ferraresi care. “Ferrara is beautiful because of the Este family, and it’s the same for their dishes,” says Giovanni Matteucci. “People come to Ferrara for this, and we have to protect it. “Italy is based on its history. We don’t have Silicon Valley — this is our richness.” And, of course, their sweetness. Eating like Renaissance courtiers, here, is the most modern thing they can do. Source link Orbem News #500yearold #eat #Italian #meals #Town
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ANCONA – Sarà visitabile fino al 23 marzo prossimo la quarta edizione della mostra concorso di Arti visive, “LiberArte”, inaugurata sabato scorso alla presenza dell’assessore alla Partecipazione Democratica, Stefano Foresi, a Palazzo Camerata. L’iniziativa è a cura del circolo culturale Carlo Antognini, patrocinata dall’amministrazione pubblica.
Presenti 33 autori (su 37 espositori) che concorreranno al premio per l’opera più bella e per le segnalazioni di merito; le premiazioni sono previste per sabato 23 marzo alle ore 18.00. La giuria è composta dal prof Antonio Luccarini, dall’artista Alfonso Napolitano e dalla giornalista Franca Santinelli. Tra gli intervenuti il noto artista Guido Armeni e il regista Alfredo B. Cartocci.
Alle pareti, tra dipinti, sculture, fotografie e installazioni, occhieggiano opere di Simonetta Agostinelli, Paola Angeloni, Andrea Ansevini, Francesca Baldini, Marisa Balzi, Rodolfo Bocci, Anna Bonanni, Giuseppina Bonucci, Anthony Bufali, Claudio Buffarini, Roberta Cardinali, Roberta Carletti, Giorgio Castriota, Maria Luisa D’Amico, Grazia De Angelis, Antonio Di Cosmo, Livia Galeazzi, Lamberto Gerini, Gabriella Giuliodori, Anna Maria Guidobaldi, Giannarosa Gusteri, Rossana Lovato, Adriana Magini, Luigi Manzotti, Valeriano Mobili, Maria Cristina Montanari, Anna Letizia Novelli, Margherita Petetti, Renza Pistoni, Margherita Ricci, Laura Sacco, Claudio Tarsetti, Sauro Tolucci, Valentina Valentini, Daniela Vannini, Enrica Vichi, Francesca Zoppi.
Sempre a Palazzo Camerata, giovedì 21 marzo, alle ore 18.00, si terrà la presentazione del libro “Così, giusto pe’ ride…” di Alfredo B. Cartocci; venerdì 22 marzo alle 18.00 recital dei poeti del circolo Antognini. La mostra resterà aperta tutti i giorni fino al 23 marzo dalle ore 17,30 alle 19,30; ingresso libero.
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Un lettore superficiale direbbe subito che si tratta di surrealismo rinnovato e portato a esiti diversi da quelli storici, invece il rutilare delle immagini è un effetto di strabismo semantico che ravviva quella sorta di processione d’idee che tuttavia non si accavallano, non si elidono a vicenda, ma vanno a comporre una nuova carta di significati di cui l’uomo non ha conoscenza e che bisogna recuperare se vogliamo intraprendere un nuovo cammino di speculazione emotiva.
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La sua è una irriverenza che sconvolge non solo per gli approdi linguistici scremati dal superfluo, ma anche per le realizzazioni emozionali che, proprio perché hanno pesato troppo nella realtà e nell’immaginario sociale, adesso devono essere ridotti a cuccioli che abbaiano e non avranno più neanche l’osso. #gabriellamontanari #anatomie
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“Molti lettori, quanto a sviluppo intellettuale, sono fermi all’età di undici anni, forse anche meno”. Dialogo con Mark SaFranco (perché c’è vita letteraria in America, gente, oltre Bukowski)
Ok, ragazzi, lo sappiamo tutti: Bukowski è stato un grande scrittore, forse il massimo innovatore del secondo ’900 americano. Però, adesso, basta! Personalmente, ne ho piene le palle dell’ennesimo volume con cui si cerca di fare cassa anche dagli scarti della sua produzione. L’America è grande, più vasta dell’Europa – possibile che non ci sia un altro accidenti di autore, se non al suo livello, almeno che valga la pena leggere? Non prendiamoci per il culo, certo che c’è – anzi, certo che ci sono. Perché di scrittori cazzuti, dall’altra parte dell’oceano, ne hanno a iosa. Penso a Dan Fante (il figlio di John Fante) che per molti versi non ha niente da invidiare a suo padre e all’autore di Storie di ordinaria follia. Ma di recente sono rimasto folgorato, grazie al consiglio dell’amica traduttrice ed editrice Gabriella Montanari, dalla scoperta di tale Mark SaFranco. In Italia, è reperibile solo una sua opera, Odiando Olivia, uscita per la VAGUE Edizioni. Fottutamente incredibile. Diretto come un cazzotto nello stomaco e necessario come una birra, al mattino, nello stomaco di un alcolizzato. L’ho divorato e, appena finito, mi sono subito detto: se un figlio di puttana che scrive così bene non è morto, lo devo assolutamente intervistare. Beh, state tranquilli, è ancora qui tra noi.
Leggendo il suo libro, Odiando Olivia, ho avuto la netta sensazione che lei abbia esattamente ciò che serve per fare letteratura: poca voglia di abbandonarsi alle fantasticherie e molta di raccontare la vita vera. A dirla tutta, io ritengo che la fantasia sia sopravvalutata. Ogni deficiente è convinto di poter parlare per l’africano e il neozelandese, pur abitando in Italia e senza neppure essere mai stato sul posto. Stronzate! Per questo preferisco gli americani. Voglio dire: dove sta la forza di Carver, Bukowski, Dubus e Fante? Nel descrivere ciò che conoscono. Lei cosa ne pensa in merito?
Innanzitutto, lascia che ti ringrazi per questa domanda, Matteo. Sono contento, peraltro, che ti sia piaciuto il mio romanzo. Vuol dire che i miei traduttori hanno fatto un buon lavoro. Mai sottovalutare il loro apporto. Ma su questo sorvoliamo perché potrebbe essere l’argomento per tutto un altro genere di intervista, no? A ogni modo, per rispondere a quanto mi hai chiesto, si tenga presente che il pubblico ha gusti piuttosto vari, almeno stando a giudicare, per esempio, dal volume di affari che muove il mercato dei libri fantasy – dei quali sinceramente non sono un grande fan. Anzi, ciò mi fa pensare che molti lettori oggigiorno, quanto a sviluppo intellettuale, siano fermi all’età di undici o dodici anni, forse anche meno. I cosiddetti scrittori “realisti” direi che sono i più svantaggiati, al momento, sulla piazza. Anzi, sono proprio fuori moda. Ma concordo con te, quello che mi interessa è ciò che conosco, la mia realtà. La chiave di tutto è renderla interessante a livello letterario, in un modo che risulti unica e inconfondibile.
Mi ha colpito molto un aspetto, a livello stilistico, del suo libro: pur essendo considerevole quanto a mole di pagine, non risulta mai artificialmente allungato. Al contrario, in Italia, siamo pieni di autori che scrivono tomi ipertrofici e indigeribili, in cui spesso, arrivati a pagina cinquanta, ancora si fatica a capire di cosa si stia parlando. Quanto conta essere chiari nella prosa?
Per quel che mi concerne, questo è un principio non negoziabile. Anche io detesto quelli che cercano di “fare spessore”. Non sono certo un sostenitore di quella prosa che non va dritta al punto. Nel bene o nel male, il mio stile si è formato in anni di lavoro, a fasi alterne, come giornalista, in vari quotidiani, dentro redazioni vecchio stile. Cominciai verso i venti. Ho raccontato di tutto, dagli assassinii agli incendi, passando per lo sport, con tutto ciò che vi sta in mezzo. Ho persino scritto i necrologi. A quei tempi, bisognava arrivare subito al nocciolo della questione. Potevi avere un’ora o giù di lì, a volte addirittura pochi minuti se c’era da consegnare in fretta. Mica si poteva stare a menarla in lungo e in largo. Per utilizzare uno stile florido, mancava il tempo. Poi, sia chiaro, essere diretti non vuol certo dire mancare di gusto. Il problema è che, qui in America, i critici confondono certi espedienti retorici e altri fronzoli con il talento. Sì, spesso tengono in grande considerazione certi giochini pirotecnici che, diciamocelo francamente, non portano da nessuna parte. Ma, se non ti ho inteso male, mi pare che questo brutto vezzo ce l’abbiano pure in Italia.
Immagino che, da scrittore, le sarà capitato tante volte di sentirsi porre la domanda “Quanto c’è di autobiografico nel suo libro?” – io, sempre da scrittore, la odio. Lei come risponde, di solito?
Bella domanda! Nei romanzi che vedono come protagonista Max Zajack, come Odiando Olivia, God Bless America e altri, uso la materia della mia esistenza per fare narrativa. Gli eventi vissuti sono molto simili a quelli descritti, se non proprio identici. La fregatura è che scrivere del quotidiano è tedioso. Sennonché, devi usare tutta una serie di strategie per modellare il materiale, come ridurre i tempi, per esempio, velocizzare, metterci dell’umorismo, curare lo stile e via dicendo. Io dico sempre che scrivere la verità è impossibile. Nel momento in cui la penna va a incidere sul foglio, siamo già nel regno della menzogna. Infatti, le prime due volte che tentai di scrivere Odiando Olivia, provai a far entrare a viva forza nel romanzo ogni momento ed esperienza di quegli anni e non ne venne fuori niente di buono. È stato solo quando sono riuscito a eliminare certi particolari – la vera realtà degli eventi –, lasciando parlare i fatti da sé, che ha cominciato a funzionare. Ci capiamo? È un vero e proprio paradosso.
Il suo protagonista, Max, per lungo tempo, è ossessionato dall’idea di scrivere, pur non riuscendoci. Io ho avuto come l’impressione, però, che ciò non sia dipeso dalla mancanza di ambizione o capacità, ma piuttosto dal fatto che, inconsciamente, lui stesso si renda conto di non aver ancora vissuto quel che serve per potersi dire fino in fondo uomo e, dunque, scrittore. Un po’ come Bukowski che, fino a una certa età, quasi non scrive niente, perché si rende conto che gli manca quell’esperienza che fa la differenza. Ecco, le volevo domandare, quanto sia importante aver vissuto, prima di sedersi di fronte alla pagina bianca?
Anche in questo caso, la domanda è interessante e complicatissima. Già a diciassette anni, avevo un bel bagaglio di esperienze – questo è il senso di God Bless America. Solo che non ero ancora pronto per fare lo scrittore. Il fatto è che per esserlo bisogna iniziare presto, cercando da subito di migliorarsi. E fin da allora, all’inizio dei miei vent’anni, io stavo cercando di scrivere, che lo sapessi o meno e che i miei tentativi (romanzi, opere teatrali, canzoni, racconti) fossero più o meno riusciti. Chiariamolo, per la maggior parte non erano niente di buono. Ma è un percorso del proprio apprendistato che bisogna fare. Come imparare a capire il modo in cui le parole si legano in una frase, sulla pagina. E, perciò, bisogna divorare gli altri scrittori. Imitarli. Rubare da loro. Ma, ehi, al contempo, mentre facevo tutte queste cose, io stavo vivendo e accumulando esperienza. Come faccio ancora oggi, a dirla tutta. E ho dovuto lavorare, fare tanti lavori per poter sopravvivere, cosa che ha accresciuto ancora di più il mio bagaglio. Insomma, lo scrittore si trova a sperimentare su di sé un dilemma non da poco: vivere la sua vita, mentre ha come fine quello di diventare scrittore. Con l’andare del tempo, l’esperienza aumenta e, presumibilmente, si migliora dal punto di vista artistico. Ma, visto che hai citato Bukowski, ti voglio dire che non mi sorprese sapere che anche da giovane stava cercando di piazzare i suoi scritti. In verità, ci ha sempre provato, anche quando diceva di aver abbandonato per un certo periodo la scrittura. Per tutto quel tempo, ha solo lavorato in silenzio per affinare il mestiere. Per farla breve, non è un processo che si può sospendere e poi riprendere. Una volta che è iniziato è iniziato e basta. Ognuno, poi, farà il suo percorso. Diventare bravi richiede il suo tempo. Come avevo precisato all’inizio, rispondere a questa domanda è difficile. Beh, speriamo che tutte le risposte che ti ho dato, in qualche modo, abbiano un senso.
Intervista e traduzione dall’inglese di Matteo Fais
Traduzione in inglese delle domande di Gabriella Montanari
Editing di Luisa Baron
*****
Okay, guys, we all know: Bukowski was a great writer, perhaps the greatest innovator of the second half of American twentieth century. But, now, enough! Personally, I am fed up with the umpteenth book with which everybody tries to make cash even from the scraps of his production. America is huge, wider than Europe. Is it possible that there is not another author, if not at his level, at least that it is worth reading? Let’s not fuck with each other, of course there is – indeed, of course there are! Because, on the other side of the ocean, they have a lot of badass writers. I think of Dan Fante (the son of John Fante) who in many ways has nothing to envy to his father and the author of Stories of Ordinary Madness. But recently I was amazed, thanks to the advice of my friend translator and publisher Gabriella Montanari, by the discovery of this Mark SaFranco. In Italy, only one of his works is available, Hating Olivia, released by VAGUE Edizioni. Fucking incredible! Direct as a punch in the stomach and as necessary as a beer in the morning, in the stomach of an alcoholic. I ate it and, as soon as I finished, I immediately said: if a son of a bitch who writes so well is not dead, I absolutely have to interview him. Well, don’t worry, it’s still here among us.
Reading your book, Hating Olivia, I had the distinct feeling that you have exactly what it takes to make literature: little desire to indulge in fantasy and much to tell the real life. To be honest, I think fantasy is overrated. Every moron is convinced that he can speak for the African and the New Zealander, even though he lives in Italy and has never been there. Bullshit! That’s why I prefer Americans. I mean: where is the strength of Carver, Bukowski, Dubus and Fante? In describing what they know. What do you think about that?
First of all, thanks for the very interesting questions, Matteo. I’m very happy you enjoyed the novel, which means my translators did a great job! I can’t underestimate how important the translation process is, but that’s a subject for another interview, isn’t it? I suppose the answer to your question is that people have different tastes, judging by the enormous sales generated by the fantasy writers, of which I too am not a fan. It appears the mentality of most readers nowadays is arrested at the age of eleven or twelve, maybe earlier. The so-called «realists» are at a real disadvantage in the marketplace. In many ways, realism is out of fashion nowadays. But I agree with you: that’s what interests me – what I know and my reality. The key of course is to make what you know interesting in a somewhat unique way.
I was very impressed by an aspect, stylistically, of your book: although this is still considerable in terms of the number of pages, it is never artificially lengthened. On the contrary, in Italy, we are full of authors who write hypertrophic and indigestible tomes, in which often, when you get to page fifty, you still find it hard to understand what they are talking about. How important is it to be clear in writing?
For me it is paramount. I too detest «filler». And I am not a fan of prose that does not aim directly at its target. For better or worse, my style was formed by years of working on and off as a journalist for daily newspapers in real old-style city newsrooms. I started in my early twenties. I covered everything from murders to fires to sports and everything in between, including writing obituaries. The task was to get to the heart of the matter quickly. That usually meant a matter of an hour or so, sometimes just minutes when the deadline was tight. There was no time to waste beating around the bush. There was no time to construct a florid style. But that directness does not mean that writing has to be devoid of style, of course. The problem is that in America the critics often mistake gimmicks and flowers for literary talent. The critics are always impressed by pyrotechnics that mostly lead nowhere. Sounds like that might the case in Italy too.
I imagine that as a writer you will have happened so many times to be asked the question «How much is autobiographical in your book?» As a writer too, I always hate it. How do you usually respond?
That’s actually a complicated answer. In the «Max Zajack» novels like Hating Olivia and God Bless America and the others, I use the fodder of my own existence for the narrative. The events of my life are very close to what’s described in the novel, if not exactly what’s there. The pitfall as I mentioned earlier is that writing about everyday life is boring. So you have to bring many tricks to bear on the material – compression of time, for instance, and pace, and humor, and style, and so forth. The point is that you learn these tricks over the years in order to pull it off. I always say that it’s impossible to write the truth. As soon as the pen collides with paper, it’s false. In fact, in my first two attempts at writing Hating Olivia, I tried to shoehorn every moment of my experience of those years into the novel, and it wasn’t successful. It was when tossed out all of the internal stuff – the real «truth» of the experience – and let events speak for themselves that it began to work. So it’s a paradox.
Your protagonist, Max, for a long time, is obsessed with the idea of writing, even if he doesn’t succeed. I had the impression, however, that this did not depend on the lack of ambition or capacity, but rather on the fact that, unconsciously, he himself realizes that he has not yet lived what it takes to be able to say himself fully man and, therefore, writer. A bit like Bukowski, who until a certain age almost doesn’t write anything, because he realizes that he lacks that experience that makes the difference. Well, I wanted to ask you, how important it is to have lived before sitting in front of the blank page?
This is a very good question, and the answer is, again, very complicated. I already had a wealth of experience of life at the age of 17 – that’s the content of my novel God Bless America. But I wasn’t ready as a writer. And a writer needs to be in a state of development from the beginning. From the outset, my early twenties, I was always trying to write, whether or not I knew what I was doing and whether or not my attempts – at novels, plays, songs, stories, whatever — succeeded. Mostly, they didn’t succeed. But you have to go through that apprenticeship. You have to study how words are put together in a sentence, on the page. You have to devour other writers. You have to imitate them. You have to steal from them. But at the same time I was living. Which, of course, still goes on today. I had to work many, many jobs in order to survive, which was also a huge trough of experience. So the writer is faced with a peculiar dilemma – you have to live your real life at the same time as you are engaged in a writing life. As time goes on, you accumulate more experience of life and – presumably – you get better at being an artist. Since you mention Bukowski, I was not at all surprised to discover that in his early years he was sending his work out all the time. And it appears that he rarely stopped doing that, even when he said he wasn’t writing. He was really working at his craft all along. So I don’t think you just turn the process on and off. Once you’re in, you’re in. And everyone develops at different rates. To be really good takes a long, long time. Like I said, the answer is complicated. And I hope all of these answers make sense.
Interview by Matteo Fais
Questions translation by Gabriella Montanari
L'articolo “Molti lettori, quanto a sviluppo intellettuale, sono fermi all’età di undici anni, forse anche meno”. Dialogo con Mark SaFranco (perché c’è vita letteraria in America, gente, oltre Bukowski) proviene da Pangea.
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MONTEGRANARO – Proseguono in tutta Italia, le selezioni della nuova edizione di “Miss Mamma Italiana 2019”, concorso nazionale di bellezza e simpatia riservato a tutte le mamme aventi un’età tra i 25 ed i 45 anni, con fascia “Gold” per le mamme dai 46 ai 55 anni e fascia “Evergreen” per le mamme con età superiore ai 56 anni, giunto quest’anno alla sua 26° edizione, manifestazione curata dalla Te.Ma Spettacoli di Paolo Teti (ideatore e Patron del Concorso).
“Miss Mamma Italiana” sostiene “Arianne” Associazione Nazionale Onlus per la lotta all’Endometriosi, una malattia ancora poco conosciuta, che colpisce 3 milioni di donne italiane in età fertile. Domenica 4 novembre, “al Circoletto” di Montegranaro, si è svolta una selezione valevole per l’elezione di “Miss Mamma Italiana 2019”.
Le mamme partecipanti, oltre a sfilare in passerella con abiti eleganti, hanno sostenuto una prova di abilità come cantare, ballare, illustrare ricette gastronomiche, cimentarsi in esercizi ginnici ed in prove creative ed artistiche, coinvolgendo il marito o i figli.
La giuria ha proclamato vincitrice della selezione con la fascia “Miss Mamma Italiana al Circoletto”, Stella Claudia Monachesi 35 anni, impiegata, di Macerata, sposata da 1 anno con Sauro e mamma di Ginevra di 10 mesi. Stella Claudia è una dolce e simpatica mamma con capelli biondi e occhi verdi, con la passione per il canto.
Per la categoria “Miss Mamma Italiana GOLD”, riservata alle mamme dai 46 ai 55 anni, la vittoria è andata ad Agnese Vitali, 53 anni, colf, di Macerata, mamma di Federica e Ludovica, di 28 e 26 anni.
Mentre per la categoria “Miss Mamma Italiana EVERGREEN”, riservata alle mamme con più di 56 anni, si è aggiudicata la vittoria Marina Marchionni, 60 anni, commessa, di Montegranaro (FM), mamma di Maicol di 32 anni.
Queste le altre mamme premiate:
◦ “Miss Mamma Italiana Damigella d’Onore” Giusiana Luminari, 40 anni, impiegata, di Osimo (AN), mamma di Cloe e Mia, di 10 e 6 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Radiosa” Tania Campelli, 39 anni, operaia, di Montegranaro (FM), mamma di Ginevra e Nicole, di 8 e 6 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Dolcezza” Martina Perticarini, 30 anni, commessa, di Montegranaro (FM), mamma di Riccardo di 1 anno;
◦ “Miss Mamma Italiana Simpatia” Michela Montanari, 45 anni, casalinga, di Sant’Angelo in Pontano (MC), mamma di Tommaso di 12 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Gold Eleganza” Beatrice Matassoli, 53 anni, impiegata, di Osimo (AN), mamma di Paola di 20 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Gold Romantica” Stefania Giovannetti, 50 anni, casalinga, di Montegranaro (FM), mamma di Matteo di 19 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Gold Sprint” Sabrina Piangerelli, 49 anni, casalinga, di Offida (AP), mamma di Raffaele di 19 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Gold Simpatia” Katia Maroni, 49 anni, oss, di Offida (AP), mamma di Pietro e Silvia, di 25 e 15 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Fashion” Liliana Maiani, 58 anni, guardia giurata, di Polverigi (AN), mamma di Gabriele e Christian, di 36 e 28 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Glamour” Gabriella Pignotti, 57 anni, casalinga, di Montegranaro (FM), mamma di Cristian ed Alice di 34 e 30 anni e delle gemelle Michela e Jenny, di 22 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Solare” Loredana Giansanti, 59 anni, impiegata, di Ancona, mamma di Silvia, Sara e Sheila, di 44, 37 e 32 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Sorriso” Maria Grazia Orsili, 60 anni, commerciante, di Montegranaro (FM), mamma di Pietro, Elisa e Luca, di 40, 37 e 32 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Simpatia” Brunetta Clementi, 59 anni, estetista, di Ancona, mamma di Valentina e Yuji, di 36 e 27 anni;
◦ “Miss Mamma Italiana Evergreen Simpatia” Anna Palanca, 56 anni, impiegata, di Chiaravalli (AN), mamma di Michele di 21 anni.
La manifestazione è stata presentata da Paolo Teti ideatore e Patron del concorso. Ospiti d’onore le Mamme Madrine di “Miss Mamma Italiana”, ovvero mamme vincitrici di fascia nazionale delle passate edizioni del concorso e le Pre Finaliste dell’edizione 2019.
Le mamme interessate a partecipare al Concorso a loro dedicato (le iscrizioni sono gratuite), possono contattare la Te.Ma Spettacoli al numero 0541 344300. Per ulteriori informazioni o per invio di foto, contattare il numero 0541 344300.
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