#Guilhem de Peitèus
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Letture medievali N. 2: Guilhem de Peitèus, Ab la douzor del temps novel
Dopo Farai un vers de dreit nient, propongo un’altra canzone di Guglielmo d’Aquitania, unanimemente considerata una delle più belle e delle più rappresentative liriche occitaniche. Al suo interno compaiono, infatti, alcuni di quelli che diventeranno i temi tipici della tradizione trobadorica, ma gran parte della sua fortuna è dovuta all’immagine, icastica ed indimenticabile, che racchiude in sé tutto il senso del componimento, talmente romantica che, se la gente avesse una seppur minima idea della letteratura medievale, sarebbe una di quelle citazioni, magari riportata su una pagina ingiallita, che i più sono soliti condividere a caso su Facebook.
Tra i motivi che diverranno ricorrenti in questo tipo di poesia vanno senza dubbio ricordati l’esordio primaverile (la cosiddetta reverdie), cioè la rinascita della natura all’arrivo della bella stagione che risveglia i sensi, di uomini e animali, e, di conseguenza, il canto d’amore, e la sovrapposizione a questo tema amoroso di immagini e simboli feudali. La donna amata è, infatti, per i trovatori signore, al maschile (midons). In questa canzone alla sfera feudale rimandano le immagini del messaggero e del sigillo, del mantello e del coltello, in questi ultimi casi con sfumature erotiche neanche troppo velate, come ci si aspetta dal buon Guglielmo (per un breve profilo si rimanda sempre al post della settimana scorsa).
L’immagine che è al centro della poesia (nella terza di cinque coblas) ne condensa, si diceva, con mirabile essenzialità il messaggio. Si tratta del biancospino, pianta ricorrente nella poesia medievale, specialmente nei generi di ascendenza popolare (albas, pastorelle, chansons de toile...), e legata al folklore soprattutto di ambito matrimoniale o comunque erotico. Nella canzone di Guglielmo, il ramo di questo arbusto, che resiste tutta la notte al freddo e al gelo fino al sorgere del sole, diviene simbolo dell’amore invincibile che lega il poeta all’amata, capace sempre di trionfare nonostante occasionali difficoltà. I due, infatti, a quanto sembra, hanno litigato, lui, al solito, si dispera e soffre dell'allontanamento, ma ritrova prontamente la speranza, al ricordo di una precedente rottura ricomposta, di riconciliarsi ancora con l’amata. Spera, dunque, che anche il loro amore, proprio come il biancospino, passi la notte fredda ed umida per essere nuovamente riscaldato dai raggi del sole, nonostante quello che abbiano potuto dire i soliti lauzengiers, i malparlieri, gli eterni nemici degli amanti delle canzoni (sempre se a loro va riferita l’ultima cobla di senso molto discusso).
I.
Ab la douzor del temps novel
Fueillon li bosc, e li auzel
Chanton chascus en lor lati
Segon lo vers del novel chan:
adoncs estai ben q’on s’aizi
De zo don hom a plus talan.
II.
De lai don plus m’es bon e bel
No·m ve messatgers ni sagel,
Don mos cors non dorm ni non ri
E no m’en auz traire enan
Tro que eu sapcha ben de fi
S’el’es aissi con ieu deman.
III.
La nostr’amor vai enaissi
Con la branca de l’albespi
Qu’estai sobre l’arbr’entrenan
La noig, a la ploi’e al giel,
Tro l’endeman, qe·l sol s’espan
Per la fueilla vert enl ramel.
IV.
Anqar mi membra d’un mati
Qe nos fezem de guerra fi
E qe·m donet un don tan gran,
Sa drudari’ e son anel:
Anqar mi lais Dieus viure tan
Q’aia mas manz sotz son mantel!
V.
Q’ieu non ai soing d’estraing lati
Qe·m parta de mon Bon Vezi,
Q’eu sai de paraulas con van
Ab un breu sermon qi s’espel:
Qe tal se van d’amor gaban;
Nos n’avem la pessa e·l coutel!
Traduzione
I.
Con la dolcezza del tempo novello
fogliano i boschi e gli uccelli
cantano ciascuno in suo latino
secondo la melodia del canto nuovo:
allora sta bene che si goda
di ciò di cui si ha più talento.
II.
Da là dove mi è più buon e bello
non viene messaggero né sigillo,
per cui non dormo e non rido
e non oso farmi avanti
finché io non sappia bene dell’accordo
se è così come io domando.
III.
Il nostro amore va così
come il ramo del biancospino
che sta ritto sopra l’albero
la notte, alla pioggia e al gelo,
fino all’indomani, quando il sole si spande
per il verde fogliame sul ramo.
IV.
Ancora mi ricordo di un mattino
quando noi facemmo di una guerra pace
e mi donò un dono tanto grande,
in pegno d’amore il suo anello:
ancora mi lasci Dio vivere tanto
che io abbia le mie mani sotto il suo mantello!
V.
Io non mi curo che la chiacchiera di estranei
mi separi dal mio Buon Vicino,
ché io so come vanno le parole
per un breve detto che così dice:
alcuni si vanno d’amore vantando;
noi ne abbiamo le carne e il coltello.
NOTE
Il testo originale è tratto da Gambino F., “Guglielmo di Poitiers: Ab la douzor del temps novel”, «Lecturae tropatorum», III, 2010. La traduzione è invece mia.
8. No·m ve: così la Gambino, altri editori accolgono la lezione non vei (non vedo).
11. De fi: intendo con lo stesso senso dell’altra lezione de la fi e non seguo la Gambino che intende l’espressione come una locuzione avverbiale (con certezza), perché, anche se «in antico francese sono numerosi gli esempi dell’espressione costruita con il verbo saveir», «in antico occitano è possibile citare solo “aug dir tot de fi”» di Bertan de Born.
12. S’el’es: per come intendo il v. 11 leggo qui un pronome femminile e non neutro (el) come la Gambino.
15. Entrenan: il passo è problematico e le scelte degli editori sono molteplici: 1) en tremblan (tremando) da tremblar (<TREMULARE); 2) en treman (tremando) da tremar non attestato; 3) creman (che arde [per il freddo]); 4) entrenan (diritto, in piedi, verso l’alto).
26. Bon Vezi: senhal della donna amata.
30. Pessa: è il pezzo di carne o di pane, ma può anche indicare il pezzo di terreno dato in feudo al vassallo dal signore. In genere l’espressione viene intesa dagli editori nel senso di “avere l’intero godimento”.
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Letture medievali N. 1: Guilhem de Peitèus, Farai un vèrs de dreit nient
Ho deciso, anche se, come per tutte le cose che imprendo, non so quanto durerà, di condividere regolarmente qualcuna delle mie letture medievali, in particolare dei testi galloromanzi in lingua d’oc e d’oïl, che sono la mia grande passione (nel corso del quinquennio universitario ho accumulato 42 CFU di filologia romanza juste parce que).
Dopo breve dibattito interiore con prosopopea dei concetti astratti in perfetto stile da romanzo medievale, ho deciso di incominciare dal primo di tutti, Guglielmo d’Aquitania, e di accantonare per il momento Chrétien di Troyes, il primo del mio cuore (posizione condivisa ex aequo con Proust), su cui mi riservo di tornare quando avrò più tempo. Considerando comunque che Guglielmo è il nonno di Eleonora d’Aquitania, madre di Maria di Champagne, protettrice di Chrétien, tutto torna.
Gugliemo VII conte di Poitiers e IX duca d’Aquitania (1071-1126) è considerato non soltanto il primo trovatore, ma anche il primo poeta in volgare dell’Europa medievale. Nominalmente vassallo del re di Francia, era di lui più potente (non che al tempo ci volesse molto).
Avventuriero senza scrupoli e gran seduttore, fu due volte sposato e due volte scomunicato per le violazioni del diritto ecclesiastico e gli scandali della sua vita privata. Per dire, fu anche accusato, ci dice Guglielmo di Malmesbury, di aver voluto fondare un monastero di prostitute (abbatiam pellicum).
La sua vida* lo presenta in questo modo:
Lo coms de Peitieus si fo uns dels majors cortes del mon e dels majors trichadors de dompnas, e bons cavalliers d’armas e larcs de dompnejar; e saup ben trobar e cantar. Et anet lonc temps per lo mon per enganar las domnas.
Il conte di Poitiers fu uno degli uomini più cortesi del mondo e uno dei più grandi ingannatori di donne, e fu buon cavaliere d’arme e generoso nel corteggiare, e seppe ben comporre e cantare. E se ne andò lungo tempo per il mondo ad ingannare le donne.
Tra le tante cose, tentò anche una sfortunata crociata in Terrasanta (1101) e di annettere più volte Tolosa senza successo.
*Le vidas sono delle brevi notizie biografiche, databili a partire dal XIII secolo, composte su un centinaio di trovatori. Le razos, invece, riportano le circostanze di composizione delle canzoni.
Farai un vèrs de dreit nient
Della decina di canzoni che ci sono giunte sotto il nome di Guglielmo ho scelto Farai un vèrs de dreit nient perché adoro la prima cobla*, soprattutto per la storia del cavallo, che forse potrebbe pure intendersi come allusione erotica, conoscendo il soggetto.
La critica, al solito, si è sbizzarrita e ha dato della canzone le interpretazioni più varie, da quella che la vuole una meditazione filosofica sul niente a quella che la vede come visione onirica, o forse, semplicemente, prendendo per buone, come faceva J. Duggan, le parole dello stesso poeta, non vuole dire proprio nulla.
Ricordo che le canzoni erano pensate per essere cantate su un accompagnamento musicale.
*Le coblas sono le strofe, in genere cinque o sei, che compongono la canzone, chiusa da una tornada, che equivale al congedo delle canzoni italiane.
I.
Farai un vèrs de dreit nient:
Non èr de mi ni d’autra gent,
Non èr d’amor ni de jovent,
Ni de ren au,
Qu’enans fo trobats en dorment
Sobre chevau.
II.
Non sai en qual’ora⸳m fui nats,
Non soi alegres ni irats,
Non soi estranhs ni soi privats
Ni non puèsc au,
Qu’enaissí fui de nuèit fadats
Sobr’un puèg au(t).
III.
Non sai quora⸳m fui endormits,
Ni quora⸳m velh, s’om non m’o ditz;
Per pauc non m’es lo còr partits
D’un dòl corau:
E non m’o prètz una fromits,
Per sant Marçau!
IV.
Malauts soi e cre mi morir:
E ren non sai mas quand n’aug dir.
Mètge querrai al mieu albir,
E no⸳m sai tau;
Bon mètges èr, si⸳m pòt guerir,
Mor non, s’amau.
V.
Amig’ai ieu, non sai qui s’es:
Qu’anc non la vi, si m’ajut fes:
Ni⸳m fes que⸳m plassa ni que⸳m pes,
Ni non m’en cau:
Qu’anc non ac Normand ni Francés
Dins mon ostau.
VI.
Anc non la vi et am la fòrt;
Anc non n’aic dreit ni no⸳m fes tòrt;
Quand non la vei, ben m’en deport;
No⸳m prètz un jau:
Qu’ie⸳n sai gençor e belasor
E que mas vau.
VII.
Non sai lo luèc ves ont s’està,
Si es en puèg o es en pla(n);
Non aus dire lo tòrt que m’a,
Abans m’en cau;
E pesa⸳m ben car çai rema(n)
Per aitan vau.
VIII.
Fait ai lo vèrs, non sai de qui;
E tramentrai lo a celui
Quel lo⸳m trametrà per autrui.
Envers Peitau,
Que⸳m tramesés del sieu estui
La contraclau.
Traduzione
I.
Farò una canzone su un bel niente:
Non sarà su di me né su altra gente,
Non sarà sull’amore né sulla giovinezza,
Né su nient’altro,
Ché prima fu composta mentre dormivo
Sopra un cavallo.
II.
Non so a che ora fui nato,
Non sono allegro né triste,
Non sono straniero né del posto
E non posso farci niente,
Ché così fui di notte stregato
Sopra un alto poggio.
III.
Non so a che ora mi fui addormentato,
Né a che ora sto sveglio, se nessuno me lo dice;
Per poco non mi si è il cuore spezzato
Di un dolore mortale:
E non me ne importa una cicca,
Per san Marziale!
IV.
Malato sono e credo di morire:
E nient’altro so più di quanto sento dire.
Un medico cercherò a mio piacimento,
Ma tale non ne conosco;
Buon medico sarà, se mi può guarire,
Ma no, se peggioro.
V.
Ho un’amica, non so chi sia:
Ché mai non la vidi, in fede mia;
Niente mi fece che mi piaccia o che mi pesi,
E non me ne importa:
Ché mai fu normanno o francese
In casa mia.
VI.
Mai non la vidi ma la amo forte;
Mai ne ebbi diritto né mi fece torto;
Quando non la vedo, me ne diverto bene;
Non me ne importa un fico:
Ché io ne conosco una più nobile e bella
E che vale di più.
VII.
Non conosco il luogo in cui dimori,
Se è in montagna o in pianura;
Non oso dire il torto che ha nei miei confronti,
Piuttosto sto zitto;
E mi pesa molto rimanere qui,
Perciò me ne vado.
VIII.
Ho finito la canzone, non so su chi;
E la manderò a colui
Che la manderà per un altro
Verso il Poitou,
Affinché mi mandi del suo astuccio
La controchiave.
NOTE
Il testo originale è tratto da Fabre Paul, Anthologie des troubadours: XIIe-XIVe siècle, Paradigme, Orléans, 2010, che si distingue per i testi modernizzati nella grafia, che hanno, se non altro, il vantaggio di poter essere più agevolmente letti dai non specialisti che vi si volessero provare. Il motivo è presto detto: si tratta dell’edizione che al momento ho a portata di mano (criterio molto filologico, direi…). La traduzione, invece, è tutta mia e non ha alcuna pretesa di artisticità (non rispetta né la metrica né le rime dell’originale), anche perché l’ho portata a termine in una mezz’oretta.
Ho scelto di tradurre con “canzone” il vers dell’originale, perché con questo termine si designava fino alla fine del XII secolo la forma poetica poi più comunemente conosciuta come canso. Beltrami traduce con “versus”, che è il genere poetico paraliturgico medio-latino da cui il vers provenzale etimologicamente deriva, per il fatto che la canzone di Guglielmo ha probabilmente un valore dissacrante nei confronti della poesia religiosa.
La penultima cobla non è mantenuta da tutti gli editori. In effetti non aggiunge molto al testo.
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