#esistenza e ricerca
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Ammonimento di Antonia Pozzi: Un Canto Poetico tra Dolore e Speranza. Un'analisi della struggente poesia di Antonia Pozzi, tra malinconia e ricerca di senso
Ammonimento è una delle poesie più intense di Antonia Pozzi, scritta il 28 ottobre 1933. La poetessa milanese esplora con delicatezza e profondità i temi del dolore, della crescita interiore e della ricerca di un senso nella vita.
Ammonimento è una delle poesie più intense di Antonia Pozzi, scritta il 28 ottobre 1933. La poetessa milanese esplora con delicatezza e profondità i temi del dolore, della crescita interiore e della ricerca di un senso nella vita. La sua poesia è pervasa da un’inconfondibile malinconia e da un’intensa introspezione, riflettendo il tormento interiore e la sensibilità che caratterizzarono la sua…
#Ammonimento poesia#amore e distacco#amore e saggezza#Antonia Pozzi#bellezza malinconica#boscaiolo metafora#consigli poetici#Crescita Interiore#esistenza e ricerca#foresta vita#fuoco simbolico#immagini poetiche#introspezione Antonia Pozzi#Introspezione poetica#letteratura femminile#letteratura italiana#letteratura novecento#messaggio di speranza#Metafore naturali#metafore vita#poesia consolazione#poesia esistenziale#poesia italiana#poesia malinconica#poesia meditativa#Poetessa italiana#poetessa milanese#poetesse italiane#poetica dei sentimenti.#poetica del dolore
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Fortunamente esistono i social, che permettono a molti, delusi dalla propria esistenza e privi di un minimo amor proprio, di trasformarsi da brutto anatroccolo in cigno. Una profilo rubato di qua, bei commenti copiati di la ed ecco che si diventa qualcun altro, beandosi dei commenti esilaranti e patetici di schiere di sfigati, alla ricerca, spesso, dello sfogo del proprio testosterone. Sarebbe il caso di rendersi conto che anche il brutto anatroccolo aveva un suo perché. Era pur sempre un anatroccolo vero, non un cigno finto.
(Angela P.)
Vaffanculo!!!!!!
A chi mi ha rubato il mio profilo.
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La mancanza d'amore genera sempre una mancanza d'essere.
Quando non siamo amati, o non ci sentiamo amati, abbiamo la netta percezione di non valere nulla. Soprattutto se questo accade quando siamo piccoli con i nostri genitori.
Se l'altro ci ama, se soddisfa le nostre aspettative di essere riconosciuti, di ricevere affetto, cure, gratificazioni, noi ci sentiamo visti.
Sentendoci visti, ci riflettiamo nei suoi occhi come in uno specchio, nel quale vediamo, finalmente, noi stessi.
È l'atteggiamento di cura, di amore, di interesse da parte dell'altro importante nei nostri confronti, a creare in noi la convinzione di essere qualcosa.
Qualcosa che è degno di essere amato.
Il valore che ci viene dato dall'altro, ci incoraggia a dare valore a noi stessi, e a considerarci come delle persone che hanno il diritto di esistere.
E proprio grazie a questa convinzione, che viene rinforzata attraverso l'atteggiamento dell'altro e mediante le interazioni tra noi e lui, che noi creiamo in noi stessi una nostra identità.
Il nostro io.
Se tutto questo viene a mancare, oppure risulta zoppicante, intermittente, o ambiguo; se l'amore dell'altro e il valore di cui ci investe risultano a corrente alternata, noi cominciamo a dubitare di noi stessi.
Avviene nel nostro intimo, nella nostra interiorità, quello che Claudio Naranjo chiama obnubilamento dell'essere.
Questa perdita del nostro essere, intesa come vuoto d'essere, non può essere messa da parte.
Da adulti, infatti, proviamo questo vuoto d'essere che ci spinge ad una ricerca spesso drammatica, tormentata e angosciante.
Potremmo dire che tutta la nostra esistenza si avvita di continuo all'interno di un labirinto invisibile rappresentato da questa assenza.
Il nostro stesso carattere non è altro che una formazione reattiva compulsiva, drammatica e spesso inconsapevole, alla mancanza del nostro essere o alle parti mancanti di esso, che sentiamo come tormento diffuso e indefinito nella nostra anima.
Ora, il problema è che noi andiamo a cercare la conferma di queste nostre parti mancanti, o del nostro essere stesso, servendoci di aspetti fallaci, maschere comportamentali e illusioni cognitive, che in qualche modo possono ricostruire in noi, anche attraverso il feedback degli altri, un'immagine compensatoria di quella presenza d'essere che, a qualche livello, sentiamo mancarci.
Alcuni lo fanno attraverso il perfezionismo perché in questo modo ottengono un qualche tipo di riconoscimento, dagli altri e da loro stessi.
Altri lo fanno attraverso il servire indefessamente le altre persone, fino allo sfinimento.
Altri ancora attraverso il dominio, il controllo, la rabbia esplosiva o implosiva.
Altri ancora attraverso il senso di colpa, il giudizio di sé, il vittimismo, il tutto ricoperto dalla patinata vernice rinforzante della virtù morale.
Questi atteggiamenti sono tutte modalità compensative attraverso le quali noi cerchiamo il nostro essere laddove non c'è.
E più lo cerchiamo attraverso queste modalità compensative, più ce ne allontaniamo.
Il trucco è comprendere che dietro alle nostre paure, mancanze e bisogni esistenziali negati, si nasconde quell'essere che tanto cerchiamo all'interno di comportamenti stereotipati, di formalità vuote e di astrazioni.
Se ne sta acquattato nel vuoto, pronto a farsi scoprire e al tempo stesso a lasciarsi costruire da noi, se ci dedichiamo a noi stessi con amore, gratitudine e semplicità.
Il nostro essere, come un seme cui viene data la possibilità di germogliare se piantato nel terreno giusto, emergerà da sé.
Dobbiamo solo avere fiducia nella potenza realizzativa della vita stessa.
©Omar Montecchiani
#quandolosentinelcorpodiventareale
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Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l’anima,
perché un’anima da sola è come una goccia d’acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi,
pur correndo il rischio di cadere a loro volta.
Quelle come me guardano avanti,
anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.
Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano,
tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.
Quelle come me quando amano, amano per sempre.
e quando smettono d’amare è solo perché
piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita.
Quelle come me inseguono un sogno
quello di essere amate per ciò che sono
e non per ciò che si vorrebbe fossero.
Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai,
sono caduti nel dimenticatoio dell’anima.
Quelle come me vorrebbero cambiare,
ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo.
Quelle come me urlano in silenzio,
perché la loro voce non si confonda con le lacrime.
Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore,
perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio,
non riceveranno altro che briciole.
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,
purtroppo, fondano la loro esistenza.
Quelle come me passano inosservate,
ma sono le uniche che ti ameranno davvero.
Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto…
~Quelle come me~
Alda Merini 🖤
Buongiorno anime ☕️🌷
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Quelle come me…
Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l’anima,
perché un’anima da sola è come una goccia d’acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi,
pur correndo il rischio di cadere a loro volta.
Quelle come me guardano avanti,
anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.
Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano,
tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.
Quelle come me quando amano, amano per sempre.
e quando smettono d’amare è solo perché
piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita.
Quelle come me inseguono un sogno
quello di essere amate per ciò che sono
e non per ciò che si vorrebbe fossero.
Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai,
sono caduti nel dimenticatoio dell’anima.
Quelle come me vorrebbero cambiare,
ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo.
Quelle come me urlano in silenzio,
perché la loro voce non si confonda con le lacrime.
Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore,
perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio,
non riceveranno altro che briciole.
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,
purtroppo, fondano la loro esistenza.
Quelle come me passano inosservate,
ma sono le uniche che ti ameranno davvero.
Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto.
Alda Merini
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QUELLE COME ME
Alda Merini
Quelle come me sono capaci di grandi amori e grandi collere, grandi litigi, grandi pianti e grandi perdoni.
Quelle come me non tradiscono mai, quelle come me hanno valori che sono incastrati nella testa come se fossero pezzi di un puzzle, dove ogni singolo pezzo ha il suo incastro e lì deve andare. Niente per loro è sottotono, niente è superficiale o scontato, non le amiche, non la famiglia, non gli amori che hanno voluto, che hanno cercato, e difeso e sopportato.
Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l'anima, perché un'anima da sola, è come una goccia d'acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano ed aiutano a rialzarsi, pur correndo il rischio di cadere a loro volta.
Quelle come me guardano avanti, anche se il cuore rimane sempre qualche passo indietro.
Quelle come me cercano un senso all’esistere e, quando lo trovano, tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.
Quelle come me quando amano, amano per sempre… e quando smettono d’amare è solo perché piccoli frammenti di essere giacciono inermi nelle mani della vita.
Quelle come me inseguono un sogno… quello di essere amate per ciò che sono e non per ciò che si vorrebbe fossero…
Quelle come me girano il mondo alla ricerca di quei valori che, ormai, sono caduti nel dimenticatoio dell’anima.
Quelle come me vorrebbero cambiare, ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo…
Quelle come me urlano in silenzio, perché la loro voce non si confonda con le lacrime.
Quelle come me sono quelle cui tu riesci sempre a spezzare il cuore, perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio, non riceveranno altro che briciole.
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso, purtroppo, fondano la loro esistenza…
Quelle come me passano inosservate, ma sono le uniche che ti ameranno davvero.
- Alda Merini
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Lettera aperta del personale accademico e amministrativo delle università di Gaza al mondo | il manifesto
4 mesi fa
PALESTINA. Cancellato lo spazio dell'istruzione palestinese. Uccisi 94 accademici, 4.327 studenti, 231 insegnanti. Il campus di Israa tramutato in centro di detenzione. E nelle accademie israeliane sospesi o espulsi i docenti che hanno chiesto il cessate il fuoco.
1 giugno 2024 — Aggiornato alle 10:59
APPELLI
Lettera aperta del personale accademico e amministrativo delle università di Gaza al mondo
Al-Azhar University a Gaza (Ap)
Al-Azhar University a Gaza - Ap
GAZA. Accademici palestinesi e personale delle università «per affermare la nostra esistenza, quella dei nostri colleghi e dei nostri studenti, e l'insistenza sul nostro futuro, di fronte a tutti gli attuali tentativi di cancellarci»
Pubblicato 4 ore fa
Edizione del 2 giugno 2024
***
Ci siamo riuniti come accademici palestinesi e personale delle università di Gaza per affermare la nostra esistenza, quella dei nostri colleghi e dei nostri studenti, e l’insistenza sul nostro futuro, di fronte a tutti gli attuali tentativi di cancellarci.
Le forze di occupazione israeliane hanno demolito i nostri edifici, ma le nostre università continuano a vivere. Riaffermiamo la nostra determinazione collettiva a rimanere nella nostra terra e a riprendere l’insegnamento, lo studio e la ricerca a Gaza, nelle nostre università palestinesi al più presto.
Invitiamo i nostri amici e colleghi di tutto il mondo a resistere alla campagna di scolasticidio in corso nella Palestina occupata, a lavorare al nostro fianco nella ricostruzione delle nostre università demolite e a rifiutare tutti i piani che cercano di aggirare, cancellare o indebolire l’integrità delle nostre istituzioni accademiche. Il futuro dei nostri giovani a Gaza dipende da noi e dalla nostra capacità di rimanere nella nostra terra per continuare a servire le generazioni future del nostro popolo.
Lanciamo questo appello da sotto le bombe delle forze di occupazione nella Gaza occupata, nei campi profughi di Rafah e dai luoghi di un nuovo esilio temporaneo in Egitto e in altri paesi ospitanti. La diffondiamo mentre l’occupazione israeliana continua a condurre quotidianamente la sua campagna genocidaria contro il nostro popolo, nel tentativo di eliminare ogni aspetto della nostra vita collettiva e individuale.
Le nostre famiglie, i nostri colleghi e i nostri studenti sono stati assassinati, mentre noi siamo stati ancora una volta resi senza casa, rivivendo le esperienze dei nostri genitori e dei nostri nonni durante i massacri e le espulsioni di massa da parte delle forze armate sioniste nel 1947 e nel 1948.
Le nostre infrastrutture civili – università, scuole, ospedali, biblioteche, musei e centri culturali – costruite da generazioni del nostro popolo, sono diventate rovine a causa di questa Nakba deliberata in corso. La deliberata presa di mira delle nostre infrastrutture educative è un tentativo evidente di rendere Gaza inabitabile e di erodere il tessuto intellettuale e culturale della nostra società. Tuttavia, ci rifiutiamo di permettere che tali atti spengano la fiamma della conoscenza e della resilienza che arde in noi.
Gli alleati dell’occupazione israeliana negli Stati Uniti e nel Regno Unito stanno aprendo un altro fronte scolastico promuovendo presunti schemi di ricostruzione che cercano di eliminare la possibilità di una vita educativa palestinese indipendente a Gaza. Rifiutiamo tutti questi schemi e invitiamo i nostri colleghi a rifiutare qualsiasi complicità in essi. Esortiamo inoltre tutte le università e i colleghi di tutto il mondo a coordinare qualsiasi sforzo di aiuto accademico direttamente con le nostre università.
Esprimiamo il nostro più sentito apprezzamento alle istituzioni nazionali e internazionali che sono state solidali con noi, fornendo sostegno e assistenza in questi momenti difficili.
Sottolineiamo tuttavia l’importanza di coordinare questi sforzi per riaprire effettivamente le università palestinesi a Gaza.
Sottolineiamo l’urgente necessità di riaprire le istituzioni scolastiche di Gaza, non solo per sostenere gli studenti attuali, ma per garantire la resilienza e la sostenibilità a lungo termine del nostro sistema di istruzione superiore. L’istruzione non è solo un mezzo per impartire conoscenze; è un pilastro vitale della nostra esistenza e un faro di speranza per il popolo palestinese.
Di conseguenza, è essenziale formulare una strategia a lungo termine per riabilitare le infrastrutture e ricostruire le strutture delle università. Tuttavia, tali sforzi richiedono un tempo significativo e finanziamenti consistenti, mettendo a rischio la capacità delle istituzioni accademiche di sostenere le operazioni, con la potenziale perdita di personale, studenti e della capacità di operare nuovamente.
Considerate le circostanze attuali, occorre passare rapidamente all’insegnamento online per mitigare le interruzioni causate dalla distruzione delle infrastrutture fisiche. Questa transizione richiede un sostegno completo per coprire i costi operativi, compresi gli stipendi del personale accademico.
Le tasse studentesche, principale fonte di reddito per le università, sono crollate dall’inizio del genocidio. La mancanza di entrate ha lasciato il personale senza stipendio, spingendo molti a cercare opportunità esterne.
Oltre a colpire il sostentamento dei docenti e del personale universitario, questa tensione finanziaria causata dalla deliberata campagna di scolasticidio rappresenta una minaccia esistenziale per il futuro delle università stesse.
Pertanto, è necessario adottare misure urgenti per affrontare la crisi finanziaria che le istituzioni accademiche stanno affrontando, per garantire la loro stessa sopravvivenza. Chiediamo a tutte le parti interessate di coordinare immediatamente i loro sforzi a sostegno di questo obiettivo critico.
La ricostruzione delle istituzioni accademiche di Gaza non è solo una questione di istruzione; è una testimonianza della nostra resilienza, della nostra determinazione e del nostro incrollabile impegno a garantire un futuro alle generazioni a venire.
Il destino dell’istruzione superiore a Gaza appartiene alle università di Gaza, ai loro docenti, al personale e agli studenti e al popolo palestinese nel suo complesso. Apprezziamo gli sforzi dei popoli e dei cittadini di tutto il mondo per porre fine a questo genocidio in corso.
Invitiamo i nostri colleghi in patria e a livello internazionale a sostenere i nostri risoluti tentativi di difendere e preservare le nostre università per il bene del futuro del nostro popolo e della nostra capacità di rimanere nella nostra terra di Palestina a Gaza. Abbiamo costruito queste università partendo dalle tende. E dalle tende, con il sostegno dei nostri amici, le ricostruiremo ancora una volta.
(sotto il testo originale segue traduzione inglese e nomi firmatari)
—Al-Azhar University a Gaza -
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La capacità di chiedere aiuto è un’operazione che richiede coraggio perché nel momento in cui sentiamo di avere bisogno di aiuto siamo nettamente vulnerabili e per poter essere aiutati abbiamo bisogno di sentire che possiamo fidarci, che non verremmo giudicati e che verremmo accolti.
La capacità di chiedere aiuto rappresenta una risorsa fondamentale nella vita...
Tutti noi abbiamo bisogno nella nostra esistenza di qualcuno che possa prendersi cura di noi, nei momenti di difficoltà e se non lo troviamo,in questa epoca ci risulta facile ricercarlo nei social network.
Esponiamo così pubblicamente all'attenzione dei cosiddetti amici virtuali le nostre vite (il nostro privato) alla ricerca di una parola ”amica”, di una consolazione o anche semplicemente per condividere cose importanti della nostra vita.
Le reti sociali sono molto utili e piacevoli in differenti aspetti, ma non sarebbe meglio provare a raccontare a una persona di fiducia o a un professionista ciò che raccontate in rete?
Cit.
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Solo un cane
Lo scorso inverno ho deciso di prendere un cane.
Sono andato al canile comunale, che a Milano sta in via Corelli.
Per arrivarci bisogna passare davanti al centro di detenzione dei migranti, che è lì accanto.
Banale quanto inevitabile notare che persone e cani sono tenuti in cattività così simili e vicine. Peraltro, entrambi privi di alcuna colpa.
Amen.
Al canile di Milano sono molto seri, non è che vai lì e prendi il cane. Devi compilare moduli, sottoporti a interviste, indagini psicologiche, diverse visite perché possano decidere qual è il cane che va bene per te, o meglio il contrario.
Dopo la terza visita mi hanno fatto scegliere tra due. Ho scelto il più anziano, per solidarietà anagrafica.
Poi ho dovuto, giustamente, fare altre sei o sette visite per familiarizzare con lui, il cane dico.
Ogni volta passavo davanti al carcere per migranti. Ma questo si è già detto.
Ogni volta poi passavo tra le gabbie dei cani, a cui lì non manca nulla di concreto ma stanno tutto il giorno in gabbia da soli.
Il problema è la solitudine, mi spiegavano i ragazzi del canile. I cani, come gli esseri umani, hanno l'affettività alla base della loro piramide dei bisogni, al pari di cibo e acqua. Ma al canile, con più di 200 cani da curare, su quella cosa possono farci poco.
Dopo un po' di settimane mi hanno dato il cane, finalmente. La solitudine per lui era finita.
Ho chiesto, uscendo, se potevo avere informazioni sulla sua vita precedente, sui sette anni che gli avevano imbiancato il muso da bastardo. Mi hanno detto solo che stava al canile da qualche mese, che il proprietario precedente era morto, ma niente di più perché c'è la privacy.
Il cane e io, dopo, abbiamo fatto il nostro normale percorso di amicizia - e chi ha avuto un cane ne conosce l'assoluta bellezza. Ma io non ero ancora formalmente il suo padrone, c'è un periodo di solo affido, per essere sicuri che l'adozione funzioni.
Ha funzionato, quindi un po' di tempo fa mi è arrivata la carta del passaggio di proprietà. E c'era su scritto il nome del padrone precedente. Fine della privacy. Qui, chiamiamolo T.
Vado al pc e lo googlo, per innata curiosità.
Trovo solo due cose.
Una è la sua pagina Facebook abbandonata. Ma non abbandonata perché era morto, proprio abbandonata da sempre. L'aveva aperta nel 2017, zero "amici" e non ci aveva postato neanche una parola. Solo tre foto: del cane, il mio cane, quando era giovane e il muso era ancora tutto nero. Una era in montagna, il cane pareva contento.
Mi ha fatto piacere.
L'altra cosa che ho trovato su di lui, googlando, era una pagina recente della Gazzetta Ufficiale in cui si affidava a un tal avvocato la ricerca di suoi familiari, per "eredità giacente".
C'era anche la data di nascita di T., sulla Gazzetta Ufficiale, e la residenza a Milano (che buffo, stava vicino alla radio dove lavoro adesso) e il codice fiscale. Scopro così che siamo quasi coetanei, anzi lo eravamo.
Faccio il giornalista, per eccesso di curiosità.
E così telefono all'avvocato che deve gestire "l'eredità giacente". È gentile, mi spiega che lui non conosceva il defunto e che dalle indagini per trovare eredi non sta cavando un ragno dal buco: non risultava aver alcun parente, il vecchio padrone del mio cane. Né aveva fatto testamento.
Un giorno, uscendo dalla radio, per via della consueta curiosità decido di passare dalla casa dove abitava il mio cane.
Mi presento alla portinaia.
Gentilissima - e commossa quando le dico che il cane ora sta con me e sta bene.
T., mi dice, viveva per lui, anche perché non aveva nessuno.
Non lavorava: viveva o sopravviveva grazie all'eredità dei genitori, ma faceva esistenza modesta.
Non aveva amici, nessuno, dice la portinaia.
Usciva tutti i giorni a pascolare il cane, e basta.
È morto in casa, da solo, l'estate scorsa.
Cioè, non era proprio da solo: c'era anche il mio cane.
Dopo un po' di giorni che non lo vedeva uscire col cane, la portinaia è salita a bussare.
Ha risposto solo il cane, con un disperato guaito.
Lei allora ha chiamato la polizia.
Hanno sfondato la porta. T. era disteso accanto al letto con una confezione di medicine in mano.
Il cane tremava come una foglia, mi ha detto. Lei gli ha dato da bere e da mangiare, lui ha solo bevuto.
Poi lo hanno portato al canile.
Fine.
Già.
Il problema è la solitudine. La questione dell'affettività, che è alla base della piramide dei bisogni.
(Alessandro Gilioli)
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“ Sono contento, cari ragazzi, che non abbiate mai sentito il desiderio di fare politica. Ma non ne sono sorpreso. L'ambiente familiare nel quale siete cresciuti non poteva spingervi alla ricerca del potere. Non dico, con questo, che il potere sia di per sé detestabile. Fa parte dei giuochi della vita, e non dei più sciocchi. Ma bisogna intendersi sul suo significato. Per molti, il fascino del potere consiste nella possibilità di influire sulla vita degli altri; in una parola, nella possibilità di comandare. A mio giudizio, questa è tuttavia la parte più fastidiosa del potere, la più volgare, se non la più odiosa. Voi sapete che ho sempre cercato di ridurre al minimo i miei interventi su di voi, perché ritengo che ciascuno, compresi i miei figli, debba esser libero di vivere la sua vita, e di cercare la felicità a modo suo. Perfino il timore che qualcuno agisca in una determinata maniera per compiacermi, e non per sua preferenza, riesce a turbarmi.
È poi vero che le nostre azioni incidono spesso, senza che lo vogliamo, sulla vita del prossimo; ma questa è una realtà di cui mi rammarico. Il fascino del potere è un altro: è la facoltà di decidere. La nostra esistenza si arricchisce quando siamo in grado di prendere decisioni. Kierkegaard afferma che esistiamo in quanto scegliamo, e scegliere significa appunto decidere. Ora, è chiaro che facoltà decisionale e potere coincidono: più si sale nella scala gerarchica, più si decide. Il generale decide più spesso del suo attendente. In questo senso, ma soltanto in questo, vale la pena di fare carriera: la vita di un capo è più ricca, più intensa, più stimolante di quella del subordinato. Purché il capo, e questa è una condizione importante, anzi essenziale, sia capo davvero, sia cioè libero di decidere di testa sua. In questa accezione, potere equivale a libertà. “
Piero Ottone, Le regole del gioco: piccola filosofia ad uso personale, Milano, Longanesi, 1984³; pp. 47-48.
#Piero Ottone#giornalismo#giornalisti#letture#leggere#libri#Le regole del gioco#etica#moralità#potere#politica#scelte#Pier Leone Mignanego#anni '80#Storia d'Italia#felicità#vita#intellettuali italiani del XX secolo#Kierkegaard#saggi#società#borghesia italiana#esistenza#gerarchie#saggistica#citazioni#ceto intellettuale#comandare#carrierismo#Prima Repubblica
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Breve cronistoria dei viaggi nel tempo
[Ho scritto questo raccontino agostano vagamente sci-fi per la (bella) newsletter dello scartafaccio, facendo un giretto fuori dalla mia comfort zone. Lo incollo pure qui.]
A differenza dei princìpi che li regolano, per scalfire superficialmente i quali è stato - letteralmente - necessario un Einstein, la meccanica empirica dei viaggi nel tempo è incredibilmente rozza; realizzare strumenti per sfruttarla è di relativa semplicità ed è un traguardo raggiunto cinque volte nella storia dell’umanità (se dopo la stesura di questo testo se ne aggiungessero altre il lettore tenga conto che questo numero potrebbe sia aumentare che diminuire).
Il primo essere umano a costruire una rudimentale macchina del tempo fu l’assiro Adad-Nirari, nell’810 a.C. a Tarso. Tuttavia, non ne capì il vero funzionamento e ritenne di aver creato un sistema magico per fare sparire le cose. Non avendo gli Assiri all’epoca grossi problemi di smaltimento rifiuti, fu per lo più ignorato o preso per pazzo. Nel tentativo di convincere i suoi concittadini dell’importanza della sua scoperta fece sparire un ingente quantitativo di oggetti e animali, fra cui spiccano:
- una coppetta in terracotta che si materializzò nel 1912 sotto la coltre di permafrost svedese, creando una serie di grattacapi all’archeologo Erik Sjöqvist e costandogli quasi la carriera - una pecora che fu spedita nel giurassico superiore, prontamente divorata da un allosauro che passò il resto della sua infruttuosa esistenza a cercare altre prede così gustose. La sparizione della pecora fu mal digerita (tranne che dall’allosauro): il proprietario pretese un risarcimento da Adad-Nirari che distrusse poi la sua creazione per stizza.
Per la seconda macchina del tempo toccò attendere il 1652 quando il gesuita Giuseppe Adami, di stanza al Collegio di Messina, riuscì a costrurine una nei sotterranei dell’edificio. Fu il primo a capire l’importanza del legame fra coordinate spaziali e temporali ma per un misto di impazienza e di ostinata devozione al sistema tolemaico il suo primo esperimento finì in tragedia: tentò di mandare Agostino, il gatto del collegio, di una frazione di secondo nel futuro e se lo ritrovò materializzato nel basso ventre. I suoi confratelli attratti dalle urla lo trovarono riverso con il muso di Agostino che gli spuntava dalla schiena. Per non correre rischi lo arsero al rogo ancora agonizzante.
Quasi contemporaneamente, nel 1653, una nobile di Guangzhou di raro intelletto, Mei Zhaozhong, arrivò a scoperte analoghe. Passò dodici anni mandando di pochi istanti nel futuro sassetti del suo giardino e misurandone le apparizioni fino ad arrivare a capire con buona approssimazione la corretta correlazione fra coordinate temporali e spaziali. I suoi studi furono bruscamente interrotti da una malattia debilitante. Allo stremo delle forze decise di visitare il futuro nel poco tempo rimastole e si materializzò nel mercato del pesce di Huanan nel dicembre 2019, dove riuscì appena a guardarsi intorno prima di spirare circondata da una folla di curiosi che iniziarono ad avere sintomi febbrili qualche giorno dopo.
La quarta macchina del tempo fu costruita nel 1997 da Roberto Saluzzi, un dottorando del dipartimento di fisica e astronomia dell’università di Padova. Scoprì mentre ne stava ultimando la messa a punto che non gli sarebbe stata rinnovata la borsa di studio per l’anno successivo e considerazioni di carattere personale sopravanzarono quelle di ricerca accademica: usò la sua creazione per andare nel 1969 e gambizzare quello che sarebbe poi diventato il coordinatore dei corsi di dottorato di ricerca (evento che fu erroneamente attribuito a moventi politici); utilizzò poi la sua istruzione avvantaggiata per fare a sua volta carriera accademica. Evitò accuratamente ogni rischio di incontrare sé stesso nel timore di creare un paradosso temporale fino ad un preciso giorno del 1997, arrivato il quale tornò al suo vecchio appartamento immaginandoselo deserto con la macchina del tempo appena utilizzata. Lo trovò invece occupato da tre albanesi e si interrogò se questo andasse a conferma dell’esistenza del multiverso o del fatto che si fosse in qualche modo rintanato in un mondo di sua invenzione (dubbio per la verità che attanaglia chiunque prima o poi) e abbandonò ogni studio nel campo per darsi ai tornei di burraco.
La quinta e ultima vicenda vide come protagonista Aidana Komi, un’anziana professoressa dell’università di Tirana che dopo aver realizzato il suo dispositivo nel 2023 venne assalita da sensati timori di alterazione del continuum. Decise quindi di alimentare un’intelligenza artificiale dandole in pasto un quantitativo ingente di libri di storia e quotidiani interrogandola su quale sarebbe stato il viaggio temporale più utile per il benessere dell’umanità e imponendosi di seguire alla lettera la risposta, qualunque sarebbe stata. Il verdetto fu di recarsi a Padova nel 1996 e convincere il dottorando Roberto Saluzzi a cambiare appartamento. Aidana con qualche perplessità portò a termine il compito, approfittandone per collocare nell’appartamento rimasto sfitto un paio di cugini desiderosi di trasferirsi in Italia.
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E poi?: Una riflessione profonda di Bruno Mattu sul senso dell'esistenza. recensione di Alessandria today
Un invito a riscoprire l'interiorità e a lasciarsi guidare dal cuore, lontano dalle illusioni della società e dalle incertezze del futuro.
Un invito a riscoprire l’interiorità e a lasciarsi guidare dal cuore, lontano dalle illusioni della società e dalle incertezze del futuro. E poi? di Bruno Mattu è una profonda riflessione sul senso dell’esistenza e sul rapporto con il proprio io interiore, in un mondo che spesso ci spinge a inseguire illusioni e a temere l’incertezza del futuro. Mattu esplora il tema della ricerca del…
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Com’è possibile che viviamo tutti sullo stesso pianeta, eppure ci sono persone, come noi, che vivono per davvero, e persone, come loro, che sopravvivono solamente?
Mi sveglio all’alba, la mia stanza già assediata dall’afa di un giorno appena abbozzato all’orizzonte. L’aria condizionata non funziona. Non mi sorprende. Sono ai confini del mondo.
Trentaquattro anni fa, Majok, un bambino sud sudanese, si sveglia all’ombra di un albero, nel pascolo in cui sorveglia il bestiame di famiglia, per scoprire il suo villaggio avvolto dalle fiamme.
Mi trovo in Turkana, una delle contee più remote e svantaggiate del Kenya, al confine con il Sud Sudan. Mi preparo ed esco a ritrovare i membri del mio team, Salome e Edwin, che mi assistono in questa missione, e insieme ci dirigiamo verso il cancello principale. Lì ci aspetta un fuoristrada. Nel campo profughi di Kakuma, il terzo più grande del mondo, ci si può muovere solo sotto scorta.
Majok trova la sua famiglia sterminata, i muri di casa carbonizzati, tutto ciò che possedeva depredato. È il 1990, e la Seconda Guerra Civile del Sudan imperversa già da anni, ma lui non aveva mai pensato sarebbe arrivata fino al suo villaggio. Si era sbagliato. E sa che i miliziani torneranno a reclutare i bambini rimasti soli, obbligandoli a combattere nell’esercito dei ribelli. Fugge.
Il fuoristrada si fa largo tra le strade sconnesse e polverose del campo profughi. Non è il primo che vedo nella mia vita. Ma non c’è paragone. Ho fondato Still I Rise nel campo profughi di Samos, in Grecia. Laggiù, 7000 persone erano considerate il punto di rottura di una crisi terribile. Qui ce ne sono più di 290.000. Il 53% sono bambini. Uno su tre non va a scuola. Si vive con 0,04€ al giorno.
Nella disperazione di aver perso tutto, Majok trova conforto nello scoprire di non essere rimasto completamente solo. Proprio come lui, sono più di 20.000 i bambini perduti che, avendo guardato la morte negli occhi, sono fuggiti alla cieca per poi ritrovarsi nella savana e organizzarsi in piccoli gruppi, camminando in fila indiana, alla ricerca di un porto sicuro della cui esistenza non sono minimamente certi. Ma hanno sentito che in Etiopia le cose sono migliori, e così si sono messi in marcia. Majok ha appena 12 anni, eppure si trova a capitanare il suo gruppo. È il più grande.
Il fuoristrada si ferma davanti al cancello della scuola gestita dall’organizzazione che ci fa da spalla qui a Kakuma. Operano nel campo da decenni e fanno del loro meglio, ma mancano i fondi, le loro strutture hanno bisogno di manutenzione e le loro aule accolgono fino a 100 studenti per ogni insegnante. Potrebbe andare peggio: a Kakuma il rapporto insegnante-studenti arriva a 1:180. Ci prepariamo. Questo è un giorno importante per noi. Bambini e genitori ci stanno già aspettando.
Majok e il suo gruppo camminano per più di mille chilometri. Ci mettono mesi. Altri gruppi, anni. Non hanno che i vestiti che indossano. Sopravvivono elemosinando cibo nei villaggi che attraversano. Ma anche lì le risorse scarseggiano. Con il passare del tempo, le loro braccia si assottigliano e le costole emergono appena sotto la pelle. Hanno gli occhi scavati. Dei 20.000 bambini partiti, la metà muore di stenti, di polmonite, di malaria, sbranata dai leoni o uccisa dai miliziani. Molti si arrendono, consegnandosi ai ribelli per diventare bambini soldato. Ma non Majok.
Siamo a Kakuma, uno dei luoghi più inaccessibili del pianeta, per mantenere una promessa fatta ormai quattro anni fa: offrire l’opportunità di studiare in una Scuola d’eccellenza, conseguendo il Baccalaureato Internazionale e, di conseguenza, la libertà, ai bambini più dimenticati del globo. È un momento importantissimo per me. Quando siamo pronti, bambini e genitori entrano nell’aula.
Dopo mesi di cammino, Majok e il suo gruppo arrivano in Etiopia. Eppure nel 1991 la guerra il raggiunge anche lì, e sono costretti a fuggire di nuovo, stavolta verso il Kenya. È qui, in un campo profughi chiamato Kakuma, o “nessun luogo” in swahili, che trovano riparo permanente. Gli esperti sostengono che i Bambini Perduti del Sudan siano i più traumatizzati mai esaminati nella Storia.
Distribuiamo i moduli ai genitori. Molti di loro non sanno leggere. Non fa niente, spieghiamo l’opportunità offerta: lasciare Kakuma per frequentare una Scuola Internazionale gratuita e cambiare per sempre il corso della propria vita. Tutti, nessuno escluso, firmano. Uno di loro si chiama Majok, ha più di quarant’anni, negli occhi le cicatrici di una vita inconcepibile, ma al fianco una bambina dal grande sorriso, dagli occhi brillanti e dai capelli intrecciati con amore e cura.
Siamo arrivati troppi tardi per Majok. Nel 1990 io non ero ancora nato. Ma non è troppo tardi per sua figlia. È per lei che siamo qui. E, attraverso di lei, siamo qui anche per lui. Per forgiare il futuro, cambiare il presente e, in un certo senso, riscrivere il passato. Per spezzare il ciclo dell’ingiustizia.
Saremo i primi al mondo a offrire ai bambini di Kakuma l’opportunità di conseguire il Baccalaureato Internazionale e, cosa ben più importante, la libertà grazie al potere dell’istruzione. Chi è con noi?
P.s. Come da prassi durante le operazioni più delicate, pubblicherò questo resoconto solo dopo il mio ritorno da Kakuma e avendo assicurato la buona riuscita della missione. Per ragioni di privacy, Majok è un nome di fantasia. La sua storia, e quella degli altri Bambini Perduti del Sudan, è reale.
Nicolò Govoni - Fondatore di "Still I rise"
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Sono qui (o credo d'esserlo?) seduta alla scrivania con davanti il mio computer, intenta a scrivere su di me, o su ciò che credo che io sia, o stia tentando di essere. Facile, poter vedere me mangiarmi le unghie, alla ricerca di creatività dispersa chissà dove, chissà quanto a fondo nella pelle, sotto, sotto, giù, in basso o in alto, questo non lo so, ma in profondità sì, là, laddove cercherò, potrò vedere quel che cerco e ciò che serve, lascerò prenderlo agli altri. Il mio volto è l'essenza dell'anima persa, dell'esistenza critica, del bilico sbilenco che il giorno sbilancia e il silenzio equilibra, tra una bradipnea basale e una tachicardia sessuale, l'estasi neutrale che asseconda il mio pensiero, e il corpo, con esso, segue la via del giusto riposo, eterno, nell'attimo che non segue il passato e non precede il domani, futuro generatore di ansie, malesseri, crisi, in perenne impatto con l'angustia debordante da un calice che ruota su di un polveroso pendolo. Sedendovi, potreste ascoltare i miei occhi sbattere frenetici e percepire vibrazioni oniriche, convulsi movimenti di ricerca di un corpo nuovo, esterno, non il nostro: essenza di kundalini che s'arrampica dai sessi sulla schiena, serpente arrotolato su se stesso, stringe il petto, la pancia e la gola e i seni, e quel corpo, tanto richiesto, desiderato, inizia a irrigidirsi, si contorce sotto l'energia vitale, energia mantra, espressione della forza del momento, della agilità della simbiosi, del rovente flusso che attanaglia me e la mia esistenza. Le mie gambe hanno fretta di percorrere il reale, impazienti di giungere a un domani che un domani sarà morte, sarà fine, sarà traguardo, arrivo e arrivederci e grazie, sarà storia in breve tempo. Breve, come la vita di ogni uomo in paragone alla Terra che ci ha attesi. Ma, incurante dell'eterna sua natura, dona al sole una speranza e il nuovo giorno al caldo crogiola le sue virtù, ovvero noi, peccatori. La mia mente ruota attorno a un punto fisso, che sei te. Ventiquattr'ore smemorate, s'accende in me la pazza voglia di perdermi, con te, con lei, con loro. Chi crediamo d'essere, se è il male a farci gioia e il bene a darci la routine noiosa? Siamo o no incostanti nelle scelte, nelle azioni e nelle vie che portano alla fede per qualcuno? Siamo o no i nemici dello spazio, colmato in frazioni di secondo da un capo all'altro dell'universo? Siamo o no i fanatici del mito, della storia lunga, degli amori brevi, del fidanzamento certo e della cotta prematura, del "ti voglio ma non posso" e del "ti amo ma ho già un altro"? No, no, non lo siamo, e non vogliamo neanche esserlo. È la pace la via giusta e la rincorsa a giorni felici, e crediamo che sia lunga, e pensiamo sia difficile, ma per strada conosciamo luoghi puri, dove trova cibo per sfamarsi chi ha un cuore. O crede d'averlo.
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Un bicchiere di vino con un panino....
In una mia riposta ad un post molto bello di @cinismoerancore avevo scritto che se mi fosse piaciuto il finale del libro che stavo leggendo ne avrei scritto, perché si legava ad un tema che il post tendeva a sottolineare (anche @biggestluca mi ha chiesto che libro fosse).
Voglio subito dire due cose: Felicità© di Will Ferguson, scritto per la prima volta nel 2001, uscito per Feltrinelli qualche anno dopo e riproposto, con nuova traduzione di Andrea Bezzi, che curò anche la prima stampa, da Accento, è un libro da leggere. Per due terzi meraviglioso, sul finale si poteva fare di più. Vi dico subito l'altra cosa che non mi è piaciuta, la copertina:
Quella di Accento non ha nessun riferimento al libro, mentre invece la prima di Feltrinelli si
(per chi è curioso lo spiego in privato).
Restano da dirvi due cose: il libro è la storia di Edwin De Valu, junior editor alla Panderic Inc., casa editrice di New York il cui più grande successo sono i Manuali di Mr Etica, bizzarro personaggio che voleva insegnare fondamenti filosofici per vivere meglio, ma va in carcere per aver ucciso e sotterrato in giardino gli ispettori del Fisco che erano andati a fargli visita. Edwin è specializzato in manuali di autoaiuto, alla Panderic quando arrivano manoscritti del genere vengono messi ad attendere in uno spazio, la montagna di fuffa, sopra la quale campeggia la lavagna con la collezione delle più improbabili espressioni trovate alla prima, unica e superficiale lettura. I libri si accumulano, ma un giorno arriva a Edwin un manoscritto di oltre mille pagine, con appunti a penna e stantii adesivi di margherite. Ha un titolo, Quello che ho imparato sulla montagna, e un autore, Tupak Soiree, che ad Edwin puzzano di broglio da chilometri. Il libro fa la fine di tutti gli altri. Solo che stavolta il suo capo, il Signor Mead, nell'attesa di pubblicare il manuale definitivo sul perdere peso mangiando porco fritto, vuole un titolo che rimpiazzi quelli di Mr Etica. Edwin spavaldamente dice di averne uno straordinario, solo che ritornando nel suo cubicolo ufficio non trova più il libro con le margheritine. Inizia qui il primo viaggio: alla ricerca fisica del manoscritto. Che nel modo più assurdo possibile verrà pubblicato. E nel modo più assurdo funzionerà, regalando ai suoi milioni di lettori la felicità. Ma qui viene il bello (che ovviamente non vi svelo): che conseguenze ha sul mondo il fatto che la gente, di punto in bianco, si senta felice?
In uno stile ironico, lineare e a certi tratti sottilmente drammatico (poichè dietro certi passaggi da ridere ci sono riflessioni profondissime), Ferguson lega il mondo della comunicazione con quello della costruzione sociale di ciò che siamo: lo scrisse nel 2000, quindi lontano da quello che siamo adesso dove l'aspetto è totalmente più pervasivo, ma ci sono già dei pilastri del sistema ben chiari. Non è solo ironia sul ruolo dell'autoaiuto, che oggi si è spostato dai manuali al webinar o alle pagine dei social network, non è solo la capacità di dare l'impressione che siamo in grado di prevedere gli eventi (frase cult: "il marketing? come capacità predittive delle tendenze siamo una tacca sotto al controllo delle viscere degli animali), ma anche l'accento, tra il serio e il faceto, su tutte le attività che sappiamo chiaramente distruttive (spesso per noi, spesso anche per gli altri) ma che sono fondamentali per la vita economica, sociale e persino culturale del mondo, tanto che il povero Edwin si troverà a fronteggiare una parte di questa porzione di mondo rimasta tagliata fuori dall'esplosione della felicità, venendo a mancare questo assunto:"tutta la nostra esistenza si fonda sul dubbio e l'insoddisfazione. Pensa che cosa succederebbe se tutti fossero veramente, autenticamente, felici" (pag. 230).
Si può fare critica sociale ridendoci su? La domanda sembra quasi inopportuna: però ci sono state delle pagine, quando all'inizio il cambiamento si diffonde come un virus alternativo, che mi hanno fatto pensare davvero tanto. Perchè è lampante come certi meccanismi ormai non siano nemmeno più sottotraccia, tipo passare dall'idolatria al dileggio in pochi giorni o scoprire alla prova dei fatti che le ricchezze basate sul nulla producono soldi veri per pochissimi e fregature per tantissimi, oppure indirizzare l'attenzione a specifiche categorie sociali, incapaci o a cui non è più permesso un coinvolgimento intellettuale a ciò che sta intorno loro, e che sia evidente che questi meccanismi siano ormai irrefrenabili, se non cambiando radicalmente il sistema, tanto che segnalarne le storture è presa come una questione di invidia.
Edwin De Valu , lo dice in un passo delizioso quando il Signor Mead gli chiede di lavorare su <<un manuale di autoaiuto per donne sovrappeso che spieghi come fare a mangiare maiale e perdere peso. sarà una nuova teoria. Possiamo chiamarla "il paradosso del porco">> (pag. 150), si è laureato in letteratura comparata con tesi su Proust, da una prospettiva postmoderna. Lui è l'autore di una delle più grandi immagini della felicità, che come rassicurazione suppongo sia ancora presente nell'animo di molti di noi:
Mi portai alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato che s’ammorbidisse un pezzetto di madeleine. Ma nello stesso istante in cui il liquido al quale erano mischiate le briciole del dolce raggiunse il mio palato, io trasalii, attratto da qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Una deliziosa voluttà mi aveva invaso, isolata, staccata da qualsiasi nozione della sua casa. Di colpo mi aveva reso indifferenti le vicissitudini della vita, inoffensivi i suoi disastri, illusoria la sua brevità, agendo nello stesso modo dell’amore, colmandomi di un’essenza preziosa: o meglio, quell’essenza non era dentro di me, io ero quell’essenza. Avevo smesso di sentirmi mediocre, contingente mortale. Da dove era potuta giungermi una gioia così potente? Sentivo che era legata al sapore del tè e del dolce, ma lo superava infinitamente, non doveva condividerne la natura. Da dove veniva? Cosa significava? Dove afferrarla? Bevo una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima, una terza che mi dà un po’ meno della seconda.
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ci sono dei modi di dire entrati nella terminologia comune del linguaggio giornalistico che mi creano un profondo senso di fastidio. il primo che mi viene in mente è l’uso di 007 per indicare i servizi segreti. mi è bastato fare una veloce ricerca su google per trovare un esempio imbarazzante risalente a sole 18 ore fa. cito testualmente il titolo del Fatto Quotidiano: “lo scandalo MeToo travolge anche la Cia: 007 condannati per violenze sulle colleghe”. a parte il fatto che CIA è un acronimo e andrebbe scritto con le lettere maiuscole, 007 è un personaggio di fantasia, il doppio zero è un codice che indica la sua licenza di uccidere. vorrei inventare degli esempi ma la mia mente non è così creativa (“gli indiana jones ritrovano un reperto che si credeva perduto”?). la lista dei termini che mi infastidiscono potrebbe essere infinita. capisco che alcune siano terminologie entrate ormai nell’uso comune, però la loro esistenza nel mondo del giornalismo è soltanto colpa di un ricerca maldestra di trovare un linguaggio veloce che sia diretto per i lettori, che sono per lo più svogliati. se sia nato prima l’uno o l’altro non ci è dato saperlo. comunque, sono due gli ultimi esempi che mi hanno spinto alla bestemmia in questi giorni. il primo è “bomba d’acqua”, traduzione pure sbagliata del termine inglese cloudburst. trovo la parola italiana nubifragio molto più bella di bomba d’acqua, sinceramente. il secondo non è un termine usato spesso come 007 o bomba d’acqua ma si collega alla svogliatezza di un certo giornalismo italiano, quel giornalismo che utilizza un concetto noto nella cultura popolare anziché ideare un titolo che sia sì comunicativo ma di buon senso. stamattina repubblica scrive: “premio nobel. il dilemma: superstar o “famolo strano”.” tutto ciò mi snerva in modo esagerato, lo ammetto.
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