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Ammonimento di Antonia Pozzi: Un Canto Poetico tra Dolore e Speranza. Un'analisi della struggente poesia di Antonia Pozzi, tra malinconia e ricerca di senso
Ammonimento è una delle poesie più intense di Antonia Pozzi, scritta il 28 ottobre 1933. La poetessa milanese esplora con delicatezza e profondità i temi del dolore, della crescita interiore e della ricerca di un senso nella vita.
Ammonimento è una delle poesie più intense di Antonia Pozzi, scritta il 28 ottobre 1933. La poetessa milanese esplora con delicatezza e profondità i temi del dolore, della crescita interiore e della ricerca di un senso nella vita. La sua poesia è pervasa da un’inconfondibile malinconia e da un’intensa introspezione, riflettendo il tormento interiore e la sensibilità che caratterizzarono la sua…
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Ciao, ho visto le citazioni sul male oscuro di G.B. Mi consiglieresti qualcosa da leggere sulla stessa scia? Cioè è veramente un capolavoro, non mi riprendo più ahaha
Ciao, ogni buon libro è unico ma Il male oscuro è forse anche singolare, non riesco a trovare altre opere che descrivano il dolore personale con la stessa improvvisa ironia che rende il racconto piacevolissimo. Mi vengono in mente alcuni libri nei quali è predominante la narrazione della sofferenza psichica (Memoriale di P. Volponi, Campo di concentrazione di O. Ottieri o ancora L'uomo che trema di A. Pomella, anch'egli appassionato di Berto); l'ironia dissacrante la trovo soprattutto in L. Bianciardi (un qualunque suo scritto va bene, in particolare la "trilogia della rabbia"). Virano su toni poetici M. Tobino (Le libere donne di Magliano) e P. Milone (L'arte di legare le persone) i quali parlano però dal punto di vista del terapeuta. Non sono sicuro che questi consigli bastino, non sono un libraio e conosco solo ciò che ho letto; spero altri possano aggiungere le loro proposte alle mie. In ogni caso ti ringrazio per il messaggio, se ti va scrivimi ancora su ciò che preferisci. :)
P.S.: Ho dimenticato di citare un classico della letteratura italiana, La coscienza di Zeno di I. Svevo, un'opera quasi venerata dalla critica che però non mi ha mai entusiasmato.
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10 VOCI FEMMINILI DA TENERE D’OCCHIO NEL 2019
di Viviana Bonura
Ci piace parlare spesso di musica ponendo particolare attenzione sulle donne. Lo facciamo perché, finalmente, ci si sta accorgendo in massa che - anche in questa sfera lavorativa ed artistica - le donne sono state e sono attualmente in minoranza e qualora siano presenti la loro posizione è sempre più in ombra rispetto a quella degli uomini, specialmente in alcuni ambienti musicali. Finalmente, non si parla di questa discriminazione solo l’otto marzo o quando si verifica un evento eclatante, ma lo si fa sempre: ad ogni festival che cancellando immaginariamente i nomi femminili dalle lineup rimarrebbero benissimo in piedi, ad ogni cerimonia di premiazione che sin dalle candidature propone musica fatta da uomini per almeno due terzi, nella musica stessa delle donne che decidono di parlare di questo problema. In definitiva: vogliamo aggiungere la nostra voce sempre e comunque, a prescindere che il coro sia poco nutrito o che sia particolarmente infervorito. E’ vero, il pop brulica di donne di successo, pop star indiscusse che si arrampicano ai vertici delle classifiche e riempiono stadi senza problemi, ma esistono donne che si svincolano dai modelli ormai implicitamente imposti e che per questo fanno molta più fatica ad essere valutate con le stesse opportunità della controparte maschile. In questo articolo parliamo di loro, dieci voci femminili che non rispettano gli stereotipi, che si muovono nelle nicchie dell’alternative o che cercano di emergere nel mainstream per vie trasversali.
1. Charlotte Adigéry (o WWWater)
Charlotte Adigéry è un’artista franco-belga-martinicana dall’interessante attitudine alla musica elettronica. Stilisticamente prende grandissima ispirazione da artisti come Santigold e le sue sonorità uniscono l’ipnosi della musica club con un senso del ritmo caraibico ed orecchiabilità synth pop. A volte palesemente ironici ed altre profondamente introspettivi, i suoi testi sono pieni di senso dell’umorismo ed assurdità - sempre persuasivi ed attuali - e raccontano di un mondo fatto di caramelle e latex dove regna la libertà d’espressione. A febbraio pubblica Zandoli, il suo secondo EP, contenente le due tracce edite Paténipat e High Lights. Quest’estate farà un salto in Italia all’Ypsigrock Festival di Castelbuono nelle vesti di WWWater, un suo side-project con all’attivo un EP ed un singolo.
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TRACCE CONSIGLIATE: Paténipat; Cursed And Cussed; High Lights
2. Stella Donnelly
Stella Donnelly è una cantautrice e musicista australiana che unisce quel tipico jangle-pop sbarazzino fatto di arrangiamenti elettroacustici poco articolati e melodie ingenue ad un inusuale senso dell’umorismo provocatorio e sensibile, affrontando senza mezzi termini tematiche delicate come il sessismo, ingiustizie sociali e squilibri di genere nell’industria musicale e nella vita privata. Ha da poco pubblicato il suo album di debutto, Beware Of The Dogs, in cui dimostra l’importanza di farsi avanti per sé stessi, gli amici e per ciò che è giusto.
TRACCE CONSIGLIATE: Old Man; Boys Will Be Boys; Lunch
3. Tierra Whack
Tierra Whack, rapper di Philadelphia, ha capito come sfruttare al meglio gli effetti della contemporaneità come l’attenzione indistintamente sfuggevole verso le cose frivole e quelle importanti, una deconcentrazione di fondo nell’affrontare piccoli e grandi incarichi quotidiani. In poche parole: i mille impulsi ed i paradossi di questa società super caotica. Il suo punto di vista teatrale, bizzarro, distorto ed indubbiamente particolare sulla realtà che ci circonda ne coglie la velocissima mutevolezza, le tante sfumature quante sono quelle dell’hip-hop. Lei, giusto per rimanere attuali, spunta fuori proprio da Soundcloud e nel 2018 arriva il suo primo disco, Whack World, che ha la particolarità di essere composto da quindici canzoni dalla precisa durata di un minuto l’una, tutte con le carte in regola per essere delle hit fortissime, ma che durando soltanto un minuto cambiano il loro senso d’essere. Presentato visivamente con videoclip dagli scenari cangianti e coloratissimi, la sua è sicuramente una trovata anormale che ha perfettamente senso, un progetto conciso, inquadrato e facilissimo da ascoltare che si sposta rapidamente in atmosfere ed umore, da giocoso ad introspettivo ed ancora ad irritato. Attualmente, continua a pubblicare singoli senza sosta, convincendoci sempre di più che sia una delle promesse più interessanti del rap attuale.
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TRACCE CONSIGLIATE: Mumbo Jumbo; Bugs Life; Only Child
4. SASAMI
Sasami Ashworth bazzica nel mondo della musica da ormai dieci anni ed è passata dal suonare in orchestra fino ad arrangiare e produrre musica per altri artisti dal calibro di Soko e Wild Nothing, per poi suonare con delle rock band in giro per il mondo e fare l’insegnante. Da poco intercettata dalla Domino Records, sicuramente il suo stile non è tra i più facili ed immediati in circolazione. L’esordio da solista arriva solo quest’anno e si chiama SASAMI, un album in cui l’artista riprende da un lato quegli echi cantautorali americani al femminile tutti chitarra-e-voce e dall’altro i sintetizzatori danno alla sua musica un taglio più futuristico. La sua voce, invece, è cupa ed ipnotica e ricorda quasi il grunge anni 90′.
TRACCE CONSIGLIATE: Jealousy; I Was A Window; Pacify My Heart
5. Little Simz
Simbi Ajikawo, in arte Little Simz, è una dei più talentuosi e prolifici rapper della scena inglese, ma purtroppo è anche una dei più sottovalutati. Con tre album all’attivo ha dimostrato di saper curare complesse strutture concettuali, come nel caso dell’intricato Stillness In Wonderland, ma anche di costruire dischi più coincisi e diretti, come l’esplosivo GREY Area, uscito giusto qualche mese fa. E’ anche una di quelle che sa quando è il momento di non rimanere in silenzio, difendendo con sicurezza d’animo il suo percorso attraverso l’esplorazione di un nuovo territorio artistico, decidendo che a parlare del suo indiscutibile talento sia la musica stessa, continuando ad affinare la sua arte senza farsi distrarre dall’ingiustizia dell’industria musicale ed approdando ad un audace nuovo sound che la vede sfruttare il suo agile flow ed i suoi superbi giochi di parole, spaziando tra un’eclettica gamma di diverse influenze musicali tra cui jazz, funk e soul fino al punk ed il rock, tra un’attitudine più apologetica e pungente fino ad una più introspettiva e vulnerabile. Insomma, Little Simz ha davvero tutto.
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TRACCE CONSIGLIATE: Offence; Sherbet Sunset; Picture Perfect
6. Weyes Blood
Weyes Blood è il progetto solista della californiana Natalie Mering, polistrumentista sempre in bilico tra l’avanguardia ed il pop. Nel corso della sua ormai decennale carriera ha dimostrato una certa crescita artistica, progredendo dagli inizi sperimentali fino alle modalità tradizionali del folk e del soft rock. Il suo quarto disco, Titanic Rising, uscito qualche mese fa, è decisamente quello più a fuoco di tutti, qualcosa che suona più contemporaneo di quanto sembri, in equilibrio tra il “vecchio” classicismo e gli slanci moderni, dimostrando che Weyes Blood non è un soggetto al di fuori dal tempo ed indifferente alle mode, ma capace di sensibilizzare sull’attualità pur continuando a far musica che ti immerge in un universo onirico e suggestivo in cui si perdono di vista tempo e spazio.
TRACCE CONSIGLIATE: Andromeda; Mirror Forever; Do You Need My Love
8. Celeste
Celeste è veramente ancora agli esordi e sulle piattaforme di streaming è ascoltata da una centinaia di migliaia di persone. Non è difficile, però, collocarla già in uno scenario musicale, magari accanto a Jorja Smith con la quale condivide tantissime similitudini sonore ed estetiche, ma anche ad una Charlotte Day Smith e perchè no, Solange. Nata a Los Angeles ma cresciuta tra Essex e Brighton, la cantante porta nelle vene il meglio della tradizione della musica di colore, un salto indietro nel passato che onora le grandi voci potenti del soul di Aretha Franklin e Nina Simone. Il suo EP d’esordio si chiama Lately - uscito quest’anno - ed è un ottimo spiraglio di basi jazz languide e testi poetici e drammatici, atmosfere rilassate, malinconiche ed anche sensuali.
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TRACCE CONSIGLIATE: Lately; Both Sides Of The Moon; Summer
7. Billie Eilish
Billie Eilish, cantautrice statunitense, non ha quasi bisogno d’introduzioni. A soli diciassette anni è una degli artisti dell’alternative pop più seguiti su internet e da un paio di mesi non si fa altro che parlare di lei. Il suo debutto, WHEN WE ALL FALL ASLEEP, WHERE DO WE GO? sta andando alla grande, come la sua tourneé che non sembra non essersi mai fermata dal 2017, anno in cui si è fatta conoscere dal pubblico con il primo EP don’t smile at me. La sua musica ha quel sapore da cameretta, quella vulnerabiltà adolescenziale sussurrata tra le mura di una stanzetta, data da una voce morbida e vellutata come la sua, ma ha anche dei tratti più esplosivi ed estroversi, sonorità sintetiche creative pronte a cavalcare i palchi. Billie, poi, sembra un personaggio dell’anti-pop già formato, con quell’estetica che unisce l’innocuo al macabro, l’atteggiamento infantile e quello provocatorio: insomma, estremamente carismatico.
TRACCE CONSIGLIATE: idontwannabeyouanymore; when the party’s over; bad guy
9. Julia Jacklin
Quest’anno la cantautrice australiana Julia Jacklin ha fatto qualcosa di molto importante. A primo impatto può semplicemente sembrare un’altra di quegli artisti che si muovono sui solchi da poco percorsi da Lucy Dacus, Julien Baker e Big Thief, condividendo con loro le sonorità elettroacustiche con radici nel folk americano rimodernato indie, l’attenzione verso una scrittura sempre intima e vulnerabile, una voce intensa e sincera spesso prediletta rispetto al resto e capace di arrivare al cuore. In una seconda ispezione, però, il suo secondo disco Crushing - uscito qualche mese fa - è più di un monologo sulla fine di una storia d’amore e si rivela anche il percorso dell’artista, in quanto donna, proprio verso la riaccettazione del proprio corpo, sia a livello fisico sia figurato. In un album che esplora la fine di una relazione a favore della scoperta di sé stessa, la cantautrice australiana dimostra talento nel distillare complesse situazioni in brucianti versi.
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TRACCE CONSIGLIATE: Body; Pressure To Party; Head Alone
10. Rosalía
La cantante e produttrice spagnola Rosalía potrebbe essere l’autrice di alcune delle poche canzoni latine perfettamente adattate ai gusti pop e a scalare le classifiche senza abbassarsi al culto del cattivo gusto che sorregge il successo dei tormentoni latino-americani degli ultimi anni. In El Mal Querer, il suo secondo album, ridefinisce l’esistenza del flamenco riuscendo a portarlo oltre ai confini della sua nazione con l’unione dell’elettronica e dell’urban pop più contemporaneo. Oltretutto, grazie ad una grandissima tecnica acquisita per padroneggiare i virtuosismi della tradizione canora andalusa, la sua voce sembra priva di barriere e completamente libera di espandersi, portando con sé un carico di espressione e potenza che poche artiste nel campo del pop riescono ad uguagliare. Il resto del mondo si sta accorgendo di lei e quest’anno ha cantato a fianco di James Blake nel suo ultimo album e di J Balvin.
TRACCE CONSIGLIATE: MALAMENTE; PIENSO EN TU MIRA; BAGDAD
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Intervista ad Assunta Sànzari Panza
Assunta Panza Il poeta che andiamo ad intervistare è Assunta Sànzari Panza, nata a Castelvenere (BN) e residente in provincia di Avellino. Insegnante di scuola primaria, ha pubblicato testi poetici in «Fermenti» e in diversi siti letterarî. Assunta Panza, è membro della giuria del Premio Internazionale Prata, che si tiene nella Basilica Paleocristiana di Prata Principato Ultra e si articola in varie sezioni allo scopo di esaltare il mondo culturale, della comunicazione, della ricerca scientifica e dell’impegno civile e sociale. Come si è avvicinata alla poesia? Scrivere è sempre stato per me un bisogno primario, fin da bambina. Solo scrivendo riesco a capire le cose. Ho letto da qualche parte che, da un lato va affermando che “la forma è l’unica sostanza dell’arte”; dall’altro, che bisogna “sfondare il confine del verso”. A questo punto è lecito domandarle, che considerazione ha della ricerca poetica, della sperimentazione di nuove forme poetiche? Senza ricerca e sperimentazione perpetua non esiste poesia. La cui forma è sostanza se è vero, come è vero, che la parafrasi la distrugge. Riporto ancora una sua affermazione: «L’opera d’arte (in particolare la poesia) si compie, insomma, nell’interpretazione, in assenza della quale è completamente inerte». Può darci più nozioni? Il ruolo del lettore è determinante per il compimento dell’atto estetico. Si vorrà forse negare che ogni lettura scopra nuovi sensi? Ergo, l’opera resta muta se non viene accesa, vivificata dall’interprete. Se la poesia (o l’opera d’arte) si compie nell’interpretazione, che ruolo ha la critica? Un ruolo decisivo, come ho appena detto. Il critico è un superlettore che ha la capacità di scavare nell’opera per trarne significati inopinati, inauditi sovente anche per lo stesso artista. C’è stato qualcuno che deve ringraziare per averle dato, che so, dei consigli di come muoversi nel suo percorso artistico? Insomma, c’è un modello che ha seguito o che segue? Nessun modello. Sono un’accanita consumatrice di poesia da che ho memoria di me, ma ho sempre cercato di trovare la mia strada in maniera completamente autonoma. Devo molto a Gualberto Alvino, i cui consigli sono stati per me talmente preziosi da indurmi a modificare radicalmente la mia concezione della letteratura, come si evince dalla mia silloge poetica Lux. Nova et vetera, di imminente pubblicazione e prefata dallo stesso Alvino. La maggior parte di noi ha avuto come riferimento i propri genitori (tranne per quelli, sfortunatamente, che sono nati orfani, ovviamente), figure indispensabili per la nostra crescita. Quanto hanno contato (o continuano a contare) nella sua vita? I miei genitori hanno influito molto sulla mia crescita culturale. In particolare mio padre Antonio Panza, uomo di specchiata moralità e spiccato gusto estetico, per il quale la cultura rappresentava l’unico mezzo per affrontare le avversità della vita e, soprattutto, per risolvere ogni tipo di problematica personale e sociale. Essere stata figlia di un padre dedito alla politica, addirittura investito dalla carica di sindaco di una cittadina campana, le ha reso la vita più facile o conflittuale? Perché “facile” o perché “conflittuale? Né più facile né più conflittuale. Considero l’attività pubblica di mio padre (tuttora ricordato con rispetto dai nostri concittadini) una lezione di vita e di condotta morale. A proposito: qual è il suo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Ho svolto un’appassionata attività politica fino a qualche anno fa, quando mi resi conto degli scenari in cui versa una politica dilaniata e ormai priva di pathos. Seguendola anche su Facebook, riporto qui un suo post: «Non ti piacerebbe tornare indietro nel tempo e fare una passeggiata con tuo padre?». Quanto è stata importante per lei la figura paterna? La figura di mio padre è stata fondamentale nella mia vita. A distanza di 12 anni dalla sua scomparsa, lo ricordo ogni giorno con affetto e straziante nostalgia. Ci sono altri desiderî inespressi nella sua vita? Riuscire a condurre in porto i miei progetti letterari. Il nostro comune amico Gualberto Alvino afferma che la cultura non la dà la scuola. Siamo noi a costruircela. Perché la scuola è così sorda, così oziosa? Concordo con Alvino: la scuola non può offrire altro che input e spunti di ricerca; il resto spetta all’individuo. Che cos’è per lei l’amicizia? L’amicizia è importante perché può spesso avere una funzione salvifica. Ma, ahimè, è una delle cose più rare. Che cosa distingue l’uomo dal poeta? La capacità di ascoltare il rumore «dell’erba che cresce», come dice Ungaretti. Torniamo alla poesia. Cosa cerca nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base dei suoi intenti? La poesia è per me uno strumento di conoscenza. Lavoro sul confine tra arte come artificio e vita vissuta. Tutto quel che scrivo scaturisce dall’esperienza: i dati concreti e reali sono ovviamente trasfigurati. La mia poesia è sempre immagine in movimento, governata da un ritmo spezzato e mai prevedibile. La sua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Non direi. Ribadisco la mia tendenza a esplorare sempre nuovi territori espressivi: solo così è possibile comprendere la realtà che ci circonda. In letteratura si può incontrare l’amicizia, cioè fidarsi dei “colleghi”, o il poeta e lo scrittore sono destinati ad affrontare le problematiche in perenne solitudine? Non posso che sottoscrivere toto corde una massima di Antonio Pizzuto: «Ci si trova soli dinanzi alla scrittura, in perpetuo rischio ottativo». Un consiglio per i giovani che si apprestano ad entrare nel tortuoso mondo della scrittura creativa? Sono restia a dispensare consigli. Ma, visto che lei mi esorta a farlo, eccone uno: evitare il già detto, sia a livello tematico sia sul piano formale. Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica, o sempre le stesse facce (poche) alle presentazioni di libri o letture poetiche; troppe poesie tutte dello stesso tono. Insomma: sembra esplosa in piccoli clan, e non sempre collegati tra loro, neanche nella stessa città. Qual è la sua opinione in merito? Concordo con lei. Siamo circondati da pletore di impostori che spesso non distinguono un’assonanza da un rinoceronte. Per costoro l’attività “letteraria” non rappresenta altro che uno status symbol. Sembra che oggi la poesia non venga presa con la dovuta serietà, finendo per essere uno “spassatiempo”. Lei quanto prende sul serio la poesia? Reputo criminoso asserire che la poesia possa essere un passatempo. Per me è sempre stata un’attività irrinunciabile. Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Ha mai partecipato ad uno di essi e che opinione si è fatta, quale beneficio può arrecare un siffatto premio? Condivido il suo pessimismo: i premi letterari seri si contano sulle dita di una mano. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole (non tutte per fortuna) ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Ha riscontrato difficoltà editoriali durante il suo percorso poetico? Fortunatamente non ancora, ma so bene quale sia l’andazzo. Le hanno mai chiesto denaro per pubblicare? No, mai. C’è qualche editore non a pagamento che consiglierebbe a chi si appresta a pubblicare e qualcuno da tenere alla larga, specie se a pagamento? Non mi sono mai occupata della questione. È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Ha mai cercato di dare una spiegazione a questo fenomeno? Si è sempre letto molto poco, soprattutto dall’avvento della civiltà dell’immagine. Ma ho molta fiducia nei giovani, alcuni dei quali ‒ mi consta personalmente ‒ fanno della lettura un vero e proprio lavoro. Se dovesse paragonare la sua poesia a un poeta famoso, a chi la paragonerebbe e perché? Quale affinità elettive ci trova con la sua poesia? Saba, Penna e Caproni per la mia prima stagione; Sanguineti e Amelia Rosselli per la seconda. Ma, ripeto, non si tratta di modelli. Quando si è accorta che poteva fare la poeta? Non c’è un momento preciso in cui ci si accorge di poter poetare: per quanto mi concerne, si tratta di un’inclinazione naturale, che ovviamente dev’essere coltivata giorno dopo giorno. Cosa pensa dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? Tutto il male possibile. La carta ha un fascino ineguagliabile. Trova difficoltà con l’ambiente letterario in cui vive e che rapporto ha con i suoi colleghi campani? Nessuna difficoltà: i miei rapporti con gli scrittori della mia terra, l’Irpinia, sono sempre stati improntati a cordialità e stima reciproca. Quando non si occupa di poesia, di cosa si occupa? Studio e cerco di svolgere al meglio la mia professione d’insegnante. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che ha raccolto nel mondo letterario? Pubblicare in riviste prestigiose come «Fermenti», «Steve», «Arenaria» e «Malacoda». E quella ancora da venire? Devo essere sincera? Vedermi recensita sulla Treccani. Ha una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa? Insegnarla come si deve fin dalla scuola primaria. In conclusione: quali programmi ha in cantiere? Per ora sono totalmente concentrata sul mio libro, che uscirà tra breve per i tipi di Robin Editore. Read the full article
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#𝗡𝗘𝗪 con *𝗠𝗮𝗿𝗶𝗻𝗼𝗻𝗶𝗯𝗼𝗼𝗸𝘀 🐦 Quando un nuovo arrivo è così ricercato, elegante, prezioso e di un editore esordiente, non possiamo che impazzire dalla voglia di far innamorare anche voi. #MARINONIBOOKS è una piccola e nuova casa editrice, che molto sinteticamente si descrive sul suo sito come autrice di "libri con le figure". La sua prima uscita è questo "Ribes e Rose", un volume appena arrivato composto da splendide illustrazioni a tema naturalistico/botanico di Cristina Amodeo @cri_amodeo accompagnate dai poetici versi scritti di Enrica Borghi @enricaborghi , per raccontare di quell’emozione legata ai pomeriggi trascorsi nei nostri personali giardini d'infanzia. "L’orto è un luogo protetto dalla realtà circostante, un microcosmo dove mani piccole vengono guidate da mani più grandi, piene di rughe sapienti." Un libro d'artista, con la copertina in tela stampata a caldo. Guardalo anche nella vetrina del nostro shop sulla pagina: https://www.facebook.com/commerce/products/4723680347649542/ 🤳 Lo trovi ora sul tavolone delle novità oppure ordinalo su #Bookdealer, dove è appena stato inserito nella sezione *consigli* del nostro profilo. #spinebookstore #ribeserose #marinonibooks #spinebookstore #Spine #Bari #Puglia #Italia #libri #fumetti #autoproduzioni #smallpress #albiillustrati #microproduzioni #editoria #edizioni #italiane #Bookdealer #estere #stampe #graphicnovel #bookshop #booklovers #illustratedbooks #indipendente #independentbookshop #illustration #Europe (presso SPINE Bookstore) https://www.instagram.com/p/CGJ8IvAAB_M/?igshid=iin59k6yk7fb
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San Giovanni della Croce e la guida spirituale
Parlando dell’ascesa dell’anima a Dio, in “Fiamma viva d’Amore” e “Salita al Monte Carmelo”, san Giovanni della Croce approfondisce il tema della direzione spirituale. Tutti i suoi consigli partono da un presupposto: è lo Spirito Santo a condurre le anime. Il confessore deve essere solo un umile tramite: saggio, discreto ed esperto. Perciò il santo non esita ad accusare di temerarietà quei direttori inesperti che tengono legate a sé anime che non è compito loro dirigere.
di P. Giorgio Maria Farè (14-12-2019)
San Giovanni della Croce, vissuto in Spagna tra il 1542 e il 1591, fu, insieme a Santa Teresa di Gesù (Teresa d’Avila), co-fondatore dell’ordine dei Carmelitani Scalzi. Conobbe Santa Teresa nell’anno della propria ordinazione sacerdotale, a soli 25 anni, e subito fu affascinato dalla riforma che la Santa stava già attuando nel ramo femminile, per un ritorno alla regola carmelitana primitiva, priva delle attenuazioni che erano state via via concesse nei secoli.
Decise così di partecipare alla fondazione del primo convento riformato a Duruelo e, nonostante S. Teresa avesse quasi trent’anni più di lui, tra loro si strinse un’amicizia spirituale profonda e fruttuosa tanto che la Santa arrivò a definirlo “padre della sua anima”.
San Giovanni della Croce scrisse diverse opere che gli valsero il titolo di Dottore della Chiesa. Inoltre, i suoi componimenti poetici sono considerati tra i migliori della letteratura spagnola. In due di questi, “Fiamma viva d’Amore” e “Salita al Monte Carmelo”, affrontando il tema dell’ascesa dell’anima a Dio nella vita contemplativa, si dilunga a trattare il tema della direzione spirituale, in particolare mette in guardia da quali siano i rischi di una direzione malfatta. Sebbene qui S. Giovanni tratti espressamente di anime religiose e dei gradi di orazione più elevati,[1] i suoi ammonimenti si possono applicare anche alla direzione spirituale delle anime che seguono la via ordinaria.
Tutti i consigli di S. Giovanni partono dal presupposto che sia Dio a condurre le anime e che il direttore debba essere solo un tramite. Perciò scrive: “Queste persone che guidano le anime ricordino e considerino che il principale agente e guida di queste, non sono loro, bensì lo Spirito Santo, che non tralascia mai di prendersene cura; e che loro sono solo strumenti per indirizzarle alla perfezione per mezzo della fede e legge di Dio, secondo lo spirito che Dio concede a ciascuna di loro. E così tutta la loro preoccupazione non sia nel rendere le anime conformi al loro modo e alla loro condizione, ma nel sapere dove Dio le vuole condurre, e se non lo sanno le lascino andare senza perturbarle”.[2]
Ammonisce le anime: “Conviene all’anima che vuole progredire nel raccoglimento e nella perfezione guardare in quali mani si affida, poiché il discepolo sarà uguale al maestro, così come il figlio al padre”[3]. Pertanto, una guida, “oltre a essere saggia e discreta, è necessario che sia esperta. Poiché per guidare lo spirito, sebbene siano fondamentali la scienza e il discernimento, se non vi è esperienza di ciò che è puro e vero spirito, non sarà possibile condurvi l’anima quando Dio lo concederà, e neppure si potrà capirlo”.[4]
Cosa si intende per esperienza? S. Giovanni definisce inesperti quei direttori che, non conoscendo le vie dello Spirito, obbligano le anime a seguire le vie che loro stessi preferiscono, anziché quelle per le quali Dio le vuole guidare. Le anime, così costrette, “da una parte non progrediscono e dall’altra soffrono inutilmente”.[5] Con questi direttori inesperti S. Giovanni è severissimo. Li paragona ad artisti maldestri che con la loro mano rozza rovinano un volto dipinto delicatamente dalla mano di un artista più capace.[6]
Non li scusa affatto per la loro imperizia e ignoranza, anzi, li accusa di temerarietà, di non voler ammettere la propria incapacità e di voler ostinatamente tenere legate a sé anime che non è compito loro dirigere. “Ed è cosa importante e grave colpa far perdere a un’anima beni inestimabili e a volte lasciarla lacerata a causa di consigli temerari. E così colui che sbaglia per essere temerario dovrebbe sapere, come deve ognuno nel suo officio, che sarà punito in proporzione al danno compiuto. Perché le cose di Dio devono essere trattate con molta attenzione e a occhi aperti, soprattutto in un caso così importante e in una questione così sublime come è quella di queste anime, dove c’è la possibilità di avere un guadagno infinito se si trova la via giusta e una perdita altrettanto infinita se si sbaglia”.[7]
L’invito di S. Giovanni è, sostanzialmente, un invito all’umiltà del confessore, che deve conoscere i propri limiti: “Poiché non tutti sono preparati per tutti i casi e per tutte le mete esistenti nel cammino spirituale, né hanno uno spirito così perfetto da sapere come l’anima deve essere guidata e retta in qualsiasi stato della vita spirituale, nessuno deve credere di possedere tutti i requisiti, né che Dio non voglia condurre più avanti un’anima”.[8] “I maestri spirituali devono, dunque, lasciare libere le anime, anzi sono obbligati a mostrare loro buon viso quando esse volessero cercare qualcosa di meglio. Poiché non sanno per quali sentieri Dio vorrà condurre tali anime, soprattutto quando non provano più gusto per la loro dottrina, il che è segno che non ne hanno più vantaggio, o perché Dio le conduce oltre o per un altro cammino rispetto a quello del maestro, o perché quest’ultimo ha cambiato metodo. E questi maestri glielo devono consigliare, mentre qualsiasi altro comportamento nasce da superbia, presunzione o da qualche altra pretesa”.[9]
Leggendo S. Giovanni della Croce si comprende quanto equilibrio sia richiesto ai direttori. Ad esempio, parlando di anime graziate di comunicazioni mistiche, invita fermamente i confessori a non rivolgere troppo l’attenzione a questi fenomeni, affinché “le anime rifuggano prudentemente da queste manifestazioni soprannaturali”[10] e si radichino nel distacco e nell’umiltà. Tuttavia, spiega che non si deve cadere nell’estremo opposto: “Avendo insistito tanto perché tali fenomeni vengano respinti e i confessori impediscano alle anime di fare discorsi su questo argomento, non si creda che i direttori spirituali debbano mostrare a loro riguardo disgusto, avversione o disprezzo, altrimenti indurrebbero queste anime a chiudersi, così da non avere più il coraggio di manifestarli”.[11] “Piuttosto è opportuno procedere con molta bontà e calma, per incoraggiare tali anime e sollecitarle a parlarne”.[12]
Dotato di talenti naturali ma soprattutto corroborato da una fervente vita di contemplazione e di austera ascesi, mistico egli stesso, S. Giovanni fu una figura eccezionale e resta ai tempi nostri un fondamentale riferimento per tutti coloro che desiderano percorrere la via della santità.
* Sacerdote e Carmelitano Scalzo
[1] “Del resto, mio scopo principale non è rivolgermi a tutti, ma solo ad alcune persone della nostra santa religione del primitivo Ordine del Monte Carmelo, sia frati che monache, che mi hanno chiesto di farlo” (Salita al Monte Carmelo, prologo, n. 9).
[2] Fiamma viva d’Amore, 46.
[3] Fiamma, 30.
[4] Fiamma, 30.
[5] Fiamma, 53.
[6] Cfr. Fiamma, 42.
[7] Fiamma, 56.
[8] Fiamma, 57.
[9] Fiamma, 61.
[10] Salita al Monte Carmelo, cap. 19, n. 14.
[11] Salita, cap. 22, n. 19.
[12] Salita, cap. 22, n. 19.
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Oggi a Lariofiere abbiamo incontrato un personaggio che a prima vista sembrava solo curioso, ma poi si è rivelato un super talento.Clarinettista, sassofonista, compositore, autore di testi poetici, produttore artistico, didatta, Giovanni Mattaliano
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Mi chiamo Checco ma è colpa della mano che non smette di tremare
Ahahahahaha i consigli poetici
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Stati whatsapp divertenti
Oggi parliamo di stati whatsapp divertenti: di tutti quegli stati che faranno sorridere tutti i vostri amici e vi renderanno ancora più simpatici. Scrivere uno stato whatsapp che attiri l'attenzione di chi sta intorno a voi non è una cosa banale e scontata ma con un po' di pratica e con i consigli di questa guida riuscirete a comunicare in modo diretto e semplice a tutti quelli che vi circondano. Per semplicità ho diviso la guida in piccoli capitoli/paragrafi. Se alcuni sono già nelle vostre corde o volete saltarli cliccate direttamente sul link del capitolo che più vi interessa. Introduzione - che cosa sono gli stati di whatsup Come aggiungere o modificare il proprio stato Per quanto tempo resta visibile uno stato whatsapp? Classifiche stati whatsapp divertenti Stati whats app divertenti: l'elenco - i top 10 Stati whats app divertenti sull'amicizia Stati whats app divertenti sull'amore
Stati whatsapp divertenti: l'elenco - i top 10
Come selezionare la funzione stato
Introduzione - che cosa sono gli stati di whatsup
Su come funzionano e come si gestiscono gli stati in whatsapp ne abbiamo già parlato (vedi il link qui accanto per approfondire). Per riassumere gli stati sono una funzionalità introdotta da Whatsapp già da qualche anno e che è davvero interessante. Essa permette di condividere le tue emozioni, i tuoi pensieri con tutti i tuoi contatti che potranno leggerlo o guardarlo: gli stati infatti non sono solo parole, frasi, citazioni ma possono essere fatti anche d'immagini in modo da dare libero spazio alla prioria creatività; per essere un po' poetici è come una grande tela bianca nella quale far trasparire il priorio stato d'animo e i propri pensieri. Lo stato sta a whatsup un po' come la bacheca sta a facebook: tutto quello che scriviamo sul nostro stato whatsup è infatti visibile in primo piano a tutte le persone che ci vogliono contattare apparendo in primo piano vicino al nostro contatto, uno strumento di comunicazione quindi molto "forte" che dobbiamo imparare ad utilizzare in modo corretto.
Come aggiungere o modificare il proprio stato
Aggiungere o modificare il proprio stato è un modo per comunicare potenzialmente con tutti i priori contatti rendendoli parteci di cio' che ci circonda, di cio' che ci accade e cio' che perchè no ci fa ridere. Creadere degli stati whatsapp divertenti è quindi un buon modo per investire il pririo tempo, magari utilizzando oltre che il testo con una frase ad effetto anche immagini personali arriccchite con emoticon. Il risultato non tarderà a mancare. Se proprio invece avete blocchi cresativi qui sotto riportiamo un eleco di frasi, aforismi e battute celebri. Magari potrebbero essere la base di partenza per divertenti personalizzazioni.
impostare stati Vediamo come creare uno stato whatsapp: dal menu seleziona la funzione Stato che si trova in basso a sinistra proprio sotto l'elenco dei contatti Entrato nella sezione stato hai due opzioni: se desideri caricare delle immagini (anche più di una) premi l'icona della macchina fotografica. Se invece vuoi aggiornare/creare il tuo stato solo con un pensiero testuale premi l'icona della penna. Se hai scelto di aggiornare il tuo stato con un immagine-video (icona macchina fotografica) Whatsapp ti collegherà alla fotocamera del tuo cellulare con la quale scattare un selfie o una foto sul momento oppure utilizzare l'archivio foto per riprendere un'immagine già acquisita che magari hai anche già fotoritoccato. Puoi aggiungere anche più immagini. E' infine possibile aggiungere anche un video. Unica limitazione la durata della clip che puo' essere al massimo 30 secondi. Se hai scelto di aggiornare il tuo stato con una pensiero/testo (icona penna) whats-app ti collegherà ad un piccolo editor testule sul quale scrivere la tua frase scegliendo colore, sfondo e anche font in modo davvero semplice e intuitivo.
Come aggiungi un testo negli stati whatsapp
Per quanto tempo resta visibile uno stato whatsapp?
Gli stati whatsapp nascono per comunicare verso tutti i vostri contatti. Whatsapp non è un social network ma un'applicazione di messaggistica e quindi anche questo strumento di comunicazione è un po' diverso rispetto ad una tradizionale bacheca. E' più una sorta di megafono, che tutti i vostri amici possono leggere. Per questo motivo gli stati restano visibili per 24 ore terminate le quali spariscono.
stati whatsapp divertenti - Tratto da commenti memorabili Stati whats-app divertenti sull'amicizia Il silenzio e' il vero amico che non tradisce mai. Un amico e' una persona che ci ama lo stesso nonostante ci conosca. Il nemico del mio nemico e' mio amico Se io dovessi scegliere tra tradire il mio Paese e tradire un mio amico,spero di avere il coraggio di tradire il mio Paese Perchè dovrei distruggere i miei nemici, quando potrei farli diventare miei amici. Read the full article
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DI SOVENTE, IN CUCINA (di Carla Guelfi, agosto 2018)
C’era una volta una cucina con un profumo assai persistente, dal carattere unico e deciso, sprigionato da certi ingredienti messi a cuocere -a fuoco lento- in tegami di coccio, reso ancor più graffiante dalla aggiunta di un pizzico di spezie in polvere. Delicatamente, l’odore ti faceva strada dal portone, caro sentore di un paradiso dei sensi, per poi accoglierti a braccia spalancate sull’uscio di casa. Nell’ensemble risultava essere -squisitamente sovrastante- il guanciale di maiale. Sfrigolando in padella con abbondante olio di oliva, raggiungeva la doratura scoppiettando particelle di grasso nell’aria. Avrebbe, col suo sapore, avvolto croccante la punta acida della salsa di pomodoro sui bucatini scolati al dente e fumanti, lasciati a riposare nella zuppiera bianca esalando vapore. Il guanciale sposava anche il vino svaporato sulle carni dolci degli arrosti, e accompagnava alla fine del pranzo l’intenso e fragrante aroma di caffè. In cucina si allestivano grandi tavolate, e il numero dei commensali era flessibile: mai meno di sette -numero dei componenti della famiglia- per arrivare ad un massimo di dieci o undici persone, tutte riunite intorno al tavolo per gustare, conversando, i piaceri del palato. L’artefice e custode delle schiette ricette tradizionali romane portava con disinvoltura il nome dell’eroina di Vincenzo Bellini: Norma. Mano pesante nel condire, non deludeva mai le aspettative di cotanto profumo. Durante la preparazione dei cibi, andava dispensando saggi consigli paesani elargiti ad un pubblico languido in attesa davanti ai fuochi; si trattava perlopiù di ammonimenti. La morale era efficace e quasi coreografica, e si concludeva con la “Cucchiarella” sbattuta sul bordo del tegame lasciata per qualche secondo sospesa a mezz’aria, minacciosa; dopodichè -solenne- tornava a “Rumare” il sugo. Era una preziosa collaboratrice e amica di famiglia. In quello spazio si mescolava proprio tutto: agli odori si aggiungevano i volti, i discorsi, e spesso, molto spesso, le liti tra noi fratelli; tanta intensa e collettiva esperienza stancava tutti, e dopo il caffè aveva inizio un fuggi-fuggi generale: gli ospiti venivano gentilmente accompagnati alla porta, Norma come un fulmine rassettava la cucina e correva a prendere la littorina per Marino, e i rimanenti andavano disperdendosi per lo più in attività silenziose, tipo la “Pennichella” o la lettura dei fumetti.
A nonna Beatrice -a capotavola- devo una menzione speciale, è a lei che riconosco il primato delle emozioni al gas-nervino che, terrorizzandomi, mi avrebbero tenuta sveglia di notte. Io e la nonna dopo il pranzo indugiavamo a tavola, e quando tutti erano spariti, lei -guardandomi assorta- dava inizio alla malìa con un respiro profondo. Tacitamente, mi chiedeva di andare ad aprire la porta immaginaria che affacciava su strade e piazze: percorsi di un tempo in cui si erano svolti fatti di cronaca, vicende legate a personaggi realmente vissuti e tramandate in un crescendo, si erano arricchite, via, via, con i colori del narratore di turno. I racconti di nonna spiccavano vividi e decisi, se cruenti; per poi dissolversi in bianco e nero, se poetici; filmica, la visione si proiettava con un raggio di luce dalle sue pupille alle mie prendendo vita. “La notte del sette di gennaio, da più di trecento anni, scalpitano sui sanpietrini di piazza Navona sei cavalli neri, che percossi dalla frusta del cocchiere nitriscono e imbizzarriscono; al traino, inseguita da una tempesta d’aria, c’è una carrozza in fiamme. Inizia così, una ridda intorno alla piazza, e gira, gira all’infinito. Dentro al cocchio c’è una donna che ride…è Olimpia Pamphilij! Porta via con sé due casse piene d’oro trafugate da sotto il letto di papa Innocenzo X ormai morto; a cassetta è il Diavolo in persona a condurre la danza infernale. Ad un certo punto il girotondo cessa, e da piazza Navona i cavalli si lanciano al galoppo verso ponte Sisto; il cocchio traballa, quasi si rovescia, e perde monete d’oro mentre precipita giù per la scalinata, inabissandosi nel Tevere… l’acqua nera si chiude sull’assurdo coacervo, e l’eco rimanda un latrato fino all’alba. Ci credi?!”. Libera me Domine, nonna! Certo che ci credevo! Fino al terrore che mi faceva torcere le mani, mentre trattenevo il desiderio di segnarmi con la croce; e non c’era via di scampo! Se provavo a sottrarmi al tuo sguardo, mi sembrava addirittura di vedere riflesso sul vetro della credenza il luccichìo ribelle degli occhi color oro, avidi e compromessi, di Olimpia. Alla pausa assai tesa, aggiungevi:”Mai avventurarsi la notte del sette gennaio da quelle parti: il prodigio è presagio di morte”.
La storia di Olimpia Pamphilij, detta la “Pimpaccia”, era un classico che non finiva mai di spaventarmi. Di gran lunga più permeante era la storia di Beatrice Cenci. ”Giovanissima, fu decapitata perchè accusata di parricidio: l’esecuzione pubblica avvenne nella piazza antistante alla prigione di Castel Sant’Angelo, dove era stata reclusa…e da allora, ogni undici settembre -data dell’esecuzione- illuminata dalla luna viene vista passeggiare sul ponte, con la testa mozzata sotto al braccio”.
Leggende maligne spacciate per vere, raccontate con la stessa enfasi retorica con cui sentivo recitare a Ungaretti i versi dell’Odissea televisiva; raccontate dopo il pranzo, infiammavano le mie percezioni del vizio, dell’avidità, e del castigo: micce corte, accese dallo sfregamento degli zoccoli caprini e dal timor di Dio, incendiavano col napalm, polverizzandomi. Dal canto suo, nonna, terminato il racconto e in piena difficoltà digestiva, mollava la postazione lasciandomi annientata: mentre si allontanava, intorno alla sua testa vedevo volteggiare leggiadri satelliti a forma di razze volanti. Non udii mai dal suo labbro proferire il famoso epilogo: “…E vissero felici e contenti”: con lei ingoiavo il sapore denso del mistero maledetto, grazie a lei una specie di brivido mistico arricchì per sempre il mio patrimonio genetico. Cosa avrei potuto chiedere di più a questa nonna, nata nel 1894 nel leggendario Palazzo Scapucci, meglio noto come il Palazzo della Scimmia?
La leggenda narra che tra il 1500 e il 1600, nella torre del palazzo avvenne il curioso rapimento di un bambino dalla culla, per “Zampa” della scimmia di proprietà del nobile Scapucci, padre del neonato: il primate, geloso delle attenzioni a lui sottratte, rubò il pargolo portandolo via con sé, e il gentiluomo, venuto a conoscenza del fatto, riebbe indietro il bambino emettendo il solito fischio di richiamo usato solitamente per attirare la scimmia, coinvolgerla in giochi e offrirle del cibo. Nata dentro alla leggenda, nonna, già dal primo vagito, avrà interloquito con la leggenda stessa: il rapimento da parte della scimmia, seppur a lieto fine, l’avrà forse iniziata da subito al timore del perpetuarsi del crimine? Il reiterarsi dello stesso avrebbe comportato l’allontanamento dai suoi cari… avrà creduto di vedere l’animale saltellare e arrampicarsi fra i rami del ciliegio sotto la finestra della sua camera? Probabilmente la prima volta l’avrà udita da sua madre, o nel dialetto pittoresco dei vicoli dove passeggiava, dalla “Sediara” o dalla “Carbonara”.
Spalancando gli occhi, avrà soddisfatto quel sadico piacere, tipico del narratore o narratrice, di invasare in lei, bambina e senza filtri, la paura. Coi figli prima e con i nipoti poi, tramandò lei stessa l’inganno. Smarrì molto presto la ragione, e in scorribande selvagge sconfinò in quella regione di praterie infinite situata tra l’onirico e il vero. Affermava in ultimo di chiamarsi Beatrice Cenci. Di giorno per lo più silente, era la notte il luogo dove la sua voce tornava a narrare ricordi incapaci di leggere correttamente il tempo, un po’ dislessici e claudicanti, che andavano da un decennio all’altro storpiando i nomi degli interpreti della sua vita. Fu per me un vero rompicapo decifrare assonnata le sue memorie, più difficile di un cruciverba di Alessandro Bartezzaghi.
Spesso chiamava ad alta voce un ufficiale che le aveva cantato serenate appassionate, con un nome molto simile a quello di suo marito Carlo, classe 1891, forgiato alla Scuola Militare della Nunziatella a Napoli, monarchico convinto; autorevole e rigoroso, amava sciogliersi nei pomeriggi domenicali intrattenendo gli ospiti, con una calda voce baritonale, per intonare “Non più andrai” dalle Nozze di Figaro di Mozart, e insieme al lei, alla nonna, “Il Duetto delle ciliegie” dall’Amico Fritz di Mascagni. “Duettando”, una ciliegia tirò l’altra, e nacquero sei figli. Nessun militare fra i cinque maschi, bensì un tenore, un baritono, un pittore, un correttore di bozze, e un commerciante; l’unica figlia femmina dal carattere volitivo sposò un bas- bariton- pittore. Questo è tutto ciò che evinsi dal suo farneticare notturno. Chissà se capii bene… di sicuro, e come facevo sempre, obbedivo al desiderio di ascoltarla. Nonna Beatrice è stata la prima persona che ho visto morire: avevo quattordici anni, e nel mio letto la vidi boccheggiare come un pesce senza ossigeno. Una lacrima le si fermò all’angolo dell’occhio, batté la palpebra e la lasciò andare. Fu il suo ultimo segno di vita. “Larga è la foglia stretta è la via, dite la vostra che io ho detto la mia”.
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qualche blog che consigli?? grz
segnalare un blog è come consigliare un libro, dovrei sapere chi sei
un paio di blog che fanno sorridere sempre (e pensare con poche parole) sono @bicheco e @pelle-scura se vuoi scottarti c c’è @kon-igi e certo poi non puoi mancare @entropiclanguage il malkaviano ficcante e intelligente.i blog femminili ce ne sono molti estremamente poetici, fotografici, utili, fantasiosi, personali, suadenti… ma se ne segnalassi uno , poi farei torto a un’altro e non è gentile
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Nessuno vuole le stroncature, apriamo uno spazio pubblico. Sergio Claudio Perroni stronca Maurizio Cucchi, “si danna a strimpellare versi ma gli vengon fuori stecche e stonature… a Mauri’, mó facce Tarzan!”
Non l’ho conosciuto, dicono che fosse impossibile, certamente geniale, forse ci saremmo piaciuti. Un groviglio giudiziario – aizzato dalla mia palese avventatezza e arretratezza relazionale – di cui ho già detto ci ha impedito l’incontro. Sergio Claudio Perroni, editor, traduttore – tra gli altri, di David Foster Wallace, di Albert Camus, di John Steinbeck, di Michel Houellebecq –, scrittore, ha svolto, tra l’altro, una feroce (e necessaria) attività giornalistica. Le sue stroncature, pubblicate spesso su “Il Foglio”, poi convogliate in un sito di culto, “Poeti e poetastri. Consigli e stroncature per chi ama la poesia”, sono salutari, spesso memorabili. Per sua natura, lo stroncatore si fa segno di contraddizione e agnello sacrificale: guai a pensarla come lui. Piuttosto, stimola l’intelligenza a ceffoni, nel paese dei salamelecchi e dei balocchi editoriali. È un antidoto, una pugnalata energetica, un bombardamento in assenzio, nell’assenza, plateale, di una critica letteraria vera, seria. Anche SCP, da ciò che mi dicono, si è scavato il vuoto: i romanzieri sono pavidi tanto quanto i poeti sono permalosi. Naturalmente, dopo la fatidica vicenda, nessuno degli stroncati s’è fatto vivo, nessuno ha preteso uno spazio di lotta libera sui giornali, uno spazio per la stroncatura. Al contrario, tutti, silenziosamente, son felici della zanzara schiacciata, di un problema in meno. Siamo nel deserto: al posto degli eremiti, però, siamo afflitti dagli egocentrici con il capolavoro nel cassetto. Per rimediare, apro io lo spazio. Comincio a darlo a Sergio Claudio Perroni, appunto, un maestro nel ‘genere’. Questo articolo su Maurizio Cucchi, guru della poesia lombarda, artefice delle scelte – spesso incomprensibili – de ‘Lo Specchio’ Mondadori, è uscito su “Il Foglio” il primo novembre del 2003 con il titolo “Il premio Carducci l’ha vinto Cucchi. Risarcite Giosuè”. Utile, cattivo, spassoso. Ad ogni modo, lo spazio è questo gente. Accolgo stroncature. A patto che siano aspre, oneste, generosamente geniali. (d.b.)
*
Maurizio Cucchi fa il poeta, e spesso scrive di poesia. Ne scrive sull’Unità e su Tuttolibri, cura il Dizionario della Poesia Italiana e ha una rubrica di consigli poetici sullo Specchio (non quello della leggendaria Cronaca Bizantina, purtroppo defunto; l’altro, quello che si finge vivo a colpi di restyling).
“Maurizio Cucchi, dicevamo, fa il poeta. Non lo è, lo fa”
Maurizio Cucchi, dicevamo, fa il poeta. Non lo è, lo fa. Per capirci: non è Raboni, che sventaglia poesia a ogni fiato. E non è nemmeno Balestrini, che pur sforzandosi non riesce mai a dissimulare la poesia di cui è intriso. Cucchi è il contrario: si danna a strimpellare versi e concetti ma gli vengon fuori stecche e stonature. Gli vengon fuori incipit che sembrano parodie (“Sulla carta si sbizzarrisce il mio cuore, | perciò mi inoltro con Alberto | nel mondo antico di Villapizzone”), e balordaggini la cui sola speranza di significare sta in un’ipotesi di refuso (“Le mani sfiorano oggetti | vissuti in sola immagine, | senza freccia in profondo”), e metafore forzate fino a sgangherarle (“Mi infilo nel portafogli del mio letto | come una carta d’identità scaduta”). Se imbrocca un’immagine o un accordo appena convincenti, ne svela subito l’accidentalità annegandoli in un’insensatezza che sarebbe tragica se non facesse ridere per come si crede gravida di pensiero (“Ho sempre pensato che la fine | è più importante dell’inizio | ma se la fine si versa nell’inizio | vengo fuori rifatto”). Talvolta, per fare sino in fondo il poeta, si sforza perfino di sborsare qualche obolo di impegno civile; ma deve precisarlo con apposito titolo, altrimenti nessuno sospetterebbe di impegno astrusità come “Le sole strutture morali | a cui ci affidiamo sono il mercato | e il meccanismo verde” (il poema è tutto qua, inutile cercare altrove il significato di “meccanismo verde”).
Cucchi però non si arrende all’evidenza e continua a fare il poeta, come Nando Meniconi faceva Tarzan. Con la differenza che l’eroe di Sordi lesinava le sue esibizioni da pontile, forse perché oscuramente consapevole di essere ridicolo; Cucchi no: quando gli chiedono di fare il poeta, non si tira mai indietro. Anche perché gli consente un’attività collaterale che sembra gratificarlo molto: revocare patenti di poesia a destra e a manca.
Ultimamente, in un articolo pubblicato sull’Unità, ha ritirato in blocco la patente a fior di cantautori, rei di mettere in musica i propri versi. Accusa già di per sé ridicola, per giunta provenendo da chi non arriva neppure a mettere musica nei propri versi; ma che fa addirittura sbellicare quando Cucchi, con gran sussiego, aggiunge che “poesia e canzone sono due forme di espressione ben diverse, come in fondo ognuno sa”. Quello che ognuno sa, a dire il vero, è l’esatto contrario (già etimologicamente: dice niente la vaga somiglianza fra “lirica” e “lira”?). Ma Cucchi ha fretta di sfoderare quella che per lui è l’inconfutabile prova di indegnità poetica: l’assai democratica equazione “popolare = scadente” in cui da sempre gli artisti senz’arte cercano consolazione al successo altrui. “Se si vuole arrivare ai grandi numeri, è chiaro che va ridotto il grado di complessità del messaggio”, sentenzia il Nostro, cui preme attribuire la miseria dei propri numeri a un messaggio troppo complesso per il popolo bue, che, restio a bocconi di vertiginosa densità concettuale e formale quali “Amo, del resto, questa mia fronte spaziosa | che giorno per giorno immagino e coltivo” e “Avevo una giacchetta fresco lana quasi gialla con disegni galles”, preferisce ruminare le notorie vacuità di Paolo Conte o De André. O del sommo Prévert, cui sabato scorso, dallo scranno di Tuttolibri, questo instancabile prefetto ha ritirato la patente di grande poeta dandogli dell’“incantatore sapiente ma a buon mercato”, “poeta che vuole arrivare subito al suo pubblico, cercando uscite a effetto a scapito della profondità”.
Scempiaggini assolute, che però, esalate dal nulla poetico in cui versa Cucchi, sfiorano l’eroismo. Forse è maturo per il grande passo: a Mauri’, mó facce Tarzan.
Sergio Claudio Perroni
*In copertina: Sergio Claudio Perroni nel ritratto fotografico di Natalino Russo
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“Dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti”: René Char e Paul Celan, poeti dell’impossibile. Dialogo con Marco Ercolani
“Siete uno dei rari poeti con cui vorrei incontrarmi”, gli scrive, due giorni dopo, nel luglio del 1954. Paul Celan gli aveva descritto l’“angosciata speranza che domina i miei rari incontri con la Poesia”, confessando il desiderio, “senza disturbarvi”, di incontrarlo. Segue, appunto, la risposta di René Char. A quella vertigine d’anni Char ha già pubblicato Feuillets d’Hypnos e Fureur et Mystère; Celan ha dato Papavero e memoria – che dedicherà “A René Char, che mi ha aperto la sua porta” – e lavora a Di soglia in soglia. Leggo queste lettere, il riconoscimento di poeti che sondano l’inconosciuto del linguaggio, che sono penetrati nel fiammeggiare del verbo, e mi commuovo. Ci sono incontri, in effetti, che mutano l’asse terrestre. I libri importanti, oggi, vanno cercati, tra le ombre. Le edizioni Carteggi Letterari hanno pubblicato, per la cura di Marco Ercolani, L’archetipo della parola. René Char e Paul Celan, testo di lucente necessità. Il libro presenta un florilegio di testi poetici di Char e di Celan (per le traduzioni di Francesco Marotta, Pasko Simone, Viviane Ciampi, Anna Maria Curci, Mario Ajazzi Mancini), e alcuni saggi di granitica necessità (di Peter Szondi e di Maurice Blanchot, una intervista di Jacques Derrida, la testimonianza di Peter Handke, “Allora ho osato tradurre René Char, e mentre lo facevo ho riletto i presocratici, in particolare Eraclito. Il mio lavoro di traduzione non si è mai svolto a casa, sul mio tavolo: la soluzione – sì, era una soluzione, un chiarimento – mi è sempre venuta stando fuori, davanti alla casa, e sempre mentre camminavo, specialmente su e giù nel giardino, mai quand’ero seduto, spesso fermandomi di colpo e ridendo, sempre in pieno sole”). A me pare un libro bellissimo, nella clandestinità editoriale, opera di chi, fuori dal cappio economico, presta il tempo e l’intelligenza al decisivo, al salvifico. Nel suo lavoro di cucitura, Marco Ercolani dichiara il gesto poetico, stratosfericamente esemplificato da Char e Celan, come “esperienza dell’impossibile”. In questo modo va letto l’altro suo libro, anamnesi della generosità, Fuochi complici (Il Leggio, 2019), in cui Ercolani raccoglie l’esito di una lettura decennale, l’incontro con poeti più o meno celebrati, nel sigillo della meraviglia. “Il poeta, da sempre, mette al centro della scena il dissolversi del mondo e il dolore della bellezza che svanisce, del tempo che ci ruba la vita”, scrive Ercolani, che s’immerga con stupefacente candore nella lirica, senza il peso della catastrofe e del pregiudizio. Consapevole della fragilità del verbo, dell’alfabeto d’ombra e di fiamma della poesia, parola gettata a destinatari inauditi, dalle cui palpebre si fanno culle, amaca al mostro. (d.b.)
Cosa ti ha portato a Char e a Celan, al loro intreccio, di poeti letali e liminali, nell’adozione di una lingua che sfida il nascosto e sfida l’inaudito, l’in-detto, l’indeciso e l’indecifrabile, eppure, per l’esistere, quasi opposti?
Quando avevo poco più di vent’anni, in una rivista genovese pubblicavo un saggio dedicato proprio a René Char e Paul Celan, con Osip Mandels’tam i poeti decisivi della poesia contemporanea, e lo intitolavo Poesia per una fine. Mi sono accorto, con il passare degli anni, che entrambi sono le due facce di una stessa medaglia: l’enigma petroso di Char non poteva che convivere con il folle affanno di Celan. Uno stesso mistero declinato da due versanti diversi, quasi opposti. E ho capito che la loro poesia non mi parlava di una fine” ma, al contrario, di un “inizio”, del quale discutere ancora oggi.
Del libro (“L’archetipo della parola”) vedo e apprezzo il lavoro comune, una comunità del limite. Come sono stati scelti i testi, e dove ti sei introdotto, tu?
Nel blog “La dimora del tempo sospeso”, curato da Francesco Marotta e Antonio Devicienti, ho scoperto ottime traduzioni di Char dello stesso Marotta, e lo splendido lavoro di Annamaria Curci, traduttrice di Celan e Szondi. Ho chiesto a Giuseppe Zuccarino traduzioni da Blanchot, Derrida, Handke. Lucetta Frisa ha ri-tradotto una poesia di Eluard dedicata a Char per i “Cahiers de l’Herne”. Io stesso ho scelto una breve antologia di lettere che testimoniassero l’incontro reale dei due poeti, e ho composto un saggio su Char. Più che una “comunità del limite” ho trovato una “comunità dei senza comunità”, in senso batailliano: delle persone capaci di partecipare a un lavoro collettivo che testimoniasse l’inutile e indispensabile bellezza della poesia, in un clima di sorridente e tragica “dépense”. Natalia Castaldi, direttrice di “Carteggi letterari Edizioni”, ha sostenuto con entusiasmo il progetto editoriale.
In forma di premessa dici: “Char e Celan sono interpreti di quell’esperienza dell’impossibile che è e sarà sempre la poesia”. Mi pare una poetica in pillole. Spiegala.
La sentenza di Char: «Dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti» è già un’indicazione che sgretola l’ego del poeta. La poesia deve innalzarsi e andare oltre di sé, come scrive Bonnefoy: «L’uccello varca il canto dell’uccello ed evade». L’enigma della poesia è essere “fuori di sé”, è costruire le forme di questa “evasione” con esattezza. Non vivere la pienezza del canto ma la sua radice, che è grido: e, in quanto grido, sperimentare l’impossibilità della parola di descrivere il suo oggetto. La poesia è stare ai margini dell’afasia, davanti a qualcosa che ammutolisce il linguaggio. Il suo stupor crea e reinventa con le parole le forme del suo stupore. Il poeta ha un solo dovere: fondare limiti nuovi al linguaggio poetico che esprime il dissolversi di ogni limite. Afferma con potenza Novalis: «La poesia è il reale veramente assoluto».
Come si salda quella tua poetica ‘dell’impossibile’ con gli autori con cui sei entrato in sintonia in “Fuochi complici”, e cosa intendi dunque per complicità (essa non è, in fondo, implicita nell’atto di lettura)?
Sono convinto, da lettore, che la complicità sia parte integrante dell’atto di lettura. In Fuochi complici sono entrato in personale sintonia con cento libri, in versi e in prosa, scritti tra il 2001 e il 2019 da cento poeti italiani, nati fra il 1929 e il 1985, dove il sigillo dell’autenticità si accorda alla logica interna del testo, e ne ho tratto delle mie note di lettura (il termine “note” rammenta sia l’idea del segno musicale sia la brevitas dell’annotazione). Questo libro-atlante, non classificabile e non esaustivo, condotto per gusti, analogie, assonanze, mi ha persuaso che la poetica dell’impossibile, di cui parlo, è il desiderio di trovare sempre, nell’atto poetico, nell’azzardo di una voce, quella felice ulteriorità, sintattica e tematica, che rompa gli schemi di una poesia innocua, banale, prevedibile – quella poesia tout court che Lev Lunc già ridicolizzava negli anni delle avanguardie russe.
Insomma, vorrei dirti, dato il frutto di una lettura proficua e ventennale: come sta la poesia italiana del nuovo millennio? Lo chiedo a chi, al di là di nichilismi assolutori (tutto fa schifo) e di bieco ottimismo (siamo nel migliore dei mondi lirici possibili) legge al cuore dell’alterità totale del poeta.
La poesia contemporanea non sta male. Molte voci la abitano, e testimoniano uno sguardo non allineato, “altro” rispetto a una visione comune. È sorprendente scoprire come in molti poeti, naturalmente ignoti alla maggior parte dei lettori, ci sia una libertà di sguardo transgenerazionale. Difficile, nella marea dei libri pubblicati, è operare una selezione e “trovare” quegli autori che ci convincano a leggere il loro libro senza provare la noia del già visto, del già letto. Trovarli è già una gioia. Un libro come Fuochi complici ha la presunzione di averne scoperti alcuni, e vorrebbe anche sottrarsi alla domanda implicita in ogni libro antologico: «perché hai scelto quei poeti e perché hai trascurato quegli altri?». La risposta è semplice: gli autori di cui parlo si accordano ai miei gusti, e cercano la “dépense”, l’alterità, il rischio, la sincera originalità del dettato, seguendo una musica interiore a me consona e una profonda dedizione esistenziale al fenomeno “poesia”. Aspetto, sempre e comunque, di leggere nuove voci presso nuovi editori, perché rinasca il desiderio di comporre un ulteriore libro sui poeti e sulla poesia, come già accadde per Fuoricanto, pubblicato nel 2000 da Campanotto, e Vertigine e misura, apparso nel 2008 per le edizioni La Vita Felice.
A un giovane, poco avvertito e con molta voglia (ne è pieno il tempo, oggi): che libro di poesia gli consigli, che poeta gli dai, per avventurarsi nell’avventato?
Due nomi: Lorenzo Calogero, poeta del sonnambulismo interiore, e Bartolo Cattafi, creatore di immagini materiche: due classici sommersi e diversi ma sempre fecondi, letti nella totalità della loro opera. Per la poesia contemporanea italiana molti sarebbero i nomi da fare, ma scoprirli da soli, per un lettore giovane, sarebbe già un bel viaggio, orientati dal web. Chi legge va sempre verso i suoi simili. Pronuncio appena qualche nome: Antonella Anedda, Lucetta Frisa, Massimo Morasso, Alfonso Guida, Ilaria Seclì.
*In copertina: René Char (1907-1988)
L'articolo “Dì ciò che il fuoco esita a dire, e muori d’averlo detto per tutti”: René Char e Paul Celan, poeti dell’impossibile. Dialogo con Marco Ercolani proviene da Pangea.
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