#libri sull’identità
Explore tagged Tumblr posts
pier-carlo-universe · 2 months ago
Text
Il Labirinto dei Ricordi di Simone Bellese: un thriller psicologico tra memoria e identità. Recensione di Alessandria today
Autore: Simone BelleseAnno di pubblicazione: 22 gennaio 2025Genere: Thriller psicologico, introspezione, misteroValutazione: ★★★★☆ Un viaggio nel labirinto della mente Il Labirinto dei Ricordi di Simone Bellese è un romanzo che mescola suspense e introspezione, portando il lettore a esplorare gli angoli più oscuri della psiche umana. Il protagonista, Alex, è un uomo segnato da eventi traumatici…
0 notes
patriziariellopera · 8 days ago
Video
youtube
(via LE INDAGINI DELL’ISPETTORE CREIGHTON: ASEXUALITY. PIU’ DI UN GIALLO, PIU’ DI UN THRILLER, PIU’ DI UN POLIZIESCO.)
Ciao, sono Patrizia Riello Pera. Eccomi qui, di ritorno da New York, dove l’ispettore Creighton ha dovuto dipanare una matassa di intrighi nel mio ultimo thriller, “Le indagini dell’ispettore Creighton, Asexuality”. Un viaggio nel mondo enigmatico di Diva Spence, una donna che sfugge alle convenzioni, mentre sullo sfondo si agita un complotto virale dalle tinte fosche. “Asexuality” è un thriller, certo, ma è anche un’indagine sull’identità, sull’amore che non ha bisogno di corpo, sul coraggio di essere diversi.
#narrativa, #libri, #gialli, #thriller, #poliziesco,
RINGRAZIO CRISTINA GIUSTO PER LA SUA BELLISSIMA RECENSIONE😊
 Patrizia Riello ci fa scoprire un mondo diverso,
leggeremo un thriller mozzafiato, da fare venire i brividi nella schiena e sulla nostra pelle.
Qui si parla di una misteriosa ragazza asessuale di nome Diva Spencer.
Un piccolo assaggio?
Va bene.
Si parla di un piano diabolico architettato per distruggere il mondo con il virus Attila.
Sospetti e indagini rendono l'atmosfera perfetta per attirarci a scoprire come avverrà il trionfo fra il bene e il male.
Ve lo consiglio vivamente.
Cristina Giusto
https://youtu.be/c4Vlch9n_ag
https://youtu.be/5RTLR_yTGMg
https://youtu.be/RsE9PsQrCQ0
 https://patriziarielloperalibri.it
0 notes
carmenvicinanza · 2 years ago
Text
Nadeesha Uyangoda
https://www.unadonnalgiorno.it/nadeesha-uyangoda/
Tumblr media
La razza è un concetto difficile da cogliere, pur non avendo fondamenti biologici, produce grossi effetti nei rapporti sociali, professionali e sentimentali. La razza in Italia non si palesa fino a quando tu non sei l’unica persona nera in una stanza di bianchi.
Spesso si ha voglia di fare domande che possono essere percepite, quando scadono nella morbosità, come micro aggressioni. Per evitarle bisogna capire la condizione di chi appartiene a una minoranza, ascoltarne le storie e le esperienze e capirne così il punto di vista. Solo dando spazio e ascoltando, si può fare buon uso del privilegio che qualcuno di noi ha.
Nadeesha Uyangoda è giornalista, scrittrice e podcaster.
Scrive in inglese e in italiano per diverse testate come Al Jazeera English, The Telegraph, Vice Italy, Open Democracy. È editorialista per Internazionale e collabora con La Repubblica e La Stampa.
Ha creato il podcast Sulla Razza insieme a Nathasha Fernando e Maria Mancuso.
Il suo primo libro L’unica persona nera nella stanza, del 2021, ha vinto diversi premi.
Nata a Colombo, Sri Lanka nel 1993, si è trasferita Nova Milanese, in Brianza, quando aveva 6 anni.
Italiana di seconda generazione, si occupa di colorismo e privilegio della pelle chiara.
Con i suoi talk, le sue interviste e i suoi interventi acuti, tratteggia con chiarezza e lucidità l’immagine del nostro paese ostile, emarginante contro le persone che ritiene estranee o diverse. Il suo è un impegno  costante per trasformare il dolore e l’amarezza in una riflessione continua sull’io e sull’identità.
Con grande coraggio, ha deciso, sin da giovanissima, di non tacere sugli episodi di razzismo ed emarginazione che ha vissuto sulla sua stessa pelle.
Ritiene che raccontare significhi condividere per combattere.
L’unica persona nera nella stanza è un libro pieno di speranza, orgoglio e coraggio che, partendo dalla sua storia personale, si fa portavoce del senso di isolamento di tante ragazze e ragazzi nati o cresciuti in Italia da genitori di origine straniera.
Vi racconta dell‘umiliazione dei controlli a sorpresa in aeroporto, della diffidenza alle casse automatiche seguite da ispezioni “casuali”. Degli sguardi di superiorità che le vengono lanciati quando si trova per strada, dell’irrispettoso tu che le viene riservato anche quando si trova in situazioni formali.
Atteggiamenti che sono solo l’inizio di un lungo elenco di mancanze di rispetto divenute parte del suo quotidiano, in una societ�� apparentemente libera in cui è proprio l’illusoria convinzione che vada tutto bene a non far muovere nulla.
Come reagisci quando qualcuno ti dà del negro? Ti puoi indignare, offendere, ma come fai a esprimere ciò che provi? Puoi metterti a fare una lezione sulla storia della parola […], ricordare di quando i colonialisti disponevano in fila gli schiavi neri, li spogliavano dei propri nomi e diventavano semplicemente nigger. Ma a che cosa serve? Qualcuno che ti chiama negro, conscio del dolore che ti infligge – e non mi si dica il contrario, perché il significato contemporaneo della parola è universalmente conosciuto – non potrà mai capire.
Un libro che è un continuo invito ad aguzzare il senso critico, a mettersi in discussione per sradicare le certezze su di noi e su ciò che ci circonda, per accogliere la complessità del presente senza semplificazioni e senza offuscare lo sguardo a svantaggio di altri e altre.
Nadeesha Uyangoda fa parte dell’Advisory Board di Feltrinelli Education con cui ha tenuto un corso di scrittura dal titolo “Con le parole giuste. Imparare a scrivere di libri”.
Molto interessanti e incisive sono le sue recensioni di libri e i racconti personali di come ancora è costretta ad avere a che fare con visti e ambasciate per poter raggiungere paesi come gli Stati Uniti, dove viene invitata per residenze e festival letterari. Cose che, chi come noi, che ha la fortuna, per altro solo causale, di possedere un passaporto italiano, non potrà nemmeno mai immaginare. Eppure vive in Italia da 24 anni, qui ha fatto tutte le scuole, qui lavora, scrive e pubblica.
0 notes
corallorosso · 4 years ago
Photo
Tumblr media Tumblr media
Orban è un dittatore. Niente di più e niente di meno. Anche se, formalmente, è stato eletto, come diversi altri dittatori. E la sua non è una “dittatura” come quella immaginaria dei tanti diversamente intelligenti che frignano da un anno perché gli hanno fatto indossare la mascherina durante una pandemia, ma una dittatura vera. In Ungheria i mass media (giornali, televisioni e via dicendo) non sono liberi, ma sottoposti al controllo governativo. La libera informazione, praticamente, è quasi assente. In Ungheria, i professori universitari a contrari ad Orban sono stati allontanati da tempo e rimpiazzati con suoi fedelissimi, e la stessa cosa è accaduta con i giudici della Corte Suprema. In Ungheria, i comunicati di Amnesty International o quelli dello Human Rights Watch non si possono leggere, perché è vietato pubblicarli e farli circolare, visto che condannano le ripetute violazioni dei diritti umani da parte del governo di Orban. In Ungheria, non vedrete quasi mai un senzatetto dormire sotto i ponti. E non perché non esistano i senzatetto o perché abbiano altri posti dove stare, ma perché Orban ha voluto una legge che punisce con una multa di 473€ il reato di vagabondaggio. E visto che, ovviamente, i senzatetto non possono pagare, la legge, a quel punto, prevede l’arresto e due mesi di carcere. In Ungheria (e questo farebbero bene a leggerlo i buffoni della “dittatura sanitaria” nostrani), pubblicare fake news o spargere informazioni ritenute “false” circa gli interventi del governo sulla gestione della pandemia, è punito con la reclusione fino a 5 anni. In pratica: se fossero stati in Ungheria, il 90% degli elettori della Lega o di FDI, durante questa pandemia, sarebbero finiti in galera. In Ungheria, il governo si è rifiutato di ratificare la Convenzione del Consiglio d’Europa sulla lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica. In Ungheria, le persone transessuali non possono cambiare sesso sui documenti, una volta operate. In Ungheria, gli studi sull’identità di genere sono vietati, anche in ambito di ricerca universitaria. In Ungheria, a scuola, i bambini rom vengono messi in classi separate da quelle dei bambini ungheresi. In Ungheria, i libri scolastici sono pubblicati dallo Stato. E nel libro di Storia adottato attualmente, l’ultimo capitolo è interamente dedicato a Orban e alla sua grandezza. Per il resto, si insegna quanto gli stranieri e i migranti siano pericolosi e gli omosessuali “contro natura”. In Ungheria, qualsiasi accenno, anche minimo, all’omosessualità, fa sì che un film, un libro, un programma televisivo, venga vietato ai minorenni. Ecco, amici leghisti e seguaci della Meloni, quando i leader che votate dicono “Io sto con Orban”, si schierano a favore di tutto questo. Che magari può anche piacervi, l’idea di vivere sotto una dittatura fascista, eh, ognuno ha le sue perversioni, ma vi prego, almeno evitate di venirci a parlare ancora di “libertà”. Un minimo di decenza, vi prego. Emiliano Rubbi
56 notes · View notes
paoloferrario · 2 years ago
Text
Giorgio Zanchini, Esistono gli italiani? Indagine su una identità fragile, Rai Libri, 2023
scheda dell’editore: Esistono gli italiani? Esistono gli italiani? Sembra un quesito bizzarro, ma in realtà sull’identità del nostro popolo si sono interrogati da secoli in tanti, con risposte molto diverse, tra l’orgoglio e lo sconforto. Ha ancora senso chiederselo? In un mondo sempre più piatto, più globalizzato, sempre connesso, si può ancora parlare di un carattere italiano? In un momento…
Tumblr media
View On WordPress
0 notes
pangeanews · 6 years ago
Text
Investigando una vita irripetibile: dialogo con Renato Minore, che ha scritto il libro sull’enigma Rimbaud
Tra sogno e incubo, chi non lo desidera? Essere uno, singolarmente e indubbiamente sé, per ciascuno, in clamorosa corrispondenza. Spezzettati – ma non spezzati – nell’occhio del prossimo, giacere tra i suoi futuri. Arthur Rimbaud ci è riuscito. Rimbaud non è solo il poeta spiazzante, assoluto, che ha cambiato la poesia per rifiutarla, mordendo l’Africa con giaguari nello sguardo. Rimbaud è l’icona della poesia, l’iconoclasta della vita, quello che chiede una intimità fiammata con chi lo legge, il poeta veggente, il “ladro del fuoco”, come scrive a Paul Demeny nel 1871, quello che pratica “commercio d’armi e munizioni” secondo il Signor Fagot (a cui scrive nel 1887), il meraviglioso inquieto (“Mi annoio molto, sempre; anzi, non ho mai conosciuto nessuno che si annoi quanto me”: alla famiglia, nel 1888), il santo, secondo la sorella Isabelle, che tentò di erigerne l’agiografia in contrasto con la vigorosa vulgata – edificata da Paul Verlaine, per cui restò, sempre, il ragazzo “dal volto perfettamente ovale d’angelo in esilio” – del poeta ‘maledetto’, dacché “quelle poesie esprimono idee e sentimenti di cui l’autore fatto uomo, e uomo serio e onesto, provò vergogna e pentimento”, d’altronde, “all’Harar, paese da lui amato appassionatamente, gli indigeni lo chiavano il Santo, per via della sua meravigliosa carità” (così Isabelle a Louis Pieriquin, nel 1891). Insomma, allo stesso tempo, Rimbaud è santo e criminale, volitivo e virtuoso, è voluttà e pietà, è l’estasi di tutte le contraddizioni. “Il commento a Rimbaud è attualmente diventato un genere letterario”, osservava Jean Paulhan: per rendersene conto basta sfogliare una bella antologia curata un tot di tempo fa da Adriano Marchetti, Rapsodia selvaggia. Interpreti francesi di Rimbaud (Marietti, 2008). Lì vi leggiamo i consigli di Victor Segalen (“Non dobbiamo cercare di capire”), le agnizioni di André Gide (“Credo che nella penosa epoca attuale… l’individualismo oltranzista che c’insegna Rimbaud, questo incomparabile fermento, vada tenuto in serbo”) e di Paul Claudel (“fu un mistico allo stato selvaggio”), le orazioni di André Breton (“Trasformare il mondo, ha detto Marx; cambiare la vita, ha detto Rimbaud: queste due parole d’ordine per noi fanno tutt’uno”), gli inni di René Char (“Hai fatto bene a partire Arthur Rimbaud!… Hai avuto ragione ad abbandonare il viale degli oziosi, le osterie dei pisciaversi, per l’inferno delle bestie, per il commercio dei furbi e il buongiorno dei semplici”). Rimbaud sembra l’elettricità della letteratura: ancora nel 2011 Jamie James dedicava a Rimbaud a Giava (in Italia: Melville, 2016) un radioso romanzo-reportage. Anni prima, piuttosto, fu il Rimbaud di Renato Minore a strappare applausi – edito da Mondadori, Premio Campiello nel 1991. Romanzo d’imprevedibile delicatezza – anche in Italia c’è una solida tradizione di esegeti di Rimbaud, dall’Arthur Rimbaud di Ardengo Soffici, siamo nel 1911 – che torna, ora, rivisto, per Bompiani come Rimbaud. La vita assente di un poeta dalle suole di vento. Minore, in effetti, è anche biografo degli specchi, dei messaggi cifrati, delle piste errate, dei Rimbaud rimbambiti dalla contraffazione (la storia del mucchio di versi ‘africani’, “Ma bisogna credere alla luna di Harar? Farebbero comodo quei versi. In fondo risolverebbero l’enigma, e a buon mercato. In Africa, Rimbaud continua a scrivere. Addirittura progetta il ritorno in grande stile nel mondo delle lettere”; o quella del poeta che griffa col suo nome la piramide di Luxor: “Un Rimbaud inciso in pietra, la pietra eterna delle piramidi. È la sua firma lasciata a Luxor, incorniciata a regola d’arte… Tutto semplice. Ma una firma, lasciata come unico segno di un viaggio di cui non si sa nulla, è sospetta. Ne spuntarono fuori altre due nella stessa stele di Luxor: più in basso, di fronte a quella grande. Una abbreviata, semplicemente RIMB, così come il poeta talora firma le lettere nel 1889. Troppe. Si può pensare che siano apocrife, un altro falso per depistare. Sono la prova della ‘stupidità del suo autore’: sentenzia un critico, giudice implacabile. Ma si è proprio stupidi se si deposita sulla pietra un simile prolungamento di sé? Perché giudicare opera da sciocchi quel lampo di bêtise che, folgorando, alimenta un gesto elementare, simile a quello per cui si vede riflessa la propria immagine allo specchio?”). Insomma, Minore va, anche, a caccia di tutti gli ‘altri’ Rimbaud, il poeta dell’Io è un altro, che si è disseminato ovunque, perfino sotto l’amaca della nostra lingua. Così, è inevitabile, per trovare Rimbaud – o l’anatema della sua ombra – andai in cerca di Minore. (d.b.)
Lei ha scritto il romanzo su Rimbaud. E quello su Leopardi. Le immagini di questi due poeti estremi, che hanno rotto codici e forme e formalismi in qualche modo si apparentano, si sovrappongono. Cosa li accomuna, cosa li distanzia?
Forse la protratta condizione “adolescenziale” che li pone di fronte alle grandi domande sulla vita, sull’identità, sul mondo e su queste costruiscono un mirabolante telaio di visioni, sogni, pensieri più o meno ossessivi. Leopardi è più dubbioso, più ragionativo, meno trascinante. Leopardi è Leopardi anche per lo Zibaldone, le Operette Morali: non c’è solo il poeta, c’è un complesso di funzioni e possibilità espressive. Dentro di lui c’è l’assurdo sorriso di chi nella vita non finisce mai di interrogarsi, l’opera – creatura non solo di chi scrive versi, sangue che circola, nervi che captano, cuore che raccoglie, cervello che filtra, spirito che trasforma. Rimbaud no. È il veggente, l’innovatore che stravolge ogni schema. Il poeta come fuoco di conoscenza e verità, trascinante forza di conoscenza e verità. È un segno forte, indelebile dentro la storia culturale e poetica della sua epoca, ma tuttora s’innalza come un faro. Meteora per la brevità dell’azione ma immensa e profonda come durata è la sua influenza.
Ladro del fuoco, veggente, Sommo Sapiente, estremo criminale, colui “che ha in carico tutta l’umanità”: chi è il poeta agli occhi di Rimbaud, che cosa raffigura?
Non esiste altro esempio di poeta così perfetto, sicuro e autorevole con un esordio tanto folgorante che poi scivola nel vuoto assoluto. Un poeta che si fa anche carico di una funzione sociale e sacrale i cui versi vogliono avere un timbro profetico, salvifico. La poesia è spesso un alibi, dici poesia e tocchi (pensi di toccare) un livello a priori di comunicazione superiore, garantita dalla marca. Non è così, ci dice Rimbaud: la poesia come prova, rischio, ricerca costante, continuo riequilibrio del peso specifico della parola è sempre qualcosa che, come la lepre delle favole, puoi continuare a inseguire, puoi anche sfiorarla. E poi, lo sappiamo scompare definitivamente, un fantasma presto dissolto nel nulla. Ma proprio la corsa con cui la insegui ne segna, con il battito del tuo cuore, la necessaria velocità per non perderla di vista.
In una visione romantica sembra che Rimbaud per cinque anni abbia scritto poesie e per il resto abbia vissuto ‘poeticamente’, visitando il ‘mostruoso’ dell’anima, della vita, precipitando nell’ignoto. Lei parla, fin nel titolo, di “vita assente”: cosa intende? Allora la vita. «Il poeta della rivolta, e il massimo», scrisse Camus. Da oltre un secolo si sono accumulate su di lui ciarle d’ogni tipo, rievocazioni scientifiche e fantasiose, biografie romanzate, saggi accademici, film anche mediocri. Il suo abbandono dell’attività poetica alle soglie dei vent’anni ha causato una costernazione più duratura e diffusa di quella determinata dallo scioglimento dei Beatles. Ancora oggi su Internet si diffondono leggende su di lui, uno dei personaggi dall’influenza più distruttiva e liberatoria sulla cultura del secolo che abbiamo alle spalle, e sulla sua carriera. In vita, non solo di poeta con la sua travolgente meteora, ma di esploratore, commerciante, contrabbandiere, cambiavalute, profeta mussulmano. E postuma, come simbolista, surrealista, poeta beat, studente, rivoluzionario, paroliere rock, antesignano gay e tossicodipendente, vagabondo e visionario, Angelo dell’omosessualità, della violazione, della lotta alla borghesia, della ribellione, il primo poeta che seppe ripudiare i miti «dai quali la sua epurazione ancora dipende». L’énfant prodige, il genio ribelle e visionario, il «pederasta assassino» dei Goncourt nella violenta storia d’amore con Verlaine, l’avventuriero, l’uomo d’affari. Sempre in fuga, mai appagato: «Mi annoio molto, sempre. Non ho mai conosciuto nessuno che si annoiasse come me», scrive dall’Africa.
L’interpretazione della vita di Rimbaud (di cui l’opera sarebbe una profezia) e i romanzi su Rimbaud (penso ai libri di Soffici, di Edmund White, di Jamie James, ad esempio) sono diventati dei generi letterari a sé, ciascuno ha il proprio Rimbaud, Rimbaud sembra poter essere di tutti e di nessuno, merito, forse, della sua elusività. Lei in quale posizione si è posto e quale Rimbaud ha scoperto nel suo viaggio verso di lui?
Prendiamo come test le sue lettere. Un epistolario che, in tutta la sua vastità – diviso com’è tra primi attori (Rimbaud e Verlaine) e comprimari, caratteristi e comparse – è la radiografia di una vita chiacchieratissima, esibita e impenetrabile a un tempo, dalle mille sorprese e misteri. Sono sceneggiate le stazioni di un’esistenza, anzi di un’opera-vita da cui provengono misteriosi messaggi spesso contraddittori, in una complessità che, comunque «è pronta ad accogliere ogni aspetto del possibile». Sono i tanti enigmi di un poeta che si fece mercante, cercò ma senza esito di diventare esploratore, vendette armi a Menelik, quelle stesse che furono usate contro gli italiani ad Adua, non fu (al contrario di quanto a lungo si è creduto e scritto) un negriero. Per oltre dieci anni, dal 1880 all’inizio del 1891 quando il tumore al ginocchio lo costrinse a ripartire per Marsiglia, si mosse in uno scenario in cui tutto era davvero possibile: trafficava con l’inconnu tra Aden, Harar, Entotto, cercava di arricchirsi e senza riuscirci, era anche un mercante ingenuo, voleva vendere Bibbie in un paese di analfabetismo totale. Un mito che è anche una trappola infinita di volti, di voci, di specchi e lui stesso ha fatto di tutto per essere duplicato, conteso, frainteso. Non meno carichi di risonanza, e di ambigua luminosità, gli oggetti, le incalzanti reliquie che il Poeta Maledetto ha lasciato: prima fra tutti la valigia dei viaggi in Abissinia, la stampella che accompagnò i suoi ultimi passi, la firma sulle piramidi, le lettere. E poi i disegni, le fotografie chiedendo all’immagine non il segreto che versi e documenti trattengono, ma la ricchezza ammiccante e fissa dell’icona, non solo il presagio di un destino, ma la conferma di un mistero bloccato dal lampo di magnesio e lì rimasto intatto. La leggenda di Rimbaud accomuna le generazioni e, in tutto il mondo, ogni giorno ci sono giovani che scoprono le sue poesie e desiderano possederne una copia. Un dato per tutti: il Mercure de France, che nel 1912 ha pubblicato l’opera completa delle sue poesie, ha venduto fino alla fine dello scorso millennio ben trentadue copie al giorno di quella edizione. Praticamente per molti anni la casa editrice è vissuta dei proventi di quel libro.
Guardo a Rimbaud e viene da pensare che la poesia è tale perché è tesa fino alla rinuncia, al silenzio, alla fuga, al menefreghismo, all’oblio. È così? Cos’è la poesia, di cui Rimbaud è la sfrenata (ormai sfigurata dagli interpreti) icona?
Proprio per rispondere ad una domanda come questa, raccontando Rimbaud non ho cercato la verità di Rimbaud ma la verità in Rimbaud, la verità che un poeta sa illuminare e diffondere, tracciando un percorso nell’invisibile, in quella zona verso cui guardò Arthur, figlio di contadini che disegna la silente e incorporea costellazione che seppe rilevare dal nulla. “Inventarne la storia per ritrovarne il filo”, scrive Artaud. Come qualcosa di diverso, la fatica di conoscere, la dannazione di conoscere, con il file rouge del romanzo che sta nella ricerca indiziaria, nell’investigazione di un’esistenza irripetibile; come un giallo che alla fine non ha soluzione, ma solo la nudità del problema e che in ogni momento corre il rischio di vedere il suo oggetto svaporare nell’ovvietà dello stereotipo, oppure resistere a ogni tentativo di scasso.
*In copertina: Arthur Rimbaud ad Harar, 1883
L'articolo Investigando una vita irripetibile: dialogo con Renato Minore, che ha scritto il libro sull’enigma Rimbaud proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2G6queo
1 note · View note
paoloxl · 6 years ago
Link
Il principale problema dell’educazione sessuale è forse quello di non essere pienamente compresa da tutti. La causa dell’incomprensione sta poi a sua volta nel non aver ricevuto una seria educazione sessuale. È un po’ un circolo vizioso ma tant’è; di fatto si sconta la propria carenza culturale, dovuta all’esser cresciuti in una società ancora intrisa di bigottismo, che considerava il sesso un tabù e la masturbazione una pratica da depravati, e la si riversa in parte nelle nuove generazioni. Con tutte le buone intenzioni, ci mancherebbe, ma con il risultato di privarle di una formazione utile e al passo con i tempi.
materia di studio obbligatoria nelle scuole. L’Italia ovviamente non è tra questi
Al passo anche con il resto del mondo, a dirla tutta, perché è ovviamente vero che a livello globale siamo parecchio avanti, ma il nostro modello di riferimento dovrebbe essere ristretto alle nazioni occidentali. In particolare a quelle dell’UE, che dovrebbero esserci più affini. E qui paghiamo drammaticamente pegno; infatti, secondo un rapporto di qualche anno fa, su ben 17 dei 24 Paesi analizzati l’educazione sessuale è materia di studio obbligatoria nelle scuole. L’Italia ovviamente non è tra questi, a farle compagnia ci sono Bulgaria, Cipro, Lituania, Polonia, Romania e il Regno Unito, ma in quest’ultimo la faccenda è in evoluzione.
Probabilmente anche in quelle nazioni ci saranno state a suo tempo delle diffidenze verso i programmi di educazione sessuale, ma è evidente che le istituzioni hanno saputo orientare l’opinione della gente e, quando necessario, hanno esercitato il loro diritto/dovere di compiere le scelte migliori per la collettività. In Italia questo non è avvenuto. La classe politica si è finora infischiata di ciò che è meglio per i nostri figli e per noi, e allo stesso tempo i cittadini non sono ancora del tutto coscienti che l’ambito dell’educazione sessuale non è limitato al comportamento sessuale e alla procreazione. Non è insomma una mera questione di coito e derivati, ma contempla soprattutto gli aspetti sociologici, psicologici, etici e giuridici della sessualità e delle relazioni affettive. Comprende anche una corretta informazione sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere, il tutto nell’ottica di limitare i fenomeni di bullismo a sfondo sessuale, come del resto raccomanda l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
E qui casca l’asino. Già, perché proprio questi temi sono sempre stati contestati da vari gruppi reazionari, generalmente riconducibili ad ambienti religiosi cattolici e non solo, in quanto ritenuti incompatibili con i loro precetti morali. Contestati spesso in maniera anche molto aspra e con il sostegno dei media cattolici, come nel caso degli opuscoli realizzati dall’Unar, ente governativo — di cui fa parte anche l’Uaar — nato per promuovere il contrasto alle discriminazioni, contro i quali fu scatenata a suo tempo una vera e propria guerra santa. Contestati ricorrendo alla diffusione di bufale montate ad arte, come quella sulla fantomatica “ideologia gender” secondo la quale parlare di identità di genere equivale a istigare i maschi a diventare femmine e viceversa, pure a giorni alterni. Come se a parlare di verdure si facessero diventare vegetariani tutti gli ascoltatori. E se si è arrivati al punto che perfino una dirigente scolastica ha deciso di scrivere alle famiglie per avvalorare ulteriormente queste bufale, e che un sindaco come Brugnaro ha preso l’iniziativa di stilare un elenco di libri proibiti da mettere al bando, si ha la misura di quanto realmente grottesca sia la situazione.
Il risultato è che, nonostante del problema se ne parli costantemente, e nonostante di tanto in tanto emerga qualche timida e parziale proposta, talvolta a livello anche solo locale, le scuole di fatto si arrangiano. Cenni di educazione sessuale vengono impartiti all’interno di altre materie, tipicamente nelle scienze e con il supporto di psicologi, almeno fintanto che nessun genitore protesta. Di fatto, quindi, la presenza o meno di questo insegnamento dipende dal tipo della scuola e dei suoi utenti. Dalle istituzioni non solo arrivano pochi incoraggiamenti, ma arrivano piuttosto veri e propri paletti, spesso agitando lo spauracchio dell’attentato alla famiglia tradizionale messa a repentaglio dal declino morale della società. Famiglia che molte volte viene impropriamente definita “naturale” quando di famiglie ve ne sono di diversi tipi, dalle monoparentali alle omogenitoriali fino alle allargate, ma nessuna di esse è un fenomeno naturale. Semmai sociologico.
regole per una educazione sessuale “cattolicamente corretta”
La novità è che adesso da parte cattolica si sta cercando di cambiare registro. Non più contrasto aperto all’introduzione di qualunque educazione sessuale con un minimo di fondamento scientifico, al semplice scopo di mantenere l’aderenza dell’insegnamento pubblico alla morale religiosa. Non più semplici nozioni di educazione antisessuale, oltre che antigay e antiatea, all’interno dei testi di religione cattolica. Visto che diventa difficile ignorare le crescenti richieste di una società che non vuole perdere troppo terreno sia verso le nazioni più evolute che verso le generazioni future, perché non proporsi in positivo e dettare le regole per una educazione sessuale “cattolicamente corretta”? Così allo stesso tempo ci si rifà pure il trucco in chiave più moderna, il che non guasta mai.
Alcuni progetti sono disponibili da tempo, altri stanno man mano nascendo e leggendo anche solo le descrizioni si capisce chiaramente dove si vuole andare a parare. Ecco alcuni esempi: Una storia unica di Saverio Sgroi, che include tra i pericoli la pornografia, l’omosessualità, il gender (ovviamente) e la promiscuità; La Luna nel Pozzo, realizzato da un’associazione che promuove la contraccezione naturale; Teen Star è un progetto internazionale che in Italia collabora con l’Università Cattolica; Io Tarzan, tu Jane di Massimo Scarmagnani non lascia nulla al dubbio fin dal nome; RispettiAMOci è un progetto del Forum delle associazioni familiari dell’Umbria, articolazione del Forum nazionale di spiccato orientamento cattolico e a tutela della famiglia tradizionale; Pioneer di Marco Scicchitano si basa a sua volta su Nati per essere liberi di Tonino Cantelmi, corso dichiaratamente “no-gender” (sic). Questi sono solo alcuni dei progetti. Ve ne sono diversi altri tutti con lo stesso comune denominatore: si dichiara di fare educazione sessuale ma a prevalere ampiamente è un’educazione affettiva secondo i canoni e su base prescrittiva ed eteronormativa, fondata sulla reiterazione mortificante e anacronistica di pregiudizi e stereotipi di genere in linea con il catechismo.
Serve spiegare loro quello che vedono in rete, che sentono dagli amici
È chiaro che un insegnamento di questo tipo va respinto categoricamente perché, contrariamente alle intenzioni dichiarate, è puro indottrinamento ideologico. Ai bambini e ai ragazzi non serve qualcuno che gli presenti il mondo che vorrebbe, incentrato unicamente sul modello familiare tradizionale padre/madre/prole, che predichi l’astinenza sessuale fuori dal matrimonio e che respinga la contraccezione. Serve qualcuno che gli insegni come interagire nel mondo reale, non in quello evangelico. Serve spiegare loro quello che vedono in rete, che sentono dagli amici. Non serve convincerli a non interessarsene perché tanto per cominciare non lo faranno, e poi perché così facendo li si allontana, li si spinge nuovamente verso il tam tam degli amici degli amici, verso una sessualità non pienamente consapevole, verso gravidanze indesiderate, verso l’intolleranza nei confronti di chi ha orientamenti e identità diverse. O da parte di chi discrimina chi ha orientamenti e identità diverse.
I costi sociali di un’informazione inadeguata potrebbero essere perfino maggiori di quelli causati dalla mancanza di informazioni; tanto varrebbe allora continuare come fatto finora. E invece no, bisogna fare qualcosa. Qualcosa di buono però. Di utile. Non dannoso almeno.
Massimo Maiurana
1 note · View note
fralibrierealta · 6 years ago
Photo
Tumblr media
La neve cade sui vostri peccati. Un romanzo che dalla trama prometteva piuttosto bene, ma che purtroppo per me è un NI, è inutile girarci intorno. È stata una lettura tutto sommato piacevole e molto scorrevole, non è male come storia. Tuttavia mi aspettavo quel ritmo incalzante tipico dei thriller che piacciono a me e magari un filo di profiling , cose che non ho trovato. Il romanzo benché abbia un ottimo inizio, è più incentrato sulla vita privata dei personaggi che sulle indagini. Non si capisce infatti come il commissario Rosato capisca chi è il colpevole. Un miracolo pre natalizio probabilmente visto che non segue delle vere e proprie piste. Quanto meno, l’autrice non ha saputo consolidarle. Solo nelle ultime cinquanta pagine è presente qualche riflessione psicologica anche se campata sul nulla perché non abbiamo avuto modo di conoscere il killer. Omicida che insieme agli intrighi che gli girano intorno ho scoperto a circa metà libro, quindi potete ben capire la mia delusione. Odio aver ragione sull’identità del colpevole. In conclusione, lo consiglio?Lo scoprirete leggendo la recensione completa, link in bio 😝 Se invece lo avete letto fatemi sapere se vi ha convinto o no 🤔 . #lanevecadesuivostripeccati #ippolitaavalli #piemme #thriller #recensione #recensionilibri #recensioni #blogger #blogspot #fralibrierealtà #bookblogger #thrillerdaleggere #libridaleggere #libri #librichepassione #bookstagram #bookstagrammer #lettori #thrilleritaliani (presso Rome, Italy) https://www.instagram.com/p/Bz-_jqyoj78/?igshid=1c9d2u2yfr4eq
0 notes
sogniesintomi · 8 years ago
Text
Un pensiero errante nel flusso della storia
Sorridente, con il vezzo incessante di usare l’amata pipa per dare ritmo alle parole delle quali non era avaro. Da ieri, lo sbuffo di fumo che accompagnava le conversazioni di Zygmunt Bauman non offuscherà più il suo volto. La sua morte è arrivata come un colpo in pancia, inaspettata, anche le sue condizioni di salute erano peggiorate negli ultimi mesi. E subito è stato apostrofato nei siti Internet come il teorico della società liquida, una tag che accoglieva con divertimento, segno di una realtà mediatica tendente alla semplificazione massima contro la quale invocava un rigore intellettuale da intellettuale del Novecento.
Spesso si inalberava. «Di liquido mi piace solo alcune cose che bevo», aveva affermato una volta, infastidito del suo accostamento ai teorici postmoderni o ai sociologi delle «piccole cose». La sua modernità liquida era una rappresentazione di una tendenza in atto, non una «legge» astorica che vale per l’eternità a venire. Per questo, rifiutava ogni lettura apocalittica del presente a favore di un lavoro certosino di aggiungere tassello su tassello a un puzzle sul presente, che avvertiva non sarebbe stato certamente lui a concludere. Bauman, infatti, puntava con disinvoltura a non far cadere nel fango la convinzione di poter pensare la società non come una sommatoria di frammenti o di sistemi autoreferenziali, come invece sostenevano gli eredi di Talcott Parson, studioso statunitense letto e anche conosciuto personalmente da Bauman a Varsavia nel pieno della guerra fredda.
OGNI VOLTA CHE PRENDEVA la parola in pubblico Bauman faceva sfoggio di quella attitudine alla chiarezza che aveva, non senza fatica, come ha più volte ricordato nelle sue interviste, acquisito negli anni di apprendistato alla docenza svolto nell’Università di Varsavia. Parlava alternando citazioni dei «grandi vecchi» della sociologia a frasi tratte dalle pubblicità, rubriche di giornali. Mettere insieme cultura accademica e cultura «popolare» era indispensabile per restituire quella dissoluzione della «modernità solida» sostituita da una «modernità liquida» dove non c’era punto di equilibrio e dove tutto l’ordine sociale, economico, culturale, politico del Novecento si era liquefatto alimentando un flusso continuo di credenze e immaginari collettivi che lo Stato nazionale non riusciva a indirizzarlo più in una direzione invece che in un’altra.
E teorico della società liquida Bauman è stato dunque qualificato. Un esito certo inatteso per un sociologo che rifiutava di essere accomunato a questa o quella «scuola», senza però rinunciare a considerare Antonio Gramsci e Italo Calvino due stelle polari della sua «erranza» nel secolo, il Novecento, delle promesse non mantenute.
Nato in Polonia nel 1925 da una famiglia ebrea assimilata, aveva dovuto lasciare il suo paese la prima volta all’arrivo delle truppe naziste a Varsavia. Era approdato in Unione Sovietica, entrando nell’esercito della Polonia libera.
FINITA LA GUERRA, la prima scelta da fare: rimanere nell’esercito oppure riprendere gli studi interrotti bruscamente. Bauman fa suo il consiglio di un decano della sociologia polacca, Staninslaw Ossowski, e completa gli studi, arrivando in cattedra molto giovane. E nelle aule universitarie si manifesta il rapporto fatto di adesione e dissenso rispetto al nuovo potere socialista. Bauman era stato convinto che una buona società poteva essere costruita sulle macerie di quella vecchia. A Varsavia, la facoltà di sociologia era però un’isola a parte. Così le aule universitarie potevano ospitare teorici non certo amati dal regime. Talcott Parson fu uno di questi, ma a Varsavia arrivano anche libri eterodossi. Emile Durkheim, Theodor Adorno, Georg Simmel, Max Weber, Jean-Paul Sartre, Italo Calvino, Antonio Gramsci (questi due letti da Bauman in lingua originale). Quando le strade di Varsavia, Cracovia vedono manifestare un atipico movimento studentesco, Bauman prende la parola per appoggiarli.
È ORMAI UN NOME noto nell’Università polacca. Ha pubblicato un libro, tradotto con il titolo in perfetto stile sovietico Lineamenti di una sociologia marxista, acuta analisi del passaggio della società polacca da società contadina a società industriale, dove sono messi a fuoco i cambiamenti avvenuti negli anni Cinquanta e Sessanta. La secolarizzazione della vita pubblica, la crisi della famiglia patriarcale, la perdita di influenza della chiesa cattolica nell’orientare comportamenti privati e collettivi. Infine, l’assenza di una convinta adesione della classe operaia al regime socialista, elemento quest’ultimo certamente non salutato positivamente dal regime Ma quando, tra il 1968 e il 1970, il potere usa le armi dell’antisemitismo, la sua accorta critica diviene dissenso pieno. Gran parte degli ebrei polacchi era stata massacrata nei lager nazisti. Per Bauman, quel «mai più» gridato dagli ebrei superstiti non si limitava solo alla Shoah ma a qualsiasi forma di antisemitismo. La scelta fu di lasciare il paese per il Regno Unito.
Il primo periodo inglese fu per Bauman una resa dei conti teorici con il suo «marxismo sovietico». L’università di Leeds gli ha assicurato l’autonomia economica; Anthony Giddens, astro nascente della sociologia inglese, lo invita a superare la sua «timidezza». È in quel periodo che Bauman manda alle stampe un libro, Memorie di classe (Einaudi), dove prende le distanze dall’’idea marxiana del proletariato come soggetto della trasformazione. E se Gramsci lo aveva usato per criticare il potere socialista, Edward Thompson è lo storico buono per confutare l’idea che sia il partito-avanguardia il medium per instillare la coscienza di classe in una realtà dove predomina la tendenza a perseguire effimeri vantaggi.
TOCCA POI ALL’IDENTITÀ ebraica divenire oggetto di studio, lui che ebreo era per nascita senza seguire nessun precetto. La sua compagna era una sopravvissuta dei lager nazisti. E diviene la sua compagna di viaggio in quella sofferta stesura di Modernità e Olocausto (Il Mulino). Anche qui si respira l’aria della grande sociologia. C’è il Max Weber sul ruolo performativo della burocrazia, ma anche l’Adorno e il Max Horkheimer di Dialettica dell’illuminismo. La shoah scrive Bauman è un prodotto della modernità; è il suo lato oscuro, perché la pianificazione razionale dello sterminio ha usato tutti gli strumenti sviluppati a partire dalla convinzione che tutto può essere catalogato, massificato e governato secondo un progetto razionale di efficienza. Un libro questo, molto amato dalle diaspore ebraiche, ma letto con una punta di sospetto in Israele, paese dove Bauman vive per alcuni anni.
CAMMINARE NELLA CASA di Bauman era un continuo slalom tra pile di libri. Stila schede su saggi (Castoriadis e Hans Jonas sono nomi ricorrenti nei libri che scrive tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta del Novecento) e romanzi (oltre a Calvino, amava George Perec e il Musil dell’Uomo senza qualità). Compagna di viaggio, come sempre l’amata Janina, morta alcuni anni fa. Manda alle stampe un saggio sulla globalizzazione che suona come un atto di accusa verso l’ideologia del libero mercato. E forte è il confronto, in questo saggio, con il libro di Ulrich Beck sulla «società del rischio», considerata da Bauman un’espressione che coglie solo un aspetto di quella liquefazione delle istituzioni del vivere associato. La famiglia, i partiti, la chiesa, la scuola, lo stato sono stati definitavamente corrosi dallo sviluppo capitalistico. Cambia lo «stare in società». Tutto è reso liquido. E se il Novecento aveva tradito le promesse di buona società, il nuovo millennio non vede quella crescita di benessere per tutti gli abitanti del pianeta promessa dalle teste d’uovo del neoliberismo. La globalizzazione e la società liquida producono esclusione. L’unica fabbrica che non conosce crisi è La fabbrica degli scarti umani (Laterza), scrive in un crepuscolare saggio dopo la crisi del 2008.
SONO GLI ANNI dove l’amore è liquido, la scuola è liquida, tutto è liquido. Bauman sorride sulla banalizzazione che la stampa alimenta. E quel che è un processo inquietante da studiare attentamente viene ridotto quasi a chiacchiera da caffè. Scrolla le spalle l’ormai maturo Bauman. Continua a interrogarsi su cosa significhi la costruzione di identità patchwork (Intervista sull’identità, Laterza), costellata da stili di vita mutati sull’onda delle mode. Prova a spiegare cosa significhi l’eclissi del motto «finché morte non ci separi», vedendo nel rutilante cambiamento di partner l’eclissi dell’uomo (e donna) pubblico. La sua critica al capitalismo è agita dall’analisi del consumo, unico rito collettivo che continua a dare forma al vivere associato.
È MOLTO AMATO dai teorici cattolici per il suo richiamo all’ethos, mentre la sinistra lo considera troppo poco attento alle condizioni materiali per apprezzarlo. Eppure le ultime navigazioni di Bauman nel web restituiscono un autore che mette a fuoco come la dimensione della precarietà, della paura siano forti dispositivi di gestione del potere costituito, che ha nella Rete un sorprendente strumento per una sorveglianza capillare di comportamenti, stili di vita, che vengono assemblati in quanto dati per alimentare il rito del consumo.
BAUMAN NON AMAVA considerarsi un intellettuale impegnato. Guardava con curiosità i movimenti sociali, anche se la sua difesa del welfare state è sempre stata appassionata («la migliore forma di governo della società che gli uomini sono riusciti a rendere operativa»). Nelle conversazioni avute con chi scrive, parlava con amarezza degli opinion makers, novelli apprendisti stregoni dell’opinione pubblica, ma richiamava la dimensione etica e politica dell’intelelttuale specifico di Michel Foucault, l’unico modo politico per pensare la società senza cade in una arida tassonomia delle lamentazioni sulle cose che non vanno.
Benedetto Vecchi
4 notes · View notes
pier-carlo-universe · 1 month ago
Text
La chiave delle ombre di Susan Stokes-Chapman – Un romanzo gotico e misterioso tra segreti, alchimia e passione. Recensione di Alessandria today
Informazioni bibliografiche essenziali:Autore: Susan Stokes-ChapmanAnno di pubblicazione: 2024 (edizione italiana Neri Pozza)Genere: Romanzo storico, gotico, misteryValutazione: ★★★★☆ RecensioneCon La chiave delle ombre, l’autrice britannica Susan Stokes-Chapman, già nota per il romanzo Pandora, torna a sedurre i lettori italiani grazie a una storia avvincente e suggestiva che mescola…
0 notes
levysoft · 4 years ago
Link
La risposta a questa domanda non è per niente semplice. In questo articolo indaghiamo chi c’è dietro all’invenzione di Bitcoin e perché conoscere il vero ideatore non aggiunge né toglie nulla a Bitcoin.
Bitcoin è una tecnologia e in quanto tale una volta creata è impossibile nascondere la scoperta al mondo. Gutenberg, l’inventore della stampa è riconosciuto inequivocabilmente come l’autore della scoperta tecnica per produrre più libri in maniera esponenziale. Nel caso di Bitcoin, il creatore, Satoshi Nakamoto, è solo lo pseudonimo di un programmatore anonimo di cui non si conosce la vera identità.
Queste due invenzioni hanno in comune però che sono conoscenze irreversibili, cambiamenti tecnologici su cui altre persone, altri inventori si applicano per migliorarla e diffonderne l’utilizzo.
Non si sa chi sia veramente Satoshi Nakamoto. Sappiamo che un profilo anonimo che si faceva chiamare Satoshi frequentava mailing list e forum dedicati a crittografici e informatici interessati a temi come la tutela della privacy su internet o l’utilizzo della crittografia per garantire l’indipendenza finanziaria su internet . Su una di queste mailing list il 31 ottobre 2008 appare un documento, detto “White paper” in cui si annuncia di aver risolto due problemi fino ad allora irrisolti in campo informatico:
Il problema della doppia spesa: Prima di Bitcoin tutte le informazioni su internet erano copiabili e facilmente replicabili. Bitcoin è il primo oggetto digitale, pezzo di informazione, che non può essere copiato e incollato. Questa caratteristiche getta le basi per introdurre il concetto di proprietà esclusiva su un bene digitale presente solo su internet.
Il problema dei generali bizantini: Prima di Bitcoin in ambito informatico non esistevano meccanismi sicuri per coordinare computer distanti tra loro ed essere sicuri che tutti i pc concordasse sulla forma delle informazioni. Coordinare più computer verso una verità condivisa non è semplice perchè dietro ad ogni pc c’è un individuo che può tenere comportamenti fraudolenti e corrompere le informazioni condivise. Grazie al meccanismo chiamato proof of work, Bitcoin assicura un coordinamento e un consenso sullo stato di tutte le transazioni bitcoin, quindi sullo stato di tutti i saldi.
Il 1° gennaio 2009 Satoshi rilascia la prima versione di un programma open source (Il software Bitcoin) che implementa le idee descritte nel documento. Come preannunciato nel White paper, oggi il funzionamento di Bitcoin permette a tutti la disponibilità di cash digitale (la moneta bitcoin) senza bisogno di terze parti.
Satoshi sparisce dai forum
Dal 2009 a inizio 2011 Satoshi comunica con una community che si interessa al suo software open source. I programmatori, correggono, sistemano e stabilizzano Bitcoin. Dal 2011 Satoshi interrompe le comunicazione. Da allora Bitcoin vive autonomamente grazie a utilizzatori, sviluppatori, investitori e minatori. Non è chiaro perché Satoshi sia scomparso, alcuni suggeriscono che sia scomparso non per sua scelta, ma perché minacciato o eliminato da qualcuno. Molti segnali indicano che Satoshi fosse cosciente che per rendere bitcoin decentralizzato dovesse sparire anche il suo inventore.
La risposta alla domanda “chi ha creato bitcoin?” è che non si sa realmente, non ci sono tracce o prove certe che portano inequivocabilmente a un individuo.
Nei primi 2 anni, l’invenzione di Satoshi Nakamoto attira l’attenzione di decine di sviluppatori che intuiscono le potenzialità della tecnologia, molti di questi si dedicano full-time alla manutenzione, aggiornamento e miglioramento del protocollo Bitcoin. Quando Satoshi sparisce a inizio 2011 il progetto è funzionante. Ha provato la sua resilienza dopo due anni di test incrociati, attacchi hacker sventati, eliminazione dei bug che avrebbero potuto creare potenziali problemi. Oggi il codice sorgente di bitcoin è gestito da 5-6 sviluppatori che hanno le password per aggiornare il protocollo quando necessario. Non significa che questi sviluppatori controllano Bitcoin, perché  la natura open source protegge gli utilizzatori da comportamenti malintenzionati di soggetti che hanno maggiori conoscenze tecniche. Infatti ogni modifica proposta e implementata deve comunque essere aggiornata dai partecipanti alla rete sul proprio PC. Nel pratico, se gli sviluppatori cambiano le regole o modificano il funzionamento su cui si basa il consenso attuale di Bitcoin, ogni individuo è libero di fare aggiornamento o meno del software. Con questo modello Bitcoin è estremamente complesso da modificare perchè la sua modifica dipende dal “consenso sociale” e non dalla volontà di un gruppo di interesse. Satoshi non serve perchè Bitcoin si salvaguardia autonomamente.
Speculazioni e millantatori
Conoscere la vera identità di Satoshi ormai è irrilevante perché il sistema funziona e si diffonde, la sua funzionalità e la sicurezza crescono organicamente. Giornalisti e appassionati del tema hanno indagato approfonditamente per identificare Satoshi Nakamoto e l’ipotesi più accreditata è che il vero Satoshi sia Hal Finney. Hal Finney è un noto criptografico morto nel 2014 per SLA. Hal Finney è la prima persona a ricevere bitcoin da Satoshi e presenta molte affinità ideologiche con quest’ultimo. In un post su un forum frequentato da cypherpunk Hal scrive:
“Il lavoro che stiamo facendo, parlando in termini generali, ha l’obiettivo di rendere il grande fratello obsoleto”
In un altro post afferma:
“I computer possono essere usati come strumento per liberare e proteggere le persone anziché per controllare”
Finney è un attivo cypherpunk e sin dagli anni ‘90 è interessato all’idea di una valuta digitale che sfugge al controllo del governo. Inventore, già nel 2004, della prima forma di proof of work per creare monete digitali, Hal ha le conoscenze necessarie per implementare un sistema come Bitcoin, ma ha sempre negato di essere Satoshi Nakamoto. Un altro dettaglio che fa pensare ad Hal Finney è il fatto che per 10 anni abbia vissuto nello stesso quartiere di un uomo chiamato Dorian Nakamoto e che da questi abbia preso spunto per il suo pseudonimo.
Oltre ad innocenti speculazioni sull’identità di Satoshi, non sono mancati i millantatori che si sono dichiarati Satoshi cercando di accentrare il controllo su Bitcoin. Un esempio su tutti è Craig Wright,  un informatico Australiano che sicuramente è stato uno dei primi ad avvicinarsi a Satoshi online, ma dopo la sparizione di Satoshi ha cercato di appropriarsi dei meriti dichiarando di essere lui l’uomo dietro allo pseudonimo Satoshi Nakamoto. Wright non è mai riuscito a dimostrare le sue affermazioni in quanto non ha mai fornito una prova crittografica firmando una transazione dagli indirizzi usati da Satoshi Nakamoto.
L’immacolata concezione di Bitcoin
Bitcoin è una scoperta unica ed irripetibile per molti versi. Il concetto di criptovaluta nasce con Bitcoin, tutte le altre cripto sono applicazioni più o meno lontane del concetto di criptovaluta in Bitcoin. Questi altri progetti sono solitamente creati o promossi da aziende entità o semplici imprenditori. Bitcoin è una tecnologia senza un genitore e questo lo rende diverso da tutti i progetti che seguono le sue tracce. Dopo la sparizione di Satoshi, Bitcoin si è diffuso nel web, i nodi della rete sono aumentati in maniera organica e decentralizzata. La storia recente dimostra che è estremamente complesso stabilire una moneta in grado di fare concorrenza alla moneta governativa. Lybra, la moneta progettata da Facebook e già pronta al lancio nel 2019 è stata bloccata per via delle perplessità del legislatore preoccupato per le implicazioni di una moneta controllata da un’azienda privata. Altri progetti come Ripple sono considerati strumenti illegittimi di raccolta del credito e le autorità americane stanno spingendo per impedire le attività dell’azienda promotrice.
Inoltre a differenza di tutti i nuovi progetti cripto, Satoshi non aveva nessuno scopo di lucro, infatti, si stima che negli indirizzi controllati da Satoshi ci siano 1 milione di bitcoin che non sono mai stati spesi, i suoi obiettivi erano strettamente ideali.
Bitcoin nasce e si sviluppa inosservato, nei meandri più profondi del web, e finisce sotto le luci della ribalta solo nel 2013 quando è già sufficientemente decentralizzato e distribuito. Queste specifiche condizioni sono irripetibili, perchè prima di Bitcoin non c’era niente di simile. La mancanza di leader nel caso di Bitcoin (che è una moneta) è una virtù che protegge tutto il sistema da delegittimazioni e attacchi autoritari. Non c’è nessuno da attaccare, non ci sono amministratori delegati, database gestiti da qualcuno. Anche la promozione di Bitcoin è in qualche modo decentralizzato, in quanto sono i singoli individui, affascinanti dalla tecnologia  a promuovere l’utilizzo di Bitcoin, che grazie al potere del passaparola si diffonde da un individuo all’altro. Ci sono poi imprenditori visionari distribuiti in tutto il mondo che costruiscono servizi su Bitcoin, sviluppatori che continuano a ricercare soluzioni di miglioramento e rafforzamento della rete Bitcoin. Tutti concorrono a sviluppare la tecnologia e l’adozione di Bitcoin, tutti agiscono come se fossero Satoshi Nakamoto in persona.
0 notes
claudiocisco · 5 years ago
Text
“Colei che brevemente fu
  e che mai in vita conobbi"
  QUANDO L'IMMAGINAZIONE ECLISSA LA REALTA'.
L'INCREDIBILE E MISTERIOSA AVVENTURA
VISSUTA DA UN RAGAZZO
OLTRE I CONFINI DELLA VITA
  LA TRAMA DELLA STORIA
 La narrazione è ambientata a Messina, nella parte più alta ed antica del cimitero, dove è tuttora sepolta la protagonista del racconto.
Manuel, un ragazzo diciannovenne messinese strano e solitario, rincorre ossessionatamene l’ombra di una ragazza vissuta nella stessa città per quasi diciassette anni nel secolo dell’Ottocento, figlia di nobili dell’epoca, Marietta Cianciolo.
Si lascia talmente coinvolgere da quest’incantesimo, da effettuare minuziose ricerche sull’identità e sulla vita passata di lei. Arriverà a rasentare la follia non riuscendo più a distinguere il confine che divide il reale dall’immaginario. Farà rinascere dalla morte la ragazza grazie alla forza dell’immaginazione e alla sua fervida fantasia, fino a instaurare con lei un rapporto di profonda amicizia fatta di confidenziali dialoghi di alto spessore umano e spirituale, colmi di semplicità e tenerezza.
Il romanzo racchiude citazioni sulla storia di Messina antica con  particolare riferimento alle origini del Cimitero Monumentale e alla genealogia di qualche famiglia nobile messinese dell’Ottocento.
     INTRODUZIONE
 Vi giuro che non so neanch’io il perché abbia scritto questa storia inverosimile, chissà perché l’ho fatto! chissà chi mi ha ispirato! certo non io stesso, di questo almeno ne sono sicuro. Quando si è troppo soli o ci si sente del tutto incompresi, si può arrivare a inventare un’amica immaginaria alla quale poter confidare i propri sogni, le proprie emozioni, le paure e le speranze di chi sa di poter dare molto agli altri ma di non essere messo in condizione di poterlo fare. È un po’ come quando uno parla da solo, e magari arriva al punto perfino di confondersi, oppure si guarda allo specchio invecchiato di fuori e, riflesso, si vede bambino di dentro, come se il tempo della giovinezza non fosse mai trascorso e restasse eterno in sintonia e simbiosi con la propria anima. Alla cosiddetta “maturità” d’un uomo che è già vecchio senza rendersene conto, che nel suo cuore ha già sostituito il mondo delle favole con quello dei soldi e della posizione sociale, io oppongo la meraviglia e lo stupore dei miei occhi rimasti ancora di bambino, capaci di vedere il mondo come un nuovo gioco, un magico Natale pieno di luci e palline colorate, di ricreare con la fantasia l’innocenza e la tenerezza di chi bacia per la prima volta. Se solo potessi, attraverso le mie poesie o i miei libri, far capire a tutti che è nella semplicità, nella purezza incontaminata dei sogni, nel far rivivere il bambino presente in ognuno di noi, che si può trovare la vera felicità, la serenità, quella luce che ci fa sentire più vicino a Dio in una vita piena di significato e d’amore. Se solo riuscissi a farmi ascoltare tramite questo libro arrivando dritto al cuore del lettore, prestandogli i miei occhi, gli farei ammirare quanta poesia vi è in un fiore che sboccia, in un bimbo che ride, in un raggio di sole, nel volo di un airone e in mille e mille altre piccole cose quotidiane della vita che sono state create per noi, affinché ogni uomo possa rinascere ogni volta, sentendosi in armonia con l’universo, parte di esso, ritrovando la propria dimensione. Se solo l’uomo riuscisse a guardarsi dentro e ad aprirsi all’infinito che lo circonda, scoprirebbe quanto sia bello il mondo, quanto sia favolosa la natura.
La bellezza, la felicità è tutta intorno a noi, nei nostri sensi, nell’aria che respiriamo, in ogni minuscola particella vivente che pullula di vita e d’amore. Ogni essere umano, anche il più povero che possa esistere sulla faccia della terra, è ricco e non sa di esserlo.
Per tutto questo, ho deciso di scrivere questo libro. Nella figura di una creatura immaginaria, io proietto tutto me stesso, i miei sogni e le mie speranze, vedo riflesso Dio, l’azzurro del cielo, il bacio della ragazza che amo, un bambino che non è mai cresciuto. Questo racconto è per tutti voi che credete ancora alla magia dei sogni ma soprattutto per chi non crede affinché possa provare a farlo. È anche per tutti coloro che amano quella meravigliosa e fiabesca avventura che è la vita che, anche se apparentemente può sembrare triste e difficile, in realtà è splendida e degna di essere vissuta sempre e in ogni caso.
In Marietta, la protagonista del mio romanzo, io proietto ancora tutto il mio sincero amore verso una vita traboccante di emozioni e di speranze.
Forse è solo un sogno, lo so, ma non posseggo null’altro, è tutto quello che ho.
Il romanzo è narrato quasi per intero in prima persona e mi vede protagonista.
Tuttavia ho preferito usare lo pseudonimo di Manuel. Tutti i nomi e i fatti citati nel racconto corrispondono a persone realmente vissute e a fatti realmente accaduti.
 L’Autore
       COM’ERO. IL MIO STATO D’ANIMO
Avevo 19 anni, sì, solo 19 anni, l’età più bella, sentivo dire dagli altri; l’età che tutti desidererebbero avere e magari mantenerla per sempre, a dispetto del tempo. Ma io, io non ero felice. Era come se quella bellissima età non mi appartenesse, o meglio non fosse stata mai mia. Se dovessi giudicarmi per com’ero allora, con gli occhi obiettivi e più maturi di adesso, probabilmente mi verrebbe facile dedurre che ero completamente immaturo, vittimista, strano e aggiungerei anche un po’ folle, anzi del tutto folle, ma d’una follia che rasenta la creatività, una follia sinonimo di stranezza, tipica di quelle anime elette, fragili, eternamente insoddisfatte che identificano nei sogni la loro voglia d’evasione, il desiderio, anzi il bisogno, di protendersi verso l’agognata libertà assoluta, unica àncora di salvezza contro gli abissi del dolore. Continuando a guardarmi con gli occhi di adesso, devo ammettere che oltre ad essere o voler sembrare folle, avevo radicata in me sin dalla nascita, una sorta di tristezza senza guarigione, desolata e abbandonata, senza una motivazione plausibile che la giustificasse. Una strana tristezza che io, un po’ ingenuamente, ritenevo potesse essere prerogativa dei geni incompresi e che contribuiva negativamente a farmi isolare sempre più dai miei coetanei, dai miei genitori, dal mondo che mi circondava e che appariva ai miei occhi tutto sbagliato. Era una tristezza che non trovava assolutamente sbocchi perché alimentata sempre e solo dal mio io, chiusa in un lacerante e ingiustificato pessimismo. Già, devo chiamarlo proprio così “ingiustificato pessimismo” perché in verità non vi era stato proprio nulla di così rilevante da poter giustificare un simile stato d’animo. Nulla la vita mi aveva riservato di così triste e crudele, ad altri, sicuramente, molto di più. Penso, ad esempio, agli handicappati, ai tanti malati che scoprono il dolore giorno dopo giorno nelle corsie degli ospedali, agli emarginati di ogni genere, agli orfani, ai poveri, ai vecchi soli al mondo abbandonati al loro destino, a chiunque insomma possa aver sperimentato realmente tutto il male che io pensavo fosse destinato solo a me e a nessun altro. La cosa che oggi mi sembra più assurda, consisteva nel fatto che io mi ero proprio crogiolato nella mia stessa tristezza, mi ero quasi chiuso in una specie di urna di cristallo dove proteggermi dalle insidie del mondo e da tutto ciò che rappresentava la vita all’esterno e che mi ruotava intorno. Fuggivo dal mondo e, quel che era peggio, da me stesso. La tristezza era per me diventata quasi un alibi, un approdo sicuro, un modo di essere nel quale trovare la mia dimensione più congeniale. Tristezza uguale incomprensione degli altri verso di me, questo era il mio assurdo binomio che serviva solo per alimentare maggiormente la mia solitudine. A dire il vero, ho sempre cercato in quel periodo e in special modo adesso che ho una capacità di analisi migliore, di scavare nella mia infanzia con la speranza di trovare una risposta a quel mio inusuale modo di essere e di rapportarmi agli altri, modo che, sia pure in minuscola parte, mi porto ancora adesso, nonostante i miei 40 anni superati. Ma, nonostante mi sforzi minuziosamente a trovare qualche indizio utile alla causa, qualunque giusta e valida prova, non riesco a riscontrare nulla di realmente importante. Sento dire che ogni essere umano sia il prodotto di un insieme di fattori ereditari che s’intersecano tra loro, di una infinità di condizionamenti ambientali, probabilmente questo è anche vero, ma io non riesco a scorgere proprio nessuno dal quale possa aver ereditato un carattere così particolare. Forse l’esser venuto al mondo dopo ben 16 anni dalla nascita di mia sorella e da una madre non più giovanissima particolarmente attaccata a me e troppo apprensiva nei miei confronti, può forse aver generato nella mia psiche, una certa insicurezza scaturita proprio dal troppo affetto materno. Una iperprotettività che mi ha impedito di crescere, di spiccare il volo verso nuovi orizzonti che apparivano ai miei occhi, sconosciuti e temuti.
Siamo sempre però nel campo delle ipotesi perché io, in realtà, testardo e un po’ narcisista oltre che esibizionista, facevo sempre di testa mia, non prendendo troppo in considerazione i consigli e gli insegnamenti di mia madre, come quelli, del resto, di chiunque altro. Tutto questo però non lo facevo per ribellione o per il semplice e banale gusto di trasgredire, ma perché ritenevo, e ne sono convinto anche adesso, che sia giusto fare ognuno le proprie esperienze, magari sbagliando per poi correggersi da soli senza commettere mai più, possibilmente, gli stessi errori. Solo così si può crescere e maturare, imparando sulla propria pelle, a proprie spese. Ho sempre pensato che nella vita bisogna appoggiarsi soprattutto a se stessi e alle proprie forze perché non esiste nessuno al mondo all’infuori di noi stessi, capace di capirci e volerci bene più di quanto possiamo volercene noi. Non bisogna ovviamente cadere nell’eccesso, ossia cedere all’egoismo, ma dosare il tutto con intelligenza ed equilibrio. Solo chi ama veramente se stesso, può poi trasferire parte di questo amore al prossimo. Questa è un po’ una mia legge, un mio modo di pensare che non pretende assolutamente di essere condiviso o di valere per tutti.
Anche il mio rapporto con la religione e con la fede, era un po’ vacillante in quel periodo, non solido come avrebbe dovuto essere. Sì, credevo in linea teorica all’esistenza di un Dio, anche perché cresciuto in una famiglia di forte ispirazione cattolica.
Conoscevo per averli sentiti nell’aria, anche inconsapevolmente, gli insegnamenti del Vangelo, i dogmi ai quali prestare solenne fedeltà. Ma, al momento estremo del bisogno, più che alla provvidenza divina, mi rivolgevo alle mie stesse forze, alla mia volontà, alla voglia di reagire, di non lasciarmi andare. Tuttavia possedevo dentro, una innata bontà che mi impediva persino di uccidere uno scarafaggio, per non provare poi il rimorso di aver distrutto una vita che, anche se apparentemente insignificante, rappresentava lo stesso una vita e come tale esigeva il massimo rispetto. Incapace di fare del male a chiunque anche verso chi ne faceva a me, non porgevo l’altra guancia, ma non reagivo, allontanandomi da lui senza meditare vendette o provare rancore di nessun tipo. Avevo pochi amici a causa del mio carattere schivo e solitario ma non ho mai avuto nemici. Mi facevo voler bene ed ero sempre pronto ad ascoltare chiunque senza pregiudizi di nessun tipo. Non riuscivo proprio a dar dispiaceri a nessuno se non a me stesso. Non trovavo giusto fare agli altri quello che non avrei voluto fosse fatto a me. Il mio era un ragionamento logico, elementare, non scaturito o influenzato dall’insegnamento cristiano, anche se poi, in pratica, coincideva perfettamente. La cosa più curiosa di allora, consisteva nel fatto di essere arrivato addirittura a mitizzare la sofferenza e, di conseguenza, anche la mia tristezza.
Pensavo fosse quasi un dono divino che sarebbe servito all’uomo, ma non per redimerlo scontando i peccati terreni in prospettiva d’una redenzione futura, ma bensì per esternare la propria sensibilità artistica. Già, avevo creato un altro assurdo binomio che consideravo allora inscindibile e che tuttora sono convinto che possa esistere, sofferenza uguale arte. Soltanto soffrendo, pensavo, è possibile diventare sensibili e di conseguenza artisti. Più si soffre e maggiormente si matura, si alimenta l’ispirazione artistica.
Non è un caso che le mie poesie più belle, o almeno quelle alle quali sono più legato, le più vere, le più sincere siano nate da una sorgente che esprimeva la tristezza d’un momento. Non so perché, ma ancor oggi, non riesco a scrivere nulla nell’istante in cui sento di essere felice o sereno per meglio dire, perché “felicità” è una parola troppo grande. Un artista, in genere, compone quando sente dentro il bisogno di comunicare qualcosa agli altri, una propria intima emozione, che è tanto più forte ed intensa, quanto più ombra ha nel cuore. Un uomo cerca l’acqua solo quando ha tanta sete. Non so perché ma è così.
Confesso però che mi sarebbe piaciuto e che mi piacerebbe ancora, poter scrivere in un momento di gioia, proprio per sentirmi altruista e aiutare così il mio prossimo, trasferendogli tramite l’arte, un po’ della mia letizia. Purché lo voglia chiunque, non solo artista, nella vita di tutti i giorni, può regalare un sorriso a chi ne ha veramente bisogno che, per quanto piccolo possa sembrare agli occhi di chi lo offre, è sempre meravigliosamente grande e importante per chi lo riceve.
Ritornando a guardarmi all’età di 19 anni, continuo a non capire ancora il motivo per il quale preferissi la solitudine dei cimiteri, alle compagnie e ai divertimenti giovani.
Non mi rendo conto del perché di tutte le fobie d’allora, delle mie ansie implacabili, delle mie paure ossessive, della mia in un certo senso depressione, tutti problemi che, fortunatamente, ho risolto in età adulta tranne qualche minuscolo residuo facilmente domabile, ma che allora, sembravano per me inguaribili, autentici drammi. È strano però il fatto che io, cantore follemente innamorato della bellezza dell’adolescenza e più in generale della giovinezza, debba trovare un po’ di equilibrio e di serenità, soltanto oggi che ho 40 anni, trovo tutto questo così paradossale e non mi oriento più. Se solo avessi avuto, in quel periodo, lo stesso coraggio che ho adesso di prendere di petto tutti i miei problemi, di affrontarli con coraggio, faccia a faccia, senza partire battuto ma con la consapevolezza di poterli vincere, di poter dire loro: “Non mi fate più paura, io sono più forte di voi!”
Se solo avessi avuto allora l’intelligenza, la maturità, la saggezza che mi ritrovo oggi e soprattutto la forza di credere nella mia volontà, tutto sarebbe stato diverso e forse non avrei avuto nemmeno l’ispirazione per scrivere la storia che sto per raccontarvi. Ma, nella vita, nulla accade per caso, anche se in apparenza può sembrare senza spiegazione. Sarei stato un ragazzo praticamente normale come tanti altri, anche se, in ogni caso, la normalità è sempre relativa e riduttiva se per normalità si vuole intendere massificazione, fare cioè quello che tutti fanno, che gli altri vorrebbero che tu facessi. Bisognerebbe sempre, in tutti i modi possibili, battersi per difendere il proprio modo di esprimersi e di essere, senza assurde e incomprensibili maschere imposte da una società troppo spesso stereotipata e insensibile alle esigenze del singolo. E pensare che ogni essere umano è un esperimento di vita, unico e irripetibile e che ha quindi tutto il diritto di essere uno spirito libero, al di fuori di schemi preconfezionati, tradizioni o condizionamenti di nessun tipo, felice di manifestare la propria identità che si diversifica da quella degli altri ma, allo stesso tempo, si integra con l’altrui libertà, rendendo la vita ancora più bella perché varia, tollerante, colorata. Uno strano ragazzo, sicuramente, molto particolare, fuori dal comune, ero io. Magro, con i capelli lunghi, vestito in maniera trasandata, senza seguire nessuna moda in voga in quel periodo. Un look schizofrenico, nel senso di liberissimo, contraddittorio, fuori da ogni regola o criterio di abbigliamento, senza il minimo abbinamento di colori che potesse dare un certo gusto estetico all’occhio. Alternavo assurdi pantaloni a quadretti tipici da clown, a strane e lunghe giacche rosa. A volte vestivo completamente di nero con dei spettrali occhiali scuri, accentuando così la mia magrezza che era per me una specie di complesso, a tal punto da impedirmi di mettermi in costume da bagno pur adorando il mare. Portavo sempre dei fazzoletti intorno al collo, di vario colore che mi procuravano, e ne ero molto orgoglioso, un’aria misteriosa e un po’ tenebrosa ma, al tempo stesso, potevo dare l’impressione di un bambino diventato adolescente troppo in fretta che suscitava immediata tenerezza e un istinto quasi materno di protezione. Non ero certamente brutto, anzi tutt’altro. Ero forse simpatico e persino carino ma non facevo nulla per evidenziare queste mie qualità, anzi, facevo del tutto per tenerle nascoste. Il colore chiaro dei miei occhi, ad esempio, che spiccava con la mia carnagione abbronzata e col castano dei miei capelli, veniva quasi sempre nascosto da occhiali scuri, come già detto, e il vestiario poteva sembrare più da zingaro anziché quello di un ragazzo che vuol farsi ammirare in armonia con la propria giovane età. Facevo insomma, forse in parte anche involontariamente, di tutto per sembrare più inguardabile di quanto in realtà non lo fossi, presentandomi agli altri come mai e poi mai avrei dovuto apparire. La dolcezza quasi infantile del mio viso, i miei lineamenti oserei dire quasi efebici, erano continuamente mortificati e messi in discussione da un’espressione che io, ad arte, facevo diventare da duro oppure di chi sembrava perso nel vuoto che contrastava nettamente con la mia disarmante sensibilità e soprattutto con l’età che dimostravo. Avevo infatti la grande fortuna che ho anche adesso, di sembrare un paio d’anni più piccolo rispetto alla mia vera età. Potevo dimostrare sì e no 14 o al massimo 15 anni. Guardandomi per ore allo specchio, a volte mi piacevo, altre invece mi detestavo trovandomi tutti i difetti possibili, fino al punto di rompere gli specchi. Era innata in me una certa timidezza che ancora un po’ conservo e che si manifestava nella mia quasi impossibilità di fissare a lungo negli occhi qualunque interlocutore, specie se si trattasse di una ragazza. I miei occhi un po’ impauriti, spesso si abbassavano di colpo, come per cercare un nascondiglio nel quale potersi rifugiare. Già, le ragazze. Con loro il mio è stato sempre un rapporto particolare. Anche in questo campo, il mio grande amore per il sogno veniva a galla. trasformando la realtà in immaginazione. Vivevo infatti amori immaginari e platonici. Le ragazze che solo io sapevo di amare, esistevano davvero, se non altro, e non come la protagonista defunta di questo libro, ma non sapevano mai nulla del mio segreto amore nei loro confronti. Io, fra l’altro, sia per timidezza, sia per la paura di guastare il sogno, non avrei mai avuto il coraggio di confessarlo. Questo mio infantile e patologico modo di concepire l’amore, in piccola parte mi è rimasto ancora oggi nella mia personalità di adulto. Infatti forse ora non cerco una ragazza o una donna specifica in quanto tale, ma amo l’idea dell’amore, della compagna che non si trova, che non esiste, quasi sublimata in angelo, segno d’una chiara mancanza di predisposizione e di adattamento alla vita reale. Sensibilissimo com’ero, lo sono ancora adesso, consapevole di essere diverso dai miei coetanei ma mai reputandomi superiore a loro, cercavo di attirare la mia attenzione presso le ragazze, adottando un comportamento inusuale, a dir poco strano se non folle, ma ottenevo sempre inevitabilmente l’effetto contrario e diventavo ridicolo ai loro occhi. Non avevo la maturità e la furbizia necessarie per capire che, per avere successo con l’altro sesso, per essere apprezzati, bisogna semplicemente essere se stessi. Andava a finire così che mi sentissi sempre più solo, giudicando tutte le ragazze, nessuna esclusa, vuote, superficiali e materialiste, prede di facili ideologie alla moda e incapaci di comprendere la mia interiorità. Non capivo che l’unico che non funzionava in quel contesto, ero proprio io, io e soltanto io. Ricordo che spesso dedicavo loro poesie, già le poesie. La mia passione per lo scrivere ha radici lontanissime nel tempo, risale agli albori della mia vita, fa parte di me. A volte mi viene il dubbio che scrivessi già dalla pancia di mia madre. Ero e sono comunque veramente contento di questa mia inclinazione, guai se non ci fosse. Mi ha aiutato moltissimo in quel periodo e mi è molto utile anche adesso. È l’unica cosa che so fare, una valvola di sfogo, un modo per canalizzare le mie energie, quasi una confessione, un aprirmi con me stesso e verso gli altri. È un bene quando le mie frustrazioni, le mie nevrosi, anziché uscire sotto forma di malattie, vengon fuori tradotte in espressioni artistiche. Guai se non scrivessi più, sarebbe come ammettere di essere morto. Credo di avere delle qualità, del talento. È un vero peccato che non se ne sia accorto proprio nessuno, che non mi abbiano mai dato fiducia credendo in me. Continuando a viaggiare sulla mia ipotetica macchina del tempo e tornando a ritroso con la memoria, mi vedo davvero stupido all’età di 19 anni, troppo immaturo e troppo bambino. 19 anni che potevano benissimo essere 30, 40, 50, 80 in base alla mia sensibilità artistica ma che, allo stesso tempo, potevano sembrare 12, 10, 8 per il mio modo di porgermi verso me stesso e verso gli altri. Non capivo la cosa più importante ed elementare di tutte le conoscenze in genere e cioè che la vera felicità, la si può trovare nelle piccole cose quotidiane della vita e che sgorga spontanea dentro di noi. Ma non ero l’unico a non aver capito questa semplice verità. Quanta gente importante nel corso della storia non l’ha compresa! Dottori, scienziati, filosofi, poeti, insegnanti sono magari in grado di recitare la Divina Commedia a memoria o tutti i classici della letteratura, ma poi non sono capaci di distinguere il ramo da una foglia. Quando si è troppo impegnati a pensare in grande, ci si dimentica completamente delle piccole cose della vita che sono le più importanti, le più vere, che fanno parte di noi, che vivono con noi e intorno a noi come piccole sorelle non viste dalla nostra cecità assoluta, non percepite dalla nostra attenzione e dal nostro cuore tutto assorbito dal marasma d’una vita materiale. A volte, confesso che vorrei che ogni uomo facesse un piccolo salto nell’aldilà per scoprire la bellezza della propria spiritualità, per poi ridiscendere in carne e ossa su questa terra. Solo allora si renderebbe conto di aver vissuto male, anteponendo la legge della materia a quella dell’anima, smarrendo del tutto la propria identità, la vera essenza della vita. Ho ritenuto giusto, cari lettori, fare questa abbondante premessa su com’ero all’età di 19 anni, non con l’intenzione di annoiarvi anzi qualora questo fosse avvenuto me ne scuso sentitamente, ma poiché credo sia necessaria per inquadrare meglio la mia personalità al tempo in cui si svolsero i fatti che sto per narrarvi, proprio in virtù dell’originalità e della stranezza di tali fatti.
La verità sta proprio nella considerazione che solo uno strano ragazzo quale io ero all’età di 19 anni, poteva trovare l’ispirazione per scrivere una storia così assurda ma anche così coinvolgente.
  MESSINA, INVERNO 1984
Non ricordo con esattezza il giorno preciso del mese in cui cominciò questa strana storia.
So che tutto ebbe inizio così, semplicemente, come quelle storie che nascono senza un perché, con quel famoso detto “C’era una volta” così caro a bambini che lo ascoltavano in dormiveglia, dalle care voci delle nonne o delle mamme, all’inizio di qualsiasi fiaba. Com’è lontano quel magico tempo! Le fate sono diventate giochi elettronici. Oggi tutto è maledettamente cambiato e appare glaciale, freddamente scontato, terribilmente calcolato. Siamo entrati in un tunnel senza uscita e senza ritorno, proiettati dal falso progresso verso un mondo futurista, dove persino il nostro destino risulta scritto in fondo alla memoria d’un computer.
Mass media che dilatano e condizionano le nostre coscienze, satelliti artificiali sulle nostre teste che ci spiano minacciando la nostra privacy e ancora pubblicità senza fine che ci rende tutti visionari martellando il nostro cervello. Nonostante tutto questo, io sono ancora qui a scrivere seguendo con costanza e coerenza le mie idee di sempre, annullando, fin quando mi sarà possibile e ne avrò la forza, il nulla che mi circonda con la forza della mia fantasia, con la bellezza della mia immaginazione, con la gioia di vedere i miei sogni realizzarsi spontaneamente, come una magia, senza falsità ed inganni.
Dicevo, quindi, di non ricordare il giorno esatto, ma posso dirvi con assoluta certezza, che da pochi giorni era entrato l’anno 1984 e ci trovavamo ovviamente nel mese di gennaio. Ricordo anche che era una fredda e malinconica mattinata dal clima autunnale. E tornando a guidare la famosa e già citata macchina del tempo, posso ancora vedermi così com’ero realmente, mentre camminavo per strada per recarmi, come tutte le mattine, a scuola.
Potevano essere circa le 8, considerando che alle 8,30 sarebbe suonata la campanella per entrare in classe. Non ero vestito troppo male vista la maniera con la quale uscivo in quel periodo, anche perché, a scuola, dovevo necessariamente presentarmi con un look adeguato, forse troppo, tale da creare così l’eccesso contrario, cioè quello di essere perfettamente intonati col vestiario, al luogo nel quale si opera. Nonostante ciò, avevo sempre nel mio sguardo, quel solito alone di mistero, quel non so che di velata ed indefinibile malinconia. Avevo piuttosto da portare, oltre al mio sempre presente fardello di tristezza, un peso materiale altrettanto consistente, quello dei miei libri che dovevo necessariamente caricarmi sulle spalle e che servivano più a farmi diventare curvo (alla Leopardi per intenderci) che per impartirmi una sottocultura nozionistica, una specie di ignoranza colta. Ho sempre pensato che la vera scuola, te la dà la vita, la strada dove le cose, giorno per giorno, ti insegnano da sole il loro nome.
Si usava nella mia classe ma penso anche in molte altre, per ragioni di convenienza tra compagni di banco, dividere il numero dei libri esattamente a metà per distribuire in parti uguali gli immani sforzi. Il mio compagno di banco, Piero, veniva però da un piccolo paese del messinese, a metà tra la collina e la montagna, Massa San Giorgio, e quindi, per un atto di dovuta cortesia nei suoi riguardi, è andata a finire che i libri praticamente li portavo quasi tutti io, abitando peraltro in centro, non molto lontano dalla scuola. Già, la scuola. Una scuola per ragionieri, l’Istituto Tecnico Commerciale “Antonio Maria Jaci”. Mi trovavo ormai a frequentare l’ultimo anno ma mi chiedevo ancora cosa ci facessi io, quasi un genio dell’italiano, fortemente appassionato alla letteratura e alla filosofia che sognava ancora ad occhi aperti di diventare professore di Lettere, in una scuola di ragionieri. Uno dei miei tanti errori nella vita. Mai, mai una volta in tempo ci si accorge di aver sbagliato, sempre  troppo tardi. E così, alternando voti altissimi nelle materie letterarie, a quelli altrettanto bassi nelle materie tecniche, senza essere mai stato rimandato o peggio ancora bocciato, continuavo ad andare avanti lo stesso, tanto ormai si trattava soltanto dell’ultimo anno, dell’ultimo sacrificio.
In fondo a me piaceva studiare ma solo quelle materie che più mi prendevano e affascinavano e non certamente quelle di tecnica o di ragioneria. Del resto, se ognuno sceglie liberamente nello studio di seguire la strada per la quale si sente più portato, ci sarà sicuramente un motivo. Io non ho avuto fortuna neanche in questo, o forse non sono stato abbastanza lungimirante, non ho saputo scegliere. Tutto si svolgeva a Messina, la mia cara città, una città alla quale ho sempre voluto bene, non perché mi abbia dato qualcosa di particolare ma perché vi ero nato, era un po’ come se fosse casa mia, se rappresentasse la mia infanzia, alla quale ciascuno di noi resta sempre, nel corso della vita, particolarmente legato. Forse sentivo di volerla bene, anche perché, paranoicamente, in solitudine, la percorrevo sempre in lungo e largo, camminando senza meta, solo con i miei pensieri e di conseguenza scattava verso di essa, quasi un affetto particolare che definirei, in un certo senso, familiare, quasi come se stessi girando o parlando da solo nella mia stanzetta. La sentivo, insomma, appartenermi, essere mia, trovare posto tra le mie cose più care e intime del cuore, come quei ricordi più belli a cui si è particolarmente legati e che si custodiscono gelosamente. Eppure quel giorno Messina, la mia Messina, aveva un aspetto spettrale, malinconico, quasi come un inspiegabile presagio di quanto sarebbe poi accaduto. Un’atmosfera che si conciliava perfettamente col mese invernale di gennaio ma non certamente con la solarità della città che, il più delle volte, splendeva al sole. Non so dire con esattezza cosa sia accaduto in me quella mattina, anche perché mai prima d’allora mi era balenata in mente l’idea di marinare la scuola, per non avere poi rimorsi nei confronti dei miei genitori e soprattutto di me stesso. Ma quella mattina tutto sembrava diverso, strano, insolito, incredibilmente nuovo. Dentro di me, qualcosa o qualcuno che non sapevo chi o cosa fosse, mi stava incitando, fino a proibirmelo categoricamente, di non recarmi a scuola. Era come se avessi un appuntamento sconosciuto ma importante, al quale non potevo assolutamente mancare o rinunciare.
Non avevo più nessun tipo di rimorso, dubbio o ripensamento nel prendere quella decisione, dovevo non entrare e basta. Così, cambiai subito direzione e anziché andare verso la scuola, mi indirizzai alla zona opposta, verso sud. Era come se fossi guidato a distanza da un comando che non potevo vedere ma che sentivo mi stesse catturando, muovendo i pulsanti, orientandomi verso di esso. Ero praticamente un automa che camminava spinto da una forza misteriosa e invisibile, come si trattasse di una calamita. Persino i miei libri non mi pesavano, erano diventati, di colpo, leggeri, sembrava non ci fossero più. Camminai così, come un’ombra senza identità, per circa mezz’ora, con un passo svelto ma che nulla aveva a che fare con la corsa. Quel mio strano camminare, s’interruppe esattamente davanti alla porta centrale del Gran Camposanto della mia città. Proprio lì, una voce intima che neanch’io riuscivo a decifrare e a capire da dove provenisse e cosa volesse da me, mi obbligò a fermarmi di colpo e, introducendosi nei labirinti della mia mente, prendendo il totale controllo sulla mia volontà, mi fece varcare la soglia, spingendomi ad entrarvi dentro.
   DENTRO IL GRAN CAMPOSANTO
Mai prima d’allora avevo avvertito il bisogno di esplorare la bellezza, se di bellezza si può parlare trattandosi di un luogo di preghiera che richiama pur sempre alla morte, di un cimitero che risulta essere il secondo d’Italia come grandezza, e classificabile tra i più belli in assoluto per la ricchezza di statue, monumenti, sculture e opere d’arte funeraria che contiene, alcune delle quali antichissime. Soltanto il giorno dell’anniversario della commemorazione dei defunti, avevo l’abitudine di visitarlo, come tutti del resto.
Pur essendo, per natura, fortemente attratto da tutto ciò che è sepolcrale, sempre catturato dalle epigrafi e dalle foto dei defunti, non avevo mai sentito il bisogno o la necessità di andarci in altre occasioni. Ma quella mattina, tutto cambiava, ciò che mai sarebbe potuto succedere, ora accadeva con naturalezza come fosse già scritto, stabilito. Ciò che prima d’allora poteva considerarsi impossibile, diventava assolutamente lecito, tangibile.
Fortunatamente non v’era nessun accompagnamento funebre all’entrata, ma solo una carrozza con un cavallo e un ragazzo handicappato di circa 30 anni che si divertiva a prendere le ghirlande dalla stanza dove vigilava il custode del cimitero e a portarle su quel carro. Poi le riprendeva dal carro e le riportava nuovamente nella stanza del custode, con un ritmo ripetitivo e monotono, minimale, come un uomo disperatamente solo che, vittima delle proprie paranoie, non riesce a liberarsene mai, neppure quando dorme la notte. Il viso dell’handicappato era allegro, spensierato, assolutamente privo di ogni espressione logica. Eppure io, in quel momento, ero arrivato al punto di invidiarlo per quella sua strana e inconsapevole contentezza che aveva dipinta sul viso, completamente all’opposto del mio che non rideva quasi mai. Mi sembrava quasi un bambino, inconsapevole dei pericoli della vita, ignaro di cosa lo attende.
Alla guida del carro, vi era un uomo sulla cinquantina d’anni. Aveva un paio di baffi folti e pittoreschi che si notavano immediatamente, tipici di certi personaggi siciliani adatti ad essere ritratti in quei quadretti venduti ai turisti come ricordo. I baffi erano bianchi, lo stesso colore argento dei capelli, in realtà pochissimi, vi traspariva infatti un capo quasi calvo. Era intento a fumare una sigaretta più per noia che per piacere. Di tanto in tanto, con ritmi monotoni e lenti, alzava la bocca verso il cielo creando anelli di fumo. Non aveva un’espressione triste, sembrava abituato a quel luogo, piuttosto dava l’impressione di annoiarsi come colui che aspetta che succeda qualcosa da un momento all’altro, che possa spezzare di colpo l’opprimente monotonia, anche l’arrivo della morte, sarebbe già qualcosa di nuovo, di diverso. Il cavallo, invece, al contrario dell’uomo, mostrava un’espressione profondamente triste, sommessa, rassegnata. Quasi come capisse e partecipasse all’atmosfera del luogo, muoveva uno zoccolo, poi l’altro, quindi rimaneva immobile come in attesa e poi riprendeva nuovamente a muoversi con ritmi lenti ma perfettamente intonati, come il direttore d’orchestra d’una litania funebre. Gli occhi dell’animale, coperti e bassi, sembravano impenetrabili, persi nel vuoto. Il guidatore del carro, ogni tanto volgeva lo sguardo sul quel povero ragazzo handicappato e in quei momenti pareva più umano, meno assente. Ci fu un attimo, ma fu solo un momento, in cui i nostri occhi s’incontrarono. Tuttavia fu un tempo sufficiente per farci apparire strani l’uno agli occhi dell’altro. Lui si stava chiedendo sicuramente cosa ci facesse un ragazzo con i libri di scuola al cimitero di mattina ed io, a mia volta, mi domandavo come facesse un uomo maturo a rimanere così calmo, così tranquillo in un luogo che infondeva tristezza. In quei momenti, pur nella banalità di quelle considerazioni, paradossalmente, la vita mi sembrò più bella, proprio perché piena di situazioni strane ed imprevedibili, degna di essere vissuta fino in fondo. Era avvenuto l’incontro occasionale di due età così diverse l’una dall’altra, di due modi di essere e di pensare così difformi, almeno in apparenza, era la vita stessa che ai miei occhi si faceva apprezzare con la sua varietà, capace di apparire triste e ironica nello stesso frangente. Il guidatore del carro, il ragazzo handicappato, io stesso che mi trovavo lì anziché a scuola, il cavallo più umano dell’uomo, tutto pareva diventare di colpo favola e noi eravamo trasformati in attori, inconsapevoli protagonisti di una recita strana, ma affascinante, piccoli pezzi di un immenso e bellissimo mosaico che è l’umanità intera con le sue sofferenze, le sue eterne contraddizioni, le sue stranezze, ricca del suo scibile umano, fotografia di un mondo grigio ma che per magia può diventare a colori. Furono tutte considerazioni che contribuirono a regalarmi un pizzico di gioia in quel luogo triste, ma fu solo effimera e di breve durata, come una goccia d’acqua tiepida che, cadendo per sbaglio dentro un bicchiere d’acqua gelida, dà solo l’illusione di riscaldarla, non riuscendo a mitigare il ghiaccio che v’è dentro. Ben presto, infatti, ritornai in sintonia con l’atmosfera di quel luogo e, d’indole malinconica e facilmente orientato alla tristezza quale io sono, mi venne subito in mente l’idea di fare un confronto, quasi un parallelismo, tra l’angoscia del mio animo e l’aria di morte che si respirava lì dentro, aria che avvolgeva ogni cosa di quel luogo anche quell’esile farfalla che sperduta v’entra dentro, così per caso, perde i suoi colori rubati all’arcobaleno e in breve muore, riposandosi, non uscendone più.
Dovevo però riconoscere e ammettere che quel posto era anche particolarmente adatto a suscitarmi pensieri profondi, a sviluppare in me una introspettiva meditazione, specie sulla caducità della vita terrena, era capace persino a ispirarmi su tematiche consone al mio stato d’animo. In particolare, la mia attenzione fu richiamata come un flash da una scritta posta subito dopo l’entrata, quasi di fronte alla stanza del custode. Erano parole di color nero vistoso incise su un marmo bianco, virgolettate che dicevano: “Fummo come voi, sarete come noi”. Anche questa lettura contribuì a farmi meditare ulteriormente. La reputai subito significativa, perfettamente corrispondente al destino dell’uomo, rivelava una cruda e amara verità per chi non avesse il dono della fede. Se l’uomo ponesse al centro dei propri pensieri l’idea della morte così come ho sempre fatto io sin da bambino, non riuscirebbe più a vivere tranquillo conoscerebbe la paura, ma sarebbe sicuramente meno materialista e meno egoista. Se poi dovesse non credere in Dio, allora sarebbe proprio un dramma senza consolazione e vana risulterebbe la parola alla catastrofe dell’anima. Sarebbe la morte, il nulla eterno, l’annientamento totale, definitivo. L’uomo messo completamente a nudo, spogliato da ogni sciocca vanità, si troverebbe con le spalle al muro e la parola fine davanti, sull’orlo del baratro e si estinguerebbe così, nel riposante approdo d’un obitorio. Era quella mattina una giornata non festiva ed io notavo che al cimitero vi era pochissima gente. Questo fatto però non toglieva la mestizia a quel luogo, ma anzi lo rendeva ancora più solitario e abbandonato.
Questo scenario di morte che lì dentro si ripeteva ogni giorno, ogni ora, forse anche ogni minuto, era qualcosa che infondeva nell’animo un non so che di profondamente sommesso che riconduceva inequivocabilmente alla pace, al silenzio. Quella paura iniziale che avevo avvertito non appena entrato al cimitero, più per il fatto insolito di trovarmi lì che per un vero e proprio timore, di colpo, svanì ed io, come se fossi ormai preparato al peggio, mi sentivo come quel bambino che, osservando l’acqua gelida del mare, decide di tuffarsi improvvisamente, per non sentire più freddo poi, quando l’onda lo può travolgere e lui meno se lo aspetta.
A questo punto, cari lettori, per esprimervi meglio le mie sensazioni, ho inserito nel libro una mia poesia scritta proprio in quel momento. Se il lettore riuscirà a cogliere e a provare le stesse emozioni avvertite dal poeta, il compito di chi scrive si è realizzato e l’autore può ritenersi sodisfatto. Io mi auguro che ciò si verifichi attraverso la lettura di questi miei versi.
   MORTE SOLITARIA IN UN CIMITERO DESERTO
  Odore di morte, ricordi segnati da croci,
 paura angosciosa, solitudine senza fine,
 tristezza cupa, silenzio assopito,
 pianti accorati, rosario di dolore.
 Lumicini ardono, crisantemi ornano le tombe,
 fotografie di gente che non è più,
 ombre vaghe di cipressi,
 aria che trema di fiamme e di preghiere,
 io che diverrò cenere, sarò ombra di nulla,
 niente rimarrà di me:
 e quale conforto potrò avere,
 perduto tra volti sbiaditi di fotografie d’epoca,
 dagli occhi tristi dei posteri?
 Una bimba inginocchiata su una tomba,
 col cuoricino infranto e gli occhi che s’apron a stento,
 unisce le sue labbra e per due volte le dischiude
 supplica e singhiozza un nome santo,
 il nome della sua mamma.
 Un angelo sceso dal cielo
 su lei schiude le ali,
 e non visto,
 nelle mani raccoglie quelle stille viventi per il suo Signore.
 Io, smarrito, da solo,
 come un uccellino spaurito,
 vado per le vie di un cimitero deserto.
 Con la mente nel buio
 cerco la mia tomba.
 Quì dentro tutti mi somigliano
 loro morti davvero, io defunto dentro,
 con i morti ci so stare.
 Io muoio pian piano così
 nel triste rosario delle cose che non han ritorno
 ma tutto rimarrà com’era,
 la mia vita è inutile,
 nessuno mi ricorderà,
 nessuno s’accorgerà che sono andato via.
 Io solo nella vita,
 io solo con la morte addosso.
 Tomba abbandonata in un angolo oscuro,
 faccia sbiadita dal pianto,
 occhi già ciechi nel buio,
 rughe sul mio viso ancora giovane.
 Anima mia stanca, ricordi che non avuto mai,
 sogni svaniti nel nulla, speranza affievolita dal tempo,
 amore che non mi riscalda più, giovinezza che non è più mia,
 morte che mi viaggia accanto.
 Questo son io, altre parole non servono.
 Eppure la voglia di gridare,
 di ridere forte, di spaventare la morte,
 c’è ancora dentro me.
 Eppure sono figlio della luce, brillo sotto il sole,
 ho ali per volare, un cuore per amare,
 una mano tesa ancora c’è,
 ma il mio sangue è fragile per vivere, troppo fragile!
 getto via l’acqua pur assetato di vita
 e chissà, forse qualcuno mi capirà,
 mi darà il suo sorriso, mi salverà.
 No, il buio, no!
 Ma poi torno in grembo all’eterno destino.
 Il tempo è crudele con me,
 mi strappa via dalle cose che sentivo più mie.
 La vita è una corsa inarrestabile,
 gli anni scivoleranno su me ed io non potrò più fermarli,
 so bene che soffrirò, invecchierò,
 piangerò tanto, morirò.
 Aspetterò in silenzio,
 questo tempo nemico della bellezza sciuperà il mio corpo,
 trascinerà via la mia ultima fiamma,
 disperderà ogni mia speranza,
 qualcun altro la raccoglierà.
 Tutto fugge e va via veloce portando via anche me
 ed io mi accorgo che non mi resta niente,
 forse solo una lacrima perduta
 in fondo al mio cuore,
 forse solo il bene che ho dentro
 che mi fa amare di più.
 Ed io sto male
 e piango in silenzio nel buio della notte,
 nascondo nel pianto la mia poesia.
 Signore,
 ho un vuoto dentro
 e in questo vuoto non ci sei tu,
 dammi la forza di supplicarti ancora,
 di chiederti amore.
 Non desidero successi e ricchezze terrene, solo la tua presenza in me.
 Le mie parole in una preghiera,
 volano in cielo
 e fanno piangere Dio.
 Signore, ma come faccio ad essere così cieco
 tu sei davanti a me
 ed io continuo a dirti  “non ti vedo”.
 Ho perso tutto ma posso ricominciare con te ritrovando me stesso.
   LUNGO LE VIE DEL CIMITERO
Con questi pensieri, completamente assorto nel silenzio e nella meditazione, percorrevo le vie del cimitero. D’un tratto, uno scossone intimo, simile a quello che mi aveva spinto a recarmi fin lì, mi elettrizzò nuovamente e più forte di prima, salendo sin dal profondo del mio io.
Quella solita voce vaga ed indefinita, tornò a farsi sentire in me e a dirigere i miei passi che poco prima erano incerti e senza una direzione ben precisa. Camminai parecchio, senza mai fermarmi e sempre salendo, attraverso curve, strade larghe e strette che si alternavano tra loro, che giravano e poi salivano ancora, sembrava un labirinto, una salita senza fine. Man mano che la strada procedeva verso l’alto, il tempo si mostrava sempre più brutto, minacciava la pioggia. Il vento che nella mia città non manca quasi mai, ora sibilava tra le tombe, sembrava il flebile lamento delle anime dei defunti. Soffiava spingendo le foglie cadute per terra dagli alberi che ondeggiavano qua e là, leggere come piume, era la danza della malinconia, la poesia delle solitudini, dell’inane, del nulla. S’insinuava prepotente fra i cipressi, alberi silenziosi più dei morti. Il vento lo sentivo dappertutto, echeggiava fin dentro le mie ossa, regnava nelle mie vene mischiandosi con il mio sangue, unendosi col mio respiro. Lo percepivo in ogni alito di vita, in ogni particella d’aria, perfino sulle mie labbra, fredde e gelide come se baciassi la bocca d’un cadavere. Ogni tanto si udiva dall’alto il canto di qualche uccello sparuto, il rumore d’un paio d’ali, ma si interrompevano di colpo in un silenzio tombale, assoluto, come per una forma di insolito rispetto a quel clima che non era rivolto al canto ma all’elegia più sommessa, più cheta. Le nuvole dalle forme più bizzarre ed inquietanti, giravano sopra la mia testa, il cielo diventava sempre più scuro, pauroso ma non sembrava avesse la forza né la voglia di piangere le sue lacrime di pioggia. Ma anche se l’avesse fatto, io avrei continuato imperterrito il mio cammino, avrei portato a termine la mia missione. La pioggia non mi avrebbe bagnato, non mi avrebbe fermato. Com’era lontana la mia Messina solare! Le giornate estive, le spiagge, i primi raggi del mattino. Tutto riconduceva al nero, alla malinconia, al mistero. Non avevo più neanche la possibilità di riflettere sul motivo per il quale un ragazzo di 19 anni si trovasse lì, e non davanti alla cattedra, in mezzo ai suoi compagni di classe, per fare quello che era giusto e logico fare. Ero intento, quasi in trance, a seguire la voce che mi esortava a proseguire il mio strano viaggio, spingendomi oltre il limite, oltre quella barriera che divide quello che noi esseri terreni poveri fantocci di creta chiamiamo reale, dall’irrazionale, dal soprannaturale, da ciò che vive da sempre intorno a noi, nei nostri sensi, ma che non percepiamo. Un mondo totalmente sconosciuto che per adesso, rinchiusi in questa limitata e circoscritta dimensione, noi non possiamo vedere ma che esiste, è soltanto invisibile ai nostri occhi, come qualcosa che non si fa mai toccare ma che c’è e ci sarà sempre. Man mano che salivo, la città appariva sempre più lontana e irraggiungibile, mentre chi mi stava aspettando da tempo, sembrava sempre più vicina. Mi staccavo dal mondo dei vivi per avvicinarmi a quello dei morti, conseguenza assolutamente indispensabile, abbandonare l’umano per essere tutt’uno col soprannaturale. Il mare e la costa calabra che prima s’intravedevano di rado, ora sparivano del tutto, eclissati interamente dai cipressi che parevano fantasmi danzanti, mostri giganteschi. Mi trovavo in una dimensione senza età, il mio orologio con le sue lancette ferme, statiche, pareva disegnato, per niente reale. Non conoscevo più lo scorrere del tempo.
La giovinezza era vecchiaia e la vecchiaia tornava ad essere giovinezza. Regnava l’armonia del silenzio come un Dio della quiete, disturbato solo dai battiti del mio cuore che acceleravano via via che mi avvicinavo alla meta ma era bello ed emozionante anche in quel modo, era magico, era folle. E pensare che laggiù, coperta dagli alberi, doveva pur esserci ancora Messina, caotica e frenetica come tutte le mattine, con i suoi mercati, i suoi negozi, la sua gente che si riversava per le strade, ma tutto questo a me sembrava inconsistente, insignificante, totalmente estraneo, superfluo. Era mattina ma poteva essere benissimo sera, notte. Era inverno ma poteva essere primavera per la speranzosa attesa d’un’avventura indimenticabile che stavo per vivere in prima persona e da solo. In fondo ero solo un ragazzo strano e solitario, ma in quel momento ero immortale, senza età, quasi prescelto da una forza misteriosa e sconosciuta ad essere l’attore principale d’un film senza finale, d’un gioco senza spiegazione, d’un incontro senza precedenti, di una storia alla quale, anche se avessi provato a raccontare, nessuno avrebbe mai creduto. Ma ecco che ora, cominciavano a crollare dal cielo le prime goccioline d’acqua che restavano tali senza mai divenire temporale. Avevano il solo compito di rendere l’atmosfera ancora più coinvolgente,magica, inquietante, celestiale. Erano sorelline gemelle, piccoli angioletti che cadevano dal cielo giù verso la terra come finissime particelle di polvere di stelle. Piccoli angeli sotto forma di acqua che cantavano con le loro voci di bambine la loro sinfonia, per me e soltanto per me,mandate apposta da chi mi stava aspettando in segno di festa, per creare una dolce accoglienza. Mi accarezzavano i capelli, il viso, le mani, dappertutto. Continuavano a cadere dal cielo senza pausa, danzavano, sperimentavano la terra. Ma fra la terra e il cielo, era più bello il cielo, e così preferivano tornare indietro, lassù, da dove erano partite pochi istanti prima, proprio come quei bambini piccolissimi che nascono su questa terra e muoiono subito dopo, magari anche perché una madre non li vuol far nascere qui e a loro non resta che tornare in cielo, ritornando ad essere angeli, sostituendo il bacio non dato dalla mamma con un altro paradiso, molto più bello, vero, eterno. Tutto questo accadeva solo a me e non so spiegarmi tuttora il perché. Proprio a me che non avevo nulla di speciale rispetto agli altri ragazzi della mia età. Anzi, a pensarci bene, qualcosa in più l’avevo da sempre. Come ho fatto a non pensarci prima?
Avevo qualcosa di grande, di estremamente importante e vitale, di immenso. Qualcosa capace di far volare anche chi non ha mai avuto ali, capace di rendere ricchi pur avendo solo una capanna. Qualcosa che Dio ha creato per gli uomini ma che nessuno di loro prende più in considerazione, schiavo della materia e dei problemi pratici quotidiani della vita. Quel qualcosa che avevo in più e che ancor oggi sento di possedere, è la grande voglia di sognare che invade la realtà e la fa scoppiare da tutte le parti. Ma soprattutto la volontà e il desiderio di credere ai miei sogni. Soltanto io, infatti, potevo credere alla storia che vi sto raccontando. Ma sono sicuro che esistono ancora su questa terra, esseri simili a me. E chi sono? Sono loro: gli artisti, gli ubriachi, i bambini,gli acrobati, i saltimbanchi, i protagonisti delle fiabe principesse ed animali parlanti, tutti angeli incompresi caduti su questa terra per sbaglio o per fortuna, capaci di cogliere il vero senso della vita, l’essenza dell’anima. È l’umanità a colori, la vita che ridiventa sogno, l’uomo che dà la mano a Dio, è la luce che non si spegne più.
  VERSO IL CONVENTINO
Non so per quanto camminai avendo perso completamente la cognizione del tempo né dove arrivai non avendo neanche quella dello spazio, era come se fossi in zona zero, in terra di nessuno. La mia attenzione però divenne improvvisamente vigile non appena mi trovai a percorrere una strada totalmente diversa da quelle che avevo attraversato in precedenza. L’asfalto, infatti, cessò di colpo e la strada si restrinse notevolmente sino a divenire una stradina dal fondo di roccia e fatta di sassi ma continuava ad essere percorribile lo stesso, capace di far entrare sì e no 4 o 5 persone disposte a fianco l’una dell’altra. Contemporaneamente anche le tombe apparivano del tutto diverse, tutte di un altro stile. Le fotografie diventano via via volti e statue intere di marmo. Erano autentici capolavori di scultura raffiguranti gente lontanissima dai giorni attuali, chiaramente di un’altra epoca, di inequivocabile fisionomia ottocentesca. Anche l’atmosfera che si respirava era totalmente nuova, anche se paradossalmente antica, inevitabilmente trasformata da ciò che oggettivamente si vedeva. Era come se di colpo il tempo avesse deciso di fermarsi e tornare indietro di oltre cento anni. Non vi era più nulla ormai del tempo attuale, tutto parlava del passato, dell’Ottocento.
Io non avvertivo più niente intorno a me né il vento né la pioggia né il freddo. Vivevo immerso in una condizione più spirituale che fisica, magica più che mai, completamente estraniato, corpo ed anima, dal mondo reale, ormai del tutto rapito da quello circostante. Mi trovavo in un luogo sconosciuto, quasi mistico,  che sembrava creato per i poeti e per la contemplazione. Il mondo moderno, quello che era stato fino a poco tempo fa il mio mondo, era ormai lontanissimo, sparito del tutto ed io non lo percepivo e ricordavo più. L’effetto che quel luogo aveva su di me, valeva assai di più di quella che era stata la mia vita di sempre, ormai lunghe distanze mi separavano da essa. Sognavo ad occhi aperti mille avventure, mi arrivava l’eco di mille sirene, ero l’eroe di mille favole. Il cuore non mi chiedeva di tornare alla mia base ma mi esortava a restare lì.
Ero ormai altissimo, quasi in cima, nella parte più alta ed antica del cimitero di Messina. La salita era quasi terminata. Ai lati della stradina, altissime, maestose e sublimi per bellezza e suggestione, si protendevan fiere le tombe dell’Ottocento. Erano statue di uomini, donne, vecchi, bambini. Tombe del mio tempo, ormai non ve ne erano più. Ero completamente circondato da antiche lapidi. La prima immagine che rapisce la vista di chi si trova a salire lassù, è quella della statua di un bambino di quell’epoca, di circa otto anni, seduto su una roccia, vestito come un piccolo marinaretto che par ti guardi e ti dica: “Salve, benvenuti nel regno dell’Ottocento”. Fa quasi da prologo ad una serie infinita di monumenti, uno più bello dell’altro, che da quel punto in poi, inondano quella zona del cimitero, in ogni direzione e da qualunque parte. Immagini di uomini nobili e donne vestite all’antica si vedono ovunque.
Colpiscono i loro baffi folti e pittoreschi, la loro strana pettinatura, l’abbigliamento così diverso da quello del mio tempo. Tutto riportava ad un’altra epoca. Le sensazioni che provavo erano a dir poco indescrivibili, mi sentivo proiettato indietro nel tempo pur avendo la mentalità moderna. Di statua in statua, di emozione in emozione, arrivai in un punto in cui, finalmente, la salita era finita. La salita ma non certamente il viaggio.
Dovevo ancora conoscere l’entità più importante e misteriosa, colei che mi aveva trascinato in quel posto contro la mia volontà, forse avevo visto fin ora solo una minima parte di quanto avrei dovuto vedere o addirittura non avevo veduto ancora nulla. La salita finiva proprio davanti all’entrata di una chiesa bellissima e altissima, tutta stile ottocentesco che io prima di allora non avevo mai vista pur trovandosi nella mia città. Non mi rimase altro che restare a bocca aperta e quasi senza fiato la contemplai. Ero arrivato ormai dove sarei dovuto arrivare. Mi trovavo in quella parte altissima del Cimitero di Messina che oggi si chiama “Cimitero degli Inglesi” ma che in quel periodo si chiamava semplicemente “Conventino” dove erano e sono tuttora sepolti, i nobili messinesi vissuti nel secolo dell’Ottocento. E' un luogo calmo, silenzioso  che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione: c'è d'averne paura ma lo si va a cercare.
Ed ora, cari amici lettori, come quel ciclista che dopo una faticosissima salita, decide di fermarsi un momento per bere un sorso d’acqua e riprendere fiato, prima di ripartire nuovamente, è necessario che anch’io mi fermi un momento per darvi delle doverose notizie storiche che reputo interessanti circa l’origine di questa favolosa chiesa che è situata nella parte più alta del cimitero della città dello stretto.
A tal proposito, ringrazio tutti coloro che mi hanno aiutato nelle ricerche fornendomi notizie storiche utili al racconto. In particolare tutti i custodi e gli addetti alla vigilanza e al servizio di biblioteche, annali storici ed archivi storici.
   STORIA DELLA PARTE PIÙ ALTA ED ANTICA DEL CIMITERO DI MESSINA
Nella seconda metà del secolo dell’Ottocento, numerose epidemie contagiosissime, infestavano la città di Messina come tutto il meridione. Tisi, colera, germi di tutti i tipi erano a quel tempo tutte malattie incurabili. Il contagio si diffondeva vertiginosamente, specie nei bambini la mortalità era elevatissima. Il tasso di vita era spaventosamente basso, infatti oscillava tra i 40 e i 45 anni di età.
A questo si aggiungano la miseria, la guerra, le scarse condizioni igieniche. Quindi per giustificate esigenze sanitarie, si sentiva il bisogno e subentrava anche la necessità di appartare in luoghi, i più solitari possibili, gli infelici malati. Così gli ospedali si riempirono ma non bastavano e si dovettero creare posti isolati, tra i quali il Lazzaretto costruito nella zona del porto, là dove attualmente vi è la Difesa, che raccoglieva tanti bambini colpiti soprattutto da tisi. Lo spettacolo era pietoso. Grida, urla, pianti, sputi, dolori. Lì morì, colpita da quella che a quel tempo era una terribile e incurabile malattia cioè la tisi, la protagonista del mio romanzo. Il posto più isolato però fu costruito nella parte più alta ed antica del cimitero, l’attuale Conventino. Lì venne fatta una chiesetta stile ottocentesco, particolarmente alta. Venivano portati i malati contagiosi come fosse un mini ospedale. Il posto era alto e difficilmente accessibile, quindi dava una discreta garanzia contro il contagio. Ma i morti crescevano e quelli che erano ancora vivi, a contatto con essi, decedevano anche.
Così quella chiesetta si trasformò da sfortunato ricovero, in luogo dove venivano sepolti i morenti. Poi col tempo e col cessare delle epidemie, il posto fu abbellito grazie all’impegno e alla bravura di alcuni scultori messinesi e in particolare di Antonio Saccà che costruì numerose tombe fra le quali anche quella della protagonista del romanzo, dando così al luogo un aspetto profondamente artistico. Vi erano sepolti i nobili messinesi per lasciare ai posteri un glorioso ricordo delle loro memorabili gesta contro l’oppressione borbonica. Difficilmente, anzi direi assolutamente, è possibile trovare sepolta gente comune essendo troppo oneroso poter pagare lapidi davvero imponenti.
Nonostante la terribile catastrofe del 1908, il cosiddetto Conventino resistette, poi il resto del cimitero si dovette rifare. Quindi oggi il Conventino si presenta come la parte più antica del cimitero, la più alta e bella che il tempo non è riuscito a falciare con la sua potentissima forza distruttiva ed è per noi messinesi, fonte di orgoglio e di tradizioni veramente superbe e meritevoli, oltre che un saggio di arte e scultura non indifferenti come vanto per la città. Infatti è bene ricordare che il Cimitero di Messina risulta essere il secondo d’Italia per grandezza e trova posto tra i più belli in assoluto, non solo in Italia. Ed è proprio da quella parte, cioè dal Conventino, che nacque il Cimitero di Messina. E il Conventino oggi vive imperterrito ma totalmente nell’abbandono e senza anima viva.
È un luogo altissimo, calmo, silenzioso che ispira timore ma contemporaneamente pace e meditazione. C’è d’averne paura ma lo si va a cercare. Molti sono i nomi illustri che vi sono sepolti ma, per ragioni di tempo, mi limito a non enunciarli per motivi di non particolarità, essendo tutti degni d'essere menzionati.
 Ed adesso, cari lettori, dopo avervi fornito queste notizie storiche che sono servite a farvi gustare meglio il racconto, scopriamo insieme la struttura architettonica della chiesa, in maniera molto sommaria per non distrarvi troppo dalla trama e dalle vicende del racconto stesso.
.
  DINANZI E DIETRO LA CHIESA
Dinanzi la chiesa l’atmosfera è magica, celestiale, mistica, rapisce e trasporta. È difficile descrivere così tanta bellezza. Ma è mio dovere provare almeno a farlo. Proprio all’entrata, la prima impressione che si ha, è quella di essere aspettati da tempo con un’attesa quasi bramosa. Sembra esserci una festa pronta ad esplodere quando vi si entra dentro. La chiesa è stupenda, pittoresca, neanch’io so spiegarmi come abbia fatto a resistere al forte terremoto del 1908 pur essendo così alta, un sisma devastante che ha raso al suolo l’intera città dello stretto. Tutta in stile ottocentesco, la chiesa ha una porta color rosso porpora, poi s’erge maestosa ed invincibile con due colonne laterali imbattibili che sembrano sfiorare il cielo. Al centro, la chiesa sale sempre più su progressivamente, restringendosi via via che s’avvicina alla cima. A circa metà della sua altezza, vi è una finestra senza più vetri e un balcone arrugginito sempre attorniati da colombi ed altri uccelli melodici.
Il vento apre e chiude dolcemente la finestra, il sole riflette su di essa e agli occhi di qualunque osservatore, sembra di vedere affacciata una dolce ragazza ottocentesca vestita di bianco che guarda, saluta, ride, scompare e riappare e poi scende giù di corsa per le scale, apre la porta della chiesa e gli corre incontro con i capelli al vento.
 Dietro la chiesa si avverte un fascino tutto particolare e suggestivo. Vista di spalle sembra quasi magica, finta, appartenere a un mondo irreale, fiabesco ed è ancora più bella. S’affaccian piccole finestrelle come tanti oblò che a un certo punto spariscono, finché s’erge una cupola che inizia grossa e s’invola fine, fino a confondersi con l’azzurro del cielo.
   ALL’INTERNO DELLA CHIESA
Ed io mi trovavo lì per la prima volta davanti alla chiesa e stavo per varcare la soglia.
Quella porta color rosso porpora sempre chiusa, l’unico giorno che desideravo ardentemente entrarvi, stranamente la trovai socchiusa in atto di chi invita a farlo. Cautamente, portando avanti il piede sinistro, poi il destro, tastando con la mano, aiutandomi con un pezzo di legno trovato lì per difendermi da possibili spiacevoli incontri, un po’ come quel cieco che cammina aiutandosi col tatto sconoscendo ciò a cui va incontro, io pian piano, in questo modo entrai. La prima vista varcando la soglia, fu quella di una stanza polverosa, vuota, abbandonata da tanti anni ormai. Il silenzio veniva interrotto a squarci da strani rumori che ora vi entravano, ora vi uscivano dalla finestra, perché quella stanza aveva una finestra sbarrata, arrugginita che sporgeva dietro la chiesa verso altre tombe. Ai lati del tetto v’erano appesi due quadri che portavano foto raffiguranti due Madonne quasi sbiadite. I due quadri erano piccoli e le due Madonne però erano diverse l’una dall’altra. Una aveva l’espressione triste, compianta, l’altra sembrava un po’ più rassegnata certa di trovare ristoro nella carità cristiana, nell’aiuto di Dio. Nel guardare quei quadretti che spiccavano in mezzo al muro bianco, in parte smangiato, mi vennero in mente tutti coloro che dovevano essere ricoverati lassù in tempi passati, confortati dall’aiuto della Madonna ed io immaginavo i dolori, i pianti, le preghiere, le invocazioni che ora tornavano come un’eco nella stanza che sembrava pacata, addormentata, serena, straordinariamente elevata al cielo. In cima al tetto, v’era appeso un lampadario a forma di cerchio che teneva strette delle lampadine spente, alcune delle quali consumate dal tempo, come quelle candele che vengon meno affievolendosi dinanzi all’altare. Da quella stanza, vi si entrava in un’altra tramite un’apertura uguale alla prima però senza più porta. Entrando, per terra, vi erano pezzi, schegge di legno penso della porta stessa. In quell’altra stanza di dimensioni e di atmosfera simili alla prima, io vedevo la cosa più bella: un crocifisso intatto, vivente, a grandezza d’uomo, con uno sguardo fisso che sembrava dire: “Venite a me voi tutti che siete afflitti ed io vi consolerò”, e chissà quanti moribondi del passato così han fatto. Intorno alla stanza, v’erano delle sedie, almeno una ventina, alcune delle quali rotte. Penso servissero per ascoltare la messa, lo capivo infatti osservando un vecchio incensiere abbandonato per terra come un barbone addormentato, e lì vicino, boccette di vetro, calici e roba simile che riconducevano facilmente alla comunione e all’estrema unzione, sacramenti che accompagnavano e insieme infondevano speranza in quel luogo di sofferenza e disperazione. Sopra quel crocifisso carismatico che io continuavo ad ammirare del tutto rapito, v’era una chiesetta in miniatura uguale a quella dove io mi trovavo. Credo che sia stata posta sopra l’immagine del Cristo, per simboleggiare l’elevazione divina dei perseguitati dalle malattie verso Dio stesso, tramite suo figlio Gesù. La terza ed ultima stanza nel bassopiano della chiesa, era anch’essa come le altre, anch’essa conteneva delle sedie, una decina circa, sparse sparpagliatamente. Per terra, v’era un escremento umano che mi fece intuire che qualcuno prima di me, doveva essere salito fin lassù, mi domandavo chi, visto che la porta la trovavo sempre chiusa.
Nell’angolo più nascosto della stanza, come un cane orfano del padrone singhiozza e s’accovaccia per terra, silenziosamente, così v’era posto un organo con una tastiera unica e scordata, da tempo mai più suonato.
Io, d’istinto, mi avvicinai e provai a schiacciare quei tasti polverosi e molli ma non vi usciva suono, solo silenzio, eppure io avvertivo, nel tastare quell’organo, una celestiale melodia che sembrava trascinarmi in paradiso.
E pensavo che tutti coloro ch’eran morti lì, e furono davvero tantissimi, ora dovevano essere felici per l’eternità. E così la mia pietosa compassione divenne certezza, come il chiarore d’una luce lontana che si scorge alla fine di un tunnel, in mezzo a tanto buio. Non so dirvi cari lettori, se quelle strane sensazioni che avvertivo lì dentro, erano dovute a fenomeni paranormali o a suggestioni naturali, certo è che sia l’una, sia l’altra ipotesi eran perfettamente valide visto la misteriosità di quel posto.
Poi, di colpo, restai senza fiato ed immobile e cominciai subito dopo con passi certi e misurati, a dirigermi verso un sottoscala dove saliva una scala pericolante a chiocciola. Lentamente provai a salire cercando di arrivare in quella finestra misteriosa per affacciarmi anch’io da dove sembrava ci fosse il fantasma d’una dolce ragazza vestita di bianco con i capelli al vento, ma più salivo e più mi accorgevo che il rischio aumentava. La scala infatti cominciava a cigolare, era fatta di uno strano tipo di legno.
Io, ormai del tutto rapito da quell’incantesimo, ero lì deciso a salire sino in cima come se quella scala simboleggiasse il mistero ma, ad un certo punto, la vidi spezzata, non ho mai saputo il perché né se poi più su sarebbe ritornata sana, ma l’impressione che ebbi in quel momento, fu quella che qualcuno o qualcosa inspiegabile, non volesse farmi arrivare nemmeno ad un quarto dell’altezza di quella chiesa. Così, deluso, ritornai indietro, chiusi la porta, e ormai coraggioso e forte, mi avviai al di fuori per scoprire fra le antiche tombe, quella che ormai sembrava fortemente vicina, sembrava fortemente chiamarmi.
 TRA LE ANTICHE TOMBE
Non appena uscii dalla chiesa, mi trovai perso tra le tombe antiche dell’Ottocento, ma nello stesso tempo ero felice perché sentivo che quell’entità che mi stava chiamando, era vicina anche se molto probabilmente perduta fra tutte quelle che mi circondavano. Mi trovavo in un vialetto, una specie di villa tutta stile ottocentesco. Al centro, come una passerella, vi era una strada lunga e stretta che finiva proprio davanti alla porta della chiesa. Ai lati di questa specie di passerella, tra l’erba altissima, si protendean fiere le tombe dell’Ottocento.
Erano tantissime, una accanto all’altra, una più insigne dell’altra. Da lontano mille statue, mille volti, sembravano uno solo che mi guardasse, che mi spiasse, sì mi spiasse, perché l’impressione che chiunque salisse lassù proverebbe, sarebbe quella di essere attentamente spiato, osservato con un occhio meticoloso e scrupoloso, come se tanta gente sconosciuta ed invisibile, vivesse con lui e intorno a lui, in altre dimensioni. Tutto ciò a me non suscitava paura. Io mi sentivo come uno straniero che dopo un lungo e faticosissimo viaggio, scampato fortunatamente ad un grave pericolo, superstite e sopravvissuto insieme, si trovasse involontariamente in un luogo prima d’allora sconosciuto, in mezzo a gente strana ma ospitale e cordiale che gli fa tanta festa, proprio perché mai nessuno da tempo veniva a trovarli. Così, con questa impressione, sentendomi ben accetto e perfettamente a mio agio, io camminavo scrutando le tombe una per una, leggendo e rivivendo la storia gloriosa d’ognuno di loro, osservando i loro volti, le loro espressioni, i loro baffi lunghissimi, i loro vestiti così strani per i giorni nostri, ma così nobili, così perfettamente intonati. Vi erano anche i bambini di quel secolo, vestiti come tanti marinaretti, in particolare mi colpì uno di loro di circa nove anni che io volli chiamare col nome di Beniamino. Cari lettori, non posso descrivervi come vorrei, una per una, quelle numerosissime tombe, sarebbero davvero troppe e non sarebbe giusto nominarne alcune e altre no, quindi essendo tutte interessanti, mi limito a dirvi che vorrei prestarvi per un attimo i miei occhi che le han viste già, per farvi capire quanto in realtà erano belle e pittoresche.
Completamente assorto in un mistico silenzio, ad un certo punto, sentii dentro di me, una voce fortissima che mi chiamava da una direzione ben specifica e mi trovai, inconsciamente sospinto, di fronte ad una strana tomba antica, anch’essa dell’Ottocento. Restai ancora più silenzioso e assorto. Vedevo questa tomba. Provavo a darle un’immagine, una sagoma, una figura visto che non v’era un volto. Cercavo di immergermi nella sua lontana vita. Mi domandavo chi fosse, perché mi stesse chiamando, che cosa volesse da me, dove si trovasse la sua anima adesso, se mi vedesse, se mi sentisse, se fosse magari vicino a me. Come il contrapposto del mare che in profondità è pieno di vita, di alghe che nascono e muoiono, di pesci che mangiano altri pesci, di continue lotte per sopravvivere, e in superficie appare immobile e tranquillo, così erano i miei mille interrogativi che all’esterno non trasparivano perché io ero apparentemente calmo. Quella pietra era per me come una dolce ninnananna che cullava e portava a riposare tutti i miei incessanti pensieri. Il suo silenzio profondissimo era la sola ed unica risposta. In quella tomba senza un volto, v’era scritto semplicemente: “A Marietta Cianciolo, di Domenico Cianciolo e di Enrichetta Stagno d’Alcontres” e poi sotto: “D’animo e di modi soavissima, ebbe celestiali virtù, serena bellezza, e non compié 17 anni. O amore nostro, come faremo infelici senza di te?”. Chi era questa strana ragazza protagonista del racconto? Com'era la famiglia dalla quale proveniva?
A questo punto, cari lettori, è necessario che io interrompa un attimo il corso degli eventi narrati, per soffermarmi sull’identità di questa strana ragazza, vissuta per quasi 17 anni, protagonista del romanzo. Devo quindi parlarvi indirettamente della famiglia Cianciolo di cui la ragazza portava il cognome, tralasciando di fornirvi informazioni sulla famiglia Stagno D’Alcontres che riguarda invece la madre di lei.
Vorrei aggiungere soltanto che in quel periodo nascevano molti matrimoni tra persone che appartenevano a famiglie nobili e quindi dello stesso alto ceto sociale proprio in virtù delle amicizie che intercorrevano tra le famiglie medesime. Da uno di questi matrimoni, nacque Marietta, la protagonista del mio romanzo. Essendo quindi figlia di nobili, era stata sepolta in quel posto.
    NOTIZIE STORICO-BIOGRAFICHE SULLA FAMIGLIA CIANCIOLO
 I Cianciolo vissero agli inizi dell’Ottocento un po’ a Termini Imerese, un po’ a Santo Stefano di Camastra, allo stato di nobili in decadenza, di origine nobiliare antichissima.
Nella metà dello stesso secolo, le guerre e le continue epidemie che colpirono la Sicilia specie la zona di Palermo, dovettero farli emigrare a Messina, più relativamente tranquilla. In poco tempo i Cianciolo presero in mano la città a causa di numerose cariche politiche che erano state a loro attribuite. Dalla conoscenza di altre famiglie altolocate messinesi, crebbe in particolare l’amicizia che poi si tramutò in parentela grazie a parecchi matrimoni, con la famiglia dei Principi Stagno d’Alcontres che ancora oggi fa sentire la propria autorità sulla città, sia pure in forma minore essendo ormai in via d’estinzione il ceppo di famiglie nobili. Per ragioni di non esclusivo rapporto col racconto, ricordo ancora una volta, di non voler dare accurate informazioni sui Principi d’Alcontres, e di volermi invece soffermare sulla stirpe nobiliare, ormai estinta, dei Cianciolo, prendendo ora in esame le caratteristiche nobiliari di suddetta famiglia.
  CARATTERISTICHE NOBILIARI DEI CIANCIOLO
L’arma cioè lo stendardo dei Cianciolo, era di colore azzurro, al braccio destro di carnagione alias armato al naturale impugnante una mazza di nero circondata da tre stelle d’argento.
Il nonno di Marietta, barone Vincenzo Cianciolo, patrizio messinese, tenente colonnello di fanteria, cavaliere mauriziano e della Corona d’Italia, decorato della medaglia d’argento al valor militare, figlio del barone Giuseppe e del fu barone Vincenzo e della prima moglie Girolama Aidone degli antichi Principi d’Alcontres e della fu Lucrezia Giano.
Il fratello di Marietta, Ernesto, assessore municipale, cavaliere della Corona d’Italia, due volte sindaco di Messina.
Il padre di Marietta, Domenico, già senatore di Messina, figlio del fu barone Vincenzo e della seconda moglie Maria Balsamo dei Principi dei Castellacci, marito di Enrichetta Stagno d’Alcontres dei Principi d’Alcontres.
Mentre la famiglia Stagno d’Alcontres continua ad esercitare un certo potere anche oggi sulla città, in forma minore, così non lo è per la famiglia Cianciolo che è decaduta a livello di nobiltà. Infatti, dopo accurate ed approfondite indagini, sono venuto a conoscenza che i pochi ceppi della famiglia suddetta esistenti attualmente, non sono neppure a conoscenza della loro antica nobiltà, neanche per sentito dire. Comunque oggi nella città di Messina, è rimasta solo una via che richiama a questa gloriosa famiglia ed è stata intitolata a Vincenzo Cianciolo, che era il nonno di Marietta, come precedentemente accennato.
Lasciamo da parte, cari lettori, le notizie storiche sulla famiglia Cianciolo e andiamo invece a descrivere quella che è la tomba di Marietta.
   DESCRIZIONE DELLA TOMBA DI MARIETTA
Situata proprio alle spalle della chiesa a una decina di metri circa, era visibile anche da molto più lontano. Portava in alto un marmo di circa 3 metri, rettangolare, firmato dallo scultore Antonio Saccà che era uno dei più illustri scultori messinesi dell’Ottocento. In cima al marmo completamente bianco con qualche disegno artistico dello stesso colore ma un po’ più ricalcato, vi era un cerchio dove sicuramente doveva esservi stato il volto di Marietta che stranamente, era sparito, forse solo da quella tomba, poiché i volti delle altre statue erano ancora tutti al loro posto. La mancanza di esso, la deducevo dai segni che erano ancora visibili all’interno di quella specie di cerchio creato apposta per inserirvi il volto stesso. Alla base, la tomba era completamente nuda senza l’ombra d’un fiore, come del resto ogni tomba di lassù, era davvero troppo il tempo passato dalla sua morte. Circondata da erba alta non curata e da trifogli, aveva intorno una catena arrugginita che avvolgeva completamente la sua lapide e quella del padre che era sepolto, accanto alla figlia, dentro la stessa catena. La tomba di lui però, anche se uguale per struttura e dimensione a quella di Marietta, aveva il volto infisso sul marmo. Era un uomo anziano, Domenico Cianciolo, un volto pallido, sereno, occhi incavati ma dolcissimi che mostravano una bontà delicata, velata, un’educazione composta, si vedeva dallo sguardo che era un nobile. La tomba più vicina a quella di lui e della figlia, era posta alla immediata destra, un paio di metri distante. Apparteneva ad una neonata vissuta appena 10 giorni dal 7 al 17 aprile del 1872. La bimba, dal nome non italiano, si chiamava Aline Wolf. Era una tomba a forma di bara di dimensioni uguali alla piccolissima bambina morta.
Il coperchio era addirittura mezzo scoperto, e lì sopra mi sedetti io a contemplare la pietra di Marietta, fra due tombe, una di una bambina di 10 giorni, l’altra di una ragazza di 16 anni che mi ricordarono ciò che io da sempre sapevo, che la morte non ha età. Ad esser sincero, non è che la tomba di Marietta avesse qualcosa, dal punto di vista estetico, di superiore rispetto alle altre, anzi ve ne erano di molto più belle anche di ragazze della sua stessa età, ma quella tomba era straordinariamente diversa da tutte le altre, sembrava vivere, parlare, gridare, pareva avesse un disperato bisogno di comunicare con me. Cominciarono così le mie illusioni sulla sua tomba mentre mi addentravo sempre più in questa storia che ha veramente dell’insolito, dell’incredibile.
  ILLUSIONI SULLA TOMBA DI LEI
E così, quasi tutte le mattine, io salivo lì illudendomi di farle compagnia, di parlare con lei e di essere ascoltato. Nonostante fossi arrivato all’ultimo anno delle scuole superiori e quindi prossimo agli esami di maturità, avevo quasi smesso di studiare. La mattina, anziché andare a scuola, mi recavo al cimitero. Il pomeriggio, invece di studiare, frequentavo biblioteche e archivi storici per avere notizie sulla vita passata di lei. Ero diventato proprio un folle o forse lo ero anche prima, ma Marietta mi diede il famoso colpo di grazia. Ero perso, irrecuperabile. Di questa storia non ne parlai mai con nessuno né con amici né con i miei genitori. Volevo restasse un segreto ed ero consapevole che, anche se l’avessi detto a qualcuno, nessuno mi avrebbe capito e creduto, nessuno avrebbe potuto giustificare il mio comportamento. Ma ero felice così, non volevo coinvolgere nessuno, solo io e lei e nessun altro. Non mi importava più di nulla ormai né degli amici né della scuola, avevo trovato il mio vero motivo per vivere. Non esisteva pioggia o temporale capace di fermarmi, io ero lassù, ai piedi della sua pietra, col freddo e col caldo, col sole o con i fulmini. Le portavo rose sempre fresche, le compravo nuovi portafiori, curavo la sua tomba nei minimi particolari, guai se v’era un insetto fuori posto, io la rimettevo subito come doveva essere. In poco tempo, nonostante fosse una tomba antica, era diventata la più bella e curata dell’intero cimitero grazie a me. Vivevo immerso in queste magiche illusioni senza che lei mi avesse dato, in quei giorni, alcun segno di gradire le mie attenzioni. Io, nell’ingenuità della mia giovane età, mi ero quasi convinto che ormai lei fosse la mia ragazza. Ma la cosa più bella che ho fatto in quel periodo è stata quella di scriverle, proprio come un innamorato, tre poesie che ora sottoporrò alla vostra attenzione, cari lettori, inserendole nel racconto in sequenza, una dopo l’altra, spezzando forse un po’ la trama del racconto, ma dando allo stesso, almeno mi auguro, una certa inclinazine poetica.
 A TE MARIETTA (1855-1872)
A te Marietta!
che se sei stata la gioia, l’amore di qualcuno.
A te Marietta!
che non ti ho vista mai.
A te che t’immagino come un fiore
che sboccia, fiorisce e muore senza dolore:
chi potrà mai piangere o lodare
la tua cruda e gelida pietra
che forte ed imperterrita
sembra sfidare la collera del tempo?
A te Marietta!
che ti penso sempre
come una dolce ragazza vestita di bianco
che con il bruno dei tuoi capelli
formi un vistoso e sublime color di primavera
a te che guardando la tua tomba
mi s’incenerisce il cuore.
A te Marietta!
che nessuno un volto ti sa dare
e che con insistenza la tua immagine m’immerge
nel lontano passato della tua vita.
Non so chi tu sia stata
né saprò mai il motivo della morte che presto ti colpì
ma so con certezza che questa è la tua pietra
e che in essa il tuo corpo giace.
A te Marietta!
scrivo queste righe
per aggrapparmi all’illusione di un lontano ricordo
che mai ci fu.
Dedicata a colei che brevemente fu
e che mai in vita conobbi
-----------------------------------------------------------------------------------------------
   L’IMMAGINE
Un bagliore improvviso
squarcia la mia mente assente
e dall’ignoto all’ignoto
ora fugge ora torna, ora torna ora fugge.
Pallida e soave
di dolcezza inebriata
m’appar dinanzi
ancor e sempre.
Nitida sagoma,
a tratti t’avvicini
di colpo, opaca t’allontani.
Le sciolte tue trecce
dal terreno mondo sembran distaccarmi
trascinandomi in sconosciute dimensioni
dove neanch’io so chi ero, chi sarò.
Fulgidi gli occhi tuoi
m’abbaglian forte
ed io ti sento in me
o sconosciuta immagine
di profondo mistero velata.
Non un volto, non una realtà
solo negletti ed esili fiori
ed un’antica tomba assopita accanto
per trattenere forte
l’enigma della tua sorte.
-------------------------------------------------------------------------------------------
 DESCRIZIONE D’UN RITRATTO FUNEBRE
 Da lassù, in uno strano sogno, Marietta mi narrò del giorno in cui morì.
Quel suo lontano ricordo del 28 settembre 1872.
 “Ancor limpido era il sole della mia giovinezza
anche se lì fuori con pioggia e vento
battea la morte alla mia porta
e con voce certa ma affannata forte mi gridava:
«Vieni Marietta, presto vieni».
Ricordo lontanamente che in un primo momento
un brivido di paura m’assalia fino a farmi tremar
ma poi aprendo nuovamente gli occhi
il composto sguardo di mio padre il mio coraggio mi ridiede
e mentre un prete mi donava l’estrema unzione,
io sentivo di dover andare fra le secrete cose.
Scendean dalle scale le mie cugine
tristi apparentemente ma contente e fredde nell’animo,
mi facean pena vederle illudersi ancor
di quella lor vana ricerca della terrena bellezza
che come un fiore dal petalo si strappa
e appassendo muore.
Suonava l’organo un bimbo mai in vita conosciuto
ma che allora sembraa d’averlo visto da sempre
e in quella dolce musica
stancamente mi si chiudean gli occhi
mai rinnegando quella serena bellezza
che sempre in vita m’avea contraddistinta.
L’ultimo mio sguardo nel pallore della morte
era rivolto verso mia madre
che addolorata ma mai rassegnata
l’ultimo bacio mi donava.
Ed ora dopo che il tempo tante orme ha cancellato
i miei pensieri son tanti ieri che nell’ignoto fuggon lontano
ed il mio oggi così come domani è armoniosa luce”.
 E fu così
che dal sogno mi destai
completamente assente.
-----------------------------------------------------------------------------------------------
APPARIZIONE D’UNA FIGURA SOGNANTE
I giorni passavano in fretta, ne erano trascorsi una ventina circa dal giorno in cui vidi per la prima volta la tomba di Marietta, ed eravamo quasi alla fine del mese di gennaio. Io mi addentravo sempre più in questa insolita storia, lasciandomi ormai del tutto rapire dalla forza dei miei sogni, della mia fantasia, della mia immaginazione. Non riuscivo più a distinguere il limite oltre il quale il sogno svanisce per far subentrare la realtà. Sogno e realtà erano diventati per me un tutt’uno. Vivevo la mia illusione con gioia, entusiasmo, voglia di avvicinarmi sempre di più finché, proprio verso la fine di gennaio dell’anno 1984, quello che da sempre sognavo, stava per trasformarsi in realtà e avvenne così quello che più ci penso e più mi accorgo che ha dello straordinario, dell’incredibile. Finalmente ora, io potevo vedere Marietta.
Dolcemente chinata, quasi curva su quella che era la sua tomba, di abiti ottocenteschi vestita, illuminata da un raggio di luce come un tremulo brillio rapito così fugacemente dall’infinita luce divina, la vidi mentre coglieva quei fiori che io stesso le avevo portato sulla sua pietra. Li coglieva uno dopo l’altro fino a formarne un mazzo, poi si slegò una treccia dal bruno dei suoi capelli, e legò insieme quei fiori dai colori misti che profumavano di primavera. Io la osservavo attentamente, meravigliato e confuso, ma senza aver paura, una figura così sublime non poteva infondere timore ma solo tenerezza e profonda commozione. L’unica cosa che riuscivo a connettere nella magia di quell’istante, era che quella ragazza che stavo osservando, aveva un aspetto identico a come io stesso l’avevo immaginata.
Poi lei alzò il capo dolcemente, mi guardò e mi sorrise mostrandomi lo splendore d’un volto angelico pallido e soave, contornato da un alone di mistica bellezza, puntando i suoi occhi scuri penetranti, dritti e fissi sui miei, ed io, non potendo pur volendolo spostare i miei occhi in nessun’altra direzione, sostenni come ipnotizzato il suo sguardo.
E fu così che in quella mattina di gennaio, nobile nel portamento e aggraziata nei gesti, misteriosamente affascinante lei mi apparve.
Ha avuto inizio così il primo dialogo con lei. Abbandono, ma solo per la parte relativa ai dialoghi, la narrazione in prima persona, per darvi una lettura più oggettiva dell’avvenimento.
  IL PRIMO INCONTRO
Manuel: Ma tu chi sei?
Marietta: Io sono Marietta, la ragazza che tu stai cercando.
Manuel: Ma non è possibile, è assurdo, non può essere, io sto sognando, ho un’allucinazione. Tu sei morta, non puoi essere viva.
Marietta: Sì Manuel, io sono morta ma posso rinascere grazie ai tuoi sogni, alla tua fantasia, alla tua immaginazione. Tu sei un ragazzo capace di trasformare in sogno e poesia la realtà ed è per questo che io ho voluto premiarti.
Manuel: No, non può essere, tu sei solo il frutto della mia immaginazione, la proiezione dei miei sogni, non puoi essere quella ragazza morta nel 1872.
Marietta: Sì Manuel, sono proprio io invece, la ragazza morta tanto tempo fa. Io ti conosco ormai, so chi sei, ti seguo da sempre, sono molto più vicina di quanto tu possa pensare. Io sono viva, viva, viva.
Manuel: Troppo forte! Ma allora è meraviglioso. Ma tu ci pensi? Ti rendi conto? Tu eri morta per modo di dire ed io sono ancora vivo ma nonostante questo io ti vedo, ti parlo, ti sento come se il tempo non fosse mai passato. Mio Dio, è troppo bello! è meraviglioso.
Marietta: Sì Manuel, e questo è avvenuto grazie alla forza creativa dei tuoi sogni.
    COME LA VEDEVO
La sua voce era dolce e comune a quella di tante altre ragazze della mia città. Aveva infatti quel tipico accento messinese che si percepisce subito, specie per chi viene da fuori, pur parlando in perfetto italiano. Quella sua voce fina, contrastava un po’ con quel suo aspetto angelico, non perché non fosse gradevole all’orecchio, ma perché non possedeva quell’alone di mistero che era invece riscontrabile nella sua figura. La voce insomma sembrava più reale e umana del suo aspetto. Man mano che mi parlava e le nostre conversazioni diventavano più intime, anche la sua immagine si faceva via via sempre più normale, fino ad abbandonare del tutto quel non so che di inquietante e misterioso che aveva in lei quando mi apparve per la prima volta. Ad un certo punto, la sua fisionomia divenne talmente reale da sembrare assolutamente umana, tanto da poter essere scambiata tranquillamente per qualunque altra ragazza. L’unico indizio che mi riconducesse alla sua vera natura, mi era fornito dal suo abbigliamento che era del tutto ottocentesco e quindi la rendeva inevitabilmente diversa. Tutto questo però non sottraeva nulla al suo fascino ma la faceva apparire straordinariamente viva e reale, appartenente appieno alla mia dimensione, facendomi sentire perfettamente a mio agio con lei. Indossava un lungo vestito bianco che le donava molto e che le arrivava fin quasi ai piedi, con dei ricami fantasiosi dello stesso colore ma che si notavano perché d’un bianco più intenso. Era un vestito leggero e primaverile anche se a maniche lunghe in forte contrasto col periodo invernale di allora. Mi appariva vestita sempre allo stesso modo. Le scarpe erano nere, senza tacchi, anch’esse primaverili ma mi sembravano uguali a quelle usate ai giorni nostri.
Sicuramente dovevano essere per forza ottocentesche ma io, forse perché da sempre ignorante in fatto di moda, non lo capivo. A me davano quasi l’impressione di essere le scarpe di Cenerentola ed io mi sentivo il famoso principe azzurro. Il suo fisico era snello, non grasso e non magro, perfettamente giusto, adatto a indossare qualsiasi tipo di vestito. Le sue forme delicate non apparivano troppo evidenziate né particolarmente seducenti. Era alta quasi quanto me, 1,70 circa. La sua carnagione chiara era più da ragazza nordica che da siciliana ma serviva a farle aumentare il fascino perché spiccava col bruno dei suoi capelli e col nero degli occhi, quegli occhi sempre puntati sui miei quando mi parlava, quasi non riuscisse mai a distrarsi tanto da procurarmi un certo imbarazzo, una sottile pudica timidezza.
Il suo volto aveva perso quel pallore angelico, diventando d’un colore normale, persino solare. Le sue ciglia, il suo naso, i denti, la bocca, tutto di lei mi appariva perfetto senza nessun difetto. Era il suo un viso acqua e sapone, senza trucco, dai lineamenti delicati, che dimostrava esattamente la sua età, quasi 17 anni. Era sicuramente carina, direi bella ma non bellissima, non era dotata di un fascino eccelso. Mi sembrava umana, terribilmente umana.
Non faceva smorfie di nessun tipo né cambiava spesso d’umore ma aveva un bel carattere, sempre allegro, disponibile al dialogo, socievole. Dolce nei gesti, aveva però un qualcosa di alterato nel portamento, involontario, forse perché era nobile. I suoi capelli erano bellissimi, lunghi ma non troppo, ondulati, le arrivavano fino alle spalle. Erano bruni, del colore che a me piaceva di più in una ragazza, si era completamente tolta le trecce. Era, in conclusione, una ragazza normalissima, tranne un piccolissimo e irrilevante particolare, era morta più di cento anni fa.
Da questo momento in poi, il racconto assume le vesti del dialogo che io ho voluto chiamare “Dialogo della semplicità”, per mettere in evidenza come nella semplicità, e quindi nella purezza incontaminata dei sogni, si possono vivere esperienze ed emozioni trascinanti, uniche, di altre dimensioni.
  DIALOGO DELLA SEMPLICITA'
Marietta: Grazie Manuel per essere venuto a trovarmi.
Manuel: Figurati, lo faccio con piacere. Parliamo un po’ di te, vuoi?
Marietta: Certo.
Manuel: Come passavi il tuo tempo libero?
Marietta: La mattina uscivo con mia madre oppure con mia cugina o qualche amica, questo quando non c’era la scuola, specie nelle vacanze.
Manuel: Ma tu eri brava a scuola?
Marietta: Moltissimo, ero la prima della classe. Pensa che quando sono morta, i miei compagni, le mie compagne, i miei professori erano tutti al mio funerale. Molti di loro piangevano. Alla fine mi hanno fatto un applauso lunghissimo.
Manuel: Fino a che classe sei arrivata?
Marietta: Fino quasi alla fine cioè alla terza media. Ai miei tempi chi aveva la licenza media era come un laureato dei tempi tuoi. Io perché ero nobile ero istruita, ma quasi tutti gli altri ragazzi lavoravano o facevano solo la scuola elementare.
Manuel: Con tuo padre andavi in giro a fare passeggiate?
Marietta: Sì, ma poche volte, era sempre impegnato con la politica, era senatore. Ricordo che mi portava al teatro. Sai, era un padre affettuosissimo e premuroso, nel senso che la politica restava fuori dalla famiglia. Ogni Natale mi portava i regali più belli. Avevo un albero favoloso, ricco di colori e sorprese.
Manuel: E che volevi di più dalla vita?
Marietta: Tutto ancora, ma mi è stata tolta e forse è stato meglio così. Non rimpiango proprio nulla di ciò che avevo sulla terra. Dio mi ha fatto dei doni molto più belli ed eterni. Le sue idee non sono quelle degli uomini.
Manuel: Ma tu eri felice, orgogliosa di essere figlia di nobili o preferivi essere nata normale o magari povera?
Marietta: Per me era indifferente. Sono sempre stata modesta. Non ho mai avuto arie. Poi, del resto, non sarebbe stato merito mio, così come sono nata nobile, potevo benissimo nascere povera. Sono nata nobile ma non sono morta lo stesso? La ricchezza terrena non vale niente, è quella dell’anima che conta.
Manuel: Eravate ricchi?
Marietta: Assolutamente no! Ma che cosa ti sei messo in testa, che avevamo castelli giganteschi come quelli delle favole? Ai miei tempi c’erano un’infinità di problemi, tante malattie incurabili, addirittura il Regno d’Italia era stato proclamato da poco, c’erano tante rivalità tra gli uomini, tanti contrasti.
Manuel: Vedo che sei molto preparata in storia!
Marietta: Ma no, certe cose si sapevano per sentito dire. Noi abitavamo in una casa un po’ più grande delle altre a livello terra. Sai dove? In centro, al Corso Cavour, allora si chiamava così e non so se esiste ancora, le strade erano molto diverse da quelle di oggi. Io ricordo che avevo una stanzetta che sporgeva su un mercato e c’era sempre tanto traffico, tanta confusione con tutta la gente che andava a comprare. In realtà non c’era molta scelta nel mangiare, c’era frutta, pesce, uova, poca carne ma comunque era tutta roba genuina. C’era miseria in quel periodo.
Manuel: Come fai a dirmi che non eravate ricchi? Non ci credo.
Marietta: Ricchi per modo di dire, avevamo più dei poveri, proprietà terriere soprattutto, te l’ho già detto, c’era povertà, non poteva parlarsi di vera e propria ricchezza. E poi io ero piccola per interessarmi a queste cose. I soldi, la politica per me era come se non esistessero. Vivevo semplice con celestiale virtù e serena bellezza, proprio come ha fatto scrivere mio padre sulla mia tomba. A proposito di mio padre, sai, ha sofferto molto quando sono morta! Ero l’unica sua figlia, era particolarmente attaccato a me, mi voleva bene. Avevo anche un fratello, Ernesto, era un anno più piccolo di me. Pensa che è stato per due volte sindaco di Messina. Lui è morto a 49 anni nel 1905. Vedi questo signore sepolto al mio fianco? È mio padre, è morto 12 anni dopo di me, come vedi la morte non ha età. Guardalo bene, trovi che mi somiglia? Dicevano tutti che mi somigliava moltissimo. Lui il volto ce l’ha ancora sulla tomba, il mio si è rotto col terremoto del 1908. Ma cosa importa? Tanto tu mi vedi lo stesso.
Manuel: E tua madre? Tua madre dov’è sepolta? Come mai non è qui con te?
Marietta: Lei è sempre vicino a me. Qui al cimitero non so dove sia sepolta. Forse perché appartiene alla famiglia Stagno d’Alcontres sarà in qualche altro posto. Sai, c’è pure una mia cugina morta a 14 anni sepolta dove ci sono i bambini del mio secolo, il suo cognome era proprio Stagno d’Alcontres.
Manuel: Io ho fatto delle ricerche su di te e ho notato che nello schedario della tua famiglia risultano proprio tutti, tranne te. Come mai?
Marietta: Non lo so, è strano. Forse perché ho vissuto talmente poco e non sono stata né sposata e né in politica.
Manuel: Ai tuoi tempi si sposavano presto?
Marietta: Sì, almeno il più delle volte. C’erano molti matrimoni che venivano stabiliti dai genitori. Comunque mio padre e mia madre si amavano veramente.
Manuel: Che facevi nel tuo tempo libero?
Marietta: Un po’ di tutto. Disegnavo, mi piaceva molto. Dipingevo il sole, il mare, la natura, paesaggi. Mi piaceva andare a cavalcare, avevamo un cavallo piccolino, si chiamava Puffy. Leggevo libri d’avventura, libri d’amore, scrivevo poesie. A proposito. Ho letto quella poesia che mi hai dedicato. È bellissima, mi ha colpita fino a farmi scappare le lacrime. È insolita, irreale, strana proprio come noi due che siamo qui a parlare da tanto tempo. Per noi è tutto così naturale, per gli altri magari è solo follia, fantasia. Eppure noi due siamo reali. Perché non provi a scrivere un libro sulla storia di noi due?
Manuel: Mi prenderebbero per pazzo, non lo leggerebbero neanche. Ma tu eri romantica? Ti piaceva la musica?
Marietta: Sì, Manuel, ero romanticissima come te e amavo la musica che era molto diversa da quella rumorosa di oggi. Mi ha fatto piacere che tu ti sia comprato un disco con la musica dell’Ottocento, così ti ricordi di me. Ma sei ancora convinto di volerti fare una tomba vicino alla mia?
Manuel: Certo che lo sono, vorrei essere sepolto vicino a te, quando sarà.
Marietta: Ma tu sei completamente pazzo, ma come puoi pensare una assurdità simile?
Manuel: Perché? Mi è sempre piaciuta questa zona del cimitero, queste tombe antiche. Ma sicuramente non me lo permetterebbero. Qui possono starci solo le tombe del tuo secolo.
Marietta: E meno male, così almeno cancelli dalla tua mente una idea simile. Ascolta Manuel, anch’io amavo come te la vita terrena, ogni cosa, un fiore, un insetto, un bimbo, una stella, una coccinella. Chi meglio di me ti può capire? Perché ero uguale a te. So che tu ti domandi perché quel bambino ingenuo, tanto bellino, che poi cresce man mano, che tu vedi nelle tue fotografie, debba invecchiare e magari in punto di morte anche soffrire come ho sofferto io. Ma sappi Manuel, che se Dio toglie qualcosa, lo fa solo per dare di più, molto di più. Ti darà doni molto più belli, più grandi, più certi, eterni. Devi credere e avere fiducia in lui. Dinanzi a Dio si è sempre giovani, molto più della giovinezza terrena. Sulla terra prima o poi tutto sbiadisce. In cielo tutto rimane per sempre puro, intatto, incontaminato. Non ha nessuna importanza se metterai la tua tomba vicino alla mia, perché sono solo pietre e null’altro. Noi saremo vicini lo stesso nei giardini dei cieli, se solo tu lo vorrai, dipende solo da te. Sarò io stessa in punto di morte a prenderti dolcemente per mano e a farti contemplare la bellezza di ciò che è Dio e anche tu, così come ho fatto io, piangerai di gioia. Tutto sarà chiarezza, consapevolezza nell'analizzare con occhi di verità il proprio operare terreno. Visionando dall’esterno, in punto di morte, il film della tua vita, ciò che hai vissuto ti sembrerà così lontano, non tanto nel tempo, quanto nello spirito. Si nasce sulla terra per morire, con un grido dentro che solo Dio fatto uomo può sentire e comprendere. L’esistenza terrena fugacemente svanisce nell’inesorabile scorrere del tempo, ma da ogni notte buia rinasce sempre il sole, e tu, tra suoni e colori indefinibili, vivrai la vera vita con amore.  
Manuel: Mi sto commuovendo, mi stanno quasi scappando le lacrime, sei più poetica di me. Posso prendere la tua mano?
Marietta: Certo che puoi.
Manuel: Allora tendi la tua mano verso la mia ed io farò la stessa cosa. Così arriverò a intersecare le mie dita con le tue dita in modo che possa stringerti forte la mano e sentirti più vicina.
Marietta: Va bene Manuel, ma non puoi sentire la mia struttura fisica perché i sogni non hanno corpo, stringeresti l’aria.
Manuel: Non m’importa. Afferra la mia mano adesso con la tua, le tue dita nelle mie, e stringiamo forte insieme.
Marietta: Ora che le nostre dita si stringono cosa stai provando Manuel?
Manuel: Forte, Marietta, troppo forte! Sto stringendo l’aria, non te, tu sei trasparente, sei un fantasma allora.
Marietta: Te l’avevo detto che non puoi sentirmi fisicamente.
Manuel: È emozionante lo stesso. È come un leggero brivido, una piccolissima scossa elettrica che non mi procura nessun fastidio, nessun dolore. E tu cosa provi?
Marietta: Le stesse cose che stai provando tu.
Manuel: Posso baciarti sulle labbra?
Marietta: Sì, se vuoi.
Manuel: Troppo forte, fantastico!
Marietta: Cosa hai sentito?
Manuel: Una strana sensazione. Come se sulle mie labbra, fosse caduta una gocciolina d’acqua fredda. Marietta dimmi la verità, mi trovi carino come ragazzo?
Marietta: Certo che lo sei.
Manuel: Se tu fossi viva e appartenessi al mondo reale, ti innamoreresti di me?
Marietta: Credo di sì.
Manuel: E mi sposeresti?
Marietta: Credo di sì.
Manuel: E vorresti figli da me?
Marietta: Non lo so, non ci ho mai pensato. Ma tu hai la ragazza?
Manuel: No!
Marietta: Perché?
Manuel: Non lo so, forse perché cerco una ragazza all’antica come te e non l’ho mai potuta trovare. Forse non esiste neanche. Senti, se portassi mia madre, mio padre, un amico qui, ti potrebbero vedere?
Marietta: No, solo tu puoi vedermi.
Manuel: E se provassi a raccontare a qualcuno l’esperienza che sto vivendo?
Marietta: Non verresti creduto, forse penserebbero che sei pazzo, un visionario.
Manuel: Cos’è la morte?
Marietta: Esiste solo quella fisica.
Manuel: Ma cos’è? Perché si muore?
Marietta: È come la nascita, solo che è al contrario. L’anima non muore mai, si trasforma soltanto cambiando dimensione ma noi restiamo sempre gli stessi, liberi ciascuno nella propria individualità in una dimensione di immortalità e benessere nell’amore eterno.
Manuel: Ma tu quanti anni hai ora?
Marietta: Potrei averne 16 come potrei averne 1000. Non esiste il tempo nel mondo dello spirito. Non ho un’età. Sono viva più dei vivi.
Manuel: Chi è Dio? Com’è?
Marietta: È infinita luce, è infinito amore. Devi adorarlo mettendolo al primo posto nella tua vita e aiuta il tuo prossimo dando forza e coraggio a chi non ce la fa.
Manuel: Ma chi l’ha creato?
Marietta: Quando si ama veramente qualcuno, non ci si chiede mai il perché e da dove nasca l’amore, si ama e basta. Troverai la risposta leggendo la Bibbia e dentro la Chiesa, nel tuo cuore la verità.
Manuel: E il diavolo esiste o è solo un’invenzione per metterci paura?
Marietta: Non è un mostro con le corna. È l’opposto di Dio, il contrario del bene. Con astuzia sfrutta il tuo punto debole e ti domina se credi che non esista, presentandoti il male come bene. Non può nulla contro la volontà del tuo cuore.
Manuel: Potrei parlare con mia nonna che è morta quando io ero ancora piccolo?
Marietta: Tua nonna non è mai morta e ha lo stesso desiderio di parlare con te anche perché sa molte cose più di te.
Manuel: Ma allora perché non possiamo parlarci?
Marietta: Per lo stesso motivo per il quale un pesce non può stare fuori dell’acqua e un uomo non può vivere sott’acqua.
Manuel: Ma perché dovrei credere a ciò che non vedo?
Marietta: Molte cose nella vita esistono ma non si vedono. Pensa alle onde elettromagnetiche, alla forza del pensiero. Il mondo dello spirito è vasto e complesso, innamoratene! Impara a guardare lontano, Dio ha un progetto d’amore anche per te. Mantieni con lui un rapporto vivo, gioioso e costante e nulla potrà insidiarti.
Manuel: Esiste il paradiso?
Marietta: È la luce di Dio.
Manuel: E l’inferno?
Marietta: È la mancanza di questa luce.
Manuel: Chi sono i santi?
Marietta: Anime più vicine alla luce. Cercali e ti aiuteranno.
Manuel: E i cattivi?
Marietta: Anime che non vedono la luce ma possono rivederla se si redimono vagando prima nella nebbia del purgatorio. Dio mette alla prova. Servono fede, perseveranza e pazienza affinchè Egli operi nella nostra vita.
Manuel: Puoi dirmi quando morirò?
Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi non te lo direi mai, sarebbe la fine, un conto alla rovescia. Non un secondo in più, non un secondo in meno di quando Dio ha già stabilito.
Manuel: Cosa ti piace di più di me?
Marietta: La tua sensibilità disarmante.
Manuel: Quando ci sarà la fine del mondo?
Marietta: Non lo so ma anche se lo sapessi, non te lo direi.
Manuel: È peccato suicidarsi?
Marietta: Perché questa domanda? Mi fai paura. È uguale a uccidere. Non puoi fuggire dai tuoi tormenti con la morte, li ritroveresti nell'altra vita.
Manuel: Qual’è il più grave peccato?
Marietta: Ce ne sono tanti, forse l’odio. Con la preghiera e portando la croce si annullano. Serve la conversione del cuore per la redenzione.
Manuel: Dove sono adesso i grandi poeti del passato che magari avevano le mie stesse inquietudini, le mie stesse paure?
Marietta: Sono tutti vivi, stanno sperimentando la luce, hanno un’ispirazione molto più profonda e superiore a quella che possedevano sulla terra.
  Ho narrato solo una minima parte delle conversazioni avute con Marietta. Il tempo in cui mi incontravo con lei è durato assiduamente per una quindicina di giorni, dagli ultimi di gennaio sino a metà del mese successivo nell’anno 1984. Il posto era sempre lo stesso, la parte più alta del cimitero. L’ora era sempre quella, dalle 9 del mattino sino a mezzogiorno.
Sostituivo praticamente la scuola col cimitero. Tutto questo ebbe fine, o stava per finire, quando Marietta, improvvisamente, decise di non apparirmi più lasciandomi per sempre ed io, in preda alla disperazione, cercavo di sapere da lei il motivo.
Riporto quest’ultimo dialogo proprio alla fine del racconto, considerandolo messaggio personale al lettore e vero significato di tutta la storia.
    DIALOGO TRA MANUEL (IL VERO ME STESSO)
E MARIETTA
Manuel: Perché vuoi scomparire Marietta? Tu eri viva, esistevi davvero. Pure i fantasmi si allontanano da me.
Marietta: No Manuel, io non esisto più, non posso esistere, non posso vivere per colpa degli altri che non vogliono più farti sognare. Tu devi restare con i piedi per terra altrimenti verresti deriso da tutti, preso per pazzo. Devi convincerti che io sono il frutto della tua grande immaginazione, la proiezione del vero te stesso. Tu mi hai fatto rinascere dalla morte perché hai creduto con tutta la tua mente, con tutto il tuo cuore, alla forza di sognare che hai dentro di te. Io prima ti ero vicina, ti parlavo, ti capivo, ero reale perché tu ascoltavi la voce dei tuoi desideri, dei tuoi sogni. Ma adesso tu stai dubitando della tua immaginazione, non ascolti più il vero te stesso e mi stai facendo morire per sempre. Manuel perché non ascolti più la voce del bambino che è in te?  Non senti  questo caldo agli occhi che vorrebbe essere pianto? Tu mi avevi creato, adesso perché vuoi distruggermi? Con me morirai anche tu, non ti ritroverai più, resterai solo, almeno io ti capivo perché ero lo specchio del vero te stesso, ero la tua libertà, la tua energia vitale, perché vuoi annientare tutto? Manuel non sono io che sto fuggendo da te ma sei tu che per sempre stai fuggendo da me. Ti prego resta te stesso, ascolta i tuoi sogni, non morire anche tu diventando uguale agli altri, tu sei diverso da loro. Quando si crede veramente ai sogni, niente diventa impossibile. Io ero morta e grazie a te sono rinata.
Manuel: Marietta, ma se per gli uomini è così importante sognare come mi stai dicendo tu, perché allora non ascoltano i loro sogni? perché se io provo a sognare mi emarginano?
Marietta: Tutto questo Manuel accade perché sognare è come essere liberi. Gli uomini sono nati liberi perché sono spiriti liberi, hanno avuto da Dio il dono della libertà e quindi hanno diritto di sognare ma, chissà perché, hanno paura della loro stessa libertà, non riescono ad essere se stessi e preferiscono chiudere le loro menti e così non sognano più. È per questo che nel mondo c’è odio, invidia, materialismo, c’è l’arroganza del potere, ci sono le guerre, perché è molto più facile comandare sulle menti chiuse che non credono più a niente e così si arriverà alla fine.
Manuel: Marietta, io sento che tu hai ragione. Io non voglio soffocare la mia mente, la mia libertà, la voglia di sognare, voglio restare me stesso ma come posso fare? Ormai vivo in un mondo chiuso che non sogna più. Se resterò me stesso, non mi capirà e non mi crederà nessuno. Cosa posso fare Marietta? Ti prego aiutami, cosa posso fare?
Marietta: Devi restare sempre te stesso Manuel. Vivi la tua libertà, dai ascolto ai tuoi sogni e non sarai mai solo. Saranno i tuoi stessi sogni a portarti lontano, a farti compagnia e poi ci sarò io con te perché sento che stai ricominciando a credere ed io non sto morendo più. Scrivi una storia, la storia di noi due, leggila a chiunque, bussa ad ogni porta. Non aver paura se ti prenderanno in giro perché ci sarò io a darti forza. Racconta di noi due al mondo intero, ai bambini, ai vecchi, non ha età la forza dell’immaginazione. Vedrai che qualcuno, in questo momento, sentendo la nostra storia, sta cominciando ad aprire la sua mente e a provare a volare finalmente, perché ci ha capiti, perché dentro è uguale a noi ed è bello poter essere capiti da qualcuno per quello che siamo realmente, è bello poter aiutare il nostro prossimo. Coraggio Manuel, dammi la mano e camminiamo insieme.
Manuel: Sì Marietta, camminiamo insieme.
                VENT’ANNI DOPO
    Dopo vent’anni, l’altro giorno, sono tornato in quel posto. Ho rivisto le tombe abbandonate dell’Ottocento ma non mi hanno suscitato nessuna emozione. Sono stato anche sulla tomba di Marietta ma mi è sembrata anch’essa come tutte le altre, fredda e muta, non aveva più nulla da comunicarmi. Era come se la storia di questo libro fosse stata vissuta da un’altra persona e non da me.
Sono tornato a casa con la morte nel cuore e più solo di prima. Mi rendevo conto che mai più avrei potuto rivedere Marietta perché una ragazza di 16 anni non avrebbe più nulla da dire ad un uomo di 40 ma soprattutto perché con l’età adulta, assieme alla giovinezza, avevo perduto anche la mia ingenuità.
   “Colei che brevemente fu
e che mai in vita conobbi”
 è dedicato a Marietta Cianciolo
anche se non saprò mai se le piacerà.
   Ringrazio tutti coloro che mi hanno pazientemente aiutato
nelle ricerche su argomentazioni utili al racconto
in particolare tutti gli addetti al servizio e alla custodia di biblioteche, uffici anagrafici, annali ed archivi storici.
 Ringrazio mia madre per non avermi preso per pazzo nello scrivere il racconto.
 Ringrazio infine il mio genio e la mia follia che mi hanno permesso di creare questo libro.
                                                                Claudio Cisco
������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������������
0 notes
tmnotizie · 6 years ago
Link
MACERATA – Non a Voce Sola, rassegna di letteratura, poesia, filosofia, musica, spegne le sue prime 10 candeline e lo fa dando il via all’edizione 2019 che promette fuoco e fiamme nonché, come sempre, di essere luogo di riflessione sull’identità femminile e spazio pensato per il dialogo fra i generi.
Per questa importante ricorrenza, la direttrice artistica Oriana Salvucci ha deciso di invitare la filosofa, che è stata un po‘ l’ispiratrice dell’intera rassegna e dei suoi temi dal 2010 ad oggi, Luisa Muraro, che il 29 giugno alle ore 18, nel cortile di Palazzo Conventati a Macerata, dialogherà con la scrittrice Lucia Tancredi sul tema che da il la al fil rouge di quest’anno, Al mercato della felicità.
“Nel confronto delle idee – afferma l’assessora alla Cultura, Stefania Monteverde –  cresce una cultura del rispetto e della tolleranza. È la nostra risposta ai discorsi dell’odio che in troppi coltivano. Per questo sono molto importanti gli incontri che in questi dieci anni Non A Voce Sola ha promosso, portando a Macerata grandi pensatrici di questi tempi, un contributo per la crescita di una società  più consapevole e democratica, dove le donne e gli uomini possano coltivare insieme quell’accoglienza  della diversità delle idee e dei linguaggi che è fondamento del nostro vivere insieme”.
Il tema scelto, il mercato della felicità, è il provare con tutti sé stessi a partecipare all’agone – presso gli antichi greci, il luogo in cui si svolgeva una gara, un combattimento – e a trovare la propria felicità. Al centro della riflessione della Muraro vi è il desiderio di ognuno a cercare, a tentare, anche se le proprie forze sono percepite come insufficienti, a compiere l’impresa. L’importante non è uscire vittoriosi, ma non rinunciare a tentare, a cercare di accaparrarsi con le proprie forze la propria misura di felicità.
Luisa Muraro sembra davvero la persona giusta per raccontare al pubblico di Non a Voce Sola questo incredibilmente importante ed irrinunciabile concetto come ricorda Oriana Salvucci.
“Al mercato della Felicità è il fil rouge della Rassegna al suo decennale – afferma la direttrice artistica – al mercato della felicità è la sintesi e il distillato di tutti i fil rouge dei 10 anni di Non a Voce Sola. E come se il desiderio, l’impossibile, l’ordine simbolico, il corpo politico delle donne, la genealogia femminile, la forza delle donne, la potenza delle donne trovassero compimento al mercato della felicità.
E’ ribadire la centralità del desiderio, dell’anelito di colui che cerca e che come la filatrice innamorata si mette in fila al mercato della felicità. Non importa l’inadeguatezza dei nostri mezzi, l’importante è tentare, è non smettere di contrattare, la realtà non è indifferente al desiderio , e se anche in quel mercato non possiamo trovare soddisfazione si possono aprire nuovi ordini di significato, si può talvolta fessurare il muro dell’impossibile con la sola forza del desiderio, si possono aprire passaggi, del resto si dice che le donne abbiano un dialogo intimo e fecondo con l’impossibile.
Un desiderio grande e la percezione della propria inadeguatezza spiega bene la parabola di non a Voce Sola, di un manipolo di donne animate da un desiderio autentico che percepivano  la inadeguatezza dei propri mezzi , ma hanno tentato. Non a Voce Sola è una scommessa vinta al mercato della felicità, e il non aver arretrato di fronte alla inadeguatezza, è, come dice Luisa Muraro, l’essersi messe in fila perché amici e nemici, avessero potuto dire, anche loro ci hanno provato.
Non amo guardarmi indietro, ma la grandezza del percorso fatto mi riempie di gioia. Non amo guardarmi indietro, ma talvolta è necessario, talvolta lo richiedono le circostanze. Il 2019 è l’anno del decennale di Non a Voce Sola e non posso dimenticare la sua prima edizione, un manipolo di donne che avevano un desiderio forse troppo grande e non commisurato con i mezzi a disposizione, un desiderio debordante di creare uno spazio in cui pensarsi e pensare il mondo da un punto di vista femminile partendo dalla propria esperienza e da se stesse con guide autorevoli del panorama nazionale e internazionale.
Non volevamo creare rumore o disturbo, non volevamo cambiare il mondo, eravamo ben ancorate alla effettualità che il mondo fosse il loro posto, ma volevamo iniziare un percorso di conoscenza all’interno del pensiero femminile e riannodare i fili di un rapporto fra generazioni di donne, forse raccogliere una eredità.  Una rassegna, ci sembrò il gesto più immediato,  amandola  con la necessità e l’urgenza delle cercatrici di senso.
Abbiamo sempre pensato alla rassegna come  ad un viaggio, non il viaggio della  viandante, non il viaggio come risolvimento della contingenza,  ma il viaggio della viaggiatrice , il viaggio come apertura sul significato dell’ essere al mondo in un corpo sessuato a cui fin dalla nascita appartiene il senso della parzialità. Fin dalla nascita siamo immessi  immediatamente in un sistema di significati, di attribuzioni,  ma anche di vincoli, divieti e prescrizioni differenziati.
Nasciamo al mondo già con un destino che nulla a che fare con quello che sono i nostri desideri, le nostre aspettative, il nostro bisogno di senso. Un sistema di significati che scambiamo,spesso, per l’ordine naturale delle cose, quando, invece è generato dalla cultura in cui siamo immersi e che abbiamo introiettato. Il percorso è stato lungo e appassionante, a volte faticoso, a volte sono state necessarie delle mediazioni, ma mai abbiamo abbandonato la risoluzione iniziale, mai abbiamo perso quel desiderio grande che ci animava.
E già come tante filatrici di lana siamo andate al mercato della felicità e ci siamo messe in fila, consce che ciò che conta è l’aver tentato e il continuare a tentare, perché l’obiettivo è la grandezza su questa terra, non vi sono obiettivi trascendenti se non la conoscenza di se stesse e l’assecondare un desiderio grande che al vaglio della realtà può anche subire uno scacco, ma lo scacco del reale può aprire un oltre e un altrove dove la perdita può essere un guadagno.
Si possono aprire altri ordini di rapporti e quello che può sembrare un salto nel buio è, invece un passaggio, del resto si dice che le donne abbiano un dialogo intimo e fecondo con l’impossibile. Luisa Muraro docet.”
Nata a Montecchio Maggione nel 1940, Luisa Muraro ha conseguito una brillante laurea in filosofia della scienza e aveva ben avviata la sua carriera accademica presso l’università di Milano, facendo ricerca sul rapporto tra filosofia e linguistica, secondo la scuola di De Saussurre. Capovolgimenti politici degli anni ’70 e ricerca personale, che mirava a dare il suo contributo per un miglioramento della società, la spingono ad interrompere bruscamente la carriera universitaria per dedicarsi all’insegnamento nella scuola dell’obbligo, cercando di gettare le basi per un modello di scuola e di educazione efficace ma non autoritaria.
Contemporaneamente conosce Lia Cigarini e Daniela Pellegrini, e aderisce umanamente ed intellettualmente ai loro gruppi femministi della second wave, che riconoscono il sessismo dominante nella società loro contemporanea e cercano di elaborare proposte culturali e pratiche per ottenere riconoscimento del femminile e opportunità. Decide insieme a loro di fondare un luogo che è divenuto un’istituzione per chiunque voglia approcciare alla conoscenza del percorso storico-filosofico sull’identità femminile, ovvero la Libreria delle Donne di Milano, la prima libreria che ha tentato e tenta di presentare al pubblico l’altra metà del mondo in ogni ambito dello scibile umano, metà che spesso rimane (ancora oggi) appena raccontata.
Negli anni ’80 Luisa Muraro è tornata a insegnare una nuova filosofia del femminile all’Università di Verona e ha fondato con intellettuali del calibro di Adriana Cavarero, Wanda Tommasi e Chiara Zamboni la Comunitá Filosofica Femminile Diotima, la più grande comunità filosofica tutt’ora esistente dedicata al pensiero femminile in Italia.
I libri che raccontano l’evoluzione del pensiero filosofico della Muraro e della sua opera a favore del genere femminile sono tantissimi, tra i più noti L’Ordine simbolico della Madre, Lingua materna e scienza divina, Le amiche di Dio, Dio é violent* e il celeberrimo Al mercato della felicità.
Ad intervistare questa ospite eccezionale vi sarà un’altra scrittrice d’eccezione, ovvero la biografa e romanziera Lucia Tancredi. Pugliese di origine, la Tancredi ha imparato ad amare le Marche e le loro spigolature scrivendo il libro Racconti di viaggio. Le città d’arte della marca maceratese, e ha così deciso di avviare qui la sua attività culturale con la rivista Ev, Mensile di scrittura ricreativa.
La sua naturale inclinazione a vedere oltre la materia, l’ha portata ad abbracciare il progetto di due biografie su due mistiche della storia della chiesa, Monica d’Ippona, a cui ha dedicato il libro Io, Monica, e Hildegard von Bingen, a cui ha dedicato il volume Ildegarda, la potenza e la grazia. Ha successivamente affinato questa indagine dell’invisibile e dedicato le sue forze a raccontare le vite nascoste e il tormento di due personaggi oscuri eppure essenzialmente giganteschi, Giulia Schucht, moglie di Antonio Gramsci scoperta e mirabilmente ritratta ne La vita privata di Giulia Schucht, e Lorenzo Lotto, il pittore veneto che cercò fino in fondo di vedere Dio oltre ogni materia e pennellata che la Tancredi racconta nel romanzo L’Otto.
Fresca della pubblicazione della sua ultima fatica editoriale, dal titolo Gargano negli occhi, libro sensoriale e carnale dedicato alla sua terra d’origine, Lucia Tancredi sarà al fianco di Luisa Muraro e tenterà anche stavolta di scavare oltre i veli della coscienza, per regalare al pubblico di Non a Voce Sola il cuore dell’esperienza di vita della filosofa e teorica del femminismo.
0 notes
pier-carlo-universe · 1 month ago
Text
Il suono rosso di Elli Stern – Quando la musica incontra la memoria. Recensione di Alessandria today
Il suono rosso di Elli Stern racconta l’eredità musicale e umana di un sopravvissuto di Auschwitz. Un romanzo potente e toccante. Scopri di più su Alessandria today. Informazioni bibliografiche:Autore: Elli SternTitolo: Il suono rossoCasa editrice: Zecchini EditoreGenere: Romanzo musicale, storicoAnno di pubblicazione: non indicatoValutazione: ⭐⭐⭐⭐⭐ Recensione Il suono rosso di Elli Stern è…
0 notes
pier-carlo-universe · 4 months ago
Text
Recensione completa: Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn. A cura di Alessandria today
Pubblicato in Italia da Einaudi, Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn è un'opera monumentale, intensa e profondamente personale.
Introduzione all’opera:Pubblicato in Italia da Einaudi, Gli scomparsi di Daniel Mendelsohn è un’opera monumentale, intensa e profondamente personale. Questo libro, a metà strada tra memoir, reportage e romanzo storico, esplora le radici familiari dell’autore attraverso un’indagine sulla sorte di sei membri della sua famiglia, vittime dell’Olocausto. Mendelsohn intreccia una narrazione che è al…
0 notes
pier-carlo-universe · 4 months ago
Text
La vita è una cosa seria di Sabrina Folcia: Una storia di emancipazione e resilienza. Recensione di Alessandria today
Il percorso di una donna intrappolata tra patriarcato, relazioni tossiche e la ricerca di sé.
Il percorso di una donna intrappolata tra patriarcato, relazioni tossiche e la ricerca di sé. Recensione: Una narrazione toccante tra oppressione e rinascita. La vita è una cosa seria, il primo romanzo di Sabrina Folcia, è un’opera intensa che affronta con profondità temi complessi e attuali come il patriarcato, le relazioni tossiche e l’emancipazione femminile. Il libro segue la storia di…
0 notes