#valori contadini
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"Il mondo di Giosuè": Un viaggio nell’infanzia tra fantasia e realtà. Recensione di Alessandria today
Giosuè Forleo ci regala, con "Il mondo di Giosuè", una finestra sulla sua infanzia nella Puglia degli anni ‘70, un periodo di cambiamenti e tradizioni radicate.
Giosuè Forleo ci regala, con “Il mondo di Giosuè”, una finestra sulla sua infanzia nella Puglia degli anni ‘70, un periodo di cambiamenti e tradizioni radicate. La storia ci porta in un piccolo paese del tarantino, dove il giovane Giosuè vive un’infanzia caratterizzata dalla semplicità della vita rurale, tra campi e stradine polverose. La vera magia, però, si nasconde nella sua capacità di…
#anni ’70 in Italia#avventure di un bambino#Crescita Personale#Cultura italiana#educazione e gioco#educazione tradizionale#fantasia e realtà#Formazione culturale#gioco e lavoro#Giosuè Forleo#Il mondo di Giosuè#immaginazione#infanzia anni &039;70#mondo rurale#narrativa contemporanea#narrativa pugliese#patrimonio culturale#Puglia#Romanzo autobiografico#romanzo di formazione#romanzo di memoria#Romanzo italiano#romanzo per giovani#romanzo sulla crescita#storie di infanzia#storie di vita#tarantino#Tradizioni Italiane#valori contadini#vita contadina
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Fatto la dichiarazione dei redditi.
Dunque, se guadagni 51.000 euro e se ne guadagni 300.000 non fa differenza.
Per coloro che urlano contro la flat tax, questo mostra che la flat tax esiste già.
Fai pagare il 43% a chi guadagna 50.000 e il 43% a chi guadagna 400.000.
Solo che a chi guadagna 50.000 lo ammazzi.
Ora, io lo so che piace, piace molto, pensare che gli italiani siano di destra, fascisti, evasori.
Vi piace.
Ma la realtà è diversa.
C’è una fascia che sta venendo massacrata, quella del ceto medio. Ovviamente insieme alle fasce più deboli.
Per cambiare occorre un nuovo blocco storico, che unisca queste due fasce.
Ma so che preferite urlare al fascismo, ripetere “onesta’ onesta”, e soprattutto parlare parlare parlare di valori valori valori, inclusione, volemose bene, unità di operai e contadini.
La realtà infastidisce.
Quindi continuiamo coi valori, l’antifascismo, l’arcobaleno e via andare.
Vincenzo Costa
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Padre Paolo Berti“Quando fu il tempo di raccogliere i frutti, mandò i suoi servi dai contadini a ritirare il raccolto”
XXVII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (08/10/2023) Vangelo: Mt 21,33-43 Non è da pensare, fratelli e sorelle, che quanto accadde ad Israele non potrebbe accadere anche ai nostri tempi visto che i valori cristiani vengono sistematicamente misconosciuti dalle nazioni.Il cantico d’amore che Isaia innalza a Dio, chiamato “il mio Diletto”, è una lode per quanto Dio ha fatto al suo popolo.…
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Palermo, artisti favaresi premiati alla Biennale Internazionale Sicily Trinacria
Sabato scorso 24 giugno si è svolta l'inaugurazione della Biennale Internazionale Sicily Trinacria presso il Complesso Monumentale ex Reale Albergo delle Povere a Palermo. L'evento, dal titolo "L'arte: la freccia che sfonda le nuvole in cerca di luce", ha visto la partecipazione di oltre cento artisti provenienti da diverse discipline. Durante la serata di inaugurazione, sono stati presentati più di un centinaio di artisti provenienti da diverse discipline, tra cui pittori, scultori, scrittori, poeti, fotografi, giornalisti, registi, installatori, musicisti, ballerini e critici d'arte. Ogni partecipante ha portato il proprio contributo artistico unico, creando un'atmosfera di ispirazione e scoperta. Tra i premiati, spiccano Alberto Crapanzano e suo figlio Francesco, entrambi di Favara, per le loro opere pittoriche dal titolo “Racina”, “A pirrera”, “Aria di Sicilia” e “Limoni di Sicilia” che rappresentano il territorio di Agrigento. La loro arte riflette la vita semplice e laboriosa dei contadini siciliani, evidenziando la bellezza e i valori delle tradizioni locali. La Biennale Internazionale Sicily Trinacria offre l'opportunità di scoprire e apprezzare l'arte contemporanea internazionale, con particolare attenzione ai talenti locali. L'evento sarà aperto al pubblico fino al 7 luglio, presso il Complesso Monumentale ex Reale Albergo delle Povere, offrendo una straordinaria esperienza culturale per gli appassionati d'arte. Read the full article
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La forza del poeta di Tricarico è appunto la sua fede nella capacità dei contadini di liberarsi da quel mondo arcaico descritto da Levi
La ricezione <1 all’estero di Rocco Scotellaro, uno dei più grandi poeti della Basilicata, morto prematuramente nel 1953 all’età di appena trent’anni, da parte di un pubblico sensibile ai valori umani e letterari di cui egli è stato portatore, è testimoniata in Germania dagli scritti di numerosi autori.Nel 1956, Rocco Scotellaro fu presentato per la prima volta ai lettori tedeschi da Hans…
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#Basilicata#Carlo Levi#Claudia Crocco#critica#germania#letteraria#Marco Corsi#poesia#Rocco Scotellaro#romanzi#Thomas Stauder#Tricarico (MT)
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La forza del poeta di Tricarico è appunto la sua fede nella capacità dei contadini di liberarsi da quel mondo arcaico descritto da Levi
La ricezione <1 all’estero di Rocco Scotellaro, uno dei più grandi poeti della Basilicata, morto prematuramente nel 1953 all’età di appena trent’anni, da parte di un pubblico sensibile ai valori umani e letterari di cui egli è stato portatore, è testimoniata in Germania dagli scritti di numerosi autori.Nel 1956, Rocco Scotellaro fu presentato per la prima volta ai lettori tedeschi da Hans…
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Joyce Lussu, una vita per la libertà
Una donna che per tutto il Novecento cercò di vedere il mondo con occhi nuovi… Joyce Lussu nacque come Gioconda Salvadori a Firenze, l’8 maggio 1912, da Giacinta Galletti de Cadilhac figlia e nipote di garibaldini, e Guglielmo Salvadori, docente universitario e primo traduttore del filosofo Herbert Spencer, più volte minacciato dalle camicie nere, poi costretto all’esilio con la famiglia in Svizzera, nel 1924. La giovane Joyce passò l’adolescenza all’estero, in collegi e ambienti cosmopoliti, maturando un forte interesse per la cultura, l’impegno politico e la propensione alla curiosità, al dialogo, ai rapporti sociali. A Heidelberg, mentre seguiva le lezioni del filosofo Karl Jaspers, vide, con allarmata e critica vigilanza, i primi sintomi del nazismo poi visse in Francia e in Portogallo e si laureò in Lettere alla Sorbonne di Parigi e in Filologia a Lisbona. Tra il 1933 e il 1938 si recò più volte in Africa e l’interesse per la natura e per lo sfruttamento colonialistico di genti e paesi furono, da allora, fortemente legati alla sua scrittura e alla sua vita. A Ginevra Joyce conobbe Emilio Lussu, eroe della Prima Guerra Mondiale, famoso per la fuga dal confino a Lipari insieme a Carlo Rosselli, padre della poetessa Amelia Rosselli. Nel 1934 Joyce sposò un ricco possidente fascista e nell’estate dello stesso anno si trasferì con lui in Kenya dove il fratello Max ha avviato una fattoria, ma l’impresa, come il matrimonio, terminò poco dopo. La Lussu non lasciò l’Africa e visse a Tanganica fino al 1938, viaggiando in diverse parti del paese e scoprendo da vicino la realtà del colonialismo. Al ritorno dall’Africa fu attiva nel movimento Giustizia e Libertà insieme al fratello e li conobbe nuovamente Emilio, instancabile organizzatore della resistenza degli esiliati. I due non si lasciarono più, vissero in Francia dove si concentra lo sforzo antifascista italiano e si sposarono con una cerimonia civile di fronte a pochi amici. Joyce scrisse poi nel 1939 Liriche, curato da Benedetto Croce, che fu affascinato dalla sua storia. Nel 1940, quando Parigi fu occupata, la coppia fuggì a Marsiglia da dove organizzarono partenze clandestine verso gli Stati Uniti e se Emilio si occupava della logistica, Joyce falsificava documenti. I Lussu poi passarono i Pirenei e raggiunsero Lisbona dove entrarono in contatto con i gruppi di resistenza statunitensi e con la Mazzini Society. In Inghilterra Joyce frequentò un campo di addestramento, dove imparò a usare le armi e le tattiche di guerriglia, poi tornò in Italia subito dopo la caduta di Mussolini e entrò nella lotta partigiana, con il nome di Simonetta. Per la sua militanza raggiunse il grado di Capitana e fu decorata con la medaglia d’argento al valor militare. A liberazione avvenuta, Joyce visse da protagonista i primi passi della Repubblica Italiana e il percorso del Partito D’Azione, fino al suo scioglimento, per poi occuparsi di attività culturali e politiche autonome, insofferente ai vincoli. Con la famiglia andò in Sardegna per visitare il piccolo villaggio di Armungia dove il marito è nato, viaggiò poi a cavallo per ascoltare le storie dei pastori, dei contadini e soprattutto delle donne. Organizzò la partecipazione politica delle donne sarde nel 1951 e nel 1953 contribuì alla fondazione dell’Unione Donne Italiane. Dal 1958 al 1960, continuando a battersi nel segno del rinnovamento dei valori libertari dell’antifascismo, Joyce spostò il suo orizzonte di riferimento nella direzione delle lotte contro l’imperialismo. La Lussu tra il 1958 e il 1960 si impegnò nella traduzione di poeti albanesi, curdi, eschimesi, come l’angolano Agostinho Nieto, il Diario dal carcere di Ho Chi Mihn e gli afroamericani del black power. Nel 1968 si avvicinò all’ecologismo e prende parte alla lotta delle donne degli anni Settanta, senza risparmiare le critiche, si interessò alla storia locale, alla questione agraria, alle tradizioni popolari, al sapere femminile. Joyce dedicò una parte fondamentale della sua vita al rapporto con i giovani e le giovani, andando in scuole di ogni ordine e grado, per incontri che incrociavano percorsi di storia, poesia, autobiografia, progettualità sociale fino alla scomparsa, avvenuta a Roma il 4 novembre 1998. Read the full article
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https://www.facebook.com/100077105247477/posts/pfbid02PkKWTJ4g1y9oEwjdMQNpL5FVSNFaFBzX1ZoxXR1UAbdo4acjfvj8su1GaV7qTo5Kl/
IL GOLPE BORGHESE
UN PRINCIPE NERO
PER LA NOTTE DI “TORA-TORA”
Il Fronte Nazionale fu fondato a Roma, con atto notarile da Junio Valerio Borghese, il 13 settembre 1968.
Junio Valerio Borghese, ex-comandante della Decima Mas, dopo essere stato salvato dal colonnello James Jesus Angleton, responsabile dei servizi segreti militari USA in Italia, che lo sottrasse alla giustizia partigiana, passò indenne anche il processo per collaborazionismo. I reati per cui Borghese era stato riconosciuto colpevole avrebbero dovuto comportare la pena dell’ergastolo, ma il 17 febbraio 1949, con il riconoscimento delle attenuanti si scese prima ad una condanna di 12 anni, poi direttamente alla scarcerazione per l’applicazione dei due decreti di condono del 1946 e del 1948.
RECLUTATO DAGLI AMERICANI
Junio Valerio Borghese, come risulta in modo ormai inoppugnabile dagli stessi documenti della CIA declassificati, fu reclutato ancor prima della fine della guerra dagli Stati Uniti e utilizzato, insieme a ex-appartenenti alle formazioni militari della RSI, a criminali di guerra e agenti dell’OVRA, per operazioni “coperte”. La prima, secondo le ricerche dello storico Giuseppe Casarrubea, fu la strage a Portella della Ginestra, il 1° maggio 1947 in Sicilia, dove squadre di ex della Decima Mas, sbarcate qualche giorno prima a Palermo, unitamente a gruppi di mafiosi e ai banditi di Salvatore Giuliano, spararono su una folla di contadini, uccidendo 11 persone e ferendone altre 27.
Anche dopo essere stato nominato, nel 1952, presidente dell’Msi, J.V. Borghese restò sempre legato agli americani. Uscito dal partito alla fine degli anni Cinquanta, fece ancora parlare di sé nel 1964 in coincidenza con la crisi del luglio di quell’anno, per il suo sostegno ai tentativi golpisti del generale De Lorenzo.
UN FRONTE NAZIONALE PER IL COLPO DI STATO
La sua ultima creatura politica fu proprio il Fronte Nazionale.
Nello statuto e negli Orientamenti programmatici del 1969, gli scopi dell’organizzazione vennero individuati nella «difesa» e nel «ripristino dei massimi valori della civiltà italiana ed europea», nel ripudio della «lotta di classe» e del «materialismo», nella costruzione di uno Stato forte «efficiente ed autorevole» come «diga al comunismo» e al «terrore rosso», nel riconoscimento del ruolo primario delle Forze Armate.
Oltre a Borghese, gli esponenti più noti del Fronte Nazionale furono: Antonio Leva, il costruttore edile Benito Guadagni (che ricoprì la carica di segretario), l’ex-maggiore Mario Rosa (segretario organizzativo), l’ex-aiutante di campo dello stesso Borghese, Mario Arillo, Santino Viaggio, l’ex-tenente dei parà Sandro Saccucci e Giovanni De Rosa.
Costruito come coordinamento delle principali organizzazioni della destra extraparlamentare, in particolare Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale, il Fronte Nazionale fu in realtà uno strumento unicamente concepito in funzione della realizzazione del colpo di Stato. Strutturato su due livelli, uno pubblico ed uno clandestino, dotato di nuclei armati (il gruppo ”A” e il gruppo ”B”, affidato a Stefano Delle Chiaie), si mosse per alimentare uno stato di tensione al fine di provocare un intervento delle Forze Armate.
Il Fronte Nazionale rappresentò, in conclusione, nulla più che un’articolazione politico-militare della destra eversiva all’interno del “Partito del golpe”. In un suo opuscolo del 1968, La nostra azione politica, si parlò senza perifrasi della progettazione di «azioni di forza che sembreranno fatte dai nostri avversari comunisti», utili a creare «un sentimento di antipatia verso coloro che minacciano la pace di ciascuno e della nazione».
Finanziato da alcuni non trascurabili settori imprenditoriali, soprattutto liguri, il Fronte Nazionale puntò nel meridione ad alimentare la rivolta di Reggio Calabria, dando vita, in particolare attraverso Avanguardia Nazionale, ad una campagna di attentati. Intensi anche i rapporti con la mafia siciliana e la ‘ndrangheta calabrese, di cui si tentò anche un coinvolgimento nei piani golpisti. Alcuni pentiti di queste organizzazioni criminali hanno permesso di svelare retroscena importanti, come la partecipazione il 22 luglio 1970 al deragliamento della Freccia del Sud (6 morti e 54 feriti), poco dopo l’inizio della rivolta di Reggio Calabria.
LA NOTTE DEL 7-8 DICEMBRE 1970
Nella sentenza della Corte d’Assise di Roma del 14 luglio 1978, riguardante il cosiddetto “Golpe Borghese”, la strategia del Fronte venne così riassunta: «La finalità era quella di gettare il paese nel caos, di portare allo scontro le forze politiche di diversa matrice, così da rendere necessario l’intervento di ‘reparti militari’ affiancati da squadre armate di giovani estremisti di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale».
Secondo il rapporto della Questura di Roma, nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970, la notte di “Tora-Tora”, dal nome in codice dato dai congiurati al progettato colpo di Stato, «alcune centinaia di individui erano stati concentrati nella palestra di Via Eleniana, nelle sedi del Fronte Nazionale, di Avanguardia Nazionale, di Ordine Nuovo, del movimento politico Europa Civiltà, in prossimità dell’abitazione di Reitano Antonio, esponente dell’associazione universitaria di destra Fronte Delta, nello studio commerciale di Rosa Mario (dove si trovava il ‘comando politico’ n.d.r.), nell’ufficio di Orlandini Remo, a Montesacro (dove si trovava il ‘centro operativo’ n.d.r.)».
La Corte d’Assise di Roma ricostruì la vicenda in modo assai riduttivo, grazie soprattutto al ruolo svolto dal Pm Claudio Vitalone. Si escluse che il piano avesse carattere nazionale, come anni dopo invece la magistratura appurò pienamente. Il golpe venne definito come un atto «iscritto in un disegno lucido» ma «velleitario», nonostante esponenti di Avanguardia Nazionale fossero penetrati fin dentro l’armeria del Ministero degli Interni, impossessandosi di 200 mitra. Si evitò di collegare fra loro i diversi progetti eversivi, si pensi alla ‘Rosa dei Venti’, e, soprattutto, si lasciò nel buio più completo il ruolo giocato dai servizi segreti ed i rapporti con le Forze Armate.
Inutile dire che, dopo aver fatto cadere il delitto di insurrezione armata contro lo Stato (articolo 284 c.p.), le assoluzioni riguardarono la maggior parte degli imputati e le poche condanne comminate (per cospirazione politica e associazione a delinquere) furono assai miti. La Corte d’ Assise d’Appello nel novembre 1984 assolse comunque tutti da ogni accusa. Il 24 marzo 1986 la Cassazione confermò definitivamente l’assoluzione generale. Per la giustizia, il golpe Borghese non era mai avvenuto.
Il “Comandante” Borghese non venne mai processato. Fuggito in Spagna nel marzo del 1971, prima che filtrasse la notizia del tentato golpe, morì nel 1974 in circostanze mai chiarite. Si parlò anche di un suo possibile avvelenamento.
Gli uomini del Fronte Nazionale confluiranno nei successivi progetti eversivi della primavera-estate del 1974.
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👨🏼🎨 GRANT WOOD - American Gothic ⏱️ Data: 1930 🖌️ Tecnica: olio su tela 🖼️ Dimensioni: 74.3×62.4 cm 🏛 Ubicazione: Chicago, Art Institute
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American Gothic di Grant Wood è uno dei dipinti più iconici dell'arte americana. Ispirato alla pittura tedesca e fiamminga, il quadro rappresenta un uomo e una donna (nella realtà si ispirò alla figura del suo dentista e di sua sorella) nei tipici abiti contadini e con il forcone a tre punte. Sul retro una tipica casa dell'Iowa. Il quadro dapprima fu accolto da qualche critica, ma ben presto divenne un simbolo di valori di rinascita e forza incrollabile dei pionieri americani, in risposta alla Grande Depressione.
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“ Le parole della politica – sostantivi e aggettivi – sono tutte ambigue, perché sono parole del potere e per il potere, sono cioè parole strumentali. Questa ambiguità si constata facilmente proprio con riguardo alla democrazia quando la si definisce non come governo del popolo, ma come governo per il popolo. Così, la ‘democrazia cristiana’, agli inizi del Novecento, era definita «l’impegno cattolico per il popolo, avente come scopo il conforto e l’elevamento delle classi inferiori» [U. Benigni, s.v. Christian Democracy, in Catholic Encyclopedia, Appleton, New York 1908], lo «studium solandae erigendaeque plebis» dell’Enciclica Graves de communi, del papa Leone XIII (1901). In questo senso della parola, di democrazia, anzi di ‘reale’, ‘vera’, ‘sostanziale’ democrazia, contrapposta alla democrazia ‘solo formale’ dei regimi liberali, si poterono fregiare anche il regime sovietico («democratico è tutto ciò che serve agli interessi del popolo»), il fascismo («democrazia organizzata, centralizzata, autoritaria» al servizio della nazione) e tutti i regimi più violenti e arbitrari del mondo che, dopo avere privato i cittadini dei loro diritti, si sono auto-proclamati e si auto-proclamano sinceri amici e difensori del popolo. In questo semplice scambio di preposizioni, dal governo del popolo al governo per il popolo, sta la capacità mimetica della parola democrazia. Paradossalmente, anche le autocrazie, perfino le teocrazie, cioè le autocrazie spinte al massimo livello, come è in certe repubbliche islamiche, possono presentarsi come democrazie, talora anzi come le ‘vere democrazie’ contrapposte a quelle occidentali ‘degenerate’ e, a questo punto – è ovvio – la confusione e l’inganno diventano totali e insuperabili. Ancora più temerario è lo stravolgimento del concetto quando la democrazia è definita governo per mezzo del popolo. A questo proposito, per comprendere la corruzione del concetto basta pensare ch’essa attrarrebbe nel campo della democrazia le jacqueries dei contadini in Francia, i sanfedisti del cardinale Ruffo di Calabria, i pogrom dei cristiani fanatizzati contro i villaggi ebraici dell’Europa centrale, i milioni di morti delle guerre ‘di popolo’. Basti così. Ci si può invece domandare perché oggi, in tutto il mondo, chi esercita funzioni politiche, tanto tenga a qualificarsi comunque democratico, a costo di simili violenze lessicali e concettuali. La democrazia, fin dall’inizio della riflessione sulle forme del vivere insieme, è stata associata all’idea della massificazione, della mediocrità, dell’edonismo, del materialismo, dell’arbitrio e della violenza del numero senza qualità, dunque a una costellazione di valori negativi. Per quali motivi, allora, è diventata oggi una parola magica, lo shibbolet, il passaporto senza il quale non si è ammessi al consesso dei popoli, dei governanti e degli Stati civili? Perché, in breve, è diventata un titolo di rispettabilità al quale nessun governante, oggi, vuole e può rinunciare? Proprio oggi, quando la riflessione scientifica sulla democrazia è particolarmente disincantata, perfino scettica sulle sue virtù e sempre più frequente è l’accusa d’essere il regime della simulazione e della dissimulazione, cioè il regime dell’ipocrisia del potere. “
Gustavo Zagrebelsky, La difficile democrazia, (Collana Lezioni e Letture della Facoltà di Scienze politiche “Cesare Alfieri” dell’Università di Firenze), Firenze University Press, 2010. [Corsivi dell’autore]
Nota: Lectio Magistralis inaugurale dell’anno accademico 2009-2010 dell'Università degli Studi di Firenze .
#Gustavo Zagrebelsky#La difficile democrazia#politica#DC#divulgazione culturale#ambiguità#demagogia#demagoghi#democrazia cristiana#intellettuali italiani#potere#politologia#Lectio Magistralis#regimi liberali#liberalismo#autocrazie#repubbliche islamiche#teocrazie#autoritarismo#Leone XIII#storia della civiltà europea#ipocrisia#dissimulazione#virtù#Unione Sovietica#simulazione#autorità#popolo#edonismo#egalitarismo
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l’altra versione Afghanistan 1
Guerra all’Afghanistan e non “in Afghanistan” come ipocritamente si dice. Subito dopo l’11 settembre gli americani accusarono dell’attentato Osama Bin Laden che si trovava in quel momento in Afghanistan e ne chiesero ai Talebani l’immediata consegna. Il governo afghano rispose che era disponibile purché venisse fornita qualche prova della responsabilità del califfo saudita. Gli americani replicarono: “le prove le abbiamo date ai nostri alleati”. Allora il governo talebano, come avrebbe fatto qualunque governo, rifiutò di consegnare senza condizioni una persona che si trovava sul suo territorio ( a parte il fatto che in Afghanistan l’ospite è sacro, ma queste romanticherie tradizionaliste non interessano gli occidentali attenti solo ai propri valori). La guerra all’Afghanistan è stata fatta per togliere di mezzo i Talebani e occupare quel paese. C’erano motivi economici: il colossale gasdotto che dal Turkmenistan raggiunge il Pakistan e il mare passando, per la maggior parte, sul territorio afghano (e nel progetto era coinvolta metà della dirigenza americana, da Deep Cheney a Condoleezza Rice), senza dimenticare la strana questione dell’oppio. Facciamo un passo indietro.
Al momento della guerra, i Talebani, aderendo alle annose richieste delle Agenzie internazionali, avevano bloccato da un anno le coltivazioni del papavero, da cui si ricava l’oppio. Nessun governo afghano c’era mai riuscito, anzi, non ci aveva nemmeno mai provato. Si trattava infatti di una decisione molto difficile, quasi impossibile, perché su queste coltivazioni vivevano centinaia di migliaia di contadini afghani e nessuno dei governi che si erano succeduti dopo la cacciata dei sovietici, aveva avuto l’autorità, la forza, il prestigio e soprattutto la voglia di prenderla, anche perché i “signori della guerra” che sostenevano quei governi o ne facevano parte, vivevano a loro volta sul traffico della droga. Il mullah Omar, guida spirituale del Talebani, aveva il prestigio, l’autorità, la forza, dato che controllava il novanta per cento del paese, anche la voglia perché nella sua visione del mondo l’economia non era la cosa principale, più importante era il Corano che vieta la produzione e il consumo delle sostanze stupefacenti. Quindi, benché il ricavato del traffico d’oppio gli servisse per comprare grano dal Pakistan per sfamare la sua gente, Omar già nel 1998 e nel 1999 aveva offerto più volte agli Stati Uniti e all’ONU di scambiare la fine della coltivazione del papavero col riconoscimento internazionale*. Ma gli americani avevano risposto niet e lo avevano imposto anche all’ONU. Ciò nonostante nell’estate del 2000 il mullah Omar decise autonomamente di proibire la coltivazione del papavero e ci riuscì. Fatto questo quasi miracoloso se si pensa al altre esperienze, come quella colombiana. Questo torto all’Occidente il mullah non lo doveva proprio fare, perché guastava l’immagine che da noi ci si era fatta del Talebani, integralisti, malvagi, crudeli e soprattutto, irragionevoli, gente con cui era inutile discutere. La stampa internazionale cominciò quindi a scrivere che era vero che i Talebani avevano bloccato le coltivazioni di papavero, ma lo avevano fatto per aumentare il valore delle loro scorte dato che il prezzo dell’oppio era salito alle stelle. Insomma la dimostrazione dell’efficacia e della serietà del blocco ordinato dal mullah gli veniva addebitata come una colpa o come un artifizio. “E va bene - borbottò allora un ministro talebano che, essendo afghano, e per soprammercato ignorante perché aveva studiato alle scuole coraniche, non conosceva Esopo e la favola del lupo e dell’agnello - diteci allora che cosa dobbiamo fare?” Questa storia dell’oppio era particolarmente seccante per l’Occidente, perché se la sua parte visibile e presentabile, cioè l’agenzia ONU contro la droga, aveva chiesto la fine delle coltivazioni, quella invisibile e impresentabile, vale a dire le grandi organizzazioni criminali che godono di forti appoggi e complicità nelle classi dirigenti di parecchi e irreprensibili Stati, ne erano gravemente danneggiate. Con l’occupazione delle variamente mascherate “forze di pace”, il traffico di droga è ripreso in grande stile. Inutile dire, anche qui, chi ha tratto i maggiori benefici da questi affari, ai contadini afghani rimane meno dell’uno per cento.
Massimo Fini -Il vizio oscuro dell’Occidente
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E’ nata una Lega che mi piace. La “Lega dei braccianti”. E a fondarla non poteva che essere lui, un uomo che da anni dedica la sua intera esistenza ai diritti di chi non ha diritti, all’esistenza di chi per molti non esiste: Aboubakar Soumahoro. Lo fa nell’anniversario della nascita di Giuseppe Di Vittorio, che incarnò i suoi suoi stessi valori nelle sue stesse e difficili lotte bracciantili. “La Lega Braccianti - fa sapere Aboubakar - vuole essere uno strumento di riscatto dalla miseria socio-lavorativa. Questa inedita forma di associazione bracciantile (basata sulla volontà di associare tutti i braccianti della penisola con lo spirito di un protagonismo diretto e con la prospettiva di un’alleanza con contadini, agricoltori e consumatori) sarà per i braccianti un ‘presidio di libertà’ al fine di ‘ricercare la via del proprio sviluppo, della propria difesa, e d’un maggiore benessere economico e spirituale’, come disse Giuseppe Di Vittorio”. Che dire amico mio: in bocca al lupo. E grazie per tutto quello che fai per gli invisibili di questo paese. Donne e uomini senza diritti che grazie a te, ora, possono sperare in un riscatto. Cathy La Torre
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25 APRILE 1945 - 2021 <br>RESISTENZA AL NAZIFASCISMO E LOTTA PER IL SOCIALISMO! :: Il pane e le rose - classe capitale e partito
Per i comunisti il 25 Aprile non è solo la vittoria e la conclusione della guerra contro il fascismo e l'occupazione nazista, ma il momento più alto dell’obiettivo delle classi subalterne: rovesciare il sistema borghese capitalista, creatore e finanziatore di quei regimi, nazismo e fascismo, principali responsabili della devastazione della II Guerra mondiale e della carneficina di milioni di esseri umani.
La Resistenza ha visto decine di migliaia di operai, contadini, lavoratori, giovani e donne del popolo, opporsi in armi contro l’oppressione del nazifascismo e del sistema che lo aveva generato e sostenuto contro lo sviluppo delle idee e del movimento rivoluzionario della classe proletaria, rafforzatosi dopo la vittoriosa Rivoluzione bolscevica del 1917.
I Partigiani italiani, al contrario da quanto espresso dal revisionismo borghese sono stati, a maggioranza, diretti dall'allora Partito Comunista, avanguardia rivoluzionaria che lottava per assumere la gestione della società, liberarsi dal capitalismo e avviarne la trasformazione in senso socialista. Nelle file delle Brigate partigiane comuniste, i Commissari politici diffondevano idee rivoluzionarie e formavano i combattenti rivoluzionari al marxismo-leninismo.
Rivendicare oggi il ruolo svolto dai Partigiani e recuperare i loro insegnamenti, lo spirito rivoluzionario e l’abnegazione, significa lottare per una causa universale: l'abbattimento dei regimi borghesi e la costruzione di una nuova e più elevata società basata sull'abolizione dello sfruttamento, fino al passaggio alla società senza classi.
Anche quest'anno, a causa delle misure restrittive decise da governi, che non hanno prodotto ciò di cui vi è bisogno per contrastare il diffondersi della pandemia ‘Covid-19’, siamo costretti a celebrare la vittoria contro il nazifascismo in forme contenute e limitate.
Nell’emergenza sanitaria il sistema borghese ha dimostrato tutto il suo marciume; nel sistema sanitario pubblico, penalizzato da decenni di neoliberismo, si è consumata l'inefficienza, l'inadeguatezza e la corruzione, che la privatizzazione della sanità ha prodotto, gravando sulla vita dei lavoratori e delle loro famiglie. Se la strage degli anziani è il crimine più evidente, le centinaia di migliaia di licenziamenti, il dilagare della povertà, la militarizzazione della società, le restrizioni delle residue libertà democratiche, hanno svelato il vero volto delle politiche dei governi borghesi.
Mentre il bilancio sanitario è deficitario anche ad affrontare il ‘Covid19’, sono in aumento le spese militari. Il governo acquista nuovi sistemi di armi d’attacco aumentando del 6% la spesa bellica, accetta l'aumento della quota di appartenenza alla Nato, invia militari all'estero in zone dove (con altri paesi imperialisti) depredare risorse naturali e sfruttare le popolazioni locali, finanzia e sostiene regimi criminali come Libia e Ucraina. Anziché aumentare gli operatori sanitari e le loro retribuzioni, vengono elogiati militari, polizia e carabinieri, impiegati per tenere la popolazione a debita distanza … sociale!
Il passaggio del governo da Conte2 a Draghi ha comportato uomini "forti", generali, commissari e super-poliziotti, con esperienze di controllo sociale e politico, di guerre imperialiste. Il governo non intende gestire l'emergenza ‘Covid19’, ma abituare la popolazione alla presenza militare sul territorio in preparazione di misure sempre più autoritarie su occupazione, sanità, istruzione, servizi sociali, trasporti, pensioni, ecc.
Sfratti, licenziamenti, arresti di operai e giovani in lotta in difesa del salario, del posto di lavoro, dell’ambiente, la cassa integrazione, la disoccupazione, l’aumento della povertà, sono oramai fatti quotidiani.
Il governo dell’oligarchia finanziaria mira non solo a impedire potenziali ribellioni, ma a privare il movimento operaio e sindacale di diritti politici, sindacali e sociali, conquistati a caro prezzo: dal diritto di sciopero al diritto di manifestazione, di organizzazione e di rappresentanza sindacale, fino all'utilizzo antisindacale di strumenti giudiziari.
Come mostrano tante sentenze sui licenziamenti, sull’amianto e per ultimo quella vergognosa emessa dalla IV sezione della Cassazione sulla strage ferroviaria di Viareggio che condanna i lavoratori RLS che hanno "osato" costituirsi parte civile a pagare 80.000 euro di spese legali e processuali. A 4 mesi dalla sentenza sulla strage di Viareggio, i familiari sono ancora in attesa delle motivazioni. A 30 anni dalla strage del traghetto ‘Moby Prince’ a Livorno, le istituzioni si sono ridotte a invocare piena luce (140 Vittime, zero colpevoli!). Due stragi di lavoro dove 172 Vittime sono bruciate vive!
La borghesia - che nonostante la pandemia ha aumentato i profitti - combatte per mantenere il proprio dominio politico ed economico contro la classe lavoratrice avvalendosi anche della versione autoritaria del leghismo e del nazionalismo di Fratelli d’Italia, e della versione squadristica di Casa Pound, Forza Nuova, Lealtà e Azione e altre lugubri formazioni, che alzano il tiro (con l’obiettivo di strumentalizzare il malcontento del ceto medio), ritenendosi legittimate da anni di propaganda revisionista e da operazioni “pacificatorie” della sinistra borghese.
Armi, eserciti, decreti Salvini, missioni "umanitarie" di guerra, non garantiranno maggiore sicurezza, ma l’aumento dell’oppressione e dello sfruttamento in una situazione caratterizzata da una profonda crisi economica e sociale del sistema capitalista-imperialista; una crisi causata dalle contraddizioni insite nel sistema, le cui conseguenze pesano sulle spalle della classe operaia e degli strati popolari.
Quanto sta accadendo ha precisi responsabili: i "padroni del vapore" e i loro lacchè. Deve nascere in ogni proletario un profondo sentimento di odio di classe, come spinta necessaria ad affrontare la lotta di resistenza a questo marcio sistema.
I valori tramandati dalla Resistenza, gli ideali rivoluzionari che spinsero i Partigiani a combattere il nazifascismo per un’altra società, sono un patrimonio da utilizzare per una nuova Resistenza, contro il potere del capitale a livello mondiale, per la ripresa del conflitto di classe e una fase di lotte rivoluzionarie.
Oggi come ieri, l'unità, la lotta e l'organizzazione dei comunisti sono condizioni per la vittoria.
ORA E SEMPRE RESISTENZA!
Unione di lotta per il Partito comunista
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“Un unico interesse, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione”. Il leggendario Nečaev e “Il catechismo del rivoluzionario”
La tempra – l’ossessione, piuttosto – si misura lì, tra le mura della fortezza di Pietro e Paolo, nel pozzo di una cella, occhio di drago in muratura. Gli fu impedito di leggere. Poi di scrivere. I rari compagni di cella – ideologi della rivoluzione, antizaristi, delinquenti straordinari – storditi dalla solitudine, da quel vuoto senza eco, impazzivano. Lui no. Diventava più forte. Riuscì a conquistare i soldati addetti alla custodia dei prigionieri; nessuno dubitava del suo potere ipnotico, era posseduto dal verbo. Le pene s’inasprivano e lui progettava fughe prodigiose. Morì di scorbuto, nel dicembre del 1882, era stato arrestato dieci anni prima, a Zurigo. I servizi russi, con ramificazioni in Svizzera, Francia, Germania e Inghilterra, lo braccavano dal 1869. Aveva ammazzato un suo discepolo: non gli obbediva con coerente disciplina. Figlio di un imbianchino e di una serva della gleba, presto orfano, con infiniti fratelli, la vita di Sergej Gennadievič Nečaev affonda nella leggenda. Alcuni hanno dubitato della sua esistenza.
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La figura di Nečaev, giovanissimo ideatore di rivoluzioni, è decisiva. Insegna, intanto, che l’uomo, per natura, è in rovina e ambisce alla rivolta. Esiste, cioè, un cuore nero nella storia, un nido di mosche nell’uomo che ammette che la rivoluzione – qualunque – non si fa ‘a fin di bene’, per il meglio, per le umane sorti progressive, ma perché bisogna farla, perché non c’è altro fine che il sangue. Nečaev, voglio dire, fa fare un salto all’ideologia rivoluzionaria: la Rivoluzione è la sola divinità e per perseguirla, è naturale, occorre ammazzare. Perfino ammazzare i confratelli. La Rivoluzione è buona in sé, pur priva di contenuti, priva di aggettivi, come l’Uno, va eseguita senza interrogarla, non ammette sconti. “L’originalità di Nečaev sta nel giustificare la violenza fatta ai fratelli”, scrive Albert Camus ne L’uomo in rivolta. “Nečaev fa di più che militarizzare la rivoluzione dal momento che ammette che i capi, per dirigere i loro subordinati, abbiano il diritto di usare la violenza e la menzogna… Il reclutamento faceva tradizionalmente appello al coraggio e allo spirito di sacrificio. Nečaev decide che si possono ricattare oppure terrorizzare gli esitanti, e ingannare i fiduciosi”. Insomma, Nečaev leva ogni mascara morale alla Rivoluzione, per compiere la quale ogni atto è lecito. Soprattutto se illecito.
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Nečaev fu illuminato da Dmitrj Karakozov, che attentò alla vita di Alessandro II, fallendo – il dio/zar dimostrò una carnosa fragilità. Lo affascinava il profilo di Filippo Buonarroti, rivoluzionario italiano che praticò in Francia, e il pensiero di Pëtr Nikitič Tkačëv. Fu Bakunin, tuttavia, a dare forza e forma alla sua vita. Si incontrarono a Ginevra: il fondatore dell’anarchismo fu totalmente sedotto dal ventenne che sembrava un ispirato, mentiva – diceva d’essere stato arrestato più volte, a Mosca, e altrettante fuggito –, si presentava come il Messia della Rivoluzione. “Vi amavo profondamente e vi amo ancora… credevo fermamente, troppo fermamente in voi”, gli scrive, Bakunin, il 2 giugno del 1870. Nečaev si era già rivelato: scaltro, cinico, opportunista. Un totem d’acciaio. Due settimane dopo, agli amici, a proposito di Nečaev, sempre Bakunin: “Non ho ancora incontrato un rivoluzionario sincero e conseguente come lui… è intelligente, molto intelligente, ma la sua intelligenza è selvaggia come la sua passione, e il suo sviluppo, benché considerevole, non è stato armonioso”.
Nelle rare fotografie che abbiamo di lui, Nečaev (1847-1882) non è mai uguale a se stesso, la contraffazione gli è connaturata, pare
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Il vecchio anarchico si era accorto di aver fomentato in seno una serpe, il pittbull della Rivoluzione. In Russia, Nečaev fonda l’organizzazione “Giustizia popolare sommaria”: il simbolo è un’ascia, l’obbiettivo rovesciare lo zar, attraverso un’azione collettiva dei contadini. Nečaev era certo che nel 1870 la Rivoluzione avrebbe sradicato le fondamenta della Madre Russia. Nella cultura russa due figure, drasticamente diverse ma sostanzialmente simili, emergono con ossessiva potenza: lo jurodivyj, il ‘folle di Cristo’, che abbandona questo mondo in vista dell’altro, si pone ai margini della Storia, vive esule sulla marea della Provvidenza, e il rivoluzionario, che abita nel cuore della Storia e vuole cambiare il mondo, questo. Entrambi, jurodivyj e rivoluzionario, abitano l’estremismo: uno vive donato a Dio, l’altro dà la vita per la causa. Entrambi vivono senza temere la morte, nell’insussistenza. Dostoevskij, che ragiona sul rivoluzionario ne I demoni, pensava a Nečaev come a una figura minore, meschina, “questo personaggio mi sembra quasi comico”, scrive in una lettera a Michail Katkov. Eppure, Dostoevskij dedica a Nečaev un lungo articolo nel suo “Diario di uno scrittore”, è il 1873, Una delle falsità contemporanee. In sostanza, lo scrittore, negandolo, ammette che la vita di Nečaev, paradigmatica, è il fondamento filosofico dei Demoni. “Tra i Nečaev si possono trovare degli esseri assai cupi, assai desolati e stravolti, con una sete di intrigo e di potere complicatissima nella sua origine, con un bisogno passionale e morbosamente precoce di affermare una personalità… quelli di loro che sono veri mostri possono essere persone molto intelligenti, furbissime e perfino colte. Oppure voi credete che le conoscenze, gli ‘studi’, le nozioncine scolastiche (magari universitarie) formino così definitivamente l’anima del giovane che, ottenendo la laurea, egli acquisti immediatamente l’incrollabile talismano per conoscere, una volta per sempre, la verità ed evitare le tentazioni, le passioni e i vizi?”. Orrida per Dostoevskij è l’idea di poter considerare un “mostruoso e ripugnante assassinio” – come quello di Ivanov, ordito da Nečaev a Mosca – alla stregua di “un fatto politico utile per l’avvenire della futura ‘grande causa comune’”. L’uomo, d’altronde, è così: eleva l’idea a dio, la esplicita in ghigliottine e Gulag, la ciba con carneficina.
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La passione di Nečaev e la testa di Bakunin forgiano centocinquant’anni fa, un testo di prodigiosa potenza, Il catechismo del rivoluzionario, oggetto di uno studio importante da parte di Michael Confino (1973; in Italia stampa Adelphi). Pensato e scritto nel 1869, Il catechismo è pubblico dal 1871, e agisce, nei sotterranei dell’epoca, con indubitabile fascino. La struttura, per punti, ricorda le ‘regole’ monastiche: tutto è teso, in effetti, a conquistare ‘fratelli’, a confermare e organizzare la loro opera. Il primo punto del Catechismo – “L’edificio dell’organizzazione poggia sulla fiducia nelle persone” – sarà il discrimine nei rapporti tra Nečaev e Bakunin. Per Nečaev bisogna avere fede nella Rivoluzione, non nei rivoluzionari: egli propone una sorta di ‘via negativa’ alla Rivoluzione, che consideri, come pratica inquieta, la sovversione dei valori, la menzogna, l’astuzia tra i pari. “Voi, caro amico mio – e questo è il vostro principale, il vostro colossale errore – vi siete incapricciato del sistema di Loyola e di Machiavelli, dei quali il primo si proponeva di ridurre in schiavitù l’umanità intera, mentre il secondo cercava di creare uno Stato potente (monarchico o repubblicano non ha importanza) per ridurre in schiavitù il popolo. Innamorato come siete dei principi e dei metodi polizieschi e gesuitici, avete avuto l’idea di fondare su di essi la vostra stessa organizzazione, la vostra stessa forza collettiva segreta, per cui agite verso i vostri amici come se fossero nemici: giocate d’astuzia con loro, cercate di dividerli e perfino di metterli in discordia l’uno con l’altro…”. Soprattutto – come si legge dal brandello del Catechismo che ricalco –, incendia il principio per cui si è persi nel profondo, tanto da poter profondere ogni sforzo nella rivolta. Già. Tra Rivelazione e Rivoluzione la differenza è un velo – vanto è vivere nel grido e nel segreto. (d.b.)
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Atteggiamento del rivoluzionario verso se stesso
1. Il rivoluzionario è un uomo perduto in partenza. Non ha interessi propri, affari privati, sentimenti, legami personali, proprietà, non ha neppure un nome. Un unico interesse lo assorbe e ne esclude ogni altro, un unico pensiero, un’unica passione – la rivoluzione.
2. Nel suo intimo, non solo a parole, ma nei fatti, egli ha spezzato ogni legame con l’ordinamento sociale e con l’intero mondo civile, con tutte le leggi, gli usi, le convenzioni sociali e le regole morali di esso. Il rivoluzionario è suo nemico implacabile e continua a viverci solo per distruggerlo con maggior sicurezza.
3. Il rivoluzionario disprezza ogni dottrinarismo e ha rinunciato alle scienze profane, che egli lascia alle generazioni future. Per questo, e soltanto per questo, egli studia attualmente la meccanica, la fisica, la chimica e perfino la medicina. Pr questo egli studia giorno e notte la scienza viva – gli uomini, i caratteri, le situazioni e tutte le condizioni del regime sociale presente, in tutti gli strati. Lo scopo è uno soltanto: la distruzione rapida di questo immondo regime.
4. Egli disprezza l’opinione pubblica. Disprezza e detesta la morale vigente nella società in ogni suo motivo e manifestazione. Per lui è morale tutto ciò che contribuisce al trionfo della rivoluzione; immorale e criminale tutto ciò che l’ostacola.
5. Il rivoluzionario è un uomo perduto, spietato verso lo Stato e verso la società istruita in genere; da essa non deve dunque aspettarsi nessuna pietà. Fra lui da una parte, lo Stato e la società dall’altra, esiste uno stato di guerra, visibile o invisibile, ma permanente e implacabile – una guerra all’ultimo sangue. Egli deve imparare a sopportare la tortura.
6. Duro verso se stesso, deve essere duro anche verso gli altri. Tutti i sentimenti teneri che rendo effeminati, come i legami di parentela, l’amicizia, l’amore, la gratitudine, lo stesso onore devono essere soffocati in lui dall’unica fredda passione per la causa rivoluzionaria. Per lui non esiste che un’unica gioia, un’unica consolazione, ricompensa e soddisfazione: il successo della rivoluzione. Giorno e notte, deve avere un unico pensiero, un unico scopo: la distruzione spietata. Aspirando freddamente e instancabilmente a questo scopo deve essere pronto a morire, e a distruggere con le proprie mani tutto ciò che ne ostacola la realizzazione.
7. La natura del vero rivoluzionario esclude ogni romanticismo, ogni sensibilità, entusiasmo e infatuazione. Esclude anche l’odio e la vendetta personali. La passione rivoluzionaria, diventata in lui una seconda natura, deve in ogni momento essere unita a un freddo calcolo. Dovunque e sempre, egli deve essere non ciò cui lo incitano le sue tendenze personali ma ciò che l’interesse generale della rivoluzione gli prescrive.
*In copertina: Kazimir Severinovič Malevič, “Cerchio nero”, 1915
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La chicca di oggi è questa splendida edizione de I miei sette figli di Alcide Cervi. È la quinta edizione, stampata nel 1955 per Editori Riuniti, primo volume con cui l'editore inaugurò la collana: Biblioteca della Resistenza. La Prefazione è di Piero Calamandrei.
Dalla seconda di copertina: "I sette fratelli Cervi furono tra i primi ad accogliere e ad agitare il grande appello della Resistenza, ad affermare con il sacrificio della vita, nella unità della loro famiglia e quasi ad anticipazione di una nuova morale degli italiani, la protesta vigorosa del nostro popolo alla guerra, all'oppressione straniera e interna. È quindi giusto che una Biblioteca della Resistenza apra la sua serie con un libro sulla gloriosa storia dei sette fratelli Cervi, narrata dal vecchio padre, eroico superstite di una così drammatica vicenda. In questa narrazione il lettore troverà uniti i motivi più profondi che hanno spinto tutto un popolo a resistere - non soltanto momentaneamente a un invasore e a un oppressore - ma a quei gruppi, a quelle forze, che sempre hanno osteggiato l'emancipazione sociale in Italia e l'avvento di una società più giusta e umana. Tra passato e presente, la Resistenza del popolo italiano continua a riaffermare quei valori, che caratterizzano dal principio alla fine, la storia di quella generosa famiglia di contadini."
Ho anche la più recente edizione Einaudi negli ET Saggi, ma questa è un piccolo tesoro.
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è “Il decimo clandestino” di Giovannino Guareschi.
Il decimo clandestino è la terza raccolta di racconti (o romanzo a episodi) del giornalista e scrittore italiano Giovannino Guareschi pubblicata postuma da Rizzoli nell'ottobre del 1982. L’ambientazione si allarga dalla bassa padana alle città del nord come Milano. Compaiono il parroco di campagna don Camillo e il sindaco comunista e meccanico del paese Peppone, in un paio di racconti ma di sfuggita, ombre di contorno ai fatti dei contadini, operai, commendatori, industriali, professori, ricchi e poveri e persino un americano.
Il romanzo è composto da 17 racconti:
Il decimo clandestino: (racconto che dà il titolo al volume) una vedova con 9 figli decide di rifarsi una vita trasferendosi in città e per trovare un alloggio con l'affitto è costretta a dichiarare di essere sola. I bambini dovranno entrare e uscire silenziosamente al mattino presto e alla sera tardi quando gli altri dormono.
Una famiglia rovinata: una famiglia di contadini avari si disperano quando il figlio in un attimo di "pazzia" acquista una motoretta che si rivela un vero affare.
Il cero: un affitto non pagato, un contratto non rispettato, una sentenza del tribunale e un cero di ringraziamento alla Madonna, peccato che non si riesca a farlo stare acceso.
Residuati di guerra: ogni anno la tedesca torna per pregare sulla tomba del marito morto in guerra in Italia e alloggia da Milca che è stato per il marito un vero amico... forse...
La parte di Diego: per un padre tutti i figli sono uguali, nei diritti, anche un morto. E se non c'è il rispetto dei vivi, ci può pensare il fiume.
Il cancello chiuso: a volte le strade di campagna passano nei posti più impensati e pericolosi e un carattere iroso può avere conseguenze disastrose.
Viaggio di nozze: in guerra sono accadute anche cose brutte e antipatiche a chi si è trovato in veste di civile, di fronte a dei soldati. Pur cercando di non portare rancore è un'occasione troppo ghiotta per un oste, ritrovare il comandante inglese di anni fa.
La notte dei miracoli: non avere un lavoro e avere degli suoceri ricchi che ti odiano non è facile: si rischia di perdere la famiglia, ma la vigilia di Natale i miracoli possono accadere nei modi più impensati.
Vita con la madre: il presidente di un'industria non ha tempo per cosucce come l'acquisto dei regali per la moglie e il suo bambino, ma una letterina a Gesù Bambino per Natale del figlioletto può chiarire e cambiare molte cose.
Grazie dei fiori: il professor Tabacci insegnava latino ma il suo segreto era il pallino per i fiori, tanto che la moglie lo iscrive al famoso gioco televisivo (probabilmente Lascia o Raddoppia) per vincere una grossa cifra.
L'alba del commendatore: il tema del figlioletto può essere motivo di riscatto anche dopo tanti anni.
Affari di borsa: cosa può accadere se padre e figlia si scambiano la borsa.
L'uomo più ricco del mondo: racconto americano che dimostra alcuni valori universali.
Carcere di provincia: quando sei carcerato ti preoccupi per ciò che ti sei lasciato fuori (questo racconto, pur non parlando di sé, è uno dei pochi scritti dove si trova Guareschi in carcere, periodo del quale lo scrittore non parlava mai).
L'investimento: può un'auto ferma investire un ciclista? a furor di popolo pare di si
Un pranzo da signori: la dignità di una famiglia sull'orlo del fallimento.
Cavalli e donne: la nostalgia di un vecchio ai tempi passati e alle avventure di gioventù.
Giovannino Oliviero Giuseppe Guareschi (1908–1968) è stato uno scrittore, giornalista, umorista e caricaturista italiano. È uno degli scrittori italiani più venduti nel mondo (con oltre 20 milioni di copie) venendo persino plagiato in Vietnam. La sua opera più nota, anche per via delle trasposizioni cinematografiche e per il significato politico che assunse in quegli anni, è don Camillo, un parroco che ha come antagonista un sindaco comunista, Peppone, e le cui vicende si svolgono in un paese della bassa padana emiliana.
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