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Il sentiero della speranza e della memoria in "Il Sentiero" di Antonia Pozzi. Recensione di Alessandria today
Una riflessione poetica sulla vita, i ricordi e l’infanzia
Una riflessione poetica sulla vita, i ricordi e l’infanzia. “Il Sentiero” è una delle poesie più evocative della poetessa italiana Antonia Pozzi, scritta il 30 gennaio 1935. Attraverso immagini delicate, la Pozzi esplora il tema della memoria e del ritorno alla semplicità della vita, delineando un percorso intimo tra le speranze del passato e la realtà del presente. La poesia racconta un viaggio…
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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Darwish
Si è legata l’esplosivo alla vita e si è fatta esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
É il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate da ogni direzione.
Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.
É l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni, sedotto dal filtrare col tempo, eccetto a Gaza. Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici, perché Gaza è un’isola.
Ogni volta che esplode, e non smette mai di farlo,
sfregia il volto del nemico, spezza i suoi sogni e ne interrompe l’idillio con il tempo.
Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa, perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale. Non spinge la gente alla fredda contemplazione, ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà. Il tempo laggiù non porta i bambini dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia, ma li rende uomini al primo incontro con il nemico. Il tempo a Gaza non è relax, ma un assalto di calura cocente.
Perché i valori a Gaza sono diversi, completamente diversi.
𝐋’𝐮𝐧𝐢𝐜𝐨 𝐯𝐚𝐥𝐨𝐫𝐞 𝐝𝐢 𝐜𝐡𝐢 𝐯𝐢𝐯𝐞 𝐬𝐨𝐭𝐭𝐨 𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐞̀ 𝐢𝐥 𝐠𝐫𝐚𝐝𝐨 𝐝𝐢 𝐫𝐞𝐬𝐢𝐬𝐭𝐞𝐧𝐳𝐚 𝐚𝐥𝐥’𝐨𝐜𝐜𝐮𝐩𝐚𝐧𝐭𝐞.
Questa è l’unica competizione in corso laggiù.
E Gaza è dedita all’esercizio di questo insigne e crudele valore che non ha imparato dai libri o dai corsi accelerati per corrispondenza, né dalle fanfare spiegate della propaganda o dalle canzoni patriottiche.
L’ha imparato soltanto dall’esperienza e dal duro lavoro che non è svolto in funzione della pubblicità o del ritorno d’immagine.
Gaza non si vanta delle sue armi, né del suo spirito rivoluzionario, né del suo bilancio. Lei offre la sua pellaccia dura, agisce di spontanea volontà e offre il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore, non ha gola.
É la sua pelle a parlare attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo il nemico la odia fino alla morte, la teme fino al punto di commettere crimini e cerca di affogarla nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo, gli amici e i suoi cari la amano con un pudore che sfiora quasi la gelosia e talvolta la paura, perché Gaza è barbara lezione e luminoso esempio sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe. Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia,
tende abbandonate al vento,
merce di contrabbando,
braccia a noleggio.)
Non è la città più raffinata, né la più grande, ma equivale alla storia di una nazione.
Perché agli occhi dei nemici è la più ripugnante, la più povera, la più disgraziata, la più feroce di tutti noi. Perché è la più abile a guastare l’umore e il riposo del nemico ed è il suo incubo.
Perché è arance esplosive,
bambini senza infanzia,
vecchi senza vecchiaia,
donne senza desideri.
Proprio perché è tutte queste cose, lei è la più bella, la più pura, la più ricca, la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie.
Non sfiguriamone la bellezza che risiede nel suo essere priva di poesia. Al contrario, noi abbiamo cercato di sconfiggere il nemico con le poesie, abbiamo creduto in noi e ci siamo rallegrati vedendo che il nemico ci lasciava cantare e noi lo lasciavamo vincere.
Nel mentre che le poesie si seccavano sulle nostre labbra, il nemico aveva già finito di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza quando la trasformiamo in un mito perché potremmo odiarla scoprendo che non è niente più di una piccola e povera città che resiste.
Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito, dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi e piangere se avessimo un po’ di dignità, o dovremmo maledirla se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo torto a Gaza se la glorificassimo.
Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.
Ma Gaza non verrà da noi, non ci libererà.
Non ha cavalleria, né aeronautica, né bacchetta magica, né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi, la nostra lingua e i suoi invasori.
Se la incontrassimo in sogno forse non ci riconoscerebbe, perché lei ha natali di fuoco e noi natali d’attesa e di pianti per le case perdute.
Vero, Gaza ha circostanze particolari e tradizioni rivoluzionarie particolari.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
Ma il suo segreto non è un mistero: la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole (vuole scrollarsi il nemico di dosso).
A Gaza il rapporto della resistenza con le masse è lo stesso della pelle con l’osso e non quello dell’insegnante con gli allievi.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno, non ha affidato il proprio destino alla firma né al marchio di nessuno. Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome, l’immagine, l’eloquenza. Non ha mai creduto di essere fotogenica, né tantomeno di essere un evento mediatico. Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere sfoderando un sorriso stampato.
Lei non vuole questo,
noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.
La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto, né incensiamo i suoi sogni con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.
Per questo, sarà un tesoro etico e morale inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono, niente la distoglie.
Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico. Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale, né la forma di governo palestinese che fonderemo dalla parte est della Luna o nella parte ovest di Marte, quando sarà completamente esplorato.
Niente la distoglie.
É dedita al dissenso:
fame e dissenso,
sete e dissenso,
diaspora e dissenso,
tortura e dissenso,
assedio e dissenso,
morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza.
(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.
Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
𝑆𝑖𝑙𝑒𝑛𝑧𝑖𝑜 𝑝𝑒𝑟 𝐺𝑎𝑧𝑎 𝑑𝑖 𝑀𝑎ℎ𝑚𝑜𝑢𝑑 𝐷𝑎𝑟𝑤𝑖𝑠ℎ, 1973
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Mi piace
l’odore della rotaia
il profumo del basilico
le rughe piene di storia
la storia degli uomini che non l’hanno scritta
la lingua napoletana durante l’amore
la granita al caffè con la panna
il latte di mandorla
l’accoglienza del bergamotto
le gambe storte
dormire tra le barche dei pescatori
fare l’amore tra le barche dei pescatori
il cielo di milano a gennaio
pietro germi
la poesia di antonio delfini
il coraggio di ernst lossa
il be bop
la tromba sorridente di Raffaele
chi ha da insegnare
chi è curioso
la verginità dell’ogliastra
i colori della barbagia
il silenzio di chi ha qualcosa da dire
i pugni nelle tasche
la faccia di ernest borgnine
marlene jobert
il vento di quimper
la traversata dover – calais
la notte di copenhagen
il viaggio senza meta
il ritorno.
V. Costantino
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Ho aperto una bottiglia di vino, non lo facevo da settimane.
Ho aperto una bottiglia di vino perché scrivere questa consegna m’irretisce: che ne so, io, del futuro? Che ne so, io, del mio, di futuro?
La mia psicologa m’ha detto di pormi domande anche fuori dalla stanza delle parole; allora, mi chiedo: sarà sempre così? Avrò sempre bisogno dell’ausilio di uno stato psicofisico alterato per guardarmi dentro? Per scovarmi?
Dove sono finita?
Non sarà poesia questa volta, se poesia possiamo definire quelle masse informi delle volte scorse. Non sarà logico, razionale, non seguirà un andamento lineare: questa sono io che scrivo di getto un flusso di coscienza che odierò dover rileggere per editare.
Probabilmente lo lascerò così: grezzo, magmatico, inusuale.
Io non so neanche cosa sia, il futuro. Treccani m’informa: futuro è
s. m. Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno.
Il tempo che verrà. Quando verrà?
Io procrastino il mio futuro, lo faccio da anni: congelata per decenni nello stato della studentessa che non vuole crescere, divenire adulta.
Il tempo che verrà, gli avvenimenti che in esso si succederanno:
allora il futuro è anche questo momento? Questo preciso ed esatto istante?
Il mio futuro di oggi prevede la sopravvivenza a questa giornata logorante, solitaria, alcolica, per poter andare a lavorare, poi, alle 23, staccare alle 3, andare a dormire.
È questo il mio futuro? È questo quello che mi aspetta una volta uscita dal nido sicuro, limbo lenitivo, che è la Holden?
Per anni ho procrastinato la mia laurea perché l’idea di lasciare la calda certezza dell’Università mi dilaniava.
Ora mi sono laureata, ma non l’ho fatto prima d’aver trovato già un morbido rimpiazzo.
Questa scuola.
Con le sue pareti dai colori caldi, i divanetti nei corridoi. Le consegne che ti obbligano a guardarti allo specchio. Mi viene in mente Elisa, di Menzogna e sortilegio:
E mi aggrappo agli specchi per ritrovarmi. Per non dissolvermi.
Come Elisa
Medusa
Fluttuo nell'aria e
L'avvolgo
Questa stanza è piena di me;
In me
L'aria. -
si guardava allo specchio e lo specchio le rifletteva l’immagine informe di una medusa incorporea. Questo sono anch’io: non ho contorni, non ho definizioni, non mi lascio incasellare: sono magma, come lo è la mia scrittura schizofrenica; sono fluido, informe e scrosciante, flusso che pretende di divenire, vento che soffia frusciante.
L’eterno ritorno.
Futuro, il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno. Io, nel mio futuro, voglio vivere. Nel mio futuro è la vita che voglio: è la tenacia, l’ostinata, imperitura, tenacia di vivere che voglio, nel mio futuro.
Sarebbe troppo semplice scrivere il manifesto politico e indignato: oh, sì, il pianeta va in fiamme; le disuguaglianze? Non c’è modo alcuno di eliminarle; il lavoro è precario, il lavoro fa schifo – sono una fiera anti-lavorista impenitente – come si può metter su famiglia in uno scenario apocalittico tale? Apocalittico ‘sto cazzo: questo è il nostro presente. Ma, poi, io voglio davvero mettere su famiglia?
Io,
nel mio futuro,
voglio vivere.
E nel mio presente io mi domando, mi imploro persino: Federica, risolvi te stessa, perché sei dipendente da ogni dipendenza, e cerchi costantemente la sofferenza perché altrimenti non senti niente; e tu devi sentire, devi sentire di esistere e non solo esistere;
Federica tu vuoi vivere e non semplicemente esistere.
Come si fa, allora, ad immaginare un futuro se è già il presente ad essere così precario?
Futuro. Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno. Talvolta ho desiderato non ci fosse alcun futuro per me. Talvolta, guidando, un pensiero intrusivo ha tentato d’ammaliarmi: non frenare, continua così, col pedale schiacciato sull’acceleratore, ai 100 all’ora contro quell’albero: in fondo, che hai da perdere?
Niente.
Sono qui.
Quel pensiero intrusivo sono sempre riuscita a riporlo in un cassetto.
Chiuso a chiave,
due mandate,
per sicurezza. Quanto m’ha spaventato, quanto ancora mi spaventa quando tenta, con le sue lunghe dita affusolate, d’aprirsi un varco nel mio conscio.
Ma io è vivere che voglio.
Nel mio futuro, è vivere che voglio
Fanculo al mondo che cade a pezzi: non riesco a tenere insieme neanche me stessa.
Fanculo al mondo che brucia: io ho bisogno del fuoco per sentirmi esistere.
Fanculo alle ingiustizie: di cosa scriverei, se questo mondo indecente fosse perfetto?
E, poi, di cosa parlerei, se io fossi una persona risolta?
Futuro: Il tempo che verrà o gli avvenimenti che in esso si succederanno.
Io nel mio futuro voglio succedermi.
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Lettera di Natale di Franco Arminio
Natale e i giorni che lo circondano sono una spina feroce per i dolenti. Il Natale dei vecchi nelle case di cure, il Natale dei carcerati, il Natale negli ospedali. Ma questi giorni sono feroci anche per chi sta a casa e ha la stanza del figlio vuota, il figlio morto a Natale diventa un ferro rovente che ti rovista il cuore. Il Natale di chi sta a casa e sente che è passato troppo tempo e non hai più venti anni e nemmeno quaranta. Il Natale dei bambini circondati da merci più che da da persone, il Natale degli scapoli, quelli che quando tornano a casa la sera sentono il vento che fischia dietro la porta e non ti viene voglia di spostare un bicchiere, di lavare un piatto. Il Natale degli amori sgretolati, delle diffidenze, delle bugie che diciamo agli altri e a noi stessi. Il miserabile Natale di chi ha successo e ne vuole avere ancora di più, il Natale dei delinquenti che prima o poi saranno scoperti, il Natale di chi è stato lasciato e di chi non è stato mai trovato, il Natale del fegato malato, del dente guasto, il Natale degli occhi gonfi, il Natale delle rughe, dei capelli caduti, il Natale di chi non si ama più e di chi non ha amato mai.
Una festa così dovrebbe essere una grande occasione di federare le nostre ferite, dovrebbe essere la festa della verità su chi siamo e su chi vorremmo diventare, da soli e assieme agli altri. E invece abbiamo delegato il nostro dolore ai dolciumi, come se un torrone potesse essere l’avvocato della nostra ansia, un panettone il muro contro l’angoscia.Natale dovrebbe essere il tempo della poesia. La poesia al posto della tombola, la terna di Leopardi, la quintina di Dante. La poesia serve a spiegare la disperazione e a far fiorire la gioia, tutte e due le cose assieme. La poesia serve a lasciare un poco di vuoto dentro di noi, serve a tenere spazio per il ritorno dei miracoli.Nella giostra orrenda delle merci ci siamo dimenticati che in fondo Natale è la festa dei miracoli.
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"I fiori del male" (Les Fleurs du mal) è una delle opere più celebri e influenti della letteratura francese, pubblicata per la prima volta nel 1857. Questa raccolta di poesie rappresenta un viaggio profondo e oscuro nell'animo umano, esplorando temi come la bellezza, la decadenza, l'amore, la morte e la ribellione.
Baudelaire utilizza un linguaggio ricco e simbolico per descrivere la sua visione del mondo, spesso caratterizzata da un senso di spleen, un termine che indica una profonda malinconia e noia esistenziale. Le poesie sono suddivise in sei sezioni principali: Spleen e Ideale, Quadri Parigini, Il Vino, I Fiori del Male, La Rivolta e La Morte.
Ogni sezione rappresenta una fase del percorso esistenziale del poeta, dalla consapevolezza della propria diversità rispetto al mondo esterno, alle esperienze nella vita degradata della metropoli, fino al desiderio di fuga nell'alcol e nelle droghe, e infine alla ribellione contro Dio e al rifiuto totale del mondo attraverso la morte.
Baudelaire riesce a trasformare la corruzione e la volgarità della società contemporanea in arte, creando una bellezza che solo la poesia può realizzare. La sua capacità di vedere oltre le apparenze e di rivelare una realtà più profonda e autentica è uno degli aspetti più affascinanti della sua opera.
Charles Pierre Baudelaire nacque il 9 aprile 1821 a Parigi, figlio di Joseph-François Baudelaire, un funzionario pubblico e artista dilettante, e Caroline Dufaÿs. La morte precoce del padre e il successivo matrimonio della madre con il tenente colonnello Jacques Aupick influenzarono profondamente la sua vita e la sua opera.
Baudelaire fu educato al Lycée Louis-le-Grand di Parigi, dove iniziò a mostrare un interesse precoce per la letteratura. Tuttavia, la sua vita scolastica fu irregolare, caratterizzata da periodi di grande diligenza alternati a momenti di indolenza. Durante la sua giovinezza, Baudelaire iniziò a frequentare i circoli bohémien di Parigi, sviluppando un gusto per la vita dissoluta e per le esperienze estreme, che avrebbero poi influenzato profondamente la sua poesia.
Nel 1841, su pressione della famiglia, intraprese un viaggio in India, ma tornò a Parigi dopo pochi mesi. Questo viaggio, sebbene breve, lasciò un'impronta duratura sulla sua immaginazione e sulla sua opera. Al suo ritorno, Baudelaire iniziò a scrivere e a pubblicare poesie, guadagnandosi una reputazione come uno dei poeti più promettenti della sua generazione.
La pubblicazione de "I fiori del male" nel 1857 fu accolta con scandalo e controversie. L'opera fu accusata di oscenità e sei delle poesie furono censurate. Nonostante ciò, "I fiori del male" consolidò la reputazione di Baudelaire come uno dei più grandi poeti del suo tempo. La sua capacità di esplorare i lati più oscuri dell'esperienza umana con una bellezza lirica senza pari lo rese una figura centrale nel movimento simbolista e un precursore del modernismo.
Baudelaire trascorse gli ultimi anni della sua vita in condizioni di salute precarie, afflitto da problemi finanziari e da una dipendenza crescente dall'oppio e dall'alcol. Morì il 31 agosto 1867 a Parigi.
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Se non mi trovi
cercami in quel foglio bianco
in quella pagina strappata
in quei ricordi non lasciati
in quell’abbraccio dimenticato
in quello sguardo freddo
nel tempo rubato e mai donato
in quella poesia ridicola
in un appuntamento mancato
in quel “avresti potuto”
che mai un “posso“ è diventato,
in quello che hai preso
senza nulla aver lasciato
in riva alla nostra spiaggia
tra le conchiglie nascoste nella sabbia.
Cercami tra gli errori del tuo cuore
in quei giorni mai compiuti
in quelle promesse mancate
nell’andirivieni delle onde
che non faranno più ritorno.
Tu cercami…
nei tuoi errori
che io ti cancellerò dai miei.
Silvana Stremiz
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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La penna del cuore: riflessioni sul tempo e sull'amore nelle poesie di Laura Neri. Recensione di Alessandria today
La nostalgia dei giorni passati e l'importanza dei ricordi in una poesia intensa e sincera di Laura Neri
La nostalgia dei giorni passati e l’importanza dei ricordi in una poesia intensa e sincera di Laura Neri La poesia La penna del cuore di Laura Neri è un toccante dialogo con il tempo, un momento di riflessione profonda sull’amore, la memoria e la perdita. Neri, con la sua inconfondibile delicatezza, descrive la sensazione di trovarsi di fronte a un cambiamento irreversibile, come il lento…
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Ci hanno tolto la magia di una foto, la poesia di una lettera, la calligrafia, l'odore d'un libro, il ritaglio di un giornale, il "ci vediamo alle otto in piazza", il negozietto di alimentari sotto casa, le infinite chiacchierate in una cabina, i baci su una panchina, la paura che rispondesse il padre al telefono fisso, il diario segreto, il pallone nel cortile, l'attesa del rewind, la dedica alla radio, l'impaccio nel ballare un lento, i giochi di società, la comunicazione.
Quando la tecnologia avrà seppellito anche l'ultimo sussulto relazionale, avranno completato l'opera inarrestabile di desertificazione emotiva perché allora, e solo allora, ci avranno reso animali urbani, sempre più vicini, eppur così lontani.
La tecnologia ha accorciato le distanze ma ha allontanato le persone ...in tutti i sensi!
Invertire la rotta non è facile, ma non impossibile. Esisteranno sempre persone che non cederanno e che continueranno a coltivale i sentimenti e le emozioni, proprie quelle che ci rendono umani, proprio quelle che vorrebbero cancellare facendoci entrare nel transumanesimo.
Il futuro, per chi deciderà di andare contro a questo sistema, sarà sicuramente un ritorno al passato.
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Se non mi trovi
cercami in quel foglio bianco
in quella pagina strappata
in quei ricordi non lasciati
in quell’abbraccio dimenticato
in quello sguardo freddo
nel tempo rubato e mai donato
in quella poesia ridicola
in un appuntamento mancato
in quel “avresti potuto”
che mai un “posso“ è diventato,
in quello che hai preso
senza nulla aver lasciato
in riva alla nostra spiaggia
tra le conchiglie nascoste nella sabbia.
Cercami tra gli errori del tuo cuore
in quei giorni mai compiuti
in quelle promesse mancate
nell’andirivieni delle onde
che non faranno più ritorno.
Tu cercami…
nei tuoi errori
che io ti cancellerò dai miei.
Silvana Stremiz
poesia scelta da https://www.tumblr.com/mancino
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Mi piace
l’odore della rotaia
il profumo del basilico
le rughe piene di storia
la storia degli uomini che non l’hanno scritta
la lingua napoletana durante l’amore
la granita al caffè con la panna
il latte di mandorla
l’accoglienza del bergamotto
le gambe storte
dormire tra le barche dei pescatori
fare l’amore tra le barche dei pescatori
il cielo di milano a gennaio
pietro germi
la poesia di antonio delfini
il coraggio di ernst lossa
il be bop
la tromba sorridente di Raffaele
chi ha da insegnare
chi è curioso
la verginità dell’ogliastra
i colori della barbagia
il silenzio di chi ha qualcosa da dire
i pugni nelle tasche
la faccia di ernest borgnine
marlene jobert
il vento di quimper
la traversata dover – calais
la notte di copenhagen
il viaggio senza meta
il ritorno.
V. Costantino
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“Ode alla pace”, la poesia di Pablo Neruda contro tutte le guerre
La follia umana sembra aver preso il sopravvento. In realtà, le guerre sono presenti in quasi ogni parte del mondo. L’Ode alla pace di Pablo Neruda vuole essere una preghiera affinché si fermi la barbarie e trionfi la pace.
Ode alla pace di Pablo Neruda
Sia pace per le aurore che verranno,
pace per il ponte, pace per il vino,
pace per le parole che mi frugano
più dentro e che dal mio sangue risalgono
legando terra e amori con l’antico
canto;
e sia pace per le città all’alba
quando si sveglia il pane,
pace al libro come sigillo d’aria,
e pace per le ceneri di questi
morti e di questi altri ancora;
e sia pace sopra l’oscuro ferro di Brooklyn, al portalettere
che entra di casa in casa come il giorno,
pace per il regista che grida al megafono rivolto ai convolvoli,
pace per la mia mano destra che brama soltanto scrivere il nome
Rosario, pace per il boliviano segreto come pietra
nel fondo di uno stagno, pace perché tu possa sposarti;
e sia pace per tutte le segherie del Bio-Bio,
per il cuore lacerato della Spagna,
sia pace per il piccolo Museo
di Wyoming, dove la più dolce cosa
è un cuscino con un cuore ricamato,
pace per il fornaio ed i suoi amori,
pace per la farina, pace per tutto il grano
che deve nascere, pace per ogni
amore che cerca schermi di foglie,
pace per tutti i vivi,
per tutte le terre e le acque.
Ed ora qui vi saluto,
torno alla mia casa, ai miei sogni,
ritorno alla Patagonia, dove
il vento fa vibrare le stalle
e spruzza ghiaccio
l’oceano. Non sono che un poeta
e vi amo tutti, e vago per il mondo
che amo: nella mia patria i minatori
conoscono le carceri e i soldati
danno ordini ai giudici.
Ma io amo anche le radici
del mio piccolo gelido paese.
Se dovessi morire mille volte,
io là vorrei morire:
se dovessi mille volte nascere,
là vorrei nascere,
vicino all’araucaria selvaggia,
al forte vento che soffia dal Sud.
Nessuno pensi a me.
Pensiamo a tutta la terra, battendo
dolcemente le nocche sulla tavola.
Io non voglio che il sangue
torni ad inzuppare il pane, i legumi, la musica:
ed io voglio che vengano con me
la ragazza, il minatore, l’avvocato, il marinaio, il fabbricante di bambole
e che escano a bere con me il vino più rosso.
Io qui non vengo a risolvere nulla.
Sono venuto solo per cantare
e per farti cantare con me.
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The Lady Orlando
Orlando è così bello che a volte mi chiedo come sia possibile che esista una cosa del genere a questo mondo. Come è possibile che davvero una persona abbia dentro la testa e nel cuore così tanta bellezza, io non lo so. Mi fa essere felice perché riesco a vederla, la bellezza, è per me, e sono anche inspiegabilmente triste al pensiero che il resto del mondo non stia leggendo Orlando, in questo preciso istante. Per me Mrs Dalloway era stato memorabile. ricordo di averlo letto in metro, nei pomeriggi di ritorno dall'Università, e intanto ascoltavo Antony and the Johnsons. è stata l'unica volta che in vita mia sono riuscita a leggere qualcosa ascoltando della musica. E questo perché Virginia Woolf e quella musica si conoscono, parlano la stessa identica lingua. Quella musica è così trasparente, così profonda che mi fa pensare spesso alla morte. E così anche Virginia Woolf. Ci sono tantissimi pensieri dentro Mrs Dalloway che vanno lì senza cercare scuse, senza mezzi termini. È bellissimo. Bellissimo ma vertiginoso. E Orlando lo scrive subito dopo Mrs Dalloway: questo mi ha fatto pensare, quando l'ho scoperto, che tra i libri di uno stesso autore esiste una relazione di parentela che è inversa rispetto a quella che c'è tra i figli di una stessa madre: i primi nati non sono i più grandi; i figli maggiori sono gli ultimi partoriti dalla mente dello scrittore. per capirci, Orlando è il fratello più grande di Mrs Dalloway, e questa è una garanzia di buona condotta nel ragazzo, lui è presumibilmente maturo, assennato, serio almeno quanto la sorella, probabilmente lo è anche di più. E invece, quando lo conosci bene, vedi subito che Orlando è sbarazzino come un fratello minore. Con lui Virginia Woolf si è voluta concedere una "writer's holiday": e si sente tutto, perché lei se la concede gloriosamente. Questa è una vacanza in un hotel di cinque stelle, e l'hotel si chiama Knole. In vacanza, si sa, uno ci va spensierato e leggero, ma Virginia Woolf non lascia niente al caso, tutto è preparato e organizzato nel minimo dettaglio, prima ancora che per se stessa, per la sua compagna di viaggio, Vita. Perché in fondo questa non è solo una vacanza da scrittore, no: è una lettera d'amore. La più lunga lettera d'amore della letteratura. Ogni parola in questo libro è una parola d'amore. E di un amore invidiabile, almeno io lo invidio: perché è fatto proprio di letteratura, costruito con pezzi di quella, raccolti con cura da ogni epoca passata. E a leggere bene, è un amore fatto di poesia, ecco in realtà perché lo invidio. Poesia, proprio come nell'incipit di quella lettera bellissima in cui Virginia annuncia a Vita la sua intenzione di scrivere questo romanzo. Una poesia travestita da lettera, ché a guardar bene quelli a me sembrano proprio pentametri
Never do i leave you without thinking/
it's for the last time. and the Truth Is,/
we gain as much as we lose by this./
E Orlando è una poesia che trasuda arguzia da ogni poro, ed è travestita da narrativa che è travestita da biografia. Ogni idea dentro questo libro è una trappola, fin troppo intelligente, per far capitolare Vita: è un incallito tentativo di compiacerla, di sedurla con le parole, un corteggiamento letterario, un glorioso e velleitario occhiolino: vuole farla ridere, vuole farla innamorare. Difatti per tutto il tempo si ha la netta sensazione di essercisi seduti per sbaglio ad un tavolino che era prenotato per due. E quelle due del tavolino si guardano negli occhi e, appunto, ridono: tu se vuoi puoi pure sederti, tanto loro non ti sentono proprio.
Virginia Woolf inizia a scrivere la sua biografia proprio quando Vita Sackville-West sembra più incostante, le volta le spalle, passeggia con altre donne. Allora deve riprendersela, allora l'invenzione deve essere altissima, deve farla cadere ai suoi piedi, deve lasciarla senza parole con le uniche armi che ha, lei che non sa neanche riconoscere il davanti di un abito dal dietro: allora le regala il tempo, e le regala l'ironia. Le regala un corpo da uomo, e un paio di calze nere perché possa sfoggiarci dentro le sue gambe perfette, le più belle gambe su cui un nobiluomo si sia mai messo in piedi; le regala una vecchia regina Elisabetta, infatuata di lui; le regala una risalita del Tamigi di fronte alla nuovissima Londra di Wren; le regala le coffee houses appena fondate, e le regala i poeti. I poeti sono il suo più grande asso nella manica: sono le sue parole d'amore più irresistibili, e Virginia Woolf lo sa perfettamente. Perché è impossibile che Vita non si sciolga al pensiero di aver cenato con Pope, pranzato con Addison, e preso il tè con Swift. Meglio ancora: i poeti glieli porta dentro casa, e lì dentro Vita può finalmente ridere anche di loro, fino quasi a vergognarsene, può vederli in tutti i loro miseri difetti e in tutti i loro piccoli limiti. Può vederli umani insomma, può vederli davvero. E allo stesso tempo, mentre è così impegnata a disegnare Vita, a dirle quanto è bella, a dimostrarle quanto a fondo la conosce, quanto può riuscire a compiacerla, Virginia Woolf si sta spogliando davanti alla signora Orlando, si sta arrendendo a lei, senza pudore. Il suo amore per il 700 inglese è una confessione spudorata. È seducente persino sentirla descrivere il passaggio di secolo, l'umidità che si arrampica su per le pareti delle case insieme alle rampicanti di edera, le barbe che crescono, i tappeti che avanzano, che conquistano ancora una stanza: i matrimoni che si stringono al freddo del nuovo secolo e la conseguente, inevitabile nascita dell'impero britannico. È un libro intimo: è una conversazione a un tavolo per due.
Verso la fine di questa vacanza nel tempo, sento distintamente che Virginia Woolf comincia a prepararsi per il rientro a casa. Gli ultimi capitoli del libro sono più impegnativi, sembra quasi di sentirla ogni tanto tirare un colpetto di tosse, a far uscire la sua voce di sempre, quella della signora Dalloway, la sorella minore ma più assennata. Con quella stessa voce raccoglie finalmente tutti i fili seminati per la sua biografia fittizia e, senza curarsi di te che stai lì al tavolino, li mette in mano alla sua interlocutrice, la vera questione di questa lettera d'amore: cara Vita, ha forse senso questo mio rincorrere la tua bellezza nei secoli? esiste davvero la poesia? ha qualcosa a che vedere poi con la vita? e dimmi, Dryden può mai essere una parola d'amore? Avvicinati ancora una volta, ascolta: Dryden.
La questione era già perfettamente formulata nella meravigliosa lettera che annunciava il concepimento di Orlando: alla vigilia della scrittura, quando ancora il libro è quasi solo un'idea. Questo è un momento mitico, come quando per la prima volta si incontrano gli sguardi di due amanti della leggenda. Sto per scrivere Orlando perché non voglio più lasciarti: never do I leave you without thinking, It is for the last time. Prima ancora che Orlando abbia iniziato la sua gestazione, molto prima che abbia aperto gli occhi sul mondo, la domanda c'è già, rotonda, sbigottita: come faccio a restare con te? come faccio a tenerti per sempre? come faccio a evitare che questa sia la mia ultima lettera? come può la poesia vincere la vita, o meglio, vincere la morte?
La risposta io credo sia in quella cassaforte dove, allo scoppiare della guerra, Vita aveva nascosto i suoi smeraldi insieme al piu inestimabile dei tesori in suo possesso: il manoscritto di Orlando, che Virginia Woolf le aveva fatto recapitare a casa un giorno prima della pubblicazione del libro per il resto del mondo. Loro due sono ancora sedute a quel tavolo, e lo saranno nei secoli, a ripetersi tre semplici parole d'amore:
Addison, Dryden, Pope.
E a guardare bene, Vita Sackville-West ride e piange allo stesso tempo:
Never do i leave you without thinking, it's for the last time.
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Tutti conoscete la storia di Romeo e Giulietta scritta da William Shakespeare.
Ma conoscete anche la storia di Diego Martinez Marcilla e Isabel Segura?
Vi ho riassunto i fatti in un racconto.
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L'abbraccio eterno
C'era una volta, nelle strette vie di Teruel, una storia d'amore così profonda da sfidare il tempo e le convenzioni. Diego Martinez Marcilla e Isabel Segura, due anime legate fin dall'infanzia, sperimentarono la magia dell'amore puro, nonostante le barriere sociali e le rivalità familiari che li separavano.
Le strade tortuose di Teruel sono state testimoni del loro affetto segreto, ma quando i due giovani sono cresciuti, le loro speranze di matrimonio si sono infrante a causa di fredde decisioni familiari. Il padre di Isabel, che temeva per il futuro della figlia, negò loro il diritto di sposarsi. Disperati, Diego e Isabel escogitarono un piano. Isabel si fece promettere dal padre di aspettare Diego per cinque anni, dopodiché si sarebbe sottomessa alla volontà paterna. Diego, nel frattempo, parte per cercare fortuna altrove, lontano da Teruel.
Con il cuore pieno di speranza e l'amore come bussola, Diego si mette in viaggio verso una terra sconosciuta, lasciando Isabel con la promessa di un ritorno. Nel silenzio di Teruel, tra le vecchie pietre e il sussurro del vento, Isabel mantiene viva la fiamma del suo amore e conta i giorni, le settimane e gli anni di attesa.
Ma il tempo è un padrone crudele e, con l'alternarsi delle stagioni, le speranze di Isabel si affievoliscono. Passarono cinque anni e quando Diego tornò a Teruel, l'agonia del destino si abbatté su di lei. Un giorno, un solo giorno, separava il suo ritorno dall'accordo che aveva preso con il padre di Isabel. Il passato si scontrò con il presente e le lacrime di Diego scavarono solchi di disperazione sul suo volto.
Nella penombra della sera, Diego bussò alla porta di Isabel, con il cuore gonfio di preoccupazione e di speranza. La porta si aprì scricchiolando, rivelando Isabel, che ora era la moglie di un altro uomo a cui il destino e la volontà di suo padre avevano teso una mano. Nel silenzio carico di emozioni, passato e presente si scontrarono in uno sguardo.
"Diego..." sussurrò Isabel, il suo nome un gemito sommesso tra le pareti che un tempo avevano conosciuto solo il suo amore.
Diego si inginocchiò ai piedi di Isabel e implorò un bacio d'addio, una carezza dell'ultimo amore che lo avrebbe portato via per sempre. Il cuore di Isabel era combattuto tra il suo dovere e il suo amore, tra il passato e il presente, tra Diego e i suoi voti.
Con un sospiro tremante, Isabel distolse lo sguardo da Diego e rifiutò quel bacio che sarebbe potuto durare per sempre. In preda a una profonda disperazione, Diego si accasciò davanti a Isabel, con l'anima lacerata dal crudele decreto dell'amore. In questo momento di dolore e disperazione, Diego morì tra le braccia di Isabel.
Al funerale di Diego, Isabel, tormentata dal rimorso, dal lutto e dal dolore, non riuscì a sopportare il peso del suo amore incompiuto. La sua anima si frantumò come un vaso di cristallo rovesciato, lasciando il suo corpo senza vita accasciato davanti alla tomba di Diego.
I cittadini di Teruel, che avevano assistito alla nascita e alla fine di un amore senza tempo e senza confini, sapevano che c'era un solo modo per unire per sempre questi spiriti tormentati. Così i due amanti furono sepolti insieme, le loro anime finalmente libere di amarsi oltre i confini del tempo e dello spazio, nell'eternità dell'amore.
- R. -
Link alla versione video:
https://youtu.be/S4fqh6WoQGw
Questo è l'antefatto della storia
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Amanti_di_Teruel
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