#simbolismo nella poesia
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Il sentiero della speranza e della memoria in "Il Sentiero" di Antonia Pozzi. Recensione di Alessandria today
Una riflessione poetica sulla vita, i ricordi e l’infanzia
Una riflessione poetica sulla vita, i ricordi e l’infanzia. “Il Sentiero” è una delle poesie più evocative della poetessa italiana Antonia Pozzi, scritta il 30 gennaio 1935. Attraverso immagini delicate, la Pozzi esplora il tema della memoria e del ritorno alla semplicità della vita, delineando un percorso intimo tra le speranze del passato e la realtà del presente. La poesia racconta un viaggio…
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Chiesa Sant’Agostino a Siena, “Sant’Antonio abate tentato dal diavolo” di R. Manetti, 1630 circa
Conosciuto familiarmente come il diavolo con gli occhiali, questa particolare raffigurazione del male che secondo alcuni vuole, attraverso il simbolismo degli occhiali, denunciare il sapere ingannevole degli illuministi, è stata per Leonardo Sciascia motivo di un'altra interpretazione. Lo scrittore siciliano, attraverso la voce del monsignor Gaetano impegnato in un dialogo con il protagonista del romanzo Todo Modo pubblicato nel '74, decodificherebbe così l'iconografia:
[...]
«E poi c’era quel quadro»
Me lo indicò, e fino a quel momento non lo avevo visto: un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata. Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che aveva gli occhiali: a pince-nez, dalla montatura nera. E anche l’impressione di aver già visto qualcosa di simile, senza ricordare quando e dove, conferiva al diavolo occhialuto un che di misterioso e di pauroso: come l’avessi visto in sogno o nei visionari terrori dell’infanzia.
«Su questo quadro» continuò don Gaetano «il farmacista costruì una leggenda: Zafer, il santo, non ha più una buona vista; il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti hanno, ovviamente, una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse leggerà il Corano, sempre, invece che il Vangelo o Sant’Anselmo o Sant’Agostino. Ahimè che il puro segno delle tue sillabe si guasta in contorto cirillico si muta…».
La citazione mi sorprese: don Gaetano aveva letto quello che io considero l’ultimo poeta italiano, nel tempo della poesia italiana: e ne aveva versi a memoria.
«In questo caso, in cufìco o come si chiama la scrittura del Corano… Inutile dire che Zafer sospetta dell’inganno e non accetta il dono: anzi, ignora addirittura la presenza del diavolo… Ma questo quadro, come lei sa, non è che una copia, piuttosto rozza, di quello del Manetti che si trova a Siena, nella chiesa di Sant’Agostino. Un quadro curioso, comunque. Lasciando perdere le fantasie del farmacista, direi anche inquietante… Il diavolo con gli occhiali: quello che voleva dire il Manetti è abbastanza ovvio, in rapporto al suo tempo; ma oggi…».
«Come allora: ogni strumento che aiuta a veder bene, non può essere che opera e offerta del diavolo. Dico per voi, per la Chiesa».
«Interpretazione laica, di vecchio laicismo: quello delle associazioni intitolate a Giordano Bruno e a Francesco Ferrer… Io invece direi: ogni correzione della natura non può essere che opera e offerta del diavolo».
«Interpretazione sadista».
«Ma Sade era cristiano» disse don Gaetano distogliendosi dalla contemplazione del quadro e guardandomi meravigliato: meravigliato che non lo sapessi, che nessuno fino allora me l’avesse detto.
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La Ginestra: Tra Storia, Natura e Simboli.
La ginestra (Genista sphaerocarpa), con i suoi fiori gialli profumati e la sua tenacia nel colonizzare terreni aridi e inospitali, è da sempre stata una fonte di ispirazione per poeti, artisti e pensatori. Ma la ginestra non è solo bella e resistente, è anche carica di storia, simbolismo e significato. Un viaggio attraverso il tempo e le culture Le origini della ginestra si perdono nella notte dei tempi. Tracce del suo utilizzo si ritrovano in diverse culture antiche, dove era associata a divinità solari, alla morte e alla rinascita. Nell'antica Grecia, la ginestra era sacra a Apollo e simboleggiava la luce e la conoscenza. In Roma, era associata alla dea Vesta, protettrice del focolare domestico, e veniva utilizzata nei riti propiziatori. Nel Medioevo, la ginestra era considerata una pianta magica e veniva utilizzata in pozioni e incantesimi. Si credeva che avesse il potere di proteggere dal malocchio e dalle malattie. Era anche associata alla stregoneria e spesso veniva bruciata nei roghi delle streghe. Un simbolo di resistenza e speranza In Italia, la ginestra ha assunto un significato particolare grazie al famoso canto omonimo di Giacomo Leopardi. Nella sua poesia, Leopardi paragona la ginestra all'uomo, entrambi fragili e destinati a soccombere di fronte alla forza della natura. Ma la ginestra, con la sua tenacia e la sua capacità di fiorire anche nei luoghi più inospitali, rappresenta per Leopardi un simbolo di speranza e di resistenza al dolore. La ginestra di Leopardi è diventata un'icona della letteratura italiana e un potente monito a non arrendersi mai di fronte alle avversità. Il suo messaggio di speranza e di resilienza è ancora attuale oggi, in un mondo sempre più incerto e complesso. Una pianta preziosa per l'ambiente Oltre al suo valore simbolico, la ginestra è anche una pianta preziosa per l'ambiente. Le sue radici profonde aiutano a prevenire l'erosione del suolo e le sue foglie attirano gli insetti impollinatori. La ginestra è anche utilizzata per la produzione di miele e di liquori. Come coltivare la ginestra La ginestra è una pianta relativamente facile da coltivare. Predilige terreni soleggiati e ben drenati e tollera bene la siccità. Se desiderate coltivare la ginestra nel vostro giardino, ecco alcuni consigli: - Scegliete una posizione soleggiata e riparata dal vento. - Preparate il terreno mescolandolo con del compost o del letame maturo. - Annaffiate regolarmente la ginestra, soprattutto durante i primi mesi dopo il trapianto. - Potate la ginestra ogni anno dopo la fioritura per mantenerla in forma e stimolarne la crescita. - Proteggete la ginestra dalle gelate invernali, soprattutto se vivete in un clima freddo. La ginestra è una pianta affascinante e ricca di storia, simbolismo e significato. È un simbolo di resistenza, speranza e resilienza, che ci insegna a non arrenderci mai di fronte alle avversità. Se state cercando una pianta da coltivare nel vostro giardino, la ginestra è un'ottima scelta. È bella, resistente e preziosa per l'ambiente. Read the full article
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"Corde di lino" di Cipriano Gentilino
Nella lirica emerge la raffinata eleganza e il suo ricco simbolismo. La metaforica interpretazione di gesti antichi, sullo sfondo di una memoria che sfuma contorni di un tempo che scorre ineluttabilmente, porta a riflettere sulla ciclicità della vita e sull’eterna lotta tra luce e oscurità. Nella chiusa, straordinaria la funzione data alla Poesia, in quanto “luce” sulle ombre di notti oscure.…
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Ida Vitale poeta uruguaiana
Ida Vitale, poeta, saggista, traduttrice e critica letteraria uruguaiana è un’importante protagonista della tradizione delle avanguardie storiche latinoamericane.
È la più longeva esponente del movimento Generación del 45 che condivideva una apertura verso le novità dell’arte e della cultura che provenivano dall’Europa, con una matrice comune politico-culturale di sinistra e un’attenzione particolare alle tematiche legate alla città moderna.
Insignita di prestigiosi premi letterari, fra cui, nel 2018 svetta il Premio Cervantes, considerato il Nobel della letteratura in lingua spagnola, con la seguente motivazione: “il suo linguaggio è uno dei più conosciuti nella poesia spagnola contemporanea… Esso è al contempo intellettuale e popolare, universale e personale, superficiale e profondo“.
La sua scrittura è caratterizzata da un’attenzione per il mondo naturale e da un simbolismo volto all’indagine delle “alchimie del linguaggio”, la sua poesia essenzialista, mira alla concretezza delle parole.
Nei suoi brevi versi l’ironia rappresenta una componente fondamentale.
Il suo nome completo è Ida Ofelia Vitale Povigna ed è nata a Montevideo, il 2 novembre 1923. Appartiene alla quarta generazione di immigrati italiani provenienti dalla Sicilia. È cresciuta in una famiglia colta e cosmopolita.
Laureata in Lettere all’Università dell’Uruguay dove, successivamente, ha insegnato, ha collaborato e diretto diverse riviste letterarie e culturali.
Le sue prime opere rilevanti sono state “La luz de esta memoria“del 1949, “Palabra dada” (1953), “Cada uno su noche” (1960) e “Paso a paso” (1963).
Dura oppositrice della dittatura militare dell’Uruguay, nel 1974 è fuggita in Messico, dove ha conosciuto lo scrittore Premio Nobel Octavio Paz entrando a far parte dello staff editoriale della rivista Vuelta che lui dirigeva. In seguito, ha partecipato alla fondazione del giornale Uno más Uno, è stata insegnante e ha tradotto libri per il Fondo de Cultura Económica, curando conferenze e lettorati, senza trascurare la partecipazione a giurie e giornali.
Rientrata nel Paese nativo, scriveva sulla pagina culturale del settimanale Jaque, prima di andare a vivere in Texas, negli Stati Uniti, dove è rimasta per trent’anni. Nel 2016 è tornata a Montevideo dove risiede stabilmente.
La sua opera è caratterizzata da brevi poemi, da un’attenta ricerca del senso delle parole e un carattere metaletterario.
La sua poesia è pervasa dalla grande empatia per gli animali, in contrasto con la delusione per la moderna mediocrità degli esseri umani vittime del capitalismo culturale.
Precorritrice di una sensibilità ecologica, ha scritto romanzi, saggi, poesie e ha tradotto, dall’italiano e dal francese opere di Simone de Beauvoir, Luigi Pirandello, Benjamin Péret, Mario Praz, per citare qualche nome.
Nella sua scrittura c’è la rinuncia alla perfezione formale in cambio di un certo enigma, un punto di stimolo e di mistero. Con maestria spoglia le sue parole di ogni elemento ritenuto superfluo, fino a lasciare soltanto l’essenza del testo.ù
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Il ritorno alla magia nel pensiero di Plotino Porfirio e Proclo
Con l’affermarsi del neo platonismo nel mondo antico greco la magia e l’irrazionalità riacquistarono importanza grazie anche all’influenza di Plotino che interpretò in modo allegorico la grande poesia omerica seguendo la tradizione pitagorica. I grandi poeti del passato vennero reinterpretati da Plotino secondo un simbolismo esoterico che esprimeva la convinzione che la natura amava nascondersi. Secondo Plotino la filosofia poteva svolgere un ruolo simile a quello assegnato un tempo solo alle iniziazioni misteriche, restituendo all’anima la perfezione perduta. Secondo Plotino l’ultimo stadio del percorso conoscitivo poteva essere compiuto solo raggiungendo la fusione con l’Uno. Anche se tale unione mistica non può essere definita propriamente magia per altri neoplatonici come Porfirio e Proclo essa poteva essere raggiunta solo attraverso la teurgia. A questo punto riteniamo opportuno esporre il pensiero di Porfirio e Proclo. Porfirio filosofo greco del III secolo a.C. ha elaborato una teoria sulla magia che si basa sulla distinzione tra due tipi di magia. In primo luogo la magia naturale che consiste nell’utilizzo della conoscenza delle leggi naturali per ottenere determinati risultati. In secondo luogo la magia divinatoria che consiste nell’utilizzo di pratiche divinatorie per prevedere il futuro o ottenere informazioni sulle persone o sugli eventi. In generale Porfirio considerava la magia un’attività che andava contro la natura poiché cercava di manipolare gli elementi naturali per ottenere determinati risultati. Egli sosteneva che le pratiche magiche avessero un effetto negativo sulla mente umana in quanto tendevano a farci credere che potessimo controllare le forze della natura e il destino quando in realtà esse erano aldilà del nostro controllo. Nell’ambiente sincretistico in cui si sviluppò il neoplatonismo fare riferimento a tradizioni antiche significava farsi legittimare da molteplici fonti spesso molto diverse tra loro. Porfirio si inscrisse in tradizioni molto antiche dai caldei ai romani dagli ermetici ai mitriasti prendendo anche in considerazione gli antichi teologi del mondo greco. Porfirio giunse alla conclusione che l’anima doveva essere in grado di riconoscere le diverse strade sempre rigorosamente iniziatiche che portavano al mistero presente in ogni cosa creata. La via privilegiata per comprendere il mistero presente in ogni cosa era appunto la teurgia: la filosofia il logos la religione e la magia si univano per Porfirio in un unico quadro di significato. Secondo Porfirio alla luce di tale unico quadro di significato la realtà fenomenica e la verità sopra sensibile diventano una cosa sola. Secondo la metafora e l’antro di Porfirio l’anima umana è come una caverna oscura e misteriosa piena di immagini e di voci che risuonano al suo interno. Questa caverna rappresenta il mondo interiore dell’individuo dove risiedono tutte le sue emozioni i suoi desideri e le sue paure. La magia consiste nel manipolare queste immagini e queste voci al fine di influenzare il mondo esterno. Per esempio un mago potrebbe cercare di evocare un immagine di prosperità e di benessere nella propria mente con la speranza di attirare la ricchezza e il successo nella vita reale. Secondo Porfirio è fondamentale perciò un’adeguata preparazione psicologica per poter manipolare efficacemente la caverna dell’anima. Egli consiglia di praticare la meditazione la purificazione dell’anima e la concentrazione mentale al fine di raggiungere uno stato di coscienza elevato e di aprire la porta alla magia. Porfirio non solo attribuisce grande importanza alla teurgia ma anche alle tradizioni religiose provenienti da varie regioni con particolare riguardo alla Persia. Presso i Persiani come ricorda lo stesso filosofo l’antro era il luogo di culto lo spazio sacro in cui si celebravano i riti magici di purificazione quindi lo spazio sacro per eccellenza. Anche Proclo sviluppò una dottrina basata su un concetto di vita inteso come intelligenza che guidava tutto l’universo ed eliminava ogni separazione tra la dimensione fenomenica e quella più profonda. Per quanto riguarda Proclo dobbiamo dire che egli ha sviluppato una teoria della magia basata sulla nozione di simpatia. Secondo questa teoria tutti gli elementi dell’universo sono interconnessi in modo simile alle parti di un organismo vivo e quindi possono influenzarsi reciprocamente. Per Proclo quindi la magia è l’arte di manipolare queste connessioni per ottenere un certo risultato. Per il filosofo greco il mondo è composto da tre livelli: il mondo divino il mondo animale e il mondo materiale. L’uomo è un essere che appartiene a tutti e tre i livelli in quanto un corpo materiale un anima e uno spirito divino. La magia è l’arte di manipolare queste tre componenti dell’essere umano per ottenere un certo effetto. Inoltre il filosofo sosteneva che le arti magiche non sono un arte tecnica ma anche una forma di culto religioso. Proclo vedeva fantasmi luminosi e praticava riti magici di purificazione provenienti dai caldei. Inoltre per il filosofo greco la magia è uno strumento per comunicare con gli dei e per ottenere la loro assistenza nelle questioni terrene. Possiamo dire che in un certo senso Proclo si rifà alla concezione della magia che avevano i maghi egiziani. I maghi egizi sostenevano che l’energia magica era la forza che permea l’universo e che può essere manipolata dalla volontà del mago. Questa energia magica è presente in tutti gli esseri e oggetti ma può essere accumulata in modo particolare in alcune piante in alcuni minerali e in alcuni oggetti sacri. Detto ciò riteniamo concluso il nostro discorso su Plotino Porfirio e Proclo importanti esponenti dell’antica Grecia. Prof. Giovanni Pellegrino Read the full article
#anticagrecia#filosofogreco#magiadivinatoria#magianaturale#pensieromagico#platonismo#PlotinoPorfirio#Proclo#teurgia
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Poesia sulla natura, viaggio alla scoperta delle più importanti
La poesia sulla natura è una forma d'arte che celebra la bellezza e la grandezza del mondo naturale. Queste poesie spesso descrivono paesaggi, animali, piante, stagioni e altri aspetti della natura attraverso immagini vivide e parole ispirate. Poesia sulla natura: chi sono i più famosi poeti "internazionali"? La natura è una fonte di ispirazione per molti poeti, dal romanticismo al modernismo. William Wordsworth, per esempio, era un poeta del romanticismo noto per la sua poesia sulla natura. Nelle sue poesie, Wordsworth esplorava la bellezza e la grandezza della natura e il modo in cui la natura può ispirare la creatività umana. Anche John Keats, poeta romantico inglese, ha scritto molte poesie sulla natura. In "Ode to a Nightingale", Keats descrive la bellezza del canto dell'usignolo e il modo in cui esso evoca un senso di meraviglia e contemplazione. Keats esplora anche il tema dell'impermanenza della bellezza naturale, e il dolore che può derivare dalla consapevolezza che essa non durerà per sempre. Altri poeti, come il giapponese Matsuo Basho, sono noti per le loro poesie haiku, che spesso si concentrano sulla bellezza semplice della vita quotidiana. In "The Old Pond", Basho descrive la bellezza del suono dell'acqua e la pace che essa può portare alla mente. Chi sono i più famosi poeti italiani che hanno trattato il tema della natura? La letteratura italiana ha una lunga e ricca tradizione di poesia sulla natura, e molti dei suoi più famosi poeti hanno scritto poesie che celebrano la bellezza e la grandezza del mondo naturale. Uno dei più famosi poeti italiani che ha trattato la natura è sicuramente Francesco Petrarca, considerato uno dei più grandi poeti del Rinascimento italiano. Nelle sue poesie, Petrarca esplorava spesso i temi della bellezza naturale e del passaggio del tempo. La sua famosa poesia "Solo et pensoso" descrive un paesaggio naturale suggestivo e solitario. Un altro grande poeta italiano che ha scritto poesie sulla natura è Giovanni Pascoli, uno dei più importanti poeti del simbolismo italiano. Le poesie di Pascoli spesso esplorano la bellezza e la forza della natura, come nella sua poesia "Il Fiume", che descrive il potere del fiume e la sua incessante corrente. Perché la natura è un tema importante per la poesia? La natura è un tema importante per la poesia perché rappresenta una fonte di ispirazione per molti poeti e una fonte di meraviglia e bellezza per tutti noi. La poesia sulla natura celebra la bellezza e la grandezza del mondo naturale, e attraverso le parole del poeta, ci invita ad apprezzare la natura in modo più profondo e significativo. La poesia sulla natura può assumere molte forme e toni diversi. Può essere romantica, contemplativa, politica o ecologica. Ma in ogni caso, la poesia sulla natura ci invita a guardare oltre la superficie delle cose e a scoprire la bellezza che si nasconde nella natura. Inoltre, è un tema così importante per la poesia è che essa rappresenta un contrasto con il mondo artificiale e urbanizzato in cui viviamo. La natura ci ricorda la semplicità e la bellezza delle cose essenziali, e ci invita a rallentare e ad apprezzare il momento presente. La natura ci dà un senso di connessione con il mondo e con gli altri esseri viventi, e ci fa sentire parte di qualcosa di più grande di noi stessi. Foto di Mila del Monte da Pixabay Read the full article
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Modena, arriva Il Gabbiano di Anton Čechov
Modena, arriva Il Gabbiano di Anton Čechov. Attore, autore e regista, Premio della Critica ANCT 2020 e vicedirettore e coordinatore della Scuola per Attori del Teatro Stabile di Torino dal 2021, Leonardo Lidi si avvicina a uno scrittore a lui caro, Anton Čechov, insieme a un gruppo di tredici attori. Prodotto da Teatro Stabile dell'Umbria, Emilia Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale, in collaborazione con Spoleto Festival dei Due Mondi, Il gabbiano va in scena al Teatro Storchi di Modena dall’8 all’11 dicembre (giovedì e venerdì ore 20.30, sabato 19.00 e domenica 16.00), e segna la prima tappa di un progetto triennale composto da Zio Vanja e Il giardino dei ciliegi: tre case, tre famiglie raccontate con semplicità e poesia. La replica di domenica 11 aderisce a "Teatro No Limits", il progetto realizzato dal Centro Diego Fabbri di Forlì e dall’associazione Incontri Internazionali Diego Fabbri APS che porta l’audiodescrizione a teatro e consente alle persone con disabilità visiva di assistere agli spettacoli. Grazie a specifiche tecnologie verranno resi "visibili" scene, costumi, movimenti degli attori e tutti quei particolari silenziosi che altrimenti non potrebbero essere goduti. "In questa trilogia vedo la possibilità di tornare al senso pratico del teatro – commenta Leonardo Lidi – deviando gli intellettualismi e scegliendo la semplicità nella sua altezza. Scegliendo uno spazio. Scegliendo l’empatia e non una bolla elitaria. Scegliendo l’amore e il dolore che comporta questa opzione ma soprattutto scegliendo gli attori come forma d’arte e come pietra preziosa da difendere nel teatro italiano del nostro tempo". In scena un nutrito cast composto da Giordano Agrusta, Maurizio Cardillo, Ilaria Falini, Christian La Rosa, Angela Malfitano, Francesca Mazza, Orietta Notari, Tino Rossi, Massimiliano Speziani e Giuliana Vigogna (candidata al Premio Ubu 2022 come Migliore attrice o performer Under 35). "Gli attori passano insieme un tempo importante – prosegue Lidi – una parentesi della loro vita, lavorando assieme a un regista che sceglie finalmente il suo autore preferito come ripartenza del proprio percorso. Continuando a camminare in questo tempo così incerto credo che il teatro sia un ottimo progetto sul quale focalizzare le nostre energie". Un classico del teatro capace di parlare a pubblico, attori, scrittori e registi e a cui Lidi si avvicina senza rivisitazioni, con semplicità, facendo emergere il confronto generazionale e la discussione sull’essenza del teatro che sottendono al testo. "Se penso ad Anton Čechov – conclude Lidi – mi torna in mente questo passaggio di John Lennon nella canzone Beautiful Boy: "La vita è ciò che ti accade mentre fai altri progetti". Ne Il gabbiano l’autore sembra creare un testo che possa interrogarsi sulla differenza tra Simbolismo e Realismo, sul senso critico del teatro rispetto al suo pubblico ma alla fine, contro ogni pronostico, arriva la vita. In scena ecco apparire l’amore e l’assenza di esso e ci ritroviamo accompagnati da personaggi talmente ben scritti e messi così bene in relazione tra di loro che tutti insieme decidiamo di deviare la trappola del Tema per aprirci e interrogarci sulla semplicità del nostro essere. Sui ricordi e la nostalgia dell’infanzia, su quell’incontro che ci ha fatto male e quell’incontro che ci ha cambiato la vita. O fatto sorridere. O fatto piangere. Come in un patto. Come se un gruppo di uomini e di donne lavorasse assieme con impegno e gioia confidando nell’arrivo della vita in scena. Ecco forse spiegato il perché Čechov ha superato il suo tempo, ecco come utilizzare un testo per arrivare alla vita". Tournée 2022/2023 13 - 18 dicembre 2022 – Teatro Carignano, Torino 26 febbraio 2023 – Teatro Comunale Giuseppe Manini, Narni 28 febbraio - 5 marzo 2023 – Teatro Vascello, Roma 7 - 9 marzo 2023 - Teatro Secci, Terni 12 marzo 2023 – Teatro degli Illuminati, Città di Castello 14 marzo 2023 – Teatro Torti, Bevagna 16 marzo 2023 – Teatro Mengoni, Magione 17 marzo 2023 – Teatro Comunale, Todi 19 marzo 2023 – Teatro Comunale Luca Ronconi, Gubbio 22 marzo 2023 - Teatro Ponchielli, Cremona 24-25 marzo 2023 – Teatro Verdi, Pordenone 28-29 marzo 2023 – Teatro Sociale, Bellinzona 31 marzo - 2 aprile 2023 – Teatro Ariosto, Reggio Emilia 11 - 16 aprile 2023 – Piccolo Teatro Strehler, Milano Informazioni e prenotazioni Teatro Storchi: Prezzi dei biglietti € 25 / 10 Biglietteria Teatro Storchi – Largo Garibaldi 15, Modena Orari apertura al pubblico: martedì e sabato dalle 10.00 alle 14.00 e dalle 16.30 alle 19.00; mercoledì e giovedì dalle 10.00 alle 14.00 [email protected] | modena.emiliaromagnateatro.com | www.vivaticket.it Biglietteria telefonica – tel. 059 2136021 Dal martedì al venerdì dalle 10.00 alle 14.00... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Sorolla
Giardini di Luce
a cura di Tomàs Llorens, Blanca Pons-Sorolla, María López Fernández e Boye Llorens Saggi di Blanca Pons-Sorolla, Tomàs Llorens, María del Mar Villafranca Jiménez, Ana Luengo e David Ruiz López Introduzioni di sezione di María López Fernández e Boye Llorens
Fondazione Ferrara Arte, Ferrara 2012, 200 pagine, ISBN 9788889793343
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Ferrara, Palazzo dei Diamanti, 16 marzo - 17 giugno 2012. Granada, Museo de Belllas Artes, 29 giugno - 14 ottobre 2012. Madrid, Museo Sorolla, 29 ottobre - 5 maggio 2013.
Joaquín Sorolla è una delle personalità artistiche più affascinanti del panorama spagnolo in quel periodo cruciale segnato dalla diffusione dell'impressionismo e del simbolismo. Protagonista della Belle Epoque, celebrato ritrattista accanto a Sargent e Boldini, fu un maestro nel restituire sulla tela l'incanto della luce, con una pittura immediata e allo stesso tempo sapiente, che guarda alla lezione di Velázquez oltre che al paesaggismo nordico e francese dell'Ottocento. Per la prima volta in Italia, nel 2012 Palazzo dei Diamanti rende omaggio a questo grande artista con una mostra dedicata alla produzione della maturità. In questa fase della sua carriera, Sorolla è all'apice della notorietà e inizia a creare, soltanto per se stesso, opere di sorprendente modernità che hanno come tema privilegiato il giardino. Ad accogliere il visitatore è una suggestiva sequenza di ritratti di famiglia nella cornice di giardini con fontane, del 1906-07, capolavori nei quali le figure si fondono con l'atmosfera sfavillante di pennellate di colore puro o sembrano assorbite da un gioco di riflessi. Di fondamentale importanza nell'evoluzione del suo percorso artistico è l'incontro con l'Andalusia, come testimoniano i dipinti creati a più riprese dal 1908 al 1918. Quella terra, la sua cultura millenaria e la poesia delle sue architetture segnano profondamente l'immaginazione di Sorolla e concorrono ad ispirare la nascita di una poetica del silenzio e di una cifra stilistica personale ricca di risonanze simboliste. L'entusiasmo del pittore di fronte alla visione dell'Alhambra di Granada e della Sierra Nevada traspare dalle imponenti vedute della fortezza e dai cristallini scenari della catena montuosa, nei quali egli sperimenta una luce del tutto nuova e una pittura più essenziale. Anche le donne andaluse catturano la sua attenzione offrendo materia per visioni intime e raccolte o per messe in scena con tagli fotografici.
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visto che adoro il tuo blog (e che ho bisogno di distrarmi dal pensiero di dover a breve iniziare il turno, con quest'afa soffocante), ti pongo questo "gioco" per farti conoscere un po': enumera cinque tuoi libri e film preferiti, in due liste distinte. E se vuoi aggiungerci qualcuna delle tue magnifiche impressioni...^_-
Oddio grazie e che carina questa cosa! mi spiace di rispondere tardino, magari hai già iniziato il turno, co ‘sto caldo :(
(comunque lo devi fare anche tu, ora sono curiosissima di conoscere i tuoi eh!)
Libri:
Finzioni (J.L. Borges)- Non ci sono parole per descrivere questo libro. Borges è uno scrittore particolare, un po’ difficile. Questa è una raccolta di racconti, in alcuni c’è una trama vaga e surreale, piena di simbolismo e citazioni di autori o filosofi reali e immaginari, e da lettore all’inizio non capisci perchè non puoi conoscerli tutti, e ti senti stupido e ignorante, ma poi entri nel suo gioco e nel suo mondo. In altri racconti non c’è affatto trama e ti trovi a leggere una recensione di un libro o di un’opera teatrale che non esiste, ed è talmente interessante e strana che vorresti che esistesse. Adoro questa raccolta che rileggo ogni volta che faccio un viaggio~
Il Piccolo Principe (A. de Saint Exupery)- Beh questo lo conoscono tutti, è semplicemente magico nella sua semplicità così profonda. Mi commuovo ogni volta che lo leggo, specialmente la parte della volpe.
Il Ritratto di Dorian Gray (Oscar Wilde)- Stupendo, non credo di poter aggiungere altro. Però stavo giusto dicendo a un amico che mi dà fastidio quando tirano fuori la frase random di Oscar Wilde perchè è sempre fuori contesto e viene sempre usata per giustificare comportamenti insensibili, mentre lui era una persona sensibile che per aver amato un altro uomo è stato condannato. Per amore. altro che cinismo. (peraltro ho letto di idee per metamoro Dorian Gray AU e ovviamente mi piacciono, però raga se la fate mettete Ermal come Dorian ma Fabri non come Basil pls, ma come Lord Henry, tipo un Fabri cinico e disilluso insomma. Basil metteteci un altro random pls xD)
Racconti di Dino Buzzati- non so il titolo della raccolta perchè ce ne sono tanti che mi piacciono. Mi piace lo stile di Buzzati perchè scriveva in modo giornalistico e asciutto, ma i suoi racconti sono spesso surreali o fantastici (realismo magico) e certi vorrei non averli letti perchè ci sono animali e cose tristi di mezzo e io non ci vado d’accordo ma quelli a parte mamma mia, che belli, I Sette Messaggeri, I Sette Piani, e tanti altri di cui ricordo la trama ma non i titoli.
La Fattoria Degli Animali (G. Orwell) -anche questo lo conoscono tutti lol, lo adoro, con gli animali e gli slogan totalitaristi che cambiano di volta in volta è sempre attuale. Stesso vale per 1984 dello stesso autore.
(oh, ho dimenticato Orgoglio e Pregiudizio di Jane Austen! E Il Nostro Comune Amico di Charles Dickens!)
Film:
Cloud Atlas- Questo è un capolavoro che parla di reincarnazione e unisce generi vari dall’azione alla fantascienza, dallo storico al comico, ed è stupendo sia per il modo in cui è girato, con piani temporali sovrapposti trame mischiate, sia per come hanno truccato gli attori che sono sempre gli stessi ma interpretano generi, etnie ed età diverse in ogni sequenza narrativa.
Inception- Quanto mi piace questo film! Non posso nemmeno dirti molto della trama ma parla di sogni, realtà alternative e sovrapposte e manipolare le menti tramite i sogni. C’è moltissima angst e surrealismo e io vivo per queste cose.
Dark City- una specie di Matrix dello stesso periodo, anni ‘90, ma più oscuro e secondo me stilisticamente migliore. Anche la trama è simile ma diversa, si parla sempre di realtà che viene alterata. Ricorda un po’ il romanzo Tempo Fuori Luogo di P.H. Dick, che è un altro preferito. Forse a questo punto hai capito che c’è un pattern nei miei preferiti xD
2046- questo film è pura poesia e #aesthetic. E’ di Wong Kar Wai ed è il sequel di In The Mood For Love, un altro capolavoro. Quest’ultimo è ambientato negli anni ‘60 a Hong Kong ed è una storia d’amore tormentata tra due persone che scoprono che i rispettivi consorti hanno una relazione. 2046 è un sequel in cui ricordi, sogni e realtà si alternano e sovrappongono con un immaginario fantascientifico.
L’ultimo è a pari merito tra Interstellar e Arrival. Il primo parla di viaggi nello spazio perchè l’umanità deve lasciare la terra che sta morendo, ed è lento e triste in senso bello, e ci sono piani temporali alterati e si, c’è un pattern in quello che mi piace in un film. E Arrival, in cui una linguista si immerge così tanto nella lingua aliena delle creature che cercano di comunicare con lei, da alterare la sua percezione del tempo in virtò di questo.
Ammazza che pippone che ti ho attaccato! Altro che prima del turno, questo nemmeno in pausa te lo riesci a leggere xD
Ora tocca a te, ci conto~
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Il limone e i mille modi per introdurlo in cucina: pollo al limone cotoletta di tacchino al limone
Il limone e i mille modi per introdurlo in cucina: pollo al limone cotoletta di tacchino al limone
Questo frutto aspro e giallo ha ispirato molti artisti e poeti da Montale che scrive una poesia “I Limoni” o al Ghirlandaio nel “Cenacolo di San Marco”. Il limone è da sempre associato un forte simbolismo nella mitologia e nell’arte rappresentando una volta la salvezza o la fedeltà amorosa, o la fertilità e la genuinità. In Italia questo frutto fu introdotto tra il XI e XII sec. a seguito del…
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"Il tuo sorriso" di Pablo Neruda: Un inno all’amore che illumina la vita. Recensione di Alessandria today
Una poesia dedicata alla forza e alla bellezza del sorriso dell’amata, capace di dare senso e luce alla vita.
Una poesia dedicata alla forza e alla bellezza del sorriso dell’amata, capace di dare senso e luce alla vita. Nella poesia “Il tuo sorriso”, Pablo Neruda esprime, con il suo tipico linguaggio lirico e ricco di immagini, la potenza dell’amore e la centralità del sorriso dell’amata nella sua vita. Il poeta cileno ci trasporta in un mondo di emozioni semplici ma profonde, dove il sorriso diventa il…
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Segreto e simbolo
In esoterismo si parla del segreto iniziatico. Il segreto è ciò che non si può rivelare. Certamente un concetto esoterico può essere semplificato e trasformato nel simbolismo di un racconto, in una leggenda o in un semplice detto col sapore di una poesia. Però racconto, leggenda, detto o poesia necessariamente nascondono il vero significato di quello che vogliono indicare. Quindi si ritorna al lavoro individuale che deve trasformare il simbolo in comprensione.
Bisogna considerare che forma e simbolo sono la costante di ogni rapporto con il mondo che ci circonda, in quanto essi vivono in noi come unico mezzo per interpretare la realtà. Questi, però, sono sempre il limite di un'idea la quale ha dei contenuti non del tutto circoscrivibili in quello schema formale e simbolico; al contrario, spesso il simbolo è in grado di suscitare, in chi l'osserva, reazioni tali da andare ben oltre ciò che questo voleva rappresentare. La psicoanalisi lo definisce idolo-motore per indicare il duplice aspetto formale e dinamico. Una semplice sfera, che rappresentasse il nostro globo terrestre, potrebbe scatenare reazioni emotive e meditative inimmaginabili. Un triangolo equilatero ha dato spazio a interi volumi di dissertazioni filosofiche e mistiche.
C.G.Jung ha chiamato "archetipi" alcuni grandi simboli comuni a tutti gli uomini (il sole, la luna, l'acqua ecc.) e li ha considerati come "una possibilità formale di riprodurre delle idee simili o almeno analoghe". Il simbolo archetipo collega, così, l'universale all'individuale; il mondo della non-forma comunica al mondo della forma il suo messaggio che può essere colto solo da chi ne scopre la chiave nascosta. Essa è in ogni uomo, ma velata e sepolta da un'abitudine cristallizzata a concepire tutto solo nel limite che dà la forma. "Io credo solo in ciò che vedo", "Ciò che non cade sotto i miei sensi non esiste", sono frasi che indicano lo squallido autolimite che l'uomo si pone nel nome di una razionalità fasulla e ottusa. E cosi la Chiave rimane sepolta in attesa che un'illuminazione coscienziale o spirituale la faccia affiorare alla mente.
Sempre Jung afferma che il simbolo è un'immagine adeguata ad indicare il meglio possibile la natura oscuramente intuita dello spirito. Dunque ogni simbolo è in grado di collegare, in maniera cosciente, la mente allo spirito, l'uomo al divino, e a scatenare quelle forze sottili che producono la vera comprensione.
Lo sapevano bene, questo, gli alchimisti che hanno fondato tutta la loro dottrina proprio sui simboli e sulle allegorie. Essi volevano trasformare il piombo in oro e rendevano allo spirito, nella sublimazione, ciò che lo spirito aveva donato alla materia. Questa è la potenza della forma che trascende il suo significato, ed è questo il cammino di ogni uomo che, nel suo limite, può comprendere ciò che è illimitato.
Attenzione però a non commettere l'errore di voler analizzare razionalmente una qualsiasi figura simbolica, perché così c'è il rischio di cadere nel limite della forma e rimanere in quella; sarebbe come se si volesse pelare una cipolla, strato dopo strato, per trovare la cipolla stessa. Il vero significato della forma non è nell'osservazione razionale, ma nell'uso intimo e meditativo, nell'illuminazione coscienziale che questa può donare e nella carica psico-energetica che il simbolo offre a chi la sappia trovare.
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Confronto poetico
Mahmud Darwish e Arthur Rimbaud: due poeti così lontani nel tempo e nello spazio, eppure così affini. Il primo, poeta della resistenza palestinese; il secondo, poeta maledetto del simbolismo francese. Nel 1870 Rimbaud compone la poesia Le Dormeur du Val ( contenuta nella raccolta Cahier de Douai ),ispirandosi alla contemporanea guerra franco-prussiana, vissuta dal poeta stesso a soli sedici anni.
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Bonaria Manca l’artista pastora
https://www.unadonnalgiorno.it/bonaria-manca/
Bonaria Manca è stata un’artista sarda nata pastora che, negli anni ’50, si è trasferita a Tuscania.
Fuori da qualsiasi schema, autodidatta, ha vissuto un’esistenza difficile e dolorosa che, a un certo punto, si è sublimata in arte, per guarire e tramutare le sue ferite in bellezza.
Si è avvicinata all’arte a 55 anni, nella sua casa a Tuscania, dove ha dato vita a visioni, ricordi, emozioni, con mosaici e pitture che negli anni hanno trasformato il suo casolare di campagna in un museo.
Bonaria Carmela Manca è nata a Orune in provincia di Nuoro, il 10 luglio del 1925 in una famiglia di pastori, era la dodicesima di tredici figli e figlie, di cui solo nove hanno visto l’età adulta. Ha terminato soltanto le scuole elementari perché fin da piccola ha dovuto collaborare in casa e in campagna. Da bambina, seguiva l’operato di sua madre che era Dama di Carità. Nel 1940 ha perso il padre.
Ha lasciato la Sardegna per la prima volta nel 1948, a 23 anni, per andare a Roma con l’Azione Cattolica. Nel 1956 si era trasferita a Tuscania. In quegli anni, a più riprese, tutti i suoi familiari si erano stabiliti sul continente.
Ha esercitato per tutta la vita il mestiere di pastora, andava a cavallo appresso ai greggi, spesso anche senza sella, guidava la motocicletta, cosa insolita per quei tempi.
Ha iniziato a dipingere quando è rimasta completamente sola. Prima era morta sua madre, nel 1975, poi, nel 1978, il fratello Ciriaco con il quale aveva sempre vissuto. E, infine, il marito, sposato nel 1968, l’aveva abbandonata nel 1980.
La solitudine è stata per lei sofferenza, ma anche e soprattutto libertà, la possibilità di entrare in contatto con la parte più profonda di se stessa.
È iniziata, così, la sua enorme produzione artistica che conta circa 1000 dipinti su tela, oltre a ricami, arazzi e mosaici.
Dal 1996 al 2004 ha pitturato tutte le pareti della sua casa. Le sue immagini sono naïf, dai colori vividi e pregne di simbolismo.
Si esprimeva anche attraverso il canto e la poesia estemporanea.
La sua abitazione, chiamata “La Casa dei Simboli” ha tutte le pareti dipinte, non c’è un centimetro senza un colore. Vi sono raffigurate scene di vita contadina, animali, personaggi religiosi e surreali figure preistoriche, al confine tra realtà e fantasia. Ha dipinto tutti gli avvenimenti della sua vita, il lavoro, la sua famiglia, ma anche le sue visioni, i sogni, le notizie che la toccavano di più.
Questa visionaria artista è stata scoperta dallo scrittore e cineasta francese Jean-Marie Drot. La sua prima mostra personale è stata nel 1983 a Roma, successivamente ha esposto in Francia, Svizzera, Olanda, Belgio, Grecia, i suoi dipinti sono in vari Musei e Collezioni private di tutto il mondo.
Nel 2000, è stata nominata ambasciatrice dell’Unesco.
La sua Casa dei Simboli è oggi una Casa Museo. Nel novembre 2015 il Ministero dei Beni Culturali ha dichiarato la casa di Bonaria Manca “di interesse particolarmente importante“; il suo Studio d’Artista è inamovibile dall’appartamento in cui si trova, nell’attesa che possa essere presto restaurato e valorizzato.
Ha lasciato la terra il 17 ottobre 2020.
Ha ricevuto molti premi importanti, è stato fatto un documentario sulla sua vita “L’isola di Bonaria“.
Ha visto le sue opere acclamate in tutto il mondo senza mai perdere il contatto con le sue radici. Un’artista dall’animo gentile, che ha saputo trasmettere attraverso la sua arte le tradizioni culturali della sua terra natia.
Una Chagall della vita semplice, capace di dare forme e colori al suo mondo interiore rendendolo, come ha osservato Jean-Marie Drot, “pittura cosmica”.
Sarà una grazia di Dio, era tutto dentro di me. Passiamo tutti sulla terra per lottare e ci vuole coraggio per affrontare la vita.
#unadonnalgiorno
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“Diego Valeri non lo si può lasciare da parte solo perché non ha mai alzato la voce, non ha mai voluto gridare”. Dialogo con Mario Richter
Quando Diego Valeri scelse l’esilio, in Svizzera, era poeta notissimo. Mondadori aveva pubblicato libri solari, di assoluto successo come “Poesie vecchie e nuove”, “Tempo che muore”, “Scherzo e finale”. “Con la sua lirica cantabile, malinconica e sensuale, formalmente legata alla tradizione, ma sempre più individuabile nella sua originalità, poté contendere notorietà e favore critico alle posizioni più innovative di Giuseppe Ungaretti ed Eugenio Montale” (Matteo Giancotti). Classe 1887, studi a Padova, socialista, Valeri reagì alla scomparsa di Giacomo Matteotti, pubblicamente. Non prese mai la tessera fascista. La vita accademica, perciò, non fu facile per il poeta: il 25 luglio del 1943 assunse la direzione de “Il Gazzettino”. “Tutti abbiamo in cuore almeno un viso di giovane caduto per il nostro paese, combattendo uno contro dieci, ad armi impari, senza illusioni e, spesso, senza speranze. Tutti sappiamo di altri giovani che han sofferto e soffrono tuttavia (ma perché?) il carcere dei delinquenti comuni per aver servito un’idea politica non conforme all’idea tipo”, scrisse, nel suo primo editoriale. Durò poco: i tedeschi e i fascisti presero potere al Nord, Valeri si beccò “una condanna a trent’anni di carcere” (Giancotti), ma riuscì a riparare in Svizzera, a Mürren. Lì si trovò con Giorgio Strehler, Amintore Fanfani, Dino e Nelo Risi, tra i tanti: “Insieme ad altri professori esuli, organizza, a Mürren, un’università popolare” (Chiara Manfrin). “Percossi sradicati alberi siamo,/ ritti ma spenti, e questa avara terra/ che ci porta non è la nostra terra”, canta in una poesia, “Campo di esilio”. Fu grande maestro, grande francesista, grande uomo, Valeri, professore indimenticato – dicono i suoi allievi – all’Università di Padova. Mondadori continuò a pubblicare i suoi testi, “Terzo tempo”, “Il flauto a due canne”, “Verità di uno”. Scheiwiller edita nel 1957 un libro dal titolo bellissimo, in occasione dei settant’anni del poeta, “Metamorfosi dell’angelo”, con un omaggio di Jorge Guillén. Nel 1967 il poeta ottenne il Viareggio per le “Poesie” edite da Mondadori; due anni prima era stato onorato con la Legion d’Onore. Morì nel 1976, aveva pubblicato i primi versi su “Poesia”, nel 1909, all’epoca diretta da Filippo Tommaso Marinetti; fu amico di Marino Moretti e di Clemente Rebora, il carteggio, densissimo, dimostra rapporti frequenti con Giorgio Caproni, Andrea Zanzotto, Carlo Betocchi, Aldo Palazzeschi, Giuseppe Prezzolini, Vittorio Sereni. Fu, insomma, al cuore della poesia e della cultura italiana. Per darne memoria, Paola Tonussi ha interpellato Mario Richter, studioso eccezionale – tra le moltissime cose, segnalo l’introduzione e la revisione alle “Opere complete” di Rimbaud per la “Biblioteca della Pléiade’, Einaudi-Gallimard, e “Galleria novecentesca. Incontri da Soffici a Zanzotto” per le Edizioni di Storia e Letteratura –, discepolo di Valeri e suo erede alla cattedra dell’Università di Padova. Occorre, in effetti, risarcire una offesa. Al di là della “Guida sentimentale di Venezia”, rimessa in circolo da Lindau (onore a loro), di Diego Valeri non si trova, editorialmente, più nulla, le poesie, ormai, vanno trovate nei sottoscala, tra le catacombe, spacciate come simboli di gioia. (d.b.)
Come ha conosciuto Diego Valeri?
Come molti altri studenti della Facoltà di Lettere dell’Università di Padova, ebbi inizialmente modo di vedere, ascoltare e in parte conoscere Diego Valeri frequentandone le lezioni. Era il 1956, e Valeri si stava allora avvicinando alla fine della sua attività accademica, che infatti si sarebbe conclusa l’anno seguente, al compimento dei settant’anni (era nato nel 1887). Non sembrava affatto un settantenne alla fine della carriera. Aveva un portamento che univa l’agilità all’eleganza, e chiunque poteva accorgersi che non si trattava di una qualità soltanto fisica ma di un modo d’essere che rispondeva alla sua personalità intera. Tuttavia la conoscenza che era possibile avere vedendolo e sentendolo parlare dai banchi di un’aula non poteva essere che di carattere generale, non molto significativa, più o meno la stessa che condividevo con altri. Ricordo che le lezioni erano seguite con interesse da molti. Rivedo ora i volti giovanili di Armando Balduino (che da poco ci ha lasciato), di Giordana Canova, di Vincenzo Mengaldo, di Manlio Pastore Stocchi, di Lorenzo Polato, di Giuliano Scabia, forse anche, se non sbaglio, del più giovane Lorenzo Renzi…, tutte personalità che si sono poi variamente affermate nel mondo della critica, della filologia, dell’archeologia, dell’arte e della letteratura. Ma io ebbi la fortuna di essere fra quelli che conobbero Valeri in modo più intimo, trovandomi spesso ad accompagnarlo nel tratto di strada che conduce dal “Liviano”, dove teneva le lezioni, al palazzo del Bo, dove aveva lo studio e dove qualche volta s’intratteneva a conversare con me (e penso che lo facesse volentieri). La conversazione verteva soprattutto sulla poesia, alla quale a quel tempo mi dedicavo anch’io con un certo impegno. In queste circostanze, che furono piuttosto frequenti, ebbi la possibilità di approfondire e rendere molto più personale e viva la mia conoscenza di Valeri. Lo rividi a Venezia nel 1971 all’Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti, di cui era presidente. Mi venne incontro accennando persino a un abbraccio, gesto molto significativo per lui, che non era certo persona dalle eccessive effusioni.
Lei ha insegnato vari decenni nella cattedra che fu di Valeri: cosa colpiva in lui come docente?
In più di un’occasione (come anche in Galleria novecentesca. Incontri da Soffici a Zanzotto, Roma 2017) mi è già capitato di ricordare il carattere delle lezioni di Valeri. Con lui sembrava di essere non tanto a una lezione universitaria quanto piuttosto di partecipare a una conversazione, a un tranquillo e sereno incontro fra amici. Anche l’ora (le cinque del pomeriggio) in qualche modo favoriva questa gradevole impressione. Ogni lezione assumeva il valore di un incontro apparentemente estemporaneo, inatteso. Non si sapeva mai quale direzione potesse prendere il discorso di Valeri. Ogni volta era una sorpresa, anche se lo studente accorto era sempre in grado di cogliere nel diverso e vario argomentare del professore (anzi, del poeta) una linea segreta, una continuità di pensieri, una suggestiva coerenza. Non era però sempre facile prendere appunti. In quei lontani pomeriggi, al Liviano, nell’aula di Valeri qualche volta aleggiava un non so che di nobilmente mondano. Determinanti, per questo, potevano essere certe signore della buona società che non di rado noi ragazzi trovavamo troneggianti nei primi posti. Mancava soltanto che qualcuno, data l’ora, venisse a servire il tè…
E come persona?
Valeri era una persona squisita, discreta, gentile. Aveva l’atteggiamento un po’ sorridente e distaccato del gentiluomo veneto, del tranquillo e pacato umanista. Sapeva davvero vivere la vita e la poesia, come diceva, “distrattamente e al tempo stesso appassionatamente”. Parlava a noi studenti con un tono del tutto semplice e piano, con una sua particolare voce paterna che non è possibile dimenticare. Ripeto che a lui piaceva instaurare con noi una conversazione, quasi un dialogo. Ricordo che spesso assegnava un argomento di studio ai più volonterosi e, quando questi si dichiaravano pronti, li metteva in cattedra e lui stava ad ascoltarli con attenzione, con pazienza, e poi amabilmente commentava, interrogava, correggeva. Aveva un grande e sincero spirito democratico. Quando gli dissi che avrei gradito dire qualcosa su Ardengo Soffici, uno scrittore che aveva tenuto posizioni politiche opposte alle sue, accettò subito ben volentieri e poi mostrò di conoscere bene l’opera di quell’artista tanto diverso da lui e di apprezzarla in molti suoi aspetti. Non gli faceva velo la passione politica, che pure in lui era viva ma senza alcun fanatismo.
Valeri fu sia poeta sia saggista …
Di sicuro è rimasta prevalente la sua attività di poeta, che fu da lui costantemente coltivata sin dai primi lustri dello scorso secolo ottenendo un crescente riconoscimento fino a diventare successo. Ma resta di grande valore anche la sua opera di studioso, di saggista. Ci sono alcuni suoi libri che hanno fatto data e che, se ancora li si vuole prendere in mano, non hanno perso il loro valore, la loro suggestione. Penso almeno a Saggi e note di letteratura francese, del 1941, a Il simbolismo francese da Nerval a De Regnier, del 1954, fino al suggestivo Da Racine a Picasso, del 1956, fino a Lirici francesi, del 1960, fino al delizioso e vario Giardinetto, che è del 1974. Bisognerebbe però anche ricordare un aspetto meno noto della sua attività di saggista, ossia la sua intensa, acuta e ininterrotta operosità in ambito propriamente artistico. La critica d’arte di Valeri, rimasta sparsa in molte diverse sedi, è stata riportata meritoriamente alla luce in un libro del 2005 che dobbiamo all’intelligente e accurata indagine di Giuliana Tomasella. Il titolo è Scritti sull’arte e raccoglie ben 247 interventi critici che Valeri pubblicò via via in riviste, rivistine, rotocalchi, opuscoli e dépliants di varia natura. Ricordo che un lavoro di questo impegno l’aveva giustamente auspicato, già nel 1979, Neri Pozza in un suo appassionato intervento al convegno veneziano dedicato a Valeri.
Come poeta imparò molto da Pascoli e da D’Annunzio, ma anche dai crepuscolari… meno, in apparenza, da Carducci...
Sì, questo è anche vero, ed è stato rilevato da molti critici. Non c’è dubbio che Valeri muove i suoi primi passi da quei poeti, da un “crepuscolare” come Marino Moretti o magari anche come Govoni, di sicuro dal D’Annunzio dell’Alcyone ma specialmente dall’ultimo Pascoli, al quale si viene presto ad aggiungere la forte suggestione dei francesi Verlaine e certo anche Maurice de Guérin: il primo, per dirla in breve, con la sua particolare espertissima musica verbale, il secondo con quella natura vissuta nella sua primitiva innocenza animale (mi riferisco a Le Centaure, a cui Valeri nel 1925 dedicò un bellissimo saggio concepito secondo il gusto di Renato Serra). Carducci, con le “viete eleganze” del suo particolare neo-classicismo così ostentato e vigoroso, non era certo fatto per piacere a Valeri, che rifuggiva da ogni voce altisonante. Tengo però subito a sottolineare che Valeri non è un imitatore, non si entusiasma per l’ultimo poeta che legge. Ha sempre e soltanto cercato se stesso, la sua natura segreta. Non ha mai tradito il suo unico, personale, inconfondibile timbro poetico. In questo sta la sua più inconfondibile e preziosa originalità.
La produzione poetica di Valeri va dal 1913, l’esordio, al 1975, dunque un arco temporale molto ampio… Cosa può ritrovare anche oggi il lettore moderno nella sua poesia?
Nell’opera poetica di Valeri esiste un progressivo affinamento o perfezionamento formale, una sempre più esigente essenzializzazione (mi si passi il termine), ostinatamente cercata durante il lungo arco di tempo indicato. Valeri ha seguito con molta attenzione e competenza lo sviluppo della poesia nel corso del suo tempo. Ha valutato in profondità e certo anche con sofferenza il radicale giro di volta attuato da Baudelaire e da Rimbaud, gli sconvolgimenti delle avanguardie (Futurismo ecc.), l’apporto innovatore di un poeta come Apollinaire, il mallarmeismo della variegata esperienza ermetica. Ma non si è mai lasciato impressionare da tutto questo. Ripeto che ha voluto rimanere sempre se stesso evitando ogni suggestione che non fosse alla sua portata, cercando di trovare la sua più autentica voce personale, quella che lui chiamava la “verità di uno” (significativo titolo di una delle sue ultime raccolte). Ricordo che gli piaceva citare una frase famosa di Montaigne: “Chaque homme porte la forme entière de l’humaine condition”. Così la verità di uno, di un singolo uomo, dovrebbe anche essere, nella sua particolarità, quella di ogni altro.
C’è una sua raccolta poetica che Lei ama forse più di altre, o a cui è in qualche modo più legato?
Non è facile rispondere a questa domanda, perché Valeri, a ripensarci, è diversamente vivo e vero in ogni sua opera, realizzata con amore e con la più esigente cura formale. Potrei forse indicare l’ultimo libro che pubblicò, Calle del vento (1975), giudicato “essenziale al Novecento lirico” da un critico sottile come Luigi Baldacci. E ne scrisse poi brevemente ma con tocco sicuro Cesare Galimberti, un altro eletto scolaro di Valeri. In quel libro si scopre probabilmente l’essenza della sua personalità poetica e umana; l’adesione alla vita, intensamente amata, l’amore per la natura, l’accettazione rassegnata e quasi stupita del dolore che sempre l’accompagna con la precarietà di ogni cosa, fino a quel magnifico “E così sia” che chiude il libro. È indimenticabile il suo particolare struggimento di fronte alla provvisorietà e labilità di ogni cosa. In ogni momento Valeri aveva presente il grande mistero della vita, del suo implacabile dissolversi, e credo che non fosse del tutto estraneo a un’oscura speranza, magari, sotto sotto, addirittura a una speranza cristiana… Ma ecco che adesso, per indicare un’opera di grande valore e quasi per contrasto, mi torna a mente la sua traduzione poetica di quaranta favole di La Fontaine, l’autore francese che gli doveva essere più congeniale e che a lui piaceva avvicinare all’adorato Ariosto. Le ha pubblicate Sansoni nel 1952 (riproposte al pubblico, se ben ricordo, nel 1988). Si tratta di un libro esemplare, nel quale Valeri è riuscito a dare nuova e piena vita a quel grande poeta francese. Ha saputo farlo completamente suo, trapiantandolo a meraviglia nella nostra lingua, nelle nostre regole metriche, nella nostra più peculiare sensibilità. È davvero sorprendente vedere che un poeta del valore di Valeri, sempre presente nelle antologie della poesia del Novecento, non sia stato accolto in quella che nel 1999 Cesare Segre e Carlo Ossola hanno allestito per Einaudi. Personalmente ritengo ciò un preoccupante segno della scarsa sensibilità poetica che affligge il nostro tempo. Com’è possibile dimenticare un poeta che ci ha dato, fra i suoi molti, gioielli di squisita purezza lirica come “Albero”, come “Quel pomeriggio dolce” o come “Riva di pena, canale d’oblio”…? Sarebbe come escludere Giorgio Morandi dalla pittura del Novecento. Valeri non lo si può lasciare da parte solo perché non ha mai alzato la voce, non ha mai voluto gridare.
A parte i saggi meravigliosi di letteratura francese, restano indimenticabili gli scritti dedicati a Padova, ‘città materna’ e a Venezia, ‘città d’elezione’…
In questi due libri in prosa, pubblicati negli anni più tragici della seconda guerra mondiale, non c’è una sostanziale differenza dal discorso poetico di Valeri. È sempre lui. Vi si ritrova lo stesso sguardo, la stessa partecipazione. La cura della frase si organizza in un ritmo insieme naturale ed elegante, direi anche vivo e spontaneo. Qualcuno ha osservato che Valeri si rivela sensibile alla “prosa d’arte” che all’indomani della prima guerra tanto aveva impegnato gli scrittori raccolti intorno alla rivista “La Ronda”. Mah! L’accostamento può forse avere qualche fondamento, anche se a me pare che l’agile prosa di Valeri non presenti visibili condizionamenti letterari. Nella Guida sentimentale di Venezia, il grande passato della città adottiva, dell’“indicibile città”, è rivissuto attraverso i suoi più gloriosi edifici, osservati con stupore e delicatezza, con precisione e acume, rivisitati nel loro insondabile enigma. Nella Città materna c’è la rievocazione autobiografica dell’infanzia del poeta, dei suoi prediletti compagni, della sua vecchia Padova, la particolare temperie perduta dei primi anni del secolo con i suoi portici, le sue piazze, i suoi palazzi, i suoi monumenti, la sua campagna, le magiche stagioni, il Prato della Valle e i suoi giochi, il tutto rivissuto e come trasfigurato da un commosso ricordo. Anche questo è un Valeri che non può essere dimenticato.
Il lascito di Diego Valeri a Lei personalmente, e poi ai suoi studenti e lettori?
Posso soltanto dire qualcosa su ciò che Valeri ha lasciato a me personalmente. Sul piano specifico dell’insegnamento, mi ha fatto entrare nella comprensione profonda di un grande come La Fontaine, un poeta che gli era anche vicino per la sua amara visione della nostra natura, visione sempre attraversata da un sorriso non privo di un sentimento di malinconica indulgenza. Mi ha anche aperto ai maggiori problemi della modernità poetica, a cominciare da Leopardi e da Baudelaire, fino a Picasso e ad Apollinaire. Ma c’è un più importante lascito che non ho mai dimenticato: Valeri pretendeva che ciascuno fosse soltanto se stesso, senza ammantarsi di valori non suoi. Non apprezzava gli imitatori. Era appunto per “la verità di uno”. Questo è, per me, il suo lascito più importante. Pretendeva l’onestà intellettuale. Cercando di rispettare questo suo essenziale insegnamento, ho così finito con lo scoprirmi non poco distante da lui, dai suoi gusti e insomma dal suo modo di essere. Questa rimane la più grande gratitudine che gli devo.
Intervista a cura di Paola Tonussi
L'articolo “Diego Valeri non lo si può lasciare da parte solo perché non ha mai alzato la voce, non ha mai voluto gridare”. Dialogo con Mario Richter proviene da Pangea.
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