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La penna del cuore: riflessioni sul tempo e sull'amore nelle poesie di Laura Neri. Recensione di Alessandria today
La nostalgia dei giorni passati e l'importanza dei ricordi in una poesia intensa e sincera di Laura Neri
La nostalgia dei giorni passati e l’importanza dei ricordi in una poesia intensa e sincera di Laura Neri La poesia La penna del cuore di Laura Neri è un toccante dialogo con il tempo, un momento di riflessione profonda sull’amore, la memoria e la perdita. Neri, con la sua inconfondibile delicatezza, descrive la sensazione di trovarsi di fronte a un cambiamento irreversibile, come il lento…
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"Non hai voglia di vedere nessuno, né di parlare, né di pensare, né di uscire, né di muoverti.
Poi in un giorno del genere, un po’ più tardi, o un po’ più presto, scopri senza sorpresa che c’è qualcosa che non va, che, per dirla senza tanti giri di parole, tu non sai vivere, e mai ne sarai capace.
[...]
Qualcosa si stava rompendo, qualcosa s’è rotto. Non ti senti più - come dire? - sorretto: qualcosa che ti sembrava, e ti sembra, t’avesse finora confortato, scaldato il cuore, restituito il sentimento della tua esistenza, quasi della tua stessa importanza, dandoti l’impressione di aderire al mondo e di esservi come immerso, comincia ora a venir meno. Eppure, tu non sei uno di quelli che passa le ore di veglia a chiedersi se esiste davvero e perché, chi è, da dove viene e dove va. Tu sei uno che non si è mai posto seriamente la questione se viene prima l’uovo o la gallina. I crucci metafisici non hanno mai segnato i nobili tratti del tuo viso. E tuttavia niente resta di quella traiettoria saettante, di quel movimento proiettato in avanti che da sempre sei stato portato a identificare con la tua vita, cioè con il suo senso, la sua verità e la sua tensione: un passato ricco di esperienze feconde, di lezioni ben assimilate, di radiosi ricordi d’infanzia, di luminose felicità campagnole, di sferzanti venti dal largo, un presente denso, compatto e caricato a molla, un futuro generoso, verdeggiante e arioso. Il passato, il presente e il futuro ora si confondono: si confondono in un’unica pesantezza delle tue membra, nella fastidiosa emicrania, nella spossatezza, la calura, l’amaro e intiepidito sapore del Nescafé.
[...]
Questa è la tua vita. Questi i tuoi averi. Puoi fare l’esatto inventario del tuo magro capitale, il preciso bilancio del tuo primo quarto di secolo. Hai venticinque anni e ventinove denti, tre camicie e otto calzini, qualche libro che non leggi più, qualche disco che non ascolti più. Non hai voglia di ricordarti di nient’altro, né della tua famiglia, né dei tuoi studi, né dei tuoi amori, né dei tuoi amici, né delle tue vacanze, né dei tuoi progetti. Hai viaggiato, e dei viaggi non ti resta nulla. Sei seduto e vuoi soltanto aspettare, aspettare solamente finché non ci sia più niente da aspettare: che venga la notte, che suonino le ore, che i giorni fuggano, che sfumino i ricordi. Non rivedi i tuoi amici. Non apri la porta. Non scendi a prendere la posta. Non restituisci i libri che hai preso in prestito alla biblioteca dell’Istituto di pedagogia. Non scrivi ai tuoi genitori. Esci solo a notte fonda, come i topi, i gatti e i mostri. Vaghi per le strade, ti infili nei luridi piccoli cinema dei Grands Boulevards. A volte cammini tutta la notte; a volte dormi tutto il giorno.
Sei un pigro, un sonnambulo, un’ostrica. Le definizioni variano a seconda delle ore e dei giorni, ma il senso resta sempre più o meno lo stesso: non ti senti fatto per vivere, agire, lavorare; vuoi soltanto durare, vuoi soltanto aspettare e dimenticare. La vita moderna, generalmente, non è che apprezzi molto atteggiamenti di tal fatta: intorno a te, da sempre, hai visto privilegiare l’azione, i grandi progetti, l’entusiasmo: l’uomo proteso in avanti, l’uomo con lo sguardo fisso all’orizzonte, l’uomo che guarda dritto davanti a sé. Sguardo limpido, mento volitivo, andatura sicura, pancia in dentro. Tenacia, iniziativa, gesta clamorose e trionfi tracciano il cammino troppo limpido di una vita troppo esemplare, disegnando le immagini sacrosante della lotta per la vita. Le pietose menzogne che cullano i sogni di quelli che si sono impantanati e girano a vuoto, le illusioni smarrite dei milioni di reietti, quelli che sono arrivati troppo tardi, quelli che hanno poggiato la valigia sul marciapiede e ci si sono seduti sopra ad asciugarsi la fronte. Ma tu non hai più bisogno di scuse, né di rimpianti, né di nostalgie. Tu non respingi niente, non rifiuti niente. Tu hai smesso la marcia in avanti, ma già da prima avevi smesso di andare avanti, ora non ti rimetti in moto semplicemente perché sei arrivato a destinazione, e non vedi proprio cosa ci andresti a fare più avanti: è bastata, o quasi, in un giorno di maggio in cui faceva troppo caldo, l’inopportuna congiunzione tra un testo di cui avevi perso il filo, una tazza di Nescafé dall’improvviso gusto troppo amaro, e una bacinella di plastica rosa piena di acqua nerastra al cui interno galleggiavano sei calzini, perché qualcosa si rompesse, si alterasse, si disfacesse; perché venisse alla splendente luce del sole - ma la luce del sole non splende mai nella soffitta di rue Saint-Honoré - questa verità deludente, triste e ridicola come un cappello da asino, pesante come un dizionario Gaffiot: tu non hai più voglia di proseguire, né di difenderti, né di attaccare. I tuoi amici si sono stancati e non vengono più a bussare alla tua porta. Tu hai smesso di camminare per le strade dove potresti incontrarli. Eviti le domande e lo sguardo di colui che il caso mette talvolta sulla tua strada, rifiuti la birra o il caffè che costui ti offre. Soltanto la notte e la tua stanza ti proteggono: la stretta panca su cui resti sdraiato, il soffitto che non cessi di riscoprire ad ogni istante; la notte, quando, da solo in mezzo alla folla dei Grands Boulevards, ti succede quasi di avere una specie di felicità per il rumore, le luci e l’oblio. Non hai bisogno di parlare, né di volere. Non fai che seguire il flusso che va e viene, dalla République alla Madeleine, dalla Madeleine alla République. Non hai l’abitudine né la voglia di metterti a far delle diagnosi. Ciò che ti turba, che ti scuote e spaventa, ma a volte ti esalta, non è tanto il carattere repentino della tua metamorfosi, quanto la sensazione vaga e pesante che le cose non stiano così. Visto che tu, per l’appunto, sei così da sempre e non è cambiato nulla, anche se te ne rendi conto soltanto adesso: questo nello specchio incrinato non è il tuo nuovo volto, sono le maschere a essere cadute, il calore della tua stanza le ha fatte sciogliere, il torpore le ha scollate. Le maschere della retta via e delle magnifiche certezze. In questi venticinque anni non hai mai visto niente di ciò che oggi è già l’inesorabile? Non hai mai notato le falle, in quel surrettizio brano di storia che ti rappresenta? I tempi morti, i passaggi a vuoto. Il cocente e fuggevole desiderio di non più voler sentire, di non più voler vedere, di restartene immobile e silenzioso. I sogni insensati di solitudine."
Un uomo che dorme, Georges Perec
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“Abbiamo diritto all’allegria. A volte è fumo, nebbia o un cielo velato, ma dietro questi contrattempi c’è lei, in attesa. Nell’anima c’è sempre una fessura a cui l’allegria si affaccia con le pupille vispe. E allora il cuore si fa più vivace, abbandona la quiete ed è quasi uccello. L’allegria sopraggiunge dopo le assenze, alla fine delle nostalgie. Quando ritroviamo ciò che amiamo e la sua unanime rivelazione, è normale che la gioia ci abbracci e ci venga voglia di cantare. Anche se non abbiamo voce, anche se siamo rauchi dei dolori passati. Dopotutto l’allegria è in prestito, non ci appartiene. È una piccola follia, un premio passeggero, ma ne godiamo come se fosse nostra, come un guadagno, come una primavera della vita. Si aggrappa al tempo, trascina quel suo po’ d’infanzia e infila con un soffio nella vecchiaia. Settimana dopo settimana l’allegria riempie, anno dopo anno, l’allegria riempie i vuoti. Fino a quando non ce la fa più e diventa tristezza”.
Mario Benedetti - Il diritto all’allegria
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