#narrativa su introspezione
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“Una maledetta notte d’autunno” di Pietro Bertino: il monaco contro le ombre di Genova. Recensione di Alessandria today
Un noir avvincente ambientato in una Genova oscura e corrotta, dove un monaco zen combatte il crimine e cerca l’equilibrio interiore.
Un noir avvincente ambientato in una Genova oscura e corrotta, dove un monaco zen combatte il crimine e cerca l’equilibrio interiore. Pietro Bertino ci regala una storia intensa e ricca di colpi di scena. La trama: un’indagine tra crimine e spiritualità La Genova descritta da Pietro Bertino è un luogo di ombre, dove corruzione, potere e silenzio si intrecciano. Protagonista della storia è il…
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Resistance Reborn : molte ragioni per cui non era necessario ma un motivo per leggerlo
*Spoiler!*
Di cosa parla il libro
Allora, sicuramente c’è da dire che il soggetto è Poe: nello specifico, quello che deve fare per rimediare a ciò che ha causato in The Last Jedi. Sicuramente l’obbiettivo della storia è mostrare come, in poco tempo, la Resistenza riesce a racimolare nuovi capi e nuove attrezzature, dando una breve spiegazione.
A quanto pare si viene a sapere che la chiamata di Leia non è stata udita perché il Primo Ordine ha da tempo sequestrato e incarcerato i simpatizzanti della Resistenza, quindi non c’era nessuno che li potesse udire. Tra l’altro, la storia è così immediatamente successiva a Crait che nessuno sa ancora cosa è successo: la distruzione della flotta dell’Ordine, la morte di tutti i generali e degli ammiragli e di Luke. Si rivedono molte facce conosciute in altri libri e nei fumetti, perciò se siete un minimo esperti di canon vi farà piacere incontrare di nuovo vecchi personaggi, anche se la loro presenza massiccia pesa sulla narrazione a parer mio è diventato noioso leggere le sotto-trame di ognuno mentre la storia si frazionava troppo.
Un voto
Un pensiero generale sul libro, sulla sua qualità, aldilà di Star Wars: io darei un 5. Oltre alla necessità di sapere materialmente cosa è successo, il libro non intrattiene. Anzi, ci sono molti altri libri lì fuori che sembrerebbero meno necessari e invece sono bellissimi (Phasma, per esempio). Scrittura blanda, approfondimento dei personaggi altrettanto blando, azione risolutiva alla fine del libro inconsistente, villain inutili. Personalmente credo che in un contesto moralmente ambiguo come StarWars che gioca molto sui chiaro scuri, siano sempre più interessanti i personaggi che seppur cattivi pensano di fare del bene e di essere nel giusto (Cardinal, Ammiraglio Rae Sloane) e questo tale Bratt che offriva un minimo di antagonismo era noioso e forse anche superfluo. Insomma, all’interno della narrazione penso ci siano molte cose non necessarie. A dire il vero, avrebbero potuto farci un fumetto.
Avrei preferito un fumetto chiamato “Resistance Reborn” e un libro “The rise of Kylo Ren”, ma ormai le cose stanno così.
Personaggi un po’ …. meh
Ma andiamo alla parte succulenta: i personaggi centrali della storia sono Leia e Poe. Riguardo a Leia, è stata forse la delusione peggiore. Per chi ha letto i libri della Grey, sappiate che non regge il confronto. Caratterizzazione inesistente. Ci viene detto appena appena che 1. Sta ancora male per la sua passeggiata spaziale 2.A quanto pare vuole istruire Rey sulla speranza … ma sarebbe stato carino capire dove prende la sua. A questa donna ne sono capitate di tutti i colori e si regge ancora in piedi e parla di speranza, cosa anche possibile, ma dare un’idea del perché?? Un po’ di introspezione? Magari perdere due righe per dire come si sente visto che il fratello si è sacrificato per loro mentre suo figlio tentava di ucciderli tutti?? No.
Passiamo a Poe. Ora, lo metto in chiaro: a me Poe non piace. Come personaggio secondario ci stava, ma come mi ha infastidito in TLJ! Non mi è piaciuto nulla di quello che ha fatto. Mi piaceva invece l’idea che accusasse un po’ di dispiacere per quello che aveva causato. Almeno nel libro si degna di ricordare la morte di Paige Tico e vagamente si rende conto che forse è colpa sua. Detto questo, non mi piace come è passato da vergognarsi di sé stesso a fare grandi dialoghi sulla libertà alla fine. Troppo repentino, secondo me. Ricorda un po’ Jyn Erso e il suo cambio di opinione da una scena all’altra in Rouge One. In un film me lo faccio anche andar bene ma l’introspezione?? Questa sconosciuta tecnica narrativa??
Altrettanto fastidioso è stato leggere come anche se lui si dispiaceva sembra che immediatamente tutti gli abbiano detto: “E ma sai com’è: sei bello, avevi buone intenzioni, ma dai ti perdoniamo!”. In secondo luogo, per quanto mi pare che sia stata passata come una storia di redenzione – anche dall’autrice – Poe stesso che non cerca redenzione, ma vuole fare ammenda. E non è proprio la stessa cosa. (Io dico: Ovvio. Perché non ha detto scusa a nessuno. Non si è mica scusato con Rose, NO, ha solo deciso che gli servivano più X-wing. Perché lui ha detto che ha capito che ha sbagliato allora tutti gli altri hanno applaudito e subito tutti a tarallucci e vino). E poi Ben dovrebbe pagarla? Pagare lo scotto per potersi redimere? Poe avrà ammazzato più persone da solo in una scena che Kylo Ren in tutta la sua carriera ... Semplicemente non mi sembra giusto. Come non mi sembra giusto che tutti gli ripetano che ha dei capelli bellissimi. (Mi scusi signore, ma qualcun altro ha dei capelli più belli, mi dispiace). Ma ora sto divagando.
Le ship
Ma quale Reylo? Ma quale FinnRose? Qui la stormpilot imperversa. C’è una scena dove Poe aiuta Finn a mettersi la cravatta. Giuro di aver scritto una fanfiction uguale. Comunque, l’interezza del libro non si eleva dal livello di bassa fanfiction (anzi, ce ne sono alcune bellissime e molto più elaborate). Ma se siete un minimo Stormopilot, il libro vi piacerà molto. Personalmente è stata la prima ship che ho shippato, almeno per la prima oretta del film Il risveglio della Forza. Rose mi piace molto e mi dispiacerebbe se la lasciassero sola nel prossimo film. Se la stormpilot avvenisse, almeno spero che mi arrangino Rose con qualcuno, perché se lo merita.
Ma la Reylo???
Ed ecco il vero motivo per cui questo libro si deve leggere. La mia teoria è che Rey abbia detto a Finn e Leia del ForceBond.
Per prima cosa, c’è una possibile scena di Forcebond qui:
“Well, that’s someone, Rey of Jakku. That’s someone, indeed”. Rey flushed scarlet and took a gulp of tea. She choked briefly and quickly set the cup down. She pressed a hand to her mouth, coughing hard. “Are you all right?” Charth asked, leaning forward.
In una conversazione che è stata messa subito in chiaro riferimento con l’ultima conversazione tra Rey e Kylo, perché poco prima Rey si identifica come “nessuno” ancora una volta, viene smentita e dopo un po’ si strozza con il tea …? E poi scappa via?? E poi guarda un po’, chissà perché si manifesta il Primo Ordine su Ryloth senza nessun motivo apparente, e tutti continuano a dare opinioni e fare ipotesi sul come mai siano così tanto nell’Orlo esterno.
In un secondo momento, poi Poe si imbatte in Rey e Finn che parlano vicinissimi e a bassa voce, ma si fermano non appena lo vedono arrivare. Rey va via e Poe chiede se stesse bene. Poe insiste e Finn dice che si fida di Rey e sa che lei avrà tutto sotto controllo. In oltre dice questo:
“I know you said Rey had it under control, but is it everything okay? With Rey? That conversation looked serious”. Finn’s Brow furrowed in thought. “She’s gone to talk to Leia about it. She didn’t want to burden her, but I told her Leia needed to know”. “Whoa”, Poe said, hand grasping Finn’s Harm and bringing him to a stop “Is there something I should Know, too? If Leia’s in danger …”. “Rey will handle it”
Alla fine del libro Rey sembra aver deciso di dedicarsi alla speranza. A quanto pare lei e Leia condividono questa cosa, questa missione di riempire il vaso goccia a goccia per formare un oceano. Ora mi chiedo … si riferiscono alla Resistenza solamente? Perché Leia aveva perso la speranza in suo figlio alla fine di The Last Jedi e Luke le aveva detto che “nessuno e veramente perduto”. È da qui che trae la sua speranza? Dal fatto che pensa che in qualche modo suo figlio possa tornare indietro almeno alla fine? Avrei preferito saperlo, ma il libro non si degna di dare mezza motivazione a questa cosa.
Vista la rabbia con cui Rey affronta Kylo nel trailer, dubito che lei mantenga ancora speranze verso di lui … ma Leia è un’altra questione.
Per concludere, penso sia probabile che il film parta con Finn e Leia che sanno del Forcebond ed in qualche modo Poe lo venga a sapere. Visto il soggetto, sono ancora convinta che non gli piacerebbe affatto. è probabile che sia questo quello a cui si riferisce Rey quando dice che “tutti le dicono che la conoscono ma nessuno può?” magari si aspettano cose diverse da lei riguardo la gestione della sua relazione con Kylo?
Chissà.
#reylo#reylo italiani#from italy with reylo#resistance reborn#book review#sono stata un po' dura ma non critico nessuno a cui il libro sia piaciuto
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(1/3) Ti dirò una cosa un po' brutta, che probabilmente non condividerai, ma tanto... Secondo me uno dei problemi più grossi della trilogia è il casting di Adam Driver. È di un livello troppo alto rispetto agli altri. Ruba ogni scena in cui è presente, oscura del tutto il partner di scena e anche se ha 15 minuti di screentime, agli spettatori sembra siano il triplo. Con tutto il rispetto, la recitazione nei film di Star Wars è sempre stata molto mediocre se non atroce in certi momenti
tanto è vero che ho sempre preferito guardare i film in italiano tranne che per le parti con Adam Driver. Perdonami ma Daisy Ridley e John Boyega sono tutt'altro che bravi, lei soprattutto in certi momenti è NOPE. Ci sono alcune scene in cui è stata brava, ed erano quasi tutte scene con Adam, in cui lui comunque deve fare buona parte del lavoro che eleva la performance di lei. Questo si riflette su quello che gli spettatori percepiscono durante il film. Rey diventa interessante quando ècon Ben. Finn e Rose e Poe passano in secondo piano rispetto al resto. Se togli di mezzo shippers e anti e parli con qualche spettatore casuale, nessuno ti dirà che va a vedere TROS per vedere la fine che fanno Finn e Rey. Il personaggio che catalizza l'attenzione è Kylo. Le shippers sopravvalutano troppo gli altri personaggi, gli anti ne fanno la questione di stato che non è. Il problema di fondo è che non costava nulla scrivere meglio anche gli altri, e magari prendere attori più bravi.(cioè alla fine il problema è che il personaggio maschio bianco etero è stato decisamente curato molto di più per ovvie ragioni, a partire dal casting e dal fatto che lo hanno scritto come il legacy character. Questo è un problema storico dell'industria alla fine, niente di nuovo. Ci sarebbe da fare una bella discussione su questo, ma gli anti preferiscono attaccare gente che semplicemente reagisce alla narrativa sullo schermo per quattro like su Twitter)
Sono d’accordo in parte. Se ti dicessi che la differenza di recitazione tra Adam e gli altri non si nota, mentirei spudoratamente. Però trovo che il livello di recitazione complessivo sia sì più basso rispetto a quello di Adam, ma molto più alto rispetto rispetto alla trilogia originale e ai prequel (la prima ha ancora tutta una serie di stereotipi recitativi molto cringe tipici dell’epoca, oltre ad utilizzare attori inesperti e non proprio brillanti—a parte l’immenso Guinness—e dialoghi moooolto elementari; i secondi al contrario “stridono” un sacco con gli standard recitativi/narrativi in voga in quel periodo, suonano forzatamente anacronistici, sembrano d’altri tempi, come un vecchio peplum teletrasportato nei primi anni 2000, il che è in parte sicuramente intenzionale, ma forse in parte accidentale). E parlo non solo di recitazione ma in generale di qualità narrativa (dialoghi, introspezione dei personaggi, script, etc)
Daisy secondo me è ancora inesperta ma è migliorata molto. E’ chiaro che da’ il massimo con chi non solo la innalza al suo livello recitativo ma le offre anche la possibilità di tirare fuori un po’ di profondità, di conflitto interiore; infatti l’ho trovata convincente non solo nelle scene con Adam ma anche in alcune di quelle con Mark, ed è assolutamente bestiale quando si incazza. Il problema principale che hanno sia lei che John imho è che a volte la loro recitazione è un po’ affettata—fanno un sacco di “facce”—come se la loro preoccupazione principale fosse rendere i loro personaggi inequivocabilmente simpatici a un pubblico fatto per lo più di bambini, e credo che in questo la regia e la sceneggiatura abbiano diverse colpe. Sia Finn che Rey spesso vengono usati come comic relief o in momenti spudoratamente “cute”, che stridono parecchio con il fatto che entrambi i personaggi, in realtà, hanno un background estremamente traumatico e quindi dovrebbero avere una gravitas ben maggiore (d’altra parte… sono i “buoni” e il target ideale è junior, quindi ci sta, almeno in parte).
Adam sta su un altro pianeta, chiaramente. E sì, si mangia la scena in un boccone, ovunque e comunque, pure se neanche si sforza. Ma è proprio il personaggio di Kylo che sta su un altro livello, è chiaramente IL perno narrativo dell’intera trilogia—gli altri, secondo me, a cominciare da Rey… sono costruiti INTORNO a lui. (tipo, mi volete dire che il fatto che Rey è una scavenger non ha nulla a che fare con il simbolismo del *ricostruire i pezzi di una legacy / di un’anima spezzata*?). Il punto è, ha veramente senso criticare la disparità di peso narrativo, quando l’intera storia nasce e si sviluppa intorno alla tragedia della caduta di Ben Solo? Se fosse stato diversamente avremmo avuto una trilogia sulla falsariga di Rogue One, con un cast collettivo fatto di personaggi fuori legacy. Il problema degli anti e di tutto questo discourse è che si rifiutano di ammettere che A MONTE la trilogia è basata su Kylo Ren, e di conseguenza attaccano i singoli registi come Rian Johnson, o il fandom, sostenendo che a Kylo sia stata attribuita un’importanza superiore a quella che avrebbe avuto secondo i piani originali—quando l’ha sempre avuta, fin da quando la trilogia era un abbozzo fatto di idee sparse e vaghe concept art.
Poi sì, possiamo criticare come dici tu la tendenza di Hollywood di creare storie sempre e solo attorno ai maschi bianchi, ma in questo caso dovremmo partire da George Lucas e Luke Skywalker. O possiamo fare dietrologie sul perché sia stato deciso che Kylo Ren dovesse essere un ragazzo bianco e non una ragazza, e che dovesse essere figlio di Han e Leia e non di Luke, il quale avrebbe in teoria potuto avere un figlio di colore. Ma NON ha senso criticare il fatto che la trilogia si basa sulla caduta e successiva redenzione di un legacy character, anziché sulle vicende edificanti di un eroe/eroina cinnamon roll e senza macchia come vorrebbero gli antis. A ciò aggiungo che, SECONDO ME, c’è una ragione ben precisa per cui Kylo dovesse essere un maschio, e che i suoi genitori dovessero essere Han e Leia piuttosto che Luke/personaggio random introdotto appositamente o riciclato dall’EU, se le letture di Rian Johnson su Robert Bly e l’interesse di George Lucas per gli archetipi edipici e i rapporti madre/figlio e padre/figlio significano qualcosa.
Il problema di fondo è che non costava nulla scrivere meglio anche gli altri
Ecco, questo sicuramente. Su Finn ad esempio si poteva fare un lavoro diverso, e approfondire il suo passato di stormtrooper rendendolo cruciale per la sua evoluzione. Di certo in TFA è più facile leggere Finn come parte di un'ideale triade narrativa (Rey/Finn/Kylo, i tre personaggi che iniziano il loro viaggio indossando una maschera e poi affrontano delle sfide che li mettono su un percorso di scoperta di loro stessi e delle loro potenzialità, a differenza di Poe che è just there, bla bla) mentre TLJ lo sposta in un subplot che lo separa nettamente dalla dinamica Rey/Kylo (e tuttavia, possiamo davvero dire che è stato marginalizzato, quando sono stati creati non uno ma ben due personaggi ex novo, Rose e DJ, per accompagnarlo in questo subplot e creargli dei conflitti da superare?). C’è anche da dire che nel momento in cui scegli un attore di colore per interpretare il ruolo del deuteragonista (e secondo me, Finn è esattamente quello), devi essere estremamente consapevole di quello che stai facendo e delle opportunità a tua disposizione di rompere gli stereotipi, perché il rischio di scadere nel trope stantio e strausato in Hollywood del personaggio di colore “amico dell’eroe bianco” è alto. D’altra parte, da Star Wars non mi aspetto una rottura frontale con le convenzioni narrative, per quanto sorpassate possano essere, al massimo una rielaborazione delle stesse.
TLDR a me, sinceramente, il casting sta bene. Su tutti quello di Adam, che nobilita l’intera trilogia. Le critiche le capisco anche, ma pretendo onestà intellettuale da parte di chi critica, e tale onestà intellettuale non può prescindere dall’ammettere/accettare il fatto che Kylo Ren sia il fulcro della storia ED E’ ANCHE GIUSTO CHE LO SIA, considerati i temi portanti del franchise.
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Star Trek Discovery: 2° stagione
Questa seconda stagione mi ha lasciato perplessa, e confusa su cosa ne penso.
Butto giù giusto qualche parola, in attesa di assorbire il tutto.
Inizio con il dire che la prima stagione mi è piaciuta molto di più. E questo è un dato certo da cui partire.
Analizzando la seconda stagione, posso dividerla in due parti: la parte narrativa, con il mistero dell’Angelo Rosso, i 7 segnali e tutto ciò a cui questo è collegato Spock compreso , e la parte più emotiva e introspettiva, che è stato il mio vero problema.
Dunque, sul mistero dell’Angelo Rosso, della tuta e della madre di Michael, con questi sette segnali che in realtà erano stati fatti dalla Michael del futuro, la mia attenzione era ben accesa: scoprire chi,perchè,quando e come mi ha tenuto incollata allo schermo.
E trovo che sia stata una buona spiegazione. Intelligente e che apre le porte con la forza al ritorno della Discovery nella giusta “timeline”: 900 e passa anni nel futuro e con il segreto portato nella tomba, si spiega così come Spock non abbia mai parlato della sorella o perchè la Discovery stessa non venga mai nominata nelle altre serie.
Ottimo anche tutto il comparto fotografico, musicale e degli effetti speciali: roba da brivido.
Io mi emoziono quando vedo la tecnologia della Discovery...che ci posso fare!
Mi è piaciuto anche il Capitano Pike, per carisma, determinazione e lealtà non mi ha fatto rimpiangere il vecchio Lorca. Piazzare Pike con un attore che ne regga le sorti è un colpo da maestro e devo dire che la serie è stata brava nel gestire “ il vintage” come la Enterprise, con “il nuovo” come la Discovery.
Abbiamo avuto pure un episodio con i Talosiani, ad eterna memoria di un episodio cardine come Lo Zoo di Talos della vecchia serie sempre con Pike
Inoltre abbiamo pure visto l’interno della Enterprise, che assomiglia davvero tanto alla Nave che già conosciamo.
Nota di merito anche ai personaggi nuovi ( a cui spero la terza stagione dedichi più spazio) come Jet Reno o la Regina Po ( questa però ce la siamo giocata ahimè..io la adoravo) anche se appunto..troppo pochi characters nuovi.
Interessante anche l’idea della IA che prende coscienza e che mette a dura prova i Nostri Eroi, visto che questo mondo è tanto tecnologico.
Anche se la cosa che mi è piaciuta di più è stata la vicenda della sfera: non solo aveva una coscienza, ma ha salvato la Discovery e successivamente ha impedito ai suoi stessi dati di essere cancellati dalla memoria della Nave.
Bello.
Ma ora arriva la parte meno bella e dove ho trovato difficoltà nonchè noia: la parte emotiva - introspettiva.
Per carità, è bello analizzare i personaggi che conosciamo da due stagioni, per conoscerli più approfonditamente.
Quello che non è bello, è passare episodi su episodi incentrati su questo:
La vicenda Stamets/Culbert mi ha fatto sbadigliare tantissimo: questo non è Star Trek.
Questo è Piccoli Problemi di Cuore.
Culbert era morto. Ormai anche Stamets si era messo l’anima in pace. Ma il dottore resuscita modello Gesù ed anche se è tutto molto bello ed io sono tanto felice per la coppietta, mi chiedo perchè per tutta la stagione, mi sono dovuta sorbire tutta la loro storia, che tra l’altro finisce pure a vino e tarallucci.
Idem la vicenda Michael e tutte le batoste che le sono arrivate:
- scopre che la madre è viva
- scopre che i suoi non sono morti per caso ma c’è un colpevole
- la relazione con il fratello va ricostruita
- scopre che la madre appena ritrovata, deve essere abbandonata
- deve lasciare la sua famiglia per sempre per salvare il mondo
( semplifico)
TROPPO!
E lo capisco che Michael è la protagonista e che quindi deve succedere tutto a lei..ma così è troppo, pare forzato.
E sopratutto porta la storia a concentrarsi su questo ( giustamente) e non sulla trama orizzontale.
Ecco quindi Michael che va a litigare con Ash. Michael che tenta di aiutare suo fratello. Michael che parla con la madre saltatrice nel tempo..un botto di introspezione singola che, sarò strana, mi ha portato a skippare di 10 secondi, una tantum, per far passare il momento.
Perchè ero convinta di vedere una serie di esplorazione spaziale, nuovi pianeti, nuove razze, battaglie, guerre e riappacificazioni planetarie, ed invece sto assistendo alla devastazione della vita di Michael?
Inoltre la protagonista porta in campo un altra problematica che mi fa alzare gli occhi al cielo:
la lascio come dice Spock perchè non avrei saputo dirlo meglio
Ma il problema non è nemmeno tanto questo, ma il fatto che tutto l’universo fa si che Michael sia questo. Tipo predestinazione. (cosa che odio)
In sintesi: bella la trama orizzontale, troppo pesante la parte introspettiva.
Una cosa poi su Burnham e Tyler: per quale motivo lui era in questa storia? Togli Ash e mettici tizio random e non sarebbe cambiato nulla. Ero convinta che i due avrebbero parlato della loro storia, di quello che era successo, se era il caso di ricominciare. Ed invece..due parole in croce, bacio strappalacrime e via ..a morire.
Comunque oltre a Pike, ci sono altri 4 personaggi che mi sono piaciuti:
1) Spock. Esattamente come me lo immaginavo. Bello ed intrigante il suo rapporto con la sorella e il suo racconto sul passato che apre uno squarcio su uno dei personaggi più iconici della Saga. Incredibilmente a mio parere, questa serie lo ha umanizzato, mostrandoci uno Spock chiaramente in difficoltà e più vulnerabile.
2) Tilly. Questa ragazza è un raggio di luce ed anche se il suo atteggiamento non è proprio da capitano standard, ci mette il cuore, e si vede.
3) Saru. La sua storia è forse quella che mi è piaciuta di più. La vicenda della morte, della sorella, dei gangli e della paura ecc ecc, mi ha interessato
4) LA DIVINA GEORGIOU. Magnetica, sarcastica, vendicativa, letale, pericolosa, con un solo anello debole: il suo affetto per Michael.
Ogni volta che entra in scena di prende il palco e partono gli applausi.
Concludendo: Voto 6 e mezzo. Attendo con ansia la terza stagione, poichè 900 e passa anni avanti nel futuro, significano tante cose. Tante realtà da scoprire, pianeti e avventure da vivere spero
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Annarella
Parto dalla traduzione, credo errata, di una frase di Joan Didion, quando in un long-form del 1961 scrive che: “Although to be driven back upon oneself is an uneasy affair at best…”: essere rimandati indietro a se stessi è un affare affatto facile. Rileggendola ora mi pare ovvio sia sbagliata, al di là della consonanza che mi si è venuta a creare nel pomeriggio. Aspiro un po’ di sigaretta e mi intestardisco che va bene anche così, a pensarla in modo completamente post-moderno (se post-moderno è quello che intendo io da anni, il che è tutto dire. Non sono famosa per essere molto aderente alla concettualità filosofica): quasi nessun rispetto per il testo o l’autorialità e totale estroflessione verso l’ispirazione, il segno ulteriore, il significato debordante e inatteso che una produzione culturale qualsiasi crea. Vedere il mondo come segni da cui distillare significati impropri, per sopravvivere. Quasi allo stesso modo che si fa con le persone.
Quando la mattina vado a piedi a lavoro mi ritrovo a guardare per aria: i palazzi dell’arteria principale di Bologna non li ho mai guardati, forse per l’interesse che nutro per le persone solitamente ma che, nell’ultimo periodo, hanno il problema di non essere quell’unico volto che mi sembra di andar cercando. Occhiali, piccoli occhi blu, cicatrice al lato sinistro della bocca, capelli folti neri. Il testo di Joan Didion è sul rispetto di sé e parte con un fallimento: non essere stata ammessa alle Phi Beta Kappa. Stupirsi che le regole dell’esclusione e la traccia scritta del proprio vissuto, indelebile, agiscano anche sulla propria persona. Chissà come mai le cose della vita non hanno riguardo verso la persona che noi tutti siamo, tutti speciali e tutti così irregolari. La maturità risiede forse nel guardarsi vivere mediocremente come tutti gli altri, e in questo trovare il conforto di non essere granché, di essere parte di una serie di eventi non catastrofici ma umani, nei limiti dell’umano, però. Ho vissuto un numero non tragico, ma nemmeno esiguo, di fallimenti in questi ultimi mesi: sono arrivata a toccare fino a bruciarmi la possibilità del lavoro forse non dei sogni ma sicuramente più adeguato alla mia caparbia e ostinata ricerca delle parole scritte; ho sgretolato una relazione tutto sommato serena; ho dovuto traslocare in una domenica afosa mentre le lacrime che piangevo me le inghiottivo al telefono con mia zia, assicurandole che fosse una domenica come tante mentre invece trasportavo un piccolo trolley di infelicità per la città; sono stata operata e ho avuto paura di morire, ma tanti giorni dopo l’operazione; ho in parte perso la voce che è sempre stato un mio vanto; sono stata scaricata dalla casa editrice con cui ho costruito il mio testo più lungo negli ultimi 4-5 anni; ho ricevuto un rifiuto da un uomo molto più grande e che tuttora mi piace molto; ho avuto un’infezione a un occhio; ho svolto due lavori diversi, molto poco appaganti ma in modo diverso [lavoro di merda vs. lavoro insulso].
Essere riportati a sé stessi, vedersi bloccare tanti meccanismi ben oliati è un casino e costringe anche il più insolente dei pragmatici (e dio sa a quanto io aspiri a questo) a respirare, sbrogliare la matassa e guardare la pochezza di quello che ci si ritrova in mano.
Quando la mattina raggiungo a piedi l’ufficio, l’anno nelle sue mensilità mi sovviene di continuo in superficie, mi blocca il fiato: in quel momento smetto di guardare i palazzi e i cartelloni pubblicitari e cerco la complicità nei passanti che di me vedono solo una cicatrice a forma di sorriso. Tutti guardano là, è più forte di loro: credo possa sembrare o quello che effettivamente è (asportazione della tiroide) o un tentato suicidio. Se sapessero che scrivo, probabilmente sarebbero sereni nel constatare che questa seconda opzione mi è deontologicamente preclusa. Prendo a gran manate tutto l’anno, snodato nei suoi gennaio-febbraio-marzo-aprile-maggio, cerco quel respiro che mi permetta di mantenere la calma e ordino alle lacrime di venire a galla in momenti più degni, non mentre vado al lavoro e mi convinco di essere una piccola bambina sfortunata. Venire riportati a sé stessi è una benedizione, ma solo in quei momenti in cui non lo cerchi e ti lamenti della tua mancanza di introspezione con gli amici al bar, davanti all’ennesima bevuta che ti consacra come bestia ipersociale, pronta a sfrenare la lingua e la retorica pur di abbellire uno o più dolori costitutivi.
Ci sono state tante serate così nella mia vita da luglio in poi; la presa della Bastiglia (e mi riviene in mente solo ora, ma tu guarda, un esercizio che avevo iniziato a fare con un mio amico. Piccoli pezzi di narrativa parodistica su eventi storici riletti. Una delle consegne che eravamo riusciti a mantenere era la presa della Pastiglia: non so se da qualche parte ho il pezzo sugli psicofarmaci più adatti per compiere una rivoluzione) ha delimitato la mia vita da persona non più in coppia, completamente rimandata a sé stessa o alle amiche, perlopiù. Ho bevuto ininterrottamente per mesi, ma quasi mai arrivando a stati alterati di coscienza. Una sera era per festeggiare un messaggio inviato e andato a buon fine, la sera dopo per parlare di A. in serietà, e un’altra per sperperare parole sull’infatuazione malriposta.
Quasi peggiore, comunque, è la strada di ritorno verso casa: la mattina, anche se la luce ottobrina non lo permette poi così tanto, è carica di promesse, le aspettative si fanno largo nel cielo chiazzato di nuvolacce e tutto sembra possibile. Le ore davanti a ognuno sono tante, così numerose e gonfie di minuti che può capitare l’inaspettato per eccellenza, il desiderato per antonomasia. La routine dell’ufficio appare sopportabile, quasi desiderabile, da lì alle 18. E poi nulla accade, se per nulla si intende quell’unico evento che si brama come l’ora d’aria al riparo dalla prosaicità di tutto il resto che, immancabile, continua ad accadere come se nulla fosse. Il nulla che è. I viaggi a piedi, verso e dall’ufficio, sono la sede in cui quelle due serate (10 e 29 luglio) sono sottoposte a una benefica coazione a ripetere; l’ossessione che metto nell’immaginare tutti i possibili sviluppi tranne quello che mi è capitato – che io ho concorso a creare – mi fanno percepire l’aria di tristezza che emano, l’onta che mi porto dietro da qualche mese che si chiama ‘rifiuto’. Prosaico come poche altre cose nella vita.
Un rifiuto concettualmente addobbato da due pensieri connessi ma astratti e con i quali io cerco di rendermelo intellettualmente stimolante, razionalmente godibile come oggetto di pensiero, quando riesco a distaccare la mente dal fatto, piuttosto bruto, che ho il cuore malandato. In primo luogo, c’è questo primo pensiero che risuona della domanda cardinale del ritornello di “Mesopotamia”: che cosa resterà di me nel transito terrestre? Il mio profondermi nell’esserci e nell’essere presente a me stessa recano la dolorosa impronta dello sforzo vano e delle energie sprecate verso un’altra persona, una delle assenze più vivide che abbia mai esperito nella mia vita. Io cammino in una città, mangio, leggo, lavoro al pc, mi sforzo di argomentare e ognuna di queste azioni ha lo stesso identico sbocco da mesi: quell’uomo là. Parlando di energie parlo dell’intensità con cui faccio le mie cose nei miei spazi sperando che possano trovare un’eco a distanza nella mente di un’altra persona. Conduco la mia vita in modo da rendere possibile l’incontro, o almeno il pensiero della reciprocità. È piuttosto strano anche per me a metterla giù così, anche per il fatto che vengo tacciato di estremismo sentimentale ed esasperazione del mio stato emotivo, ma sto vivendo per lui. E qui la metà delle persone credo griderebbe allo scandalo, al facile sentimentalismo di una ragazza infatuata (e difatti mi becco spessissimo, come controaltare alla mia enfasi: ma sì, capita a tutti, vedrai passerà, lontano dagli occhi, lontano dal cuore…). Ma è vero: le mie energie, la maggior parte dei miei pensieri e delle mie ‘particelle’ solcano idealmente i ciottoli di quella lunga via fino alla statua del santo che porta a casa sua. Cammino nella speranza di incontrarlo e che mi chieda come sto; esisto in balìa di un’attenzione che ho ricevuto in due occasioni distinte, lontane ormai mesi. È possibile tutta questa emozione per nulla? È probabile doversi ingoiare a fatica tutto ciò?
Il secondo scorno della vicenda, a pensarci bene, non è un vero e proprio secondo punto distinto, ma una dimensione leggermente meno esoterica di queste fantomatiche particelle spruzzate a gran velocità in giro: risiede tutto nella magica, iniziatica impotenza del non poter comunicare con l’oggetto del desiderio. Che determina un sofferente esser rimandati a sé stessi, in ogni caso.
Mi alzo dalla sedia e bevo del succo d’arancia rossa dal frigo: non so se sono abbastanza lucida e reattiva da provare a riempire tutti le caselle. Sento un nodo dentro bello consistente che mi fa pensare di non essere pronta: forse è proprio questo il momento di attaccare, allora? Nota bene: ho anche paura di abbassare vertiginosamente la qualità della cosa scritta fin qui, e non ho alcuna volontà di fare un elenco puntato e poi non sono però sicura di avere mezzi più raffinati che provare a schematizzare i diversi livelli di quello che intendo. Com’è ovvio, questi pensieri prendono il loro posto in totale contemporaneità nel mio cranio.
Due persone hanno una relazione: sono pari. La relazione finisce male: lui ha bisogno di altro, ad esempio. Dopo la rottura, gli rimangono in mano i cocci ma una cosa sempre possibile, praticamente sempre a portata di mano ce l’hanno: hanno il parlarsi. Una situazione così è campionabile all’infinito e ne verrà sempre fuori il fattore che, nonostante tutti i casini che lui o lei hanno fatto, non viene mai meno la possibilità di comunicare. Ora, sì, esagero, ma più che altro per mancanza di dialogo: la pagina bianca non mi dà contro e proseguo indisturbata negli scenari standardizzati che ucciderebbero un eventuale interlocutore.
Due persone non hanno una relazione ma qualcosa succede, qualcosa di ambiguo, che si invischia e si avviluppa in spire sempre più asfissianti. Le due persone non si conoscono, ma non è difficile vedere che l’uno o l’altro ha un’indole più introspettiva, più dubitante (e ossessiva, se serve al racconto).
Queste due persone non si conoscono e non sono pari: si crea imbarazzo e poi un unilaterale e sereno lasciar andare la faccenda. In definitiva, le due persone non sono pari. Nessuno lascia nessuno e non hanno mai parlato, perché non c’era niente di cui parlare.
Ed ecco che arriva il problema dell’incomunicabilità: è quando non c’è parità, e via così in un circolo vizioso. Davanti a una persona che ha un fiume in corso che la percuote da capo a piedi, potrebbe essercene una che non ha il minimo sentore che sia successo qualcosa di cui effettivamente parlare, e non conoscendosi chi dei due penserà che l’altro è un fiume in piena? Chi dei due si può prendere la briga di indagare, quando i termini dell’altro sono ignoti? La risposta è che non lo farà nessuno dei due, nemmeno il più coraggioso: perché non conoscendo l’altro, non sa di essere il più coraggioso. Potrebbe solo essere il più infatuato. O il più folle. O il più suggestionabile; fino a tramutarsi nel paradosso dell’essere il più debole tra i due. Come fai a sapere cosa sei tu, tra i due, quando non sai cosa sia l’altro? Come fai a parlare se l’altro è il non comunicante per antonomasia, date le condizioni di realtà in cui una non-relazione (ma solo due serate di un luglio appiccicaticcio. Ripetermelo è salvifico per tramutare quest’angoscia in accettazione) accade?
Lo sforzo che impiego nel mettere a fuoco è enorme, e non mi sembra nemmeno di aver fatto importanti passi in avanti: mi sono voluta dare una forma a tratti saggistica, a tratti narrativa, quando la lista delle possibilità sembrava l’unica strada percorribile. Una strada piena di rivoli diversi, dove ci si impantana a piacere, e dove le opinioni degli altri creano altrettante pozzanghere di ambiguità esiziale.
La lista della spesa non può più essere il percorso comodo che mi scelgo per non essere rimandata a me stessa e al rifiuto: il dolore è costitutivo e di questo dolore farò corteccia, io lo so, io devo saperlo. Passeranno gli anni e verranno le risate grasse; verrà la tentazione della prosaicità di aver denotato una persona di tante cose che questa persona, nella vita reale, non ha; arriverà la consapevolezza che le particelle devo rimangiarmele a suon di abnegazione. Oggi è il primo vero giorno di autunno, dopo un anno di fallimenti e un luglio appiccicoso, passato a tracannare birra per sorvolare sugli avvenimenti. È il primo giorno di autunno e io vengo rimandata a me stessa: non è affatto semplice.
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I 10 MIGLIORI ALBUM DI METÀ 2018
di Viviana Bonura
Questo primo semestre del 2018 ha offerto tante sorprese musicali. Benché la programmazione non sembrasse particolarmente entusiasmante alla fine sono usciti album di debutto veramente interessanti, mentre quelli più attesi hanno riservato delusioni più o meno grandi. Giugno è arrivato e con lui anche il momento di tirare le somme, almeno momentaneamente. Ecco di seguito i 10 album che per gazemoil si meritano un posto nella lista dei dieci migliori album di metà 2018.
* Il criterio seguito è n.1 album (no mixtape, no EP) per artista ordinati per preferenza decrescente ed usciti prima e non oltre il 15 giugno dell’anno in questione.
10. Haley Heynderickx - I Need To Start A Garden
Nel suo album di debutto, la cantautrice e musicista di Portland Haley Henderickx porta a compimento un progetto dalla struggente forza emotiva e dall’introspezione dolce-amara, sfumata delicatamente da un’aura fiabesca che permea ogni parola di significato. Innanzitutto I Need to Start a Garden possiede le basi per un buon album indie-folk, vale a dire una bella (anche se contenuta) raccolta di cantilene dolci e intime, accompagnate da una chitarra acustica e occasionalmente anche con l’infusione di quella elettrica. Oltretutto arriva in maniera diretta al cuore degli ascoltatori senza avere pretese. Quest’album scolpisce percorsi tra la solitudine e confessa incertezze a lungo nutrite con l’acutezza di qualcuno abbastanza a suo agio da essere onesto coi suoi dubbi. E’ un buon punto di partenza, e anche se la Heynderickx non è sicuramente al livello degli artisti da cui prende ispirazione, ha molto potenziale e grande sensibilità che ispira fiducia e speranza per la sua maturazione artistica e penso sia sulla strada giusta per affinare il suo personale stile cantautorale.
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09. Unknown Mortal Orchestra - Sex & Food
Sex & Food ti pone nella penombra, in uno stato di eclissi parziale, a metà tra la luminosa sicurezza del sole e il netto buio dell'incertezza della luna. E’ un album con grande potenziale, soprattutto nei testi che esprimono forte malessere politico, senso di impotenza e critica verso il tempo e il modo in cui stiamo vivendo, rivolgendosi sia all'individuo che alla più collettiva società. Nella recensione originale sono stata piuttosto rigida nelle critiche a causa delle sue mancanze non trascurabili, ma riascoltandolo mi sono resa conto che in generale questo è un album davvero piacevole. E’ un occasione di introspezione per l'ascoltatore, “a meno che quest'ultimo non si distragga lasciandolo scivolare nel sottofondo” avevo detto, ed è ancora così, Sex & Food non pretende attenzione, devi essere tu a cogliere il suo potenziale. E’ un vero peccato, perché alla fine le tracce si prestano bene a farsi riascoltare più volte, inoltre la paranoia, le frustrazioni e l'amore incapace di Nielson sono vere più che mai e proposte con un liricismo intelligente
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08. Generic Animal - Generic Animal
Il primo disco da solista di Luca Galizia, chitarrista dei Leute, sotto il nome di Generic Animal ci ha subito sorpreso. E’ la prima volta che Luca canta in italiano e lo fa con la sua voce stridente, approfittando del momento in cui nel mondo della musica it-pop vanno di moda le cantilene strisciate, per lasciare scoperto il fatto di non avere molta esperienza col canto ed essere un pò stonato, puntando l’attenzione, piuttosto, verso quel senso d’improvvisazione della musica suonata libera. Questo funziona anche perché la penna dei testi è quella dello strepitoso Jacopo Lietti dei Fine Before You Came, uno che di riflessioni disincantate sul nascere ai margini delle città, nelle province ferme che precludono la possibilità di raggiungere una stabile condizione di serenità, ne ha fatte tante e ne presta altrettante in questo disco. Giustamente, essendo un album che rispetta le tradizioni cantautorali italiane e forte del possedere liriche intime, poeticamente metaforiche ma inequivocabilmente quotidiane, Luca decide di fare della sua voce la guida principale. Ma per la musica guarda anche altrove, rimanendo aggiornato con lo stile dei musicisti internazionali dell’alternative, combinando l’amore per il lo-fi delle chitarre acustiche con le contaminazioni storte ed elettroniche dei synth che mantengono quel fare malinconico ma danno anche un piacere un pò pop. Generic Animal arriva lieve ma sommessamente brutale, soprattutto per la leggerezza con la quale vengono descritte le anchilosate sensazioni di fastidio quotidiane vissute nella post-adolescenza.
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07. Jorja Smith - Lost & Found
Con Lost & Found la cantante Jorja Smith si aggiunge alla lista dei promettenti artisti che quest'anno hanno pubblicato l'album d'esordio. Pur ispirandosi alle grandi icone indiscusse dell’rnb come Amy Winehouse, la versione contemporanea della Smith ha una sua personalità, questo grazie ad un timbro vellutato riconoscibile ed una buona tecnica vocale. La produzione, spesso, è un pò troppo minimale e preferisce giocare sul sicuro: beat tipicamente hip-hop, bassi sintetici sempre della stessa matrice e synth semplici. Jorja stessa è il motivo principale per cui quest’album sta in piedi, dimostrandosi sempre elegante ed intima.
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06. Hop Along - Bark Your Head Off, Dog
Spinti dall’inconfondibile voce di Frances Quinlan, gli Hop Along continuano a distinguersi nella scena indie rock, abbracciando più apertamente la loro flessibilità nello spaziare influenze musicali all’interno di Bark Your Head Off, Dog, il loro disco più luminoso e amichevole - quasi pop. Sotto l’aspetto ritmico e melodico la band procede nello sperimentare con le sezioni e coi cambi, mantenendo l’umore alto, nello stesso tempo i testi non peccano di spessore e di approfondimento; grazie all’abilità di scrittura di Quinlan e alla sua voce rauca e graffiante, infatti, rimangono profondamente sentiti e ricchi. C'è un potere edificante nel modo in cui queste canzoni sono liberatorie. È come se ci fosse stato qualcosa di piacevolmente epifanico nella loro scrittura e di catartico nel registrarle. Ciò che è doppiamente soddisfacente è che entrambi questi sentimenti illuminanti possono essere condivisi dall'ascoltatore.
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05. The Voidz - Virtue
Quando era uscito Virtue mi era piaciuto, ma non mi aveva convinto a pieno, a tal punto che ho deciso di non inserirlo nei preferiti di quel mese. Col passare del tempo è maturata in me la certezza che un posto nella classifica se lo meritava eccome. Quello dei The Voidz è un sophomore sorprendentemente riuscito che rompe e ricompone sotto una visione insolita molte concezioni legate ai generi musicali, è un cavallo pazzo che scalcia con energia provocante su campi del garage rock, elettronica, neo-psichedelia, synth punk, hard rock e altre miriadi di generi, prendendosi molti rischi. Per tutto l’ascolto piroettiamo in una rocambolesca discesa nella stranezza, in cui la sperimentazione - talvolta provocatoria - coglie impreparati. I testi, spesso paranoici, aggiungono un'atmosfera post-apocalittica che in contrasto con la musica, a volte a primo impatto più felice, serena e ballabile, rende il tutto più macabro e di impatto. La spirale d'illuminazione dalla quale sembrano travolti gli permette di mettere in pratica tutte le loro abilità, adattandosi magnificamente bene a qualsiasi campo appartengano le loro trovate musicali. I The Voidz ci fanno piacere le accoppiate azzardate, la complementarietà improbabile, la collisione ed il caos, perchè la loro musica non è un qualcosa alla quale bisogna abituarsi, ma una porta che si apre infinite volte sull'infinito, fatta per scomodare e punzecchiare l'orecchio.
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04. Saba - Care For Me
Nel suo secondo album, il rapper di Chicago Saba scrive alcuni dei testi con maggiore impatto emotivo nella scena hip-hop del 2018, insieme ad alcune delle migliori produzioni jazz-hop sentite durante l'anno. Care for Me è un album ben costruito che parte da una vera e propria necessità di narrazione della vita privata a Chicago dell’artista. Il liricismo è proprio l’aspetto che differenzia Care For Me da un altro album qualsiasi uscito negli ultimi tempi. Nella propria vita, Saba si mette nella posizione di un attento osservatore che fa di ogni esperienza un bagaglio da portare dietro malgrado questo pesi, imponendosi perciò di narrare tutto nel dettaglio in una profondissima introspezione, e rimanendo sempre estremamente coinvolto a livello emotivo.
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03. Car Seat Headrest - Twin Fantasy (Face To Face)
Giungiamo al podio con la reissue di Twin Fantasy (Mirror to Mirror), uno degli album D.I.Y del 2011 di un Will Toledo appena diciannovenne, quando i Car Seat Headrest erano ancora un progetto solista. Ciò che salta subito all'occhio, o meglio all'orecchio, come una vera sorpresa è la passione autentica e dolente dei testi, valorizzati dalla creatività nella sperimentazione delle strumentali. Twin Fantasy riesce a pieno nell'offrire emozioni, nell'essere capace di raccontare di depressione e auto-distruzione in maniera tagliente e cinica, mantenendo una coerenza narrativa che in cambio riafferma la potenza della storia che vi sta dietro. In conclusione quest'album chiude un cerchio lasciato aperto sette anni fa, mettendo un punto ad una storia turbolenta e segnando la maturazione di Will Toledo.
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02. Parquet Courts - Wide Awake!
I Parquet Courts offrono un commento particolarmente forte ed acuto sugli aspetti forse più difficili dei problemi socio-politici odierni: violenza, dislivelli economici e normalizzazione di un clima politico inaccettabilmente tossico. Nel loro Wide Awake! l'energia e la rabbia del punk non sono lasciati liberi all'anarchia come soluzione finale, la loro non è una ribellione irrazionale. Sicuramente questo è un album di protesta, di denuncia e di emergenza sociale, ma questi sentimenti sono canalizzati in un focalizzato bisogno di ristabilire un ordine in cui l'individualità ha voce, ma non a discapito della collettività. Per i Parquet Courts - che della loro posizione morale e politica fanno il cardine del disco - si ci arriva dopo una fase di caos totale forte abbastanza da spezzare la sistematicità delle ingiustizie. Musicalmente lo esprimono spingendosi su nuovi territori e senza paura di conformarsi in un periodo in cui tutto è incerto ed omologante, passando da un suono sincopato, aggressivo e robusto ad ammicchi funk-punk ballabili anni 70′. Il fatto che l'album, traccia dopo traccia, mostri una chiara progressione del pensiero e ci accompagni nella sua evoluzione considerandone le varie implicazioni e poi alla chiusura tragga le proprie conclusioni, lo rende incredibilmente pragmatico, coerente e valido.
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01. Calcutta - Evergreen
A dominare la classifica di metà anno è un italiano, Edoardo d’Erme in arte Calcutta. Evergreen è un album che per forza maggiore si porta dietro tante responsabilità. Tra le quali la più grande reggere bene il peso del tempo come sta facendo il predecessore, e per farlo Calcutta ha dovuto dosare i compromessi. Per certi aspetti Evergreen prosegue sulla falsariga di Mainstream ma per altri è un concetto superato per mirare idealmente alla dimensione del classico vecchio stile, non più quello dell'indie per giovanissimi. Facendo attenzione a certe sfumature si coglie la maturazione artistica che parte innanzitutto da un'intenzione diversa, da composizioni occasionalmente atipiche rispetto alle sue solite produzioni, e da scegliere volontariamente di non riempire il disco di altre Cosa mi manchi a fare, giudicando dai singoli ne è ancora capace, per costruirlo più come un album che ascoltandolo suona come tale e non come una raccolta di hit. Calcutta prende in giro l'originalità, ed è colui che nella musica italiana riesce a farlo tirando fuori brani originali, un pop tascabile e sbilenco alla portata di tutti. E dimostra di conoscere il modo migliore per fare perno su storie d’amore problematico, il topos assoluto della canzone, così da mettere in piedi il circo dell’età disagiata, dell’età fratturata, delle speranze dimesse o – meglio – rimosse, di una quotidianità che non ha sbocchi se non, appunto, nell'immaginare.
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MENZIONE A:
Yakamoto Kotzuga - Slowly Fading
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Janelle Monàe - Dirty Computer
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Shame - Songs Of Praise
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Il racconto nella letteratura
“La vita è come un racconto: ciò che conta non è la sua lunghezza, ma la sua importanza.” (Lucio Anneo Seneca) Un genere letterario molto apprezzato da una nicchia specifica di lettori è il racconto o il racconto breve. Non diffusissimo attualmente, vanta però una lunga storia letteraria e inaspettati estimatori. Definizione del racconto Non ci prodigheremo in una dotta spiegazione tecnica di tale genere letterario, ma cercheremo di riassumere le principali caratteristiche che diversificano il racconto da altri generi letterari.
Lunghezza. Il racconto è riconoscibile come genere letterario narrativo di prosa, con una sua specifica lunghezza, più breve del romanzo. Spesso sottogeneri come racconto breve, novella o romanzo breve possono essere catalogati genericamente come racconti, in quanto non possiedono la lunghezza e la complessità del romanzo. Struttura narrativa. Il racconto si distingue anche per la struttura narrativa più semplificata rispetto al romanzo: ci sono meno personaggi, la trama è più semplice, le sottotrame sono per lo più assenti, la storia narrata è auto conclusiva. Capacità riassuntiva e immaginativa. Se dopo questo elenco pensate che il racconto può sembrare un romanzo semplificato, quindi più semplice da scrivere, siete in grave errore. La difficoltà maggiore nel realizzare un buon racconto sta nel riuscire a trasmettere al lettore la visione dell’autore, senza però utilizzare i classici strumenti del caso: niente descrizioni dettagliate, nessuna introspezione del personaggio per pagine su pagine, nessun abbellimento narrativo. All’autore dunque non resta che usare il suo talento nell’eliminare il superfluo, concentrando sul poco rimasto la massima profondità di scrittura affinché il suo lettore sia in grado di immaginare con nitidezza ambientazioni appena accennate o capire lo stato d’animo del personaggio da un suo semplice gesto di capo. Non facile. “Il sale dei racconti è la proprietà di linguaggio.” (Miguel de Cervantes) Il racconto nella letteratura Originariamente nato in forma orale, il racconto ha origini antiche conosciute come l’exemplum, il lai e il fabliau (d’altronde, le favole stesse possono essere considerate un ottimo esempio di racconto). In seguito arrivano le novelle di Boccaccio, Geoffrey Chaucer, Marguerite de Navarre o Miguel de Cervantes, per rafforzarsi poi in un vero genere letterario che vanta illustri fautori come Anton Čechov, Edgar Allan Poe, Pirandello, Kafka o Hemingway – per elencarne soltanto alcuni. Nel panorama letterario più o meno contemporaneo non si possono non citare Borges, Raymond Carver, Salinger o Alice Munro, ma la lista è davvero lunga e vale la pena esplorare oltre, considerando che la maggior parte dei “grandi” della letteratura abbiano prima o poi sperimentato questo genere letterario.
“In una poesia o un racconto breve, si possono descrivere degli oggetti perfettamente banali in una lingua che non può essere più banale, ma di grande precisione, e dotare i suddetti oggetti d'una forza notevole, e insieme confondente.” (Raymond Carver) Alcuni racconti e perché leggerli I titoli che troverete qui sotto non vogliono essere né i più belli, né i più importanti racconti mai scritti (alcuni però lo sono), ma dei suggerimenti di lettura in base alle riflessioni che essi scaturiscono. Se invece volete una lista più autorevole, The Guardian ne ha stilato una per voi con 50 racconti scelti da altri scrittori famosi. In inglese, of course. “Un bel racconto ci dice la verità sul suo vero eroe, ma un brutto racconto ci dice la verità sul suo autore.” (Gilbert Keith Chesterton) La sonata a Kreutzer di Lev Tolstoj. Vero capolavoro di introspezione in cui il lettore ha da subito un ruolo da protagonista, diventando l’interlocutore in questo drammatico racconto. Durante un viaggio in treno, un uomo racconta la sua storia, una storia di efferatezza gratuita, quindi ancor più terribile – così come lo sono quelle di cui ancor oggi sentiamo parlare fin troppo spesso. Quest’uomo ha ucciso sua moglie. Roso dalla gelosia e dalle sue insicurezze, travolto da un vortice di ipocrisia che lui stesso ha contribuito a creare, compie un gesto senza ritorno, diventando un’uxoricida. Tolstoj è magistrale nel dipingere le dinamiche familiari, i paradossali meccanismi mentali del marito e la definitività della morte che diventa quasi tangibile e che asfissia il lettore con la sua potenza.. La linea d’ombra di Joseph Conrad. Racconto di mare e marinai (e Conrad ne sa qualcosa), questa storia viene generalmente interpretata come il passaggio dalla giovinezza all’età adulta, ma a noi sembra anche una metafora sul cambiamento e sul coraggio di affrontare l’ignoto che da esso deriva. Il racconto è su un giovane ufficiale che abbandona improvvisamente la nave sulla quale presta servizio e resta in attesa di qualcos’altro, senza sapere bene cosa. La fortuna gli si presenta sotto la forma di una nave che ha bisogno di un capitano, eccolo quindi a prendere l’occasione al volo. Una volta salpati, lui e la sua nave restano imprigionati al largo della baia, in un’assenza soffocante di un qualsiasi alito di vento.. Il giocatore di Fëdor Dostoevsky. Già dal titolo s’intuisce la trama di questo racconto: uno sguardo (da conoscitore, essendo Dostoevsky stesso accanito giocatore d’azzardo) che si posa su un giovane uomo e sulle sue scelte di vita. Tutto in questo racconto sveglia un senso di frustrazione e di impotenza nel lettore, che non può far altro che assistere al susseguirsi di personaggi ed eventi fatalistici. Tutti fanno le scelte sbagliate consapevoli di sbagliare, tutti scelgono di perdersi invece di ritrovarsi e, anche in quel momento in cui sei certo che qualcosa andrà bene, ebbene: quel qualcosa non lo farà. Con un che di quasi nipponico dei personaggi dinanzi alla propria sorte, è un racconto . Un cuore semplice di Gustave Flaubert. Dedicato alla sua amicizia con George Sand (che morì prima di poterla leggere), è la storia di una vecchia domestica, Felicitè, e dei suoi amori. Il tempo passa, gli amori anche, fino ad arrivare all’ultimo, un pappagallo. È un racconto intriso di tenerezza, ma anche comico, grottesco persino, mescola ironia e compassione fra le righe. Il cappotto di Nikolaj Gogol. Struggente storia di un uomo, Akaky Akakievich, e del suo cappotto, questo racconto di Gogol è semplicemente perfetto. Senza clamore e senza accorgersene, il lettore sarà risucchiato nella vita di questo uomo qualunque che non pretende altro che restare un uomo qualunque. Esiste qualcosa di più semplice di questo? Non sembra neanche una storia, o una trama. Eppure Gogol lo rende un racconto sublime che tocca una moltitudine di temi profondi come la paura della società verso il diverso, il non integrato (vi suona forse familiare?) o l’utilizzo arbitrario della giustizia (altro elemento fin troppo attuale). Pensavo peggio di Orazio C. Appena pubblicato dalla Entheos Edizioni con il titolo Lo scrittore in erba e altri racconti, l’esordiente promessa della letteratura Orazio C. traccia attualissime storie di personaggi osservati dalla stessa angolazione di un chirurgo che opera: dall’interno. Questo breve racconto è la confessione di un insignificante vigile urbano finito in carcere per un furto del quale lui stesso si è dichiarato colpevole. Ma questa è una confessione diversa, non è quella fatta alla sbarra di un tribunale: è la sua intima, personale storia che, oltre a farci capire i meccanismi che lo hanno portato a certe azioni, ci svelano il suo desiderio di redenzione.. O che di rado lo fanno.
“Le cose che un racconto non dice sono necessariamente più numerose di quelle che dice e solo una speciale aureola intorno a ciò che è scritto può dare l'illusione che stai leggendo qualcosa che non è scritto.” (Italo Calvino) In conclusione Se scrivere racconti non è assolutamente facile, lo è invece leggerli. Moderni o no, classici o meno, i racconti hanno tutti una caratteristica che forse non sanno neanche di avere, poiché non è richiesta per la loro stesura:. Perché i racconti sono storie di persone e, anche se i tempi cambiano, le persone hanno sempre le stesse paure, speranze, debolezze, valori. “È spiacevole dover parlare di avvenimenti spiacevoli: ma la chiarezza è la prima qualità di un racconto.” (Carlo Emilio Gadda) Redazione Entheos Read the full article
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Non è mai troppo presto… per pensare alle vacanze
Lungi da noi l’intenzione di dare una definizione della Letteratura di viaggio, non solo per ovvie ragioni di spazio, ma anche perché si tratta di un argomento di per sé ibrido, scivoloso, facile alle contaminazioni, tanto che nelle Biblioteche questo genere spazia dalla narrativa alla classe 910 dedicata alla geografia. Sorvolando il più lievemente possibile su questo magma, distingueremo soltanto quattro “macro-settori”:
la letteratura “reale”: il cui paradigma è Viaggio in Italia di Goethe, che descrive il famoso Grand Tour, compiuto dagli aristocratici europei nelle grandi capitali e soprattutto in Italia per approfondire la propria cultura. Tracce di questa “febbre” di cultura si trovano nel bellissimo Camera con vista di James Ivory
la letteratura “di finzione”, che comprende classici della fantasia, come La storia vera di Luciano, I viaggi di Gulliver di Jonathan Swift, Robinson Crusoe di Daniel Defoe (bello anche il film con Pierce Brosnan), i libri di Jules Verne (con numerose trasposizioni cinematografiche)
la letteratura classica, che parte da Odissea ed Eneide. Ciatiamo solo: Il Milione di Marco Polo, ma nella sapiente riscrittura di Italo Calvino ne Le città invisibili; Herman Melville, che tutti conoscono per Moby Dick, ma che è estremamente interessante nei romanzi brevi Benito Cereno, nella traduzione di Pavese, e Billy Budd, gabbiere di parrocchetto, tradotto da Moravia: apparentemente ancora due viaggi per mare, in realtà una profonda introspezione nell’animo umano; L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson, un libro “pieno di vento, di immaginazione, di avventura, d’infanzia” come lo definì Antonio Tabucchi; gli altri libri di Stevenson sono per lo più a carattere storico, ma forse non è così noto Emigrante per diletto, in cui l’autore descrive la propria spedizione da Glasgow alla California, libro appassionante e di scottante attualità perché, se l’autore può permettersi di “emigrare per diletto”, non altrettanto può dirsi dei suoi compagni di viaggio; ingiustamente sottovalutato è anche Il riflusso della marea, ambientato nelle isole della Polinesia, in cui la navigazione è, ancora una volta, il pretesto per un scandaglio psicologico (d’altra parte Stevenson è anche l’autore de Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde) esattamente come in Melville; il Conrad di Cuore di tenebra (da cui è stato liberamente tratto Apocalypse now di Francis Ford Coppola, ma anche un film con John Malkovich), Racconti di mare e di costa, La linea d’ombra, Un reietto delle isole e di molti altri libri di avventure marine, in gran parte autobiografiche; Tre uomini in barca (per tacer del cane) di Jerome K. Jerome: una esilarante spedizione lungo il Tamigi, un libro nato quasi per caso ma ancora oggi vitale
la letteratura moderna: Steinbeck di Furore (da cui fu tratto un magnifico film di Frank Capra con Henry Fonda) e Viaggio con Charley: ancora un cane protagonista di questa gustosa descrizione del viaggio compiuto dall’autore in roulotte attraverso l’America; il classicissimo Kerouac di Sulla strada: “Una macchina veloce, l’orizzonte lontano e una donna da amare alla fine della strada”; molti libri di Moravia riguardano reportages di viaggio (Passeggiate africane, Un mese in URSS, Un’idea dell’India etc.); anche Goffredo Parise si è occupato di questo tema in numerose opere, tra cui Cara Cina, New York e un libro sul Giappone, L’eleganza è frigida; Stefan Zweig di Brasile: terra del futuro, resoconto della propria fuga dalla persecuzione nazista.
Ultimo consiglio? Naturalmente il Montalbán di Millennio, in due volumi, un vero e proprio giro del mondo, sulle orme di Phileas Fogg e Passepartout del Giro del mondo in 80 giorni, compiuto dal detective Pepe Carvalho e dal suo aiutante Biscuter, per fuggire a misteriosi inseguitori. Il primo volume (Pepe Carvalho sulla via di Kabul) è il più avventuroso e ricco di colpi di scena: la prima sosta è proprio l’Italia con una meravigliosa e coltissima descrizione del cimitero di Staglieno a Genova; segue una doverosa sosta culinaria a Roma, poi la meta si sposta verso Grecia, Egitto, Israele (dove i nostri eroi si scontreranno nientemeno che con il Mossad) fino all’India. Questa prima parte si conclude profeticamente con la parola Bangkok, città dove morì l’autore nel tragico 2003 proprio durante uno dei suoi viaggi. La seconda parte (Pepe Carvalho, l’addio) è più concentrata sulle esplorazioni, stavolta dall’Australia all’America (secondo il cammino percorso da Neruda durante il suo esilio) all’Africa. Il finale è a sorpresa. Le citazioni si sprecano (per gli italiani soprattutto Pavese e Sciascia), le ricette abbondano, il divertimento assicurato.
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L'odore della felicità di Simonetta Mannino: Un viaggio tra amore, perdita e rinascita. Recensione di Alessandria today
Una poetica esplorazione dei legami familiari e dell'amore impossibile.
Una poetica esplorazione dei legami familiari e dell’amore impossibile. Biografia dell’autrice.Simonetta Mannino, scrittrice italiana, vive e lavora a Padova. Il suo esordio letterario, L’odore della felicità, le ha valso una segnalazione di merito al Premio Letterario Internazionale “Città di Moncalieri” (XXXIII edizione) e una menzione d’onore al “Trofeo Penna d’Autore” (XIX edizione).…
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CLAUDIO CISCO
CLAUDIO CISCO nasce il 18-10-1964 a Messina Solitario e meditativo per natura, rivela sin da piccolo, in trasparenza, una sensibilità profondissima ed una straordinaria vocazione per la scrittura. Scrittore inquieto dall'animo agitato e tormentato, amante della solitudine, esordisce nel 2004 col suo primo libro COME SONO DENTRO, dove la sua natura romantica e dolce si fonde meravigliosamente con la sua indole malinconica e funerea facendo germogliare liriche di ineguagliabile purezza. Ma la sua ispirazione sempre fervida non ha limiti ne' confini. Decide così di ampliare il suo percorso letterario spaziando nel campo della narrativa. Nasce l'anno dopo il libro COLEI CHE BREVEMENTE FU E CHE MAI IN VITA CONOBBI, nel quale il senso del mistero e la paura della morte si innalzano a vita sospinti dalla forza del sogno e dall'incanto dell'immaginazione, attraverso pagine delicatissime e di commovente bellezza nelle quali impeto del racconto e capacità affabulatoria si armonizzano con arte. Libro successivamente modificato leggermente nel testo con due diverse copertine rispetto all'originale. Nello stesso anno sente l'esigenza di fare presa sui lettori e rischia coraggiosamente dando alle stampe il libro IL VECCHIO E LA RAGAZZA, un libro-scandalo che si schiera contro tutte le convenzioni sociali e ogni forma di moralità a difesa d'una libertà d'espressione illimitata e senza freni. Il libro fa molto parlare di se' ma incuriosisce, viene successivamente riscritto dall'autore col titolo LA FINE DELLA CICOGNA in una nuova stesura nella quale vengono aggiunti nuovi concetti. Nel 2006 torna al suo vecchio amore: la poesia, e crea il libro LA MIA ANIMA E' NUDA, dimostrando ancora una volta la sua impossibilità di essere e di realizzarsi in un mondo che nega tanto più crudelmente la felicità, quanto maggiore è la nostra virtù. Spinto dalla sua indomabile e istintiva creatività sempre ricca di idee ed emozioni, prosegue nel 2007 verso la strada della lirica e partorisce il suo quinto libro IL SILENZIO NEL SILENZIO. Una vera rivoluzione è in atto nel poeta. L'accessibilità immediata dei suoi versi, viene sostituita da un'accurata e sofisticata ricerca del vocabolo. La sua solitudine estremamente privata senza sbocchi, si apre di colpo al mondo che lo circonda attraverso tematiche di più ampio respiro. Segno evidente d'un artista, e d'un uomo prima, che sa continuamente rinnovarsi come un istrione della scrittura, capace di sorprendere ogni volta. Sempre nel 2007 raccoglie 40 sue poesie tratte dai libri di liriche scritti in precedenza e dà alla luce il libro SENSAZIONI. Focalizzando sempre più la sua genialità creativa e rinnovandosi continuamente da schemi originalissimi da lui stesso creati, scrive ANIMA SEPOLTA, un'espressione poetica d'avanguardia, alternativa, dove fobie ossessive e fantasmi interiori, esternandosi, si tramutano con sepolcralità in energie negative lugubri e macabre, segni indelebili d'una morte interiore eternamente rassegnata nel misterioso mondo della follia e dell'inconscio. Si cimenta poi in un monologo in prosa surrealista di carattere cerebrale e filosofica APOCALISSE MENTALE. Nel 2008 compone altri 2 libri in versi EROS E MORTE (poesie erotiche e dark) e LA LUNA DI PETER PAN, nel quale il romanticismo predomina velato da una indefinibile tristezza. Nel medesimo anno raccoglie tutte le sue liriche assieme a passi significativi delle sue prose e scrive il libro TUTTO SU DI ME. Esterna poi tutto il suo amore per il mare dedicando interamente ad esso il libro di poesie L'ANIMA DEL MARE, seguito in breve tempo da un altro intitolato LUCE dentro il quale emergono poesie di forte impatto emotivo ed intensa meditazione. Sempre nello stesso anno scrive IL MIO MONDO IN VERSI raccolta di sue poesie edite con immagini personali, ATTRAVERSANDO IL SOLE liriche a tema e VIAGGIO NELL'ANIMO DI UNO SCRITTORE nel quale inserisce tutte le sue opere letterarie in poesia, prosa e narrativa ed ENIGMI INTERIORI liriche emotivamente coinvolgenti di difficile impatto e non di immediata assimilazione. Si rivolge quindi di nuovo alla narrativa e scrive il libro intitolato LAILA un breve racconto tenero e struggente in cui scruta, indaga, penetra l’animo umano cogliendone sentimenti e debolezze, svelandoli con finissima introspezione, compone poi PREGHERO’ parole di fede e speranza dedicate alla sua comunità evangelica. Nel 2009 esce la definitiva versione del libro IL VECCHIO E LA RAGAZZA (Giraldi editore), nuova la copertina, rivisitato il testo. E’ il grande e meritato successo.
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“Mi ha emozionato sfiorare il taccuino di Jane Austen, amo Anna Karenina, ma la scienza, per uno scrittore, è indispensabile”: parla Ian McEwan
Girano le pal(l)e come eliche di elicottero, mi alzo in volo e sbircio nell’isola di mago Merlino, pardon, in UK, dove attorno al calderone mediatico si radunano bravi scrittori che parlano netto dei problemi attuali: le macchine che ci rubano il lavoro e… la compagna, come racconta McEwan nell’ultimo Machines like me (in Italia stampa Einaudi, con il titolo: “Macchine come me”). Ora, per non spaventare nessuno, diciamo subito che McEwan era ed è contrario all’uscita da UE, ma ciononostante è dinamico e spiazzante come un anarchico controcorrente (leggete qui).
Come dovrebbe essere qualunque scrittore di romanzi. Ce ne fossero in giro anche in Italia; magari si sono semplicemente ritirati attorno al loro camino di provincia. In ogni caso, McEwan va fatto conoscere meglio nella sua attività di parlatore: ecco perché vi traduco due interviste su temi importanti – la memoria degli scrittori conservata nei loro archivi e poi ad ampio raggio le sue visioni accurate sulla storia e la guerra mondiali, le quali reggono il suo romanzo più toccante, Espiazione.
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La prima intervista è del 2004. McEwan l’ha rilasciata dopo aver venduto il suo archivio personale all’università del Texas, all’Harry Hansom Center. In quella cattedrale nel deserto protomessicano, un cubo alla Kubrick che è in realtà relitto europeo, si trova un po’ di tutto: manoscritti di Joyce e lettere di Pound, insieme a note e appunti dei più recenti Burgess e Amis). Lo scrittore riflette sugli archivi, un tema importante anche alla luce delle recenti rivelazioni su Kafka. E poi si sente la solita pressione della scienza sulla contemporaneità, e come il romanziere la attutisce con la sua introspezione, la sua umana empatia.
La seconda intervista è del 2002 e ruota attorno a Espiazione, il romanzo del 2001 che ha fatto epoca e dal quale è venuto fuori un film appassionante. L’opera di trasposizione su schermo non era facile perché il romanzo ha il ritmo di Walter Scott e la concentrazione nella mente femminile di una Austen: però il risultato è stato un film mosso e meravigliosamente moderno. Oltre al ragionamento sul libro capolavoro, nell’intervista si cerca di capire il terrorismo del 2001: i mezzi usati dallo scrittore sono ripescati nel vasto arsenale della storia, del senso comune e della tradizione inglesi.
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Poi le cose sono andate malamente, UK è andata in guerra contro l’Iran e McEwan ha scritto Sabato per spiegare i deliri delle masse. Una buona prova di cui si sente analoga e urgente necessità oggi, per spiegare cosa è frullato nella testa degli inglesi al referendum Brexit: peccato che McEwan ora si esponga di meno, in confronto a come si impegnava un tempo, quando il 12 settembre era capace di dare fuori un articolo su Guardian pensato bene, in meno di un giorno dall’accaduto, e scritto con cura.
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Al di là della politica, l’opera. Su Espiazione leggete una buona intervista italiana qui. Ma queste sono interviste per pubblico italiano e hanno un deficit: manca il good talk inglese che fa letteratura, società senza mai essere totalizzante e moscio come la chiacchiera elevata dei francesi, perché il talk è robusto, è quello degli inglesi che vedete uscire di corsa dagli uffici nel pomeriggio, ben contenti di andare dal lattaio a fare provviste, poi di corsa a comprare il miele.
Un popolo semplice, tutto sommato, dal quale vengono fuori quegli scrittori che magari non saranno conservatori ma rimangono decisamente nobili per parlare a platee universali, diverse. Né le previsioni di complotti finanziari, né il disordine e la paura verso il vicino, né la visione della rovina ci impediscono di cogliere la bellezza di chi, come McEwan, sa parlare a nome del suo popolo, di UK e delle sue differenze culturali rispetto al resto del mondo. Anche così riusciamo a capire perché Espiazione agiti i cuori dei lettori pur essendo romanzo storico; questo si chiama tradizione, si chiama carattere nazionale. Resiste.
Andrea Bianchi
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Il tuo archivio depositato all’università del Texas ci insegnerà cose che non sappiamo ancora?
Certamente, per prima cosa le bozze legate a ciascuna opera mostreranno al lettore interessato come le idee si siano evolute fino alla loro forma finale. Lo scrittore tende a scordare rapidamente i percorsi che ha abbandonato lungo la via. A volte il sentiero verso un romanzo compiuto prende svolte sorprendenti: raramente si può parlare di vero sviluppo. Per esempio il mio romanzo Espiazione cominciava come una storia di fantascienza ambientata due o tre secoli avanti nel futuro. Del resto, c’è una buona parte di materiale autobiografico nell’archivio ora in Texas. Non sono quel genere di scrittore che fa uso istantaneo dei suoi fatti privati e li trascrive immediatamente con l’invenzione. Updike è l’esempio sommo, qui. La mia invenzione consiste nel prendere in prestito l’esempio di quello scrittore famoso, operando soltanto un deragliamento psichico dalla mia vita. Penso che l’archivio mostrerà questi tenui collegamenti.
Hai mai usato gli archivi mentre facevi ricerca durante i tuoi lavori?
Sì, per il film televisivo The imitation game usai l’Imperial War Museum di Londra, che è la stessa fonte per Espiazione, mi sono basato completamente su fogli e giornali inediti di soldati in ritirata a Dunkirk. E ho tratto le linee basilari da svariate lettere private scritte da infermiere che lavoravano con quei soldati feriti durante la ritirata.
Qual è il valore degli archivi?
Recentemente ho ricevuto la medaglia Bodleian a Oxford e dopo averla accettata mi sono stati mostrati alcuni pezzi dei loro estesi archivi storici. Mi ha mosso qui nel profondo, tenere in mano il taccuino di Jane Austen diciassettenne e poi sfogliare le pagine della prima bozza della Metamorfosi di Kafka. Un archivio ti porta dritto al cuore della creazione letteraria, agevola quella connessione emotiva che chiunque ami la letteratura saprà comprendere. Dietro queste motivazioni certamente il lavoro critico e biografico sugli scrittori dipende completamente dalle risorse di archivi di rango come la collezione di Ransom Centre.
Dicci di questo momento speciale per la narrativa d’invenzione inglese, come ne spieghi la fioritura?
Bene, immaginando tu abbia ragione: in parte, immagino, l’immigrazione interna da tutti gli angoli del vecchio impero ha aiutato a rinvigorire il linguaggio. In parte c’è anche una più giovane generazione che viaggia in lungo e in largo e assorbe tutti gli influssi culturali ed è stata abile a spezzare il provincialismo moribondo delle generazioni precedenti. Poi, negli ultimi trent’anni gli scrittori britannici sono stati in grado di utilizzare l’estetica moderna e postmoderna senza farsene intrappolare, come invece è accaduto sul continente europeo. In altre parole, le virtù ottocentesche e inventive di storie, insieme alla creazione di personaggi plausibili, sono rimaste il caposaldo.
In Espiazione racconti dalla prospettiva di Briony: come sei stato in grado di ritrarre con maestria le emozioni femminili e, di più, nelle varie fasi della sua vita?
A parte la conoscenza abbastanza buona di un certo numero di donne e ragazze di tutte le età, penso valga la pena ricordare che entrare nella testa degli altri è una delle pratiche routinarie dei romanzieri. Le menti degli altri uomini sono semplicemente tanto vicine o remote rispetto a me quanto le menti femminili.
Talvolta la cultura vuole passare il messaggio che umanesimo e scienza sono opposti, ma i tuoi romanzi portano i protagonisti in regni scientifici. Come commenti la situazione, che indirizzo le hai dato nei tuoi romanzi?
Le università sono tenute a rispondere di questa divisione che persiste, abbiamo tutti bisogno di un’istruzione integrale, i due lati hanno molto da imparare l’uno dall’altro. Chi sta con me dal lato umanistico non trova molto di esaltante, soprattutto nelle scienze biologiche; né troviamo molto che possa rinforzare la nostra comprensione della natura umana, parte integrale dello studio nelle arti creative. Noi liberali-artistici-so-tutto-e-nulla necessitiamo di un buono scavo nella matematica e nella fisica per capire cosa sia la vera difficoltà intellettuale. Da parte loro, gli scienziati hanno bisogno di appoggiarsi alle linee abbozzate dal patrimonio artistico, favoloso e meraviglioso – quel che è stato immaginato sulla nostra condizione durante i secoli è una risorsa vitale. E poi la scienza ha bisogno di coltivare e onorare la sua propria tradizione scientifica di forma letteraria, da Leonardo a Francesco Bacone a E.O. Wilson e Steven Weinberg, gli scienziati hanno scritto in modo squisito sul mondo. E poi, ancora, gli scienziati giovani necessitano di imparare a comunicare chiaramente e studiare una materia a impronta saggistica come la storia o l’inglese sarebbe un allenamento utilissimo per ordinare e articolare le idee.
C’è un personaggio letterario col quale ti senti imparentato?
Sono attratto da Levin in Anna Karenina, dal suo amore per gli spazi aperti, per la discussione scottante, e la vita domestica ne è una parte. La sua capacità di essere felici e il modo in cui segue e traccia i suoi passaggi emotivi – questi i tratti che ammiro.
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Vorrei parlare del tuo contributo alla comprensione dell’11 settembre e del tuo romanzo Espiazione.
Sai, considero gli eventi dell’11 settembre abbastanza anomali. Lo shock l’ha sentito ognuno. È stato un incidente diretto anche per me perché caso vuole che sia sposato con una editor di Guardian. Ho chiamato in redazione per dire “Fuori dal comune, come l’affronti?” e lei disse “Scrivi qualcosa per noi”. Tutta la sala delle news era in ebollizione e istintivamente disse “Certo che no” e questo mi diede tempo per riflettere. Poi pensai “Bene, ora non sto scrivendo romanzi, l’unica cosa che ho in testa è questo fatto, risponderò alla nuova sfida”. Mi sedetti quel giorno stesso per scrivere un pezzo, come fecero molti altri colleghi, avevo una traccia molto specifica – come reagisce chi guarda questa novità in televisione? In un senso preciso, è più facile per il romanziere andare a caccia di punti di raccordo, di incroci tra pensiero e sentimento. Questo avvenimento pareva produrre un’esplosione troppo grande di pensieri sconnessi su tutte le conseguenze che sarebbero arrivate, eppure era ancora troppo presto. Eravamo intrappolati nell’evento che ancora non si era dispiegato del tutto e sapere quale fosse l’entità dannosa ed emotiva doveva ancora stupirci – il livello di tragedia umana.
Siamo d’accordo che un romanzo in grado di rappresentare le emozioni non è per forza del genere emotivo che fa versare lacrime. Eppure, con l’articolo sull’11 settembre e con Espiazione, che ha vinto il Booker, ti avvicini a quel genere di scossa che danno gli scrittori americani.
Ecco una buona ragione per cui agli scrittori americani è chiusa la partecipazione del Booker – Roth l’avrebbe vinto almeno quattro volte. Con Jane Austen continuo a credere che tutta la vita umana la si può esaminare da pochissime relazioni in un villaggio, questa visuale regge ancora.
Oltre alla rievocazione realistica delle lettere scritte dai soldati alle fidanzate, dove si parla di cose molto concrete come il cottage dove vorrebbero scappare insieme, trovo che la scena di Briony infermiera al capezzale del soldato malato sia straordinaria. Dimmi, come sei riuscito a inserire questo cameo vittoriano nella tua struttura romanzesca?
Ma… la storia d’amore centrale non riguarda Briony, semmai la sorella e l’altro uomo. Sentivo che, a meno di non lasciar erompere il sentimento di Briony in quella scena del capezzale… c’era come qualcosa di inaffidabile nel modo in cui lei raccontava l’amore. C’è un altro passaggio dove lei è a Westminster Bridge e passano due giovani officiali e lei sente un bang improvviso, il senso che la sua vita era tutta rinchiusa nell’ospedale, con tutte quelle routine e qualcosa di enorme stava ancora mancando. Sapevo che una volta conclusa questa parte del libro sarei dovuto saltare avanti negli anni, ’50 o ’60, e avevo bisogno di un momento in cui attutire Briony in quel tempo. Quanto alla scenda d’amore precedente, quella della biblioteca, pensavo di non aver costruito una vera scena di sesso, forse avrei dovuto. Certo, sono notoriamente difficili da scrivere. Sai bene che altre persone l’hanno fatto in modo diverso. Pensavo a John Updike e il suo interesso visivo, quasi mascolino, per la membrana e il muco, ma quello di Briony era un resoconto di una donna di 77 anni. Fondamentalmente diverso. Una descrizione come quella che doveva fare lei, di due persone innamorate per la prima volta, e per la prima volta a fare l’amore, mi pareva molto più difficile della scena vittoriana del moribondo al capezzale… quel che lei fa lo facciamo anche noi in un modo o nell’altro: credere a quanto vediamo. Abbiamo un mind set e vediamo conseguentemente con questo. Soprattutto noi inglesi, diversamente dagli americani, dove c’è un Saul Bellow che viene tutto dalla strada e però è un intellettuale senza remore: questo ha a che fare con la nostra struttura sociale, in USA c’è discussione aperta, mentre qui, anche ora che rispondo alle domande del pubblico, trovo ancora difficile per un romanziere inglese essere intellettuale e appassionante al tempo stesso, impressionato dal mondo eppure curioso, e ben piantato per terra. Sento ancora che la classe è un elemento che ci limita.
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Cambiare l'acqua ai fiori di Valérie Perrin: Un viaggio nell'intimità delle emozioni. Recensione di Alessandria today
"Cambiare l'acqua ai fiori" di Valérie Perrin, pubblicato da Edizioni E/O e tradotto da Alberto Bracci Testasecca, è un capolavoro di narrativa contemporanea che intreccia amore, segreti e rinascita. Ambientato in una cittadina della Borgogna, il romanzo
Un romanzo sull’amore, il mistero e la resilienza“Cambiare l’acqua ai fiori” di Valérie Perrin, pubblicato da Edizioni E/O e tradotto da Alberto Bracci Testasecca, è un capolavoro di narrativa contemporanea che intreccia amore, segreti e rinascita. Ambientato in una cittadina della Borgogna, il romanzo racconta la vita di Violette Toussaint, una guardiana di cimitero apparentemente tranquilla, ma…
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Recensione completa: La notte delle beghine di Aline Kiner. A cura di Alessandria today
La notte delle beghine di Aline Kiner, pubblicato in Italia da Neri Pozza, è un romanzo storico ambientato nel Medioevo, che getta luce su un mondo spesso dimenticato
Introduzione all’opera:La notte delle beghine di Aline Kiner, pubblicato in Italia da Neri Pozza, è un romanzo storico ambientato nel Medioevo, che getta luce su un mondo spesso dimenticato: quello delle beghine, donne indipendenti che vivevano al di fuori delle convenzioni sociali e religiose del loro tempo. Con una scrittura evocativa e attenta ai dettagli, Kiner ricostruisce una storia di…
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Silvana Ramazzotto Moro, “Van Gogh, l’uomo”, Guido Miano Editore, Milano 2024. Recensione di Marco Zelioli
Una nuova, interessante opera su Vincent Van Gogh va ad arricchire la schiera degli scritti sul pittore olandese: è “Van Gogh, l’uomo” di Silvana Ramazzotto Moro, che Guido Miano Editore propone con quattordici riproduzioni di disegni.
Una nuova, interessante opera su Vincent Van Gogh va ad arricchire la schiera degli scritti sul pittore olandese: è “Van Gogh, l’uomo” di Silvana Ramazzotto Moro, che Guido Miano Editore propone con quattordici riproduzioni di disegni. Come recita il lungo sottotitolo, l’uomo Van Gogh è “raccontato da lui stesso nelle sue lettere: autoritratto, amore, vocazione mistico-religiosa, rapporti con i…
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"La sorella dimenticata" di Janice Hadlow: un viaggio nel mondo di Orgoglio e Pregiudizio. Recensione di Alessandria today
Un romanzo che esplora la vita di Mary Bennet, la sorella meno conosciuta della famiglia, tra introspezione e desiderio di riscatto.
Un romanzo che esplora la vita di Mary Bennet, la sorella meno conosciuta della famiglia, tra introspezione e desiderio di riscatto. “La sorella dimenticata”, scritto da Janice Hadlow, è un romanzo straordinario che arricchisce l’universo di “Orgoglio e Pregiudizio” di Jane Austen, focalizzandosi su un personaggio spesso trascurato: Mary Bennet. Con una narrazione raffinata e sensibile, Hadlow…
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