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Silvana Ramazzotto Moro, “Van Gogh, l’uomo”, Guido Miano Editore, Milano 2024. Recensione di Marco Zelioli
Una nuova, interessante opera su Vincent Van Gogh va ad arricchire la schiera degli scritti sul pittore olandese: è “Van Gogh, l’uomo” di Silvana Ramazzotto Moro, che Guido Miano Editore propone con quattordici riproduzioni di disegni.
Una nuova, interessante opera su Vincent Van Gogh va ad arricchire la schiera degli scritti sul pittore olandese: è “Van Gogh, l’uomo” di Silvana Ramazzotto Moro, che Guido Miano Editore propone con quattordici riproduzioni di disegni. Come recita il lungo sottotitolo, l’uomo Van Gogh è “raccontato da lui stesso nelle sue lettere: autoritratto, amore, vocazione mistico-religiosa, rapporti con i…
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SENSI DELL'ARTE - di Gianpiero Menniti
IL SACRO NELL' ARTE DEL PRIMO NOVECENTO
Non è la prima volta che il sentimento del "sacro" e le espressioni dell'arte contemporanea s'incrocino nelle mie ricerche critiche.
È stato tema di almeno due conferenze, di un lungo video che lasciato sul mio canale YouTube, di riflessioni sparse nei libri che ho pubblicato.
Non si tratta di teologia: l'arte nasce dall'impulso a rendere contemplabile l'invisibile, le immagini di pensiero, l'anelito verso la forma irrealizzabile, il noumeno, l'archè (ἀρχή).
Ma non basta.
L'indagine scientifica sempre più fitta e profonda, tra la fine dell'Ottocento e i primi del Novecento, seminò dubbi sulla validità dei modelli "causali" tradizionali per introdurre alla conoscenza dell'incorporeo, dell'immateriale, del nascosto.
Questi due elementi, l'antico afflato religioso e l'approccio alla fisica atomica e alla rivelazione di nuove frontiere nella percezione dello spazio-tempo, influenzarono varie correnti spiritualiste come l'antroposofia e la teosofia oltre a movimenti artistici impegnati in un esasperato simbolismo, l'attività dei "Nabis" e così di tutto l'espressionismo che caratterizzò quell'epoca di passaggio - da Munch a van Gogh a Gauguin, da Kandinsky a Mondrian a Malevic - nel contesto generico della febbrile indagine "modernista".
In quel crogiolo maturò anche la figura della svedese Hilma af Klint, la prima ad aver concepito la pittura astratta, prima di Wassily Kandinsky, eppure rimasta sconosciuta al pubblico per moltissimi decenni.
Nata nel 1862, perì in un incidente stradale nel 1944.
Lasciò le sue tele, circa 1.200, con la clausola della loro diffusione a distanza di vent'anni dalla sua morte, a un nipote.
Tuttavia, la scomparsa prematura di quest'ultimo depositò su quelle opere la patina silenziosa dell'oblio per altri decenni, fino alla metà degli anni '80 dello scorso secolo.
Al loro apparire, quei dipinti offrirono scorci di uno sguardo intensamente originale, maturato nella congerie di una struggente riflessione artistica: come un respiro bloccato, come desiderio imprecisato, come inquieta esplorazione di forme inattingibili.
Eppure, queste sorgono alla vista.
E affermano per l'arte il suo esserci come segno del "sacro", il "distante" che diviene manifesto dell'impossibile.
- Caos primordiale, n.16, 1906/07; Albero della conoscenza, n.1, 1913/15; Gruppo X, n.1, Pala d'altare, 1915; Caos Primordiale n. 7, 1906/07; Gruppo X, n. 2, Pala d'altare, 1915
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alla mostra di van gogh non avevano tantissimi quadri, o almeno sicuramente non quelli più famosi, però c'erano un sacco di libri e documenti, tra cui lettere al fratello e alla sorella.
Si scambiavano opinioni e consigli su letteratura e arte, e Vincent ha girato mezza Europa per scoprire cose nuove e imparare dagli artisti che ammirava.
mi sono sentito un po' in colpa a sbirciare tra le pagine di questa corrispondenza privata, ma quanto affetto, quanta bellezza anche solo in quelle parole appassionate.
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Vincent van Gogh - L'Arlesiana (1888), olio su tela 91,4×73,7 cm, Metropolitan Museum of Art, New York.
I colori forti e brillanti del dipinto sono caratteristici del periodo di Arles. La donna ritratta è Madame Ginoux, proprietaria di un bar dove van Gogh si recava spesso. L'artista realizzò il dipinto, che ricordiamo essere di dimensioni notevoli, in una sola ora, approfittando delle sedute di posa che Madame Ginoux stava concedendo a Gauguin, impegnato nella rappresentazione del locale della signora, in modo tale da confrontarsi con un dipinto dell'amico. A partire dalla tela di Gauguin Vincent nel 1890 ritrasse la Ginoux una seconda volta, in un'opera denominata sempre L'Arlesiana.
Peculiare è l'inquadratura del dipinto, che taglia parte di uno dei libri posati sul tavolo e che sorprende la donna in un atteggiamento pensieroso ma deciso, come se si trattasse di una fotografia scattata a sua insaputa: la Madama, infatti, è ritratta mentre, sedendo su una sedia dallo schienale arancio, si sostiene il capo con un gomito poggiato sul tavolo, gesto interessante proprio perché di rimarchevole naturalezza. La Ginoux, in ogni caso, indossa un foulard blu ai capelli e una pettorina bianca: si tratta di un abbigliamento tipicamente provenzale, e non mancò di accendere l'entusiasmo di Vincent.
Imponente, in quest'opera, il contrasto cromatico vigente tra i blu che compongono la Ginoux e lo sfondo, tinto di un giallo monumentale e uniforme, distintivo del periodo arlesiano del pittore. Si tratta questo di un evidente punto di contatto con l'arte giapponese, che qui riaffiora anche nella notevole semplificazione delle forme della Ginoux. Nonostante l'assoluta predominanza del giallo, che carica il quadro di un'energia straripante, van Gogh articola sapientemente la scena in profondità grazie all'inserimento del semicerchio verde del tavolo e alla disposizione della figura in tre quarti.
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I libri più spessi che hai?
Mhh...guerra e pace, postwar, Jane Eyre, 4 3 2 1, un libro su Van Gogh ed uno su Leonardo, il decamerone, la verità sul caso Harry Quebert, la leggenda di Jack dagli occhi azzurri, cromorama, corale alla fine del viaggio. Ne ho sicuramente altri ma questi sono i primi che mi vengono in mente.
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Ci si perde sempre quando si è concentrati solo su se stessi.
Van Gogh, Tutti i dipinti. ( Libro )
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perché ami tanto leggere?
Viviamo in una realtà in cui i sentimenti sono stati stirati e appiattiti. Non siamo più in grado di commuoverci per un quadro. Di perderci nella bellezza racchiusa in una poesia. E talvolta la mia sensibilità mi sembra ingombrante, come un giaccone di troppe taglie in più della mia. Mi rende goffa, impacciata, terribilmente strana agli occhi degli altri.
E allora io fuggo nei libri, fra l’inchiostro e la carta, lì, sepolta nel fruscio leggero delle pagine, mi permetto di essere vulnerabile, senza temere di essere ferita. Trafitta senza ricevere nemmeno una parola gentile. O uno sguardo pieno di vergogna per la crudeltà con cui sono stata trattata.
Leggo per ricordarmi che esiste ancora un posto nel mondo in cui possiamo scioglierci nelle nostre debolezze senza essere distrutti ma, al contrario, ricomposti.
E mi ritrovo a danzare fra i frammenti di Saffo, quando ancora le parole avevano un peso, e le emozioni incastonate al loro interno vibravano con un’intensità tale che bisognava inciderle nella pietra, affinché potessero eternarsi nei secoli a venire, e perdurare incorrotti in quelli passati.
Mi ritrovo nel buon Patroclo, che per Achille scese in battaglia indossando la sua armatura, anche se non sapeva combattere.
E i polsi mi tremano, quando leggo di quella passione che portò Paolo a baciare Francesca, e nonostante fosse peccato nemmeno le forze degli inferi seppero scindere ciò che li univa.
E non é forse, il mio silenzio, medesimo a quello di Leopardi, che sempre si limitò, solo, ad amare silvia dalla sommità della sua finestra, componendo in segreto per lei, su lei?
Oh, e quanto bramo qualcuno che mi dedichi le parole che Montale scrisse per la moglie Drusilla!
E quasi disperata, affannata, cerco di scorgere almeno un lontano e flebile bagliore dell’affetto che Theo nutrì per suo fratello Vincent Van Gogh. Incorruttibile, sincero, vero, anche e soprattutto quando tutti gli altri lo considerarono solo un povero pazzo da internare… lui non mise mai in dubbio la bontà del suo animo.
E leggo perché adesso, quando guardo un tramonto, mi vengono in mente tutti quelli che guardava il Piccolo Principe, e questo fa sentire me meno sola.
E quando il mio cuore si é spezzato, coi singhiozzi che mi risalivano alla gola e gli occhi che si scioglievano nel bollore delle lacrime, sorreggendomi al muro mentre le ginocchia non riuscivano più a reggermi, non ho forse avuto anche io i fiori intrecciati nei capelli come Ofelia, quando si é uccisa perché convinta che Amleto non la ricambiasse? Il mio stomaco non si contorse forse come quello di Didone, quando si lasciò cadere sulla spada di Enea, perché la morte le sembrava così dolce e invitante, rispetto al dolore angosciante di una lunga esistenza priva di lui, tormentata dai fantasmi dei suoi ricordi, e della consapevolezza schiacciante, opprimente, che lui non scelse lei?
E quando qualcosa ci fa sentire così bene, non é forse giusto combattere con tutto ciò che abbiamo, come Romeo e Giulietta combatterono contro le loro famiglie; il loro stesso nome e il loro stesso sangue… pur di stare assieme?
L’amore puro, senza schemi e senza leggi, irrazionale… così come molti giudicarono l’azione di Darcy quando chiese la mano ad Elizabeth, nonostante lei appartenesse ad un ceto sociale inferiore?!
E quando vogliamo andare alle feste solo per vedere lui, o lei, non ci stiamo forse comportando come Gatsby, che organizzò feste su feste solo per poter vedere Daisy, almeno una volta?
O quando ci siamo guardati allo specchio e non siamo stati in grado di riconoscere il nostro riflesso, dopo tutto quello che abbiamo fatto… come se fossimo impazziti, perso letteralmente il senno come accadde a Orlando per angelica quando scoprì che lei preferì un umile fante a lui, prode paladino?
Leggo, perché anche io spero di trovare qualcuno che scelga di lottare per me, come Renzo lottò per Lucia. Che mi aspetti, come Penelope attese Ulisse, senza mai cedere alle lusinghe dei Proci. Che mi riconosca, a dispetto del tempo e dello spazio, come il vecchio Argo riconobbe Ulisse, nonostante fossero trascorsi vent’anni e lui fosse travestito. Che metta da parte l’orgoglio per l’amore nei miei confronti, come fece il Re Priamo quando andò al cospetto di Achille per richiedere il corpo del figlio Ettore, affinché potesse seppellirlo con tutti gli onori, donando finalmente pace al vagare errante e tormentato della sua anima.
Forse, amo così tanto leggere perché mi permette sempre di ritrovarmi nei sentimenti e nelle emozioni di qualcun altro. Senza mai farmi sentire sbagliata, o eccessiva, per quello che provo.
Non mi sono mai sentita sola ogni volta che ho aperto un libro.
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VIETATO VIVERE
Un mattino ti svegli e scopri che è vietato vivere, perché è così, è vero: «L’uomo moderno, in cambio di un po’ di sicurezza, ha rinunciato alla possibilità di essere felice» (Sigmund Freud) perché ormai ogni divieto sembra sacrosanto, ma poi diventa un insieme che diventa una galera, la nostra galera. Lo sembra questa nostra vita in cui, appunto, un mattino ti svegli e scopri che a Roma e a Torino, siccome eravamo a corto di divieti, hanno deciso di bloccare le auto per via dello smog (sacrosanto, certo) e pazienza se salire su tram e metro diventerà una follia, fa niente se in pratica già non possiamo più uscire di casa e dobbiamo stare attenti pure a come ci stiamo, in casa, e a che cosa mangiamo, beviamo, fumiamo, diciamo, ascoltiamo, clicchiamo; fa niente se la capacità di imporre divieti è diventata la misura dell’amministrazione pubblica, fa niente. Tanto ormai è tardi, viviamo come se vivere corrispondesse solo al rischio di morire, non ci siamo accorti che il bisogno di sicurezza genera sempre – sempre - anche delle forme di un autoritarismo e la tendenza a regolamentare ogni cosa. Mentre un professorino di Foggia, ieri, spiegava che un Natale in solitudine è più spirituale (ma lo colpisse un fulmine, a Giuseppe Conte) abbiamo smesso di accettare che la prima causa di morte è la vita, che basta nascere per avere una probabilità su tre di avere un tumore (purtroppo è vero) mentre c’è una parte del mondo che non riesce a mangiare e c’è un’altra che non riesce a non farlo: e, in mezzo a tutto questo, non c’è nessuno che ammette che la prima causa di morte, nel Pianeta, sono l’alimentazione e la respirazione. Si muore perché si vive. Così leggiamo libri e guardiamo programmi che parlano di cucina (che servono a ingrassare) e poi passiamo dal dietologo (perché dobbiamo dimagrire) e non passa giorno senza che un’alterata percezione del rischio venga trasformata in causa di morte da una politica medicalizzata (o sanità politicizzata, fate vobis) che ormai spadroneggia, e che tende a inglobare anche le dimensioni comportamentali dell'esistenza. Ormai il libero arbitrio viene visto come una minaccia da ridurre a malattia: ecco perché l'Organizzazione mondiale della sanità e cento altri organismi fanno campagne mediatiche e «scientifiche» su tutto, e decidono i prossimi nemici della nostra salute. Ora c’è il coronavirus, certo. Ma sappiamo tutti che presto o tardi, per dire, negheranno la mutua agli obesi, metteranno etichette terrorizzanti per cibi e vini come per le sigarette, il peso dei bambini diverrà un voto sulla pagella (accade negli Usa) e ci saranno le chiese senza incenso passivo (accade in Canada) e saremo sempre più invasi da continue «valutazioni dei rischi» mentre pubblicheremo, sui nostri giornali, qualsiasi studio: anche se il giorno prima ce n'era un altro che diceva il contrario. Ascolteremo qualsiasi medico o virologo o camice bianco come se l’idiozia non fosse equamente distribuita in tutte le categorie, e il nozionismo rendesse davvero più intelligenti. Il terrore di ammalarsi impera in una civiltà che tende a interpretare la natura umana solo in chiave biologica, e che ti spiega, persino, che i grandi uomini erano soprattutto dei grandi malati: depressi erano Ippocrate e Churchill e Montanelli, Leopardi aveva un problema di neurotrasmettitori, la sensibilità di Tchaikovskij era una somma di fobie omosessuali, Van Gogh del resto era epilettico, Paganini aveva la sindrome di Ehiers-Danlos, Rachmaninov quella di Marfan, e, peggio, la vicina di casa ha il coronavirus. E allora bisogna vietare. Giustamente. Ma, a poco a poco, vietano tutto. La vera minaccia alla nostra proviene da una declinazione distorta della libertà stessa: non abbiamo più margine individuale a fronte della proliferazione proprio dei diritti individuali: il diritto alla salute su tutto, ma questo dopo che un insieme di minoranze ha oppresso sempre nuove maggioranze per via dei diritti del cittadino, del consumatore, del bambino, dell’alunno, dell’anziano, del pedone, dell’automobilista, del ciclista, del turista, dello sportivo, del disabile, del militare, del teleutente, dell’ascoltatore, del lettore, dell’ambientalista, del cacciatore, di chi vuole essere armato e di chi esige che la gente sia disarmata, di chi vuole fumare e di chi non vuole il fumo altrui: sinché a un certo punto tutti i diritti hanno finito per elidersi a vicenda e il lockdown (mondiale?) da Coronavirus ci ha dato la mazzata finale. Così resteremo a casa. Distanziati, se possibile. Senza troppi abbracci e smancerie contagiose. Anaffettivi. Naturalmente senza fumare (perché il fumo passivo ammazza il figlio dell’inquilina del palazzo di fronte, e di recente hanno scritto che fa male anche ai cani) e bevendo acqua senza sodio (ma occhio all’arsenico e al cloro e ai solfati, oltre al celebre stronzio) ma senza prosciutto, salame, mortadella e bacon che sono pieni di grassi malsani e nitrati e nitriti (di cavallo?) e niente birra perché il luppolo fa male alla prostata, lo zucchero bianco è veleno al pari di burro, strutto, olio di palma e olio di colza, i sostituti dello zucchero fanno peggio, i biscotti contengono mediamente più grassi dei salumi, sul caffè e sui carboidrati si è letta ogni cosa, nel 2015 l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso che «la carne è cancerogena» (le salsicce sono accanto all'amianto nel gruppo 1, dove sono racchiusi gli agenti più pericolosi) come la Coca Cola e le bibite di ogni tipo, e i succhi, anche in versione dietetica, mentre la frutta alla fine contiene sempre tracce di pesticidi anche se hai lavato e sbucciato, e comunque fa ingrassare come quella secca, il gelato contiene additivi e coloranti e conservanti, in generale tutti i grassi causano malattie cardiache, il generale tutto il grano (non solo il glutine) contiene bromato di potassio, le merendine per bambini fanno ingrassare e danno squilibri ormonali, dei fritti neanche parliamo, il pesce assorbe le sostanze tossiche dei nostri mari, la pizza ha la farina 00 che ha troppo amido e amido e zuccheri e i bordi bruciati o carbonizzati che fanno venire i tumori, niente è peggio del sale che alza la pressione, forse solo il vino, almeno secondo il Chief Medical officer (2016) che ha stabilito che faccia male sempre, anche poco, e che ti abbassa l’aspettativa di vita. Ma chi la vuole, questa vita. Chi la vuole, questa sanità che ingloba anche le dimensioni sociali e comportamentali, e dove qualsiasi coglione ti spiega che se ti ammali pesi economicamente sulla società. Ridateci il compianto (davvero) e libertario Antonio Martino, ex ministro ed economista: «L’impiego di argomentazioni scientifiche volte a distogliere la percezione del rischio, terrorizzare l’opinione pubblica e indurre le autorità politiche all’adozione di misure restrittive delle libertà individuali... rappresenta nient’altro, nella quasi totalità dei casi, che uno strumento nella lotta che gli statalisti di ultima generazione conducono ai danni delle nostre libertà». Ridateci il Michele Ainis del 2004 col suo libro «Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti», dove raccontava di uno Stato che, in fondo, ti chiede solo di rispettare delle regole: e fa niente se queste regole, lentamente, nel loro insieme, finiscono per imbrigliarci come le cordicelle che bloccavano Gulliver. Ormai è vietato tutto. Fioccano le commissioni culturali e giornalistiche per edulcorare i testi che rischiano di offendere qualche sensibilità, fioccano le purghe del linguaggio, già vent’anni fa scrittori come Michel Houellebecq e Oriana Fallaci furono denunciati per aver istigato all’odio razziale, libri e film sono stati accusati a vario titolo di razzismo o pedofilia, parlare è diventata un’impresa (ne abbiamo scritto più volte) e attendiamo chiusi in casa, sfiduciosi, le prossime novità sul lockdown, sui nuovi divieti: non abbiamo mai avuto (mai, mai, neppure lontanamente) una classe politica così scandalosamente imbecille, proprio tarata mentale: ma c’è qualcosa che va oltre e, come si dice, ha piovuto sul bagnato. Un diluvio. E ci sono tante persone normali, perbene, che sono diventate inconsapevoli fiancheggiatrici di un neosalutismo che ha i toni isterici e salvifici di chi non si limita a lottare contro un virus, come tanti che ce ne sono stati nella Storia: è anche piccolo traffico, piccolo commercio, sondaggino di opinione, esondazione ideologica, pubblicità progresso, fanatismo di chi stabilisce dall’alto il benessere di un popolo e rivitalizza il primato del collettivo sull’individuo, glorifica l’intervento statale, annuncia nuove ondate e nuovi lockdown, e intanto ci chiude in casa. Ma ne usciremo. Ne usciremo comunque.
Filippo Facci
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di recente ho comprato una marea di libri e tra questi anche uno su van Gogh. lui mi è sempre piaciuto come pittore, ma ora più che mai avrei voglia di abbracciarlo forte.
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Incontri che lasciano il segno - Parte 1
È un giorno come un altro nella Grande Mela; seppur Taehyung si trovi negli Stati Uniti per lavoro, il giovane artista non si è trattenuto dal ritagliarsi del tempo per sé stesso. Ha chiesto al suo manager di accompagnarlo al MoMA, il principale museo moderno del mondo, nella speranza di poter sfruttare al massimo la sua permanenza in suolo americano. Perché non importa quante volte ci sia già stato: è sempre pronto ad osservare con occhi nuovi, più maturi e critici tutta l’arte che lo circonda. Si trova al quinto piano; Dipinti e Sculture. Di fronte a sé uno di quei quadri che più frequentemente cattura la curiosità dei turisti sta appropriandosi dell’attenzione del ragazzo, intrappolando i suoi occhi grandi e brillanti nel famoso vortice di pennellate azzurre della Notte Stellata. Immerso com’è nell’opera, non si accorge nemmeno dell’inusuale desolazione del museo, anzi. Quella rara quiete lo spinge ulteriormente tra le braccia di quella luna che sembra essere così calda se comparata allo spettro cromatico del dipinto. L’idea del suo manager che lo aspetta nell’area cafè non gli mette fretta, onestamente. Sa che in realtà gli sta lasciando lo spazio di cui ha bisogno per ricaricare le batterie e ne è molto grato. Ciò che invece riesce a sfilarlo pian piano dalla stretta di Madre Arte è la figura di una donna che si trova alla parete adiacente alla sua. Una ragazza vestita da donna, si corregge mentalmente. La sua postura, i capelli raccolti, gli abiti tanto formali da sembrare quasi un’uniforme, la tracolla in cuoio che sembra aver visto molte generazioni prima della sua: tutto sembra voler raccontare una storia più antica della reale età. E Taehyung adora le storie; lo riporta ai tempi in cui sua nonna era ancora lì con lui per raccontargliele. La nuca scoperta dall’acconciatura rivela una pelle bianca ma sofferente; un lieve rossore sembra volersi arrampicare fin laggiù, il che porta lo sguardo di Taehyung alla radice del problema. Non reggerà ancora per molto, pensa soffermandosi sulla spilla da balia che con ben poche aspettative teneva assieme i pezzi della borsa. Era un rimedio dell’ultimo secondo, un piccolo cerotto su una ferita che necessitava dei punti di sutura; ma questo lui non poteva saperlo. Spinto a compassione, Taehyung lascia il padiglione per raggiungere le scale e salire di un altro piano, anche questo reso vivo da più personale che visitatori, per fare poi ritorno nell’ala dei dipinti una manciata di minuti dopo. È convinto di trovarla ancora lì; ha come l’impressione che siano simili sotto quel punto di vista.
“Tieni” trova il coraggio di dire dopo averla affiancata. Nella mano tiene una borsa di tela con sopra stampata l’opera di Van Gogh ed il logo del museo. La ragazza posa dapprima lo sguardo sulla mano tesa per poi alternarlo al viso delicato ma dagli occhi che ha come l’impressione possano diventare taglienti da un momento all’altro, a tradimento. Emette un’aura del genere. “Ho notato la tua borsa, prima. Ci devi tenere dentro molti libri.” Azzarda ad ipotizzare sia una studentessa di qualche università privata, forse cattolica. Non è un grande fan degli stereotipi ma qualcosa in lui lo spinge ad investigare. “In verità è tutto peso del mio lavoro” replica lei accettando il premuroso dono. Non si sbilancia con ringraziamenti palesi o verbali, semplicemente accetta la borsa con un calmo sorriso gentile. “Vieni spesso qui?” chiede lei sfilandosi la tracolla dalla spalla e passandola a Taehyung che, colto alla sprovvista, si ritrova a reggere la vecchia borsa cadente mentre tenta di non dare a vedere la sua sorpresa. “Ogni volta che posso” le confessa reggendo con entrambe le mani l’oggetto. La vede aprire la borsa di tela ed incoraggiarlo ad infilarne lì la vecchia e così fa. Certamente è più comodo che trasferire ogni singolo oggetto da una all’altra. Sembra esserci abituata. “Quindi sei un esperto” suppone la giovane riprendendo in spalla la matrioska di borse. “Se vieni qui ogni volta che puoi e sai come raggiungere il negozio senza guardarti intorno né consultare la mappa, allora devi davvero sapere tutto di questo posto.“ “Non sono un esperto. Direi più… un appassionato frequentatore.” E sta davvero scegliendo di non soffermarsi sul dato principale dell’intera faccenda: come fa a sapere quanto tempo ci abbia messo a trovare il negozio? Che lo stesse osservando ancora prima che lui potesse accorgersi di lei? E se l’avesse riconosciuto? Ma le ore passate nel museo lo hanno reso un’uomo più rilassato e gli hanno fatto abbassare la guardia. O forse il fascino che quella ragazza sta inspiegabilmente esercitando su di lui sta in realtà conducendo l’intero gioco, esattamente come se lui fosse l’ammaliato marinaio e lei un’incantevole ed imprevedibile sirena. “Mi prendo il tempo necessario per osservare tutte le opere e-” “Quindi tu hai visto tutte le opere del museo?” viene interrotto da quell’intervento che Taehyung mal interpreta come ammirazione. “Beh, sì” conferma alzando le spalle. “Non vado mai via prima di averle viste tutte, anche se per pochi secondi.” Non sa bene cosa lo abbia portato a dire quelle cose, non ha intenzione di vantarsi o risultare arrogante ma, alla fin fine, riesce a trovare una giustificazione per le proprie parole: non ha mentito per fare una bella figura -qualsiasi cosa questo significhi- ma ha semplicemente riportato i fatti. Non a caso il suo manager era pronto ad una pausa caffè lunga ore. “Scommetto invece che te ne sia sfuggita una.” “Come, scusa?” replica cortese. “No, non è possibile. Ho stampato l’elenco di tutte le opere presenti in questo museo, lista scaricabile dal sito ufficiale” puntualizza con un tono saccente da primo della classe. “Non posso aver saltato qualcosa. Vedi?” dice recuperando il foglio dalla tasca della giacca di jeans. “Ho la spunta accanto a tutto.” E mentre il suo dito scorre sulla pagina, seguito a ruota dallo sguardo attento del giovane, sulle labbra dell’ipotetica studentessa si modella come creta fresca un sorrisetto sottile. “Seguimi” lo incita con semplicità disarmante ignorando il suo cartaceo frutto di accurate ricerche. A questo punto non può tirarsi indietro. La segue lungo l’intero quinto piano, le resta a due gradini di distanza per le scale e si assicura di voltare il capo in ogni direzione una volta raggiunto il secondo livello, alla disperata ricerca di quel fantomatico qualcosa che lei sostiene si sia perso durante il tour. Niente. Quando la sconosciuta si ferma davanti ad una stanza con le mani legate dietro la schiena, Taehyung capisce che è lì che è nascosta la risposta. “Ma... questa è Gowda.” Lo dice con ovvietà ma è molto confuso dal tutto. O forse è solo deluso. Si aspettava di doversi inoltrare in chissà quali anfratti del museo, scoprire di segrete nicchie o nascosti angoli con opere delle dimensioni di un tappo di bottiglia o roba del genere. E invece l’aveva portato davanti ad una delle più gigantesche, ben esposte e facili opere da trovare. Non riesce a capire. Ci dev’essere qualcosa che gli sfugge, ne è sicuro. “È l’ambiente costruito con elementi provenienti da case demolite a causa della modernizzazione nella sua terra natia.” “Qualcuno ha davvero fatto i compiti.” replica alla breve quanto coincisa descrizione senza mostrarsi particolarmente colpita. Di nuovo. “Io però mi riferivo ad altro.” Così dicendo si inoltra nella scena, supera stipiti, infissi di finestre e tavole di legno e conduce Taehyung davanti al soggetto di tanto mistero. “Un estintore.” Lo deve ammettere, se non fosse sotto l’effetto di chissà quale inspiegabile stregoneria che lo porta a gravitare attorno a lei, a quest’ora l’avrebbe già considerata una svitata; una di quelle personalità così fuori di testa da vedere cose anche laddove non ce ne siano. “È dunque questo il tuo occhio analitico da critico d’arte?” Commenta sarcastica. Qualcosa nella sua espressione suggerisce a Taehyung che quello fosse il suo di modo per manifestare la propria di delusione, proprio come lui poco prima aveva utilizzato il tono piatto nella sua voce in due semplici parole. N’è infastidito, in tutta franchezza. Tra i due quello ad avere più motivi per essere deluso non è certamente lei! In più si permette il lusso di giudicarlo? È una situazione davvero frustrante per l’artista. “Non c’è nulla da... analizzare. È solo un comune estintore. Tutti gli edifici devono averne almeno uno per una questione di sicurezza. E sono certo che in luoghi come i musei ce ne siano almeno dieci per piano. E questo è solo uno dei tanti. Non c’è nulla qui che faccia pensare sia nient’altro di diverso: non è equamente distante dalle altre opere, non è in un punto ben illuminato, non ci sono linee di fermo sul pavimento, non ha una targhetta con il titolo o il nome dell’artista, non è sul sito.” ribadisce irritato infine percependo le briglie della magica attrazione cominciare la frenata. “Hai presente gli stereogrammi?” La sente dire di punto in bianco in quello che interpreta come un disperato tentativo di cambiare discorso. “A volte ci vuole un po’ di tempo e pazienza in più per arrivare a vederci le immagini che nascondono. Guarda meglio: una targhetta c’è, dopotutto.” Lo incoraggia indicando il pezzo di carta legato al collo dell’estintore. Non sa perché lo stia facendo, perché stia continuando ad assecondarla ma segue il suo suggerimento e si sporge verso l’oggetto focalizzandosi sul foglietto. “ ‘Questo estintore è stato revisionato come richiesto dal codice antincendio di New York City 906.2.1.2.’.” “C’è altro?” “ ‘Ultima ispezione: 11 marzo’.” prosegue. “Effettuata da?” “Arthur H.” “Adesso hai un nome.” rivela l’improvvisata guida passando la borsa da una spalla all’altra, non sapendo quanto le sue ultime considerazioni l’avessero messo in una posizione di attacco. Ecco la goccia che ha fatto traboccare il vaso della sua pazienza; non ha più voglia di farsi prendere in giro come un idiota. “Ma questo non significa nulla! Potrebbe perfettamente essere un normalis-” “Arthur Hidalgo-Jiménez.” lo sovrasta con la voce interrompendo la sua sterile polemica. “Arturo, in realtà.” si corregge azzeccando perfettamente i suoni caldi e spigolosi della lingua latina. “È uno dei rappresentanti più emblematici delle correnti concettuali nell’arte della seconda metà del Novecento. La sua è un’arte che si muove lungo percorsi del tutto inediti, fondendo in maniera totale la sua esistenza con il suo essere artista. Jiménez è l’espressione più radicale dell’intellettuale che cerca di rinascere da un passato ingombrante. Figlio unico di immigrati portoricani, inventa il concetto della scultura sociale, capace di condurre ad una società più corretta; pensa che ogni uomo sia un artista e che se ciascuno utilizzasse la propria creatività, allora saremmo tutti esseri liberi. L’11 marzo è il giorno in cui i suoi genitori arrivarono negli Stati Uniti e 906212 è il numero della barcone su cui viaggiavano. È stato lui stesso a richiedere che la sua opera fosse messa a caso nel museo, senza una particolare luce o alcun pannello appeso al muro con la sua storia in bella vista. Voleva far arrivare gli osservatori alla più grande delle verità: tutto è arte se si hanno gli occhi per ammirarla. Arturo non era nessuno prima di diventare un artista, non sentiva di avere spiccate abilità nel disegno, nella pittura o nella scultura ma voleva comunque trasmettere qualcosa; aveva un messaggio da mandare a tutti coloro i quali non hanno mai creduto in sé stessi, a chi ha ricevuto solo porte in faccia, a chi non ci ha nemmeno mai provato per paura di fallire. Adesso pensi di riuscire a dirmi perché credi abbia scelto proprio un estintore?” “Perché spegne il fuoco. Potrebbe… essere il simbolo della società odierna che con cinismo soffoca le fiamme degli artisti emergenti o di chiunque cerchi di brillare, degradandoli a qualcosa di totalmente ordinario. Perché, se messo in un museo, nessuno avrebbe fatto caso a lui. Nessuno l’avrebbe considerato un vero pezzo d’arte.” “Se non qualcuno con gli occhi aperti ad essa. È facile trovare approvazione e supporto quando si è già qualcuno. Ma quanto è difficile arrivare a quel punto? Partire dall’essere nessuno e trovare quel qualcuno disposto a spendere quel minuto in più pur di vedere l’arte per quella che è e non per quello che dovrebbe essere secondo l’opinione pubblica.” Si sente così superficiale e stupido. Ogni parola che la ragazza gli rivolge sembra prenderlo a pugni nello stomaco, risvegliando uno strano mix di emozioni in lui. Prova un senso di vergogna, è deluso da sé stesso: da quand’è che ha smesso di apprezzare l’arte, farlo per davvero, coglierla in ogni cosa? Allo stesso tempo però quel discorso lo fa sentire paradossalmente meglio. Se dovesse paragonare quella sensazione a qualcosa, la descriverebbe come quando si tira via un dente cariato: si é in uno stato di dolore dormiente fino a quanto non comincia far male, tanto, per via di qualcosa. L’unico modo per stare meglio é estrarlo; un dolore che porta però al sollievo. Si sente così. Subito dopo arriva il processo di immedesimazione, come accade con i testi delle canzoni. Fa di quelle frasi delle strofe che rende sue, in quanto applicabili alla sua vita in tutto e per tutto. Non é sicuro lei sappia del suo lavoro, di cosa faccia per vivere, ma in fondo non gli importa. Trasforma il suo discorso in musica che starebbe ad ascoltare per ore. Con cuore e mente in tempesta, Taehyung é troppo occupato per badare alla sua espressione, la quale sembra essere fissa -e dunque imbambolata- sul viso della ragazza da un po’ ormai. Ed é costretto a rimangiarsi tutto: l’avrebbe seguita ovunque, anche se avesse deciso di mostrargli un tubo di scappamento nel bel mezzo di una mostra d’auto d’epoca. Perché ne é ammaliato. Troppo timido ed insicuro per dire innamorato. “Goditi il museo” lo risveglia bruscamente dai suoi pensieri la giovane donna dopo un breve attimo di silenzio. “Te ne vai?” Domanda con voce quasi infantile non disturbandosi nemmeno di mascherarne la delusione. “Ho del lavoro da fare” spiega in breve tornando a far balzare sulla spalla la nuova borsa piena, per l’appunto, di materiale. “Sono sicura che saprai goderti il giro, anche senza la lista.” La vede finalmente sbilanciarsi in un sorriso che sembra più genuino che beffardo, seppur nella maniera più cordiale possibile. “Ti auguro una buona giornata, appassionato frequentatore.” Esce di scena così, di punto in bianco, lasciando spiazzato il giovane. Ricordava sul serio tutto ciò che aveva detto, parola per parola? Deve essere una attenta ascoltatrice, pensa sempre più ammaliato. Taehyung si volta per vederla andare via, troppo scombussolato per realizzare quanto successo. Perde il contatto visivo con la sua classica quanto eccentrica figura quando svolta nel corridoio. Se si concentra riesce addirittura ad ascoltare i suoi passi, scendere per le scale. È tutto cosi’ surreale, come quel silenzio in cui lo ha lasciato. Non gli ho chiesto nemmeno il suo nome, realizza tra sé e sé. È rimasto davanti alla rossa scultura per altri quindici minuti buoni dopo la loro separazione nel tentativo di recuperare il tempo perso, di riconnettere i pensieri. E non mi ha nemmeno detto grazie... apertamente, aggiunge. Ma la cosa lo fa sorridere. Tira fuori dalla tasca il suo cellulare, apre la fotocamera e mette a fuoco l’estintore, scattandone una foto per poi pubblicarla su Twitter. Non ci mette nessuna didascalia, descrizione o emoji, la posta e basta sotto l’hashtag ‘TaeTae’ perché si sente più Kim Taehyung che V, ora come ora. Sulla via verso la caffetteria, continua ad usare il cellulare, questa volta per cercare su Google qualche informazione in più su Arthur Hidalgo-Jiménez. Gli unici risultati che vengono fuori sono un paio di profili Facebook e altri siti random che poco hanno a che vedere con quanto gli é stato raccontato. Decide di aggiungere la voce ‘arte’ alla ricerca ma il risultato non cambia molto. Dovrebbe sentirsi preso in giro ma, no, non é affatto cosi’. Si sente ispirato. Nuovo. Felice.
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“Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo”. Il libro fondamentale di Ezra Pound: “Cathay” (tranquilli, in Italia non c’è più)
Nel 1915 Ezra Pound pubblica a Londra, in una bellissima edizione in coperta azzurra – che ricorda, col senno del dopo, i volumi Scheiwiller – per Elkin Mathews, Cathay, silloge – all’apparenza – di poesie cinesi del canone classico. Per lo stesso editore Pound aveva pubblicato Personae (1909), Exultations (1909), Canzoni (1911). Sono gli anni in cui il poeta fonda riviste – “Blast”, ad esempio, con Wyndham Lewis – e avanguardie, che nascono e subito muoiono – l’imagismo, il vorticismo –, anni, cioè, in cui cerca la propria voce. Con Cathay, prima di tutti, ad esempio, il poeta insegna che la vera avanguardia è scavare nei recessi di civiltà perdute. Pensate a Picasso ispirato dall’arte africana, a Van Gogh sedotto dalle stampe giapponesi: Pound trova in Cina il suo linguaggio. Autentico. Autonomo. Perché è attraversando qualcosa che si approda a se stessi. Per alcuni, Cathay è la più bella raccolta di poesie di Pound. Non è un puzzle critico: sappiamo che il poeta, quando traduce, crea – un esempio nostrano: Quasimodo che piglia e modella i lirici greci. Sentite che bellezza i versi dell’apocrifo Rihaku (la traduzione è di Alfredo Rizzardi):
A settentrione delle mura monti azzurri, Bianco fiume che serpeggi intorno ad essi; Qui dobbiamo separarci E andarcene per miglia e miglia di erba morta.
La mente simile ad ampia nuvola ondeggiante, Il tramonto simile all’addio di vecchi amici Che di lontano s’inchinano al di sopra delle mani congiunte. I cavalli nitriscono l’un l’altro Mentre partiamo.
*
Quando è estetico, l’interesse di Pound è soprattutto ‘scientifico’, infine etico. Pound aveva scoperto la grandezza della poesia cinese antica e del teatro giapponese Noh (amore, quest’ultimo, condiviso con William B. Yeats) attraverso gli studi di Ernest Fenollosa, insigne studioso americano, orientalista entusiasta, già professore all’università di Tokyo, morto a Londra nel 1908. Pound vedeva nell’ideogramma cinese – usato con continuità nei Cantos – un “mezzo di poesia”, come scrive, con indole profetica, come sempre, nel saggio dedicato a Fenollosa: “Il secolo ventesimo non solo apre una pagina nuova sulla storia del mondo, ma schiude anche un nuovo sorprendente capitolo. Orizzonti di strani futuri si aprono all’uomo: culture che abbracciano il mondo intero… Il problema cinese da solo è così vasto che nessuna nazione può permettersi ormai di ignorarlo”. Non solo Pound impone il tema della grande poesia classica orientale, poi di moda (in Italia, fu sdoganata anche da Montale), con forza (“Abbiamo degradato i Giapponesi al rango di plagiari. Abbiamo ritenuto stupidamente che la storia cinese non presentasse alcun barlume di cambiamento nell’evoluzione sociale, nessun’epoca saliente di crisi morale e spirituale… Disgraziatamente in America e Inghilterra si è fatta strada l’idea che la poesia cinese e giapponese sia quasi un gioco futile, senza importanza nel complesso delle grandi letteratura”), ma gl’interessa l’ideogramma come dispositivo linguistico. L’ideogramma infatti è concreto, visivo, molteplice. È immagine che diventa suono e che crea, con forza sintetica, ineguagliata, molti sensi. L’ideogramma sembra rispondere all’utopia di Rimbaud (le parole che si odorano, si vedono, si toccano) e ai criteri dell’imagismo (che postula di “trattare direttamente la ‘cosa’”, non usare parole di troppo, definire un ritmo). L’ideogramma è un amuleto: sei tu a farlo parlare.
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Insomma, Cathay è il punto di snodo della poetica di Pound. Negli States la Fordham University Press, per la cura di Timothy Billings, ha pubblicato una critical edition del libro, che va trattato come testo poetico di Ezra Pound più che come abbecedario del sinologo dilettante. Nel mondo spagnolo, Buenos Aires Poetry ha da poco partorito una versione di Cathay per la cura di Juan Arabia, poundiano di platino. Anche noi avevamo una bella edizione di Cathay, nella collana ‘trilingue’ Einaudi curata da Valerio Magrelli: in quel caso le poesie di Pound furono ‘trattate’ da Maria Rita Masci e Alessandra C. Lavagnino. Naturalmente quel libro, edito nel 1997, così importante (e bello!, pura poesia desunta da nuvole e pietre), ora risulta “non disponibile”.
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Certo, non che vada meglio in altri mondi all’apparenza ‘avanzati’, più colti. In un saggio pubblicato sulla rivista del “The Russell Kirk Center”, J.L. Wall usa miniere di preservativi per dirci sapide ovvietà, cioè che Pound è “una delle figure cardine della letteratura del XX secolo”. Prima però dobbiamo sorbirci un pippone retorico e puritano (“Cosa dovremo fare di Pound? Una risposta sarebbe ‘cancellarlo’, gettare la sua statua nel fiume e attendere che l’acqua la cancelli. Un gesto del genere non è privo di fondamento: definire ripugnante la sua politica e la sua personalità è un eufemismo. Ma sarebbe anche troppo semplice. Le impronte di Pound sono ovunque: su The Waste Land, ma anche sulle carriere di Yeats, Frost, William Carlos Williams e H.D.; sulla pubblicazione dell’Ulisse di Joyce; sull’imagismo, il vorticismo, la ‘nuova poesia’ del secolo scorso”) e una proposta critica inaccettabile (“È stato poeta di talento, innovativo, fino ai trentacinque anni. I Cantos, sui quali ha scommesso la propria reputazione, sono stati un fallimento”: idiozia al cubo, Pound è poeta implacabile perché imperfetto, imperituro proprio nelle ultime poesie, della vecchiaia, nitide come profezie mutilate, al vento, come uno che vada a bracciate nello stellato). Amen. Affrettiamoci a ripubblicare Cathay.
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L’impegno di Pound dentro la letteratura cinese, come detto, continuò, con l’ostinazione dell’avventuriero. Quando fu arrestato, prese con sé i libri di Confucio, consolazione al St. Elizabeths. Nel 1954 la Harvard University Press pubblica la sua versione di The Classic Anthology Defined by Confucius, tradotta per Scheiwiller da Carlo Scarfoglio nel 1964 (“È questo il tesoro di voci e di vite umane che ci è stato tramandato dal fondo degli ultimi tremila anni; che Confucio, secondo i cinesi, ha non creato, ma messo nella sua vera luce e che Ezra Pound ha reso accessibile a tutti coloro che sanno legger l’inglese”). Nel 1951 aveva tradotto gli Analecta, specificando che “lo studio della filosofia confuciana giova maggiormente di quella greca in quanto non si spreca tempo in vane disquisizioni sull’errore”. Di “ricerca etica e linguistica” più che di traduzione parla Mary de Rachewiltz, che di quel libro ha curato la versione italiana, sempre per Scheiwiller. Sulla copertina gialla, adornata da ideogramma in rosso, l’autore risulta “Pound-Confucio”. Anche quei libri sono difficili da trovare, va da sé, e sono un autentico tesoro.
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“Non conoscere le parole significa non possedere il fluido necessario per conoscere gli uomini” sentenzia Confucio attraverso Pound. Nell’educazione canonica, per chi volesse raggiungere ruoli di governo, in Cina e in Giappone, all’epoca, era necessario superare prove che dimostrassero la conoscenza della lirica, in tutti i suoi generi, nelle sue forme cangianti. Non si doveva diventare poeti, ma saper scrivere poesia: cioè conoscere l’arte dell’allusione, riposare all’ombra di alcune lettere, distinguere la logica dall’ispirazione. Ignari della grammatica, del ritmo, della presenza retorica sarebbe stato impossibile condurre un popolo, dare leggi agli uomini, capire la parola del cielo e quella della terra. (d.b.)
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Potete dirmi quello che volete - che sono troppo polemica, che comunque è un modo per far avvicinare le persone all'arte ecc - ma ogni volta che vedo un quadro di Van Gogh spiaccicato sul muro dalle luci di un proiettore, come succede durante questa mostra che sta andando tanto di moda, mi sale una tristezza assurda. Dico questo perché, per tanti anni, io, Van Gogh non sono mai riuscita a comprenderlo fino in fondo, pur avendolo studiato sui libri di scuola. Fin quando non ho avuto la fortuna di vederlo dal vivo e, in quel momento, ho capito di non averlo mai capito (scusate il gioco di parole) proprio perché l'ho sempre e solo visto sui libri di scuola. La forza di questo artista, credo, sta nei colori, certo, ma anche nella sua pennellata, che è letteralmente tridimensionale. Spiaccicarlo su un muro significa togliergli l'anima, significa forzarlo ad entrare nella nostra era, invece lo sforzo dovrebbe essere opposto: dovremmo essere noi a metterci alla prova e a tentare di entrare nel suo mondo, che non comprendeva sicuramente occhiali 3D e proiettori.
Per non parlare del fatto che oramai ce lo ritroviamo stampato pure sui cazettini.
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29/08/19
Ciao, principessa.
Sì, la ragazza sono io, quindi, in teoria, dovresti essere tu a chiamarmi “principessa”; ma ho sempre avuto questa enorme passione, che consiste nel prenderti per il culo.
Questa foto mi piace, perché quello è il sorriso che ho sempre in viso quando sto vicino a te. Mi piace vedere quanto io sia felice quando ti ho intorno.
Mi rende consapevole del fatto che i miei dubbi sono soltanto paure inutili, e che altrettanto inutile sarebbe rinunciare a noi.
Non mi hai reso la vita facile, non è così, piccino?
I sette mesi più lunghi della mia vita...
Ovviamente il popolo di Tumblr non sa a cosa mi riferisco, per cui eccomi qui: tenetevi pronti, non è una storia facile.
Non ti avevo mai notato, prima.
Non fraintendermi, ninì; sicuramente sei sempre stato un bel ragazzo, ma non avevo mai buttato davvero un occhio su di te.
Avevo altre cose per la testa: il teatro, il canto, i miei voti a scuola...
Tu sei quello che si incontra quando Dio dice:”Toh, questa povera disgraziata è fin troppo tranquilla. Perché non le rendiamo la vita impossibile per un po’?”
E tu l’hai decisamente fatto.
Litigate fuori da scuola con un ragazzo che, diciamoci la verità, più di deludermi non ha praticamente fatto, e tu che, con il tuo sorrisisino spavaldo e la sigaretta in bocca, mi guardasti e dicesti:<< Problemi col fidanzatino?>>
Un sospiro, << diciamo di sì. >>
<< Tranquilla, poi ti passa. >>
Tornata in classe, quel senso di tristezza continuava ad aleggiarmi nel petto.
Massì, buttiamo i miei problemi addosso ad un povero cristo che a malapena mi conosce.
Un messaggio: << Dario? >>
<< Sì? >>
<< Non mi è passata. >>
I minuti che in quel momento sembrava non scorressero più, le mie unghie che, nervosamente, battevano sul banco di scuola, aspettando una risposta che non pensavo sarebbe mai arrivata.
“Deficiente”, ho pensato, “questa te la potevi evitare.”
Ma ecco che ad un certo punto mi vibra il fianco, proprio all’altezza della tasca dov’è riposto il mio amato telefono con la cover de “La Notte Stellata” di Van Gogh.
Il messaggio era tuo.
<< Esci, sono fuori. >>
Voglio essere sincera, piccolo, il più sincera possibile: se quel giorno tu non avessi compiuto quel piccolo ma grande gesto, non mi sarei mai davvero innamorata di te.
Non starò qui a parlare di quanto mi hai fatto soffrire, di quanto, per sette mesi, tu mi abbia fatto sudare; mi hai indirettamente e direttamente insegnato tante cose.
Io qui, ora, voglio parlare del presente.
Sei la persona che voglio sentire quando ho paura di non riuscire a farcela, perché anche solo il fatto che tu mi stia vicino, il fatto che tu ti preoccupi per me, mi fa sentire amata, e mi conforta.
Non sono mai stata amata da nessuno, perché tutti hanno la tendenza a darmi per scontato; tu no. Tu sei diverso.
Sei l’unico con cui vorrei stare giornate a non far nulla, sul tuo letto, sia con la neve che con 45 gradi, a parlare di me che ho sempre paura di tutto, e tu che ti lamenti perché non voglio guardare l’attacco dei giganti con te, visto che mi fa paura. Però so che a te quell’anime piace tanto da volerlo condividere con me, e io lo guardo, perché prendermi uno spavento è il minimo quando sto con te.
Sei una delle poche persone che con me è onesta. Mi dici la verità; sai che sono sensibile, sai che ci resto male, quindi, quando stai per dirmi qualcosa che potrebbe ferirmi, mi prendi la mano, come per non volermi ferire.
<< Marti, non è la fine del mondo! >>
Hai ragione, non lo è mai; hai ragione spesso, in realtà.
Sei paziente in maniera disarmante, con me.
Sai che io sono una persona che sfugge, sai che quando mi feriscono mi chiudo come un riccio, sai che a volte potrei scappare anche da te; ma a te questa cosa non sta bene.
E mi insegui e mi fermi e mi dici che va tutto bene.
Come quella volta in cui volevo lasciarti, durante il primissimo periodo; su quel bus piangevo perché ero terrorizzata, perché non ti volevo perdere; e tu, invece che urlare come un pazzo contro di me perché la tua ragazza rischiava di mollarti, cosa hai fatto?
Mi hai preso tra le braccia, mi hai stretto forte; mi hai dato un bacio fra i capelli, e poi mi hai guardato negli occhi:
<< È normale aver paura. >>
Voglio confidarti un segreto, ninì; nessuno mi aveva mai detto che è normale avere paura. La tua reazione mi ha sconvolto.
<< Perché non mi stai urlando contro? >>
<< Perché sei spaventata>>, mi dicesti, << e ti amo. Non potrei mai urlarti addosso. >>
Dario, ancora oggi non c’è una volta in cui tu mi abbia urlato contro.
Potrei stare ore a parlare di te, ore e ore, potrei scrivere libri su come mi abbracci, su come mi baci, su come mi spogli e come mi tocchi la nuca quando mi devo rilassare, su come mi stringi forte la mano quando capisci che c’è qualcosa che non va, su come litighiamo e poi finiamo ad amarci più di prima.
Più ti guardo, più mi rendo conto che sei ciò che rende la mia vita piena.
Grazie di esistere.
Menomale che ci sei.
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2018
Ho pensato molto cosa mi ha lasciato quest’anno, e penso che sia stato un punto di svolta nella mia vita, un crocevia che mi ha inevitabilmente segnato per tutto quello che mi è successo. Ho visto ex tornare, amici tradire e cuori spezzarsi in frammenti cosí piccoli da non poterli piú ricomporre. Ho visto gli occhi di chi amavo cambiare, e con essi lei nella sua totalitá, dal fisico fino al carattere, risultando un altra persona completamente. Ho incontrato persone davvero valide ed altrettante persone da buttare, e sono stato protagonista di vicende da romanzo dal primo all’ultimo giorno dell’anno, letteralmente. Ho imparato che ho solo uno standard di ragazza che riesco a reputare amica e di cui riesco a fidarmi, ma ho compreso anche che questo stesso tipo di ragazza è lo stesso che viene attratta sessualmente dai miei modi, i miei atteggiamenti ed i miei discorsi, impedendomi di creare un rapporto di amicizia, o comunque costringendomi a mantenere segreti che sarebbe stato meglio non avere. Ho capito quanto fa male perdere una persona cara come un nonno, ed ho compreso quanto incredibile male fa il rimorso di non aver passato con lui tutti i momenti al massimo, non essermelo mai potuto godere davvero. Ho capito l’importanza del filo che collega amore e rispetto grazie alla ragazza girasole, che è riuscita a cambiarmi la vita con la stessa velocitá messa nel riuscire a far finta che non sia successo nulla. Sí, perchè ho avuto letteralmente la fortuna di incontrarla, una ragazza girasole, come quelle che raccontano alcuni testi qui su tumblr, energica, solare, piena di vita. Ma non è solo sorrisi. Lei è anche malessere, mancanza e rimorso. Lei è forse la ragazza piú forte che abbia mai incontrato, e me l’ha dimostrato in piú occasioni facendosi valere da donna contro problemi che probabilmente neanche io avrei superato. Lei mi ha insegnato ad amare una persona, perchè mi dimostrava giornalmente di amarmi davvero, con i suoi mille modi creativi per farlo. Non dimenticheró mai le ore ed ore di telefonate con lei, che riusciva a farmi trovare del tempo anche quando tempo effettivamente non l’avevo per nessuno. Lei che in quelle infinite telefonate riusciva a farmi ridere e poco dopo piangere. Lei che non dormiva mai, dandomi quasi sempre il piacevole obbligo di scriverle il buongiorno, che non le ho fatto mai mancare. Lei che mi ha insegnato la bellezza dei libri, perchè lei li amava davvero i libri, mentre per me erano solo un passatempo secondario a tutto, il classico rimedio da giorni festivi dove non si ha nulla da fare. Lei mi ha regalato alcuni dei suoi libri, oggetti importantissimi che non permetteva a nessuno di toccare, e mi ha regalato inoltre un quaderno dove scrivere, che ci saremmo dovuti scambiare ogni mese ma che non abbiamo mai avuto l’opportunità di farlo. Su quel quaderno scrivo ogni tanto, non sempre, principalmente quando mi manca da impazzire, quando mi sento così vuoto da accorgermi che la sua mancanza pesa troppo nella mia giornata, quando mi accorgo di ritrovarmi solo con me stesso la sera, mentre invece avrei dovuto chiamarle, perchè ogni volta non vedevo l’ora di sentire la sua fantastica voce. Lei è davvero una ragazza speciale, l’ho amata davvero e l’ameró sempre, ma a volte per far del bene alle persone bisogna lasciarle andare, e lei non meritava uno come me, bensí molto meglio. Qualcuno con un passato migliore, che capisca tutti i suoi malesseri e che magari riesca anche a farla tornare, quando lei si allontana per autodifesa. Spero solamente che mi pensi quando rileggerà le pagine che scriveva per me, quando ammirerà le meraviglie sull’unico libro che sono riuscito a regalarle, giusto in tempo, l’ultima volta che ci siamo visti. Un libro di Van Gogh, il suo pittore preferito, con tutte le sue opere d’arte, rese uniche dalla sua vita stravagante e tormentata, un po’ come la ragazza girasole.
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Templi, Santuari, Cappelle e capitelli della Fotografia: 2.
Casa dei Tre Oci a Venezia, "Esposizione" di WillY Ronis
di Carlo Maccà
--- Santuari della Fotografia: non mete costanti di folti pellegrinaggi di fedeli, come il Santo di Padova; né occasionali come certe mostre d' arte che richiamano frotte su frotte di innocenti membri di generazioni in via di estinzione o di nocenti quanto distratti studenti in gita scolastica, frotte alquanto ingombranti per gli intimamente devoti di fedi religiose o artistiche. Provato a seguire una messa domenicale al Santo in mezzo ai girovaganti pellegrini? o a vedere Van Gogh alla Basilica Palladiana di Vicenza in un fine settimana? [Nota 1]. Per fortuna i veri santuari della fotografia sono visitati da piccolissimi gruppi, coppie o singole persone, consapevoli e (più o meno) informati, che si comportano da veri devoti, talvolta incuranti di difficoltà d'ogni genere, disposti a salire scalzi e in ginocchio gli scalini della Scala Santa. Come ad affrontare almeno due volte l'anno con qualsiasi tempo, indifferenti alle proprie condizioni fisiche, la lunga traversata della laguna da Piazzale Roma o dalla stazione ferroviaria fino alla Casa dei Tre Oci nell'Isola della Giudecca. Traversata che oltretutto costa il doppio dell'ingresso alla mostra. Dove attualmente e fino al 6 gennaio 2019, c'è Willy Ronis, Fotografie 1934-1998.
Non consumerò righe per inquadrare la fotografia di Willy Ronis (1910-2009), dopo tutte le volte che in fotopadova.org si è parlato di fotografia umanista, soprattutto di quella originaria, la Photographie Humaniste francese. Difficile che un appassionato di questa "arte" non conservi nella memoria immagini come Il nudo provenzale, o Vincent aeromodellista o Le cavallerizze dello Zoo Circus Zavatta, o la passeggiata dei pinguini durante L'intervallo al Circo Pinder, oppure Una domenica al Louvre. anche se non ne ricorda l'autore (che da noi non ha avuto, come avrebbe meritato, pubblicità pari a Cartier Bresson o Doisneau).
Una presentazione del fotografo e della mostra, (al di là dei soliti arrangiamenti incompetenti, se non addirittura disinformativi, di comunicati stampa) basata su un'intervista al curatore della mostra sorella francese del 2017 dalla quale provengono le stampe presentate a Venezia, si può trovare in rete]. Il Direttore Artistico della Casa dei Tre Oci , Denis Curti, attribuisce a Ronis anche la qualifica di anticipatore della fotografia di strada, ma è riduttiva e gli va molto, ma molto stretta. Immagini che, con un loro particolare "réalisme poétique", rappresentano Parigi sono state ovviamente riprese anche in istrada; quelle a Venezia, in calli e fondamente. Tanto varrebbe chiamare fotografi di strada i due umanisti citati sopra. o, come è sembra diventato chic, associare alla photo humaniste Henry Lartigue, alto-borghese nella vita e nei soggetti, fra cui elegantissime demi-mondaines a passeggio o in carrozza nei viali del Bois-de-Boulogne: pure lui fotografo di strada? Se è vero che Ronis fu "protagonista della corrente umanista francese" che "dimostrava il suo interesse verso la condizione umana e la quotidianità più semplice e umile" non lo fu certo "insieme a maestri quali ...Jacques-Henri Lartigue" il quale di quotidianità più semplice e umile non interessava neppure quella della servitù di casa.
E’ un reato contro la buona fede dei visitatori e la cultura fotografica) che comunicati stampa e notiziari vari diffondano e riprendano informazioni peregrine. A proposito dei Tre Oci si trova detto "immagini vintage (tutte stampate da lui in persona)". La madre di tutte le retrospettive, quella di Parigi del 2010, dalla quale provengono le stampe presenti a Venezia, fu concepita da Ronis stesso negli ultimi anni di vita, ma poté essere presentata soltanto l'anno successivo alla sua morte. La freschezza degli ingrandimenti in mostra non dà l'idea di vintage, per lo meno in senso stretto, e d'altronde non è credibile che siano stati tardivamente realizzati da una persona vicina ai cent'anni. E infatti la mostra francese del 2017 specificava "stampate personalmente o sotto il suo diretto controllo".
Subito dopo si trova scritto: "tra cui una decina inedite dedicate a Venezia (scoperta e immortalata con la sua Rolleiflex in un viaggio nel 1938)". Ma le immagini veneziane esposte, non più di una diecina, sono quasi tutte note, alcune famose, come quella della bambina (La petite fille de Venise) che cammina in precario equilibrio su una stretta passerella appoggiata alla massicciata delle Fondamente Nove, pubblicata perfino sulla copertina d'una importante monografia. Se poi è vero che il primo incontro di Ronis con Venezia avvenne nel 1938, fu durante una breve tappa d'una crociera in cui lavorava come foto-ricordografo per i turisti imbarcati. Gli ingrandimenti veneziani sono tratti da scatti del 1959, durante una frenetica incursione patrocinata da Romeo Martinez [Nota 2] nel corso di un'escursione in Italia assieme alla moglie.
Le reali stampe vintage mai viste prima sono piuttosto i provini a contatto di suoi scatti veneziani, esposti insieme ad altra documentazione - lettere, libri, riviste ed altro - in bacheche orizzontali. I formati dei negativi sono il 6x6 (circa) della Rollei e il 24x36 della Leica (ma per il formato minore a Venezia usava, a quel che risulta dal suo commento ad una delle immagini, il modello a ottica intercambiabile dell'originale reflex francese Foca). "Furono sei giorni meravigliosi! Io e Marie Anne abbiamo vissuto in un'altra dimensione" dice in una lettera inviata ad un amico alla fine del viaggio, nella quale evoca anche una serata di fronte al Canal Grande assieme, fra gli altri, a Romeo Martinez e alla coppia Berengo Gardin.
Quei provini dicono molto sulla sua maniera di inquadrare allo scatto, selezionare e riquadrare per la stampa, soprattutto quelli nel formato minore, disposti nella sequenza delle strisce originali (mente i 6x6 sono ritagliati uno ad uno, senza gli "scarti"). Quei provini, assieme agli ingrandimenti, il cui formato permette di studiare le foto molto più "da vicino" che le stampe tipografiche, anche le migliori, e alle parole dell'Autore accostate ad alcune delle immagini più significative, costituiscono una vera lezione di fotografia. In effetti Ronis ha svolto anche un'intensa e proficua attività didattica con articoli, volumetti e scritti vari, lezioni, workshop, corsi d'insegnamento anche accademici, e infine nei contatti personali. Anche Gianni Berengo Gardin, in un suo intervento nel filmato con cui il Direttore Artistico della Casa dei Tre Oci , Denis Curti, presenta l'autore e la mostra, parla di Willy Ronis come d'un amico-e-maestro. Le didascalie spiegano come il Maestro ottenesse la perfezione formale che s'impone nelle sue opere: la maestria nella composizione; il perfetto equilibrio fra le parti significative (che definirei, piuttosto che il momento decisivo, l'istante magico in cui tutto va al suo posto, tout se tient); l'accordo in stampa fra ombre e luci, fra neri e bianchi.
Nella didascalia d'una delle foto scattate in Fondamente Nove (Giovani madri, Venezia, Fondamenta Nuove) Ronis fa una cronaca puntuale del come ("28 mm, f:16, quasi certamente, 1/50"), del quando e del perché: praticamente un'esegesi con finalità didattica. L'ingrandimento rivela, diversamente dalle frequenti riproduzioni tipografiche, che nulla nell'immagine è perfettamente nitido (forse 1/50 non era sufficiente, o non era nemmeno). Ma ciò insegna a chi, come noi, è fiero di poter congelare con i nostri sensori supersensibili e super-definiti tutto ciò che si inquadra a partire dal proprio naso fino all'infinito, che certe pretese di perfezione tecnica possono diventare insignificanti: provate a immaginare l'immagine di cui sopra a 1/1000. Si può perdonare a Ronis, inesperto di laguna, l'aver denominato cimitero "di Murano" quella che è l'isola di San Michele (che, sempre nell'immagine suddetta, si vede sfuocatella sullo sfondo).
Quello a cui non si può passar sopra è il tradimento dell'intenzione dell'autore operato nella traduzione d'una delle citazioni più significative in un altro dei cartelloni. Nel testo inglese, certamente più fedele all'originale francese, Ronis dice che essere un bravo fotografo vuol dire avere fiuto e riflessi: fiuto per prevedere quello che ruò succedere e "the reflex to shoot exactly at the right moment", i riflessi per scattare esattamente al momento giusto (il momento magico di cui sopra, che oltre alla rapidità esige coordinazione mentale); mentre il traduttore italiano gli fa dire "i riflessi per scattare all'improvviso".
Tutto qui!. Ci voleva tanto a fare una traduzione letterale? Per concludere il tema del Santuario: la Casa dei Tre Oci non è solo fotografia. Anche per un tifoso in visita al Santuario dedicato alla preferita fra le tante Madonne in reciproca concorrenza è lecito, e talvolta doveroso, sostare in una cappelletta appartata per porgere una giaculatoria ad un piccolo Santo locale. Qui alcune salette defilate ospitavano fino all'11 novembre Fabio Visintin, Farfalle Marsilio,Vent'anni di illustrazioni. In particolare veniva documentata la collaborazione del grafico veneziano coll'editore pure veneziano per le copertine della collana di narrativa Farfalle.
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Nota 1. Mostra che assieme a 4-5 lavori ad olio della maturità presentava un'importante selezione di opere del periodo di formazione raramente documentate, che si sarebbero dovute meditare con tranquillità.
Nota 2. Romeo Martinez (1911-1990), dal 1953 al 1964 direttore della famosa e autorevole rivista Camera, dal '57 al '65 diresse anche la Biennale Internazionale di Fotografia di Venezia. Nell'edizione del 1957 Ronis fu il vincitore della medaglia d'oro.
Non esiste catalogo dalla mostra. Le monografie in vendita all'ingresso riguardano temi specifici dell'opera di Ronis, oppure hanno immagini di dimensioni insignificanti. Meriterebbe di essere ristampata la bella monografia edita da Taschen nel 2005 e curata dall'ottimo esperto Jean-Claude Gautrand, che ora si può acquistare soltanto in rete, usata e a prezzi al minimo tripli rispetto a quello di copertina. Interessante anche Fotocrazia di Michele Smargiassi dell'1 ottobre c.a., soprattutto per il commento di Claudio Marcozzi che con Ronis fu in rapporto di amicizia.
Chi ritiene utile, qualunque sia il proprio livello d'esperienza, prendere Lezioni di Fotografia da Willy Ronis, può farlo con Le regole del caso, uscito nel 2011 col titolo Derrière l'objectif de Willy Ronis, traduzione italiana del 2011, ristampata nel 2017. Molte delle immagini iconiche (che includono 4 delle presunte "inedite veneziane") sono confrontate colle sequenze di scatti da cui è sortito il risultato.
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