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5 ottobre - 11 ottobre
una settimana che non posso scordarmi ma mi scrivo qua i modi per ricordarmi tutto: intervista in radio riunione sovranumerata articolo Il tascabile ma soprattutto
MEMATA DALLA TRECCANI, RIPETO, MEMATA DALLA TRECCANI
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Sono seduta sulla scrivania con le braccia allargate agli antipodi della superficie, le spalle rilassate, il mento alto e sto parlando con qualcuno: non so bene chi sia, ma il mio tono è forte e non mi sento a disagio (forse sono una sua superiore? Forse siamo colleghi ma io ho un carattere più deciso? Non lo so). Comunque percepisco distintamente che mi posso esprimere e che non ho paura di deliberare e dare compiti, prendendo i miei. Potrebbe essere qualsiasi lavoro quello che sto svolgendo, quello per cui sono alla scrivania molte ore al giorno e molte altre ne passo al telefono, ma il significato è tutto nella postura sulla sedia ergonomica. Sono ferma, e se non in pace – e le paure e le angosce continuano a ruggire – almeno so che sono arrivata in un punto e che quel punto per me è giusto. Questa scrivania è scomoda, ma è giusta anche essa, e lo è anche il computer nuovo di pacca a cui sto provando ad abituarmi. A metà mattina, mi alzo e mi sgranchisco schiena e gambe andando a preparare un caffè nella saletta in comune: sono presa dai miei pensieri e non chiedo a nessun altro se lo vuole. Sanno che la pausa mattutina mi piace farla da sola, il momento in cui il mio metabolismo mi permette una produttività e un ottimismo che viene perso e completamente depauperato nel primo pomeriggio, quando tutto il sangue è impegnato nella lenta digestione post-prandiale. Mentre apro la moka e ci verso più polvere di caffè del dovuto, come sempre, mi viene un micro-attacco di ansia, e penso alle ore passate qui dentro, a quanto di perso c’è nelle mille strade che si decide di non percorrere fino in fondo, di quanta vita c’è fuori, e di quante storie non ho potuto ascoltare per stare qui a fare il mio lavoro. È un attacco che passa nel giro di poco ma è molto frequente, come una ferita che si riattiva e che mi riporta a una dimensione del passato molto pulsante, una me stessa che mi fa da pungolo e incubo, una versione di me continuamente in panne che però, ora, mi fa scegliere di stare e restare dove sono, che mi dà la serenità di guardarmi intorno e appigliarmi alla mensola e sentire che esiste e che in questo suo esistere non mi provoca sconforto ma una quotidianità bella. Passa una collega e mi dice qualcosa del progetto che è in corso, che ce l’abbiamo fatta ad avere l’intervista del lavoratore agricolo che vuole denunciare il caporale che l’ha sfruttato per anni, faccio un sorriso e penso che, un pezzo alla volta, questo mondo ce lo abbiamo in pugno, questo mondo possiamo cambiarlo, non nel modo massimalista di cambiarlo tutto e porre fine alle diseguaglianze crescenti, ma abbiamo l’ardire di lavorare affinché, almeno, non lo lasceremo intoccato e intatto, che forse è il motto minimalista di chi ha dismesso il furore giovanile e ha lasciato che prendesse spazio la consapevolezza che stare nel proprio posto, alla propria scrivania, senza fuggire, è un modo tutto nuovo di essere col pensiero e con la volontà là dove è di servizio all’altro da me.
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vedo fior fiore di intellettuali vedo le loro esternazioni su chi ha forse scritto un romanzo durante questo lockdown poi guardo le mie scarpe piene di fango e mi dico che le mie scarpe sono reali e voi, voi non lo siete.
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Ha ragione Angelo. Ho fatto tutto il giro e sono tornata alla casella iniziale. Ho provato a vederle tutte le micro-esperienze para-/pseudo-intellettuali che potevano interessarmi. Non ho detto di no a nulla, il giro delle opzioni disponibili sul mercato l’ho proprio fatto tutto e ora, pugni serrati, mascella che digrigna e io che mi dico: cogliona, cogliona 2 3 4 volte, sei stata una cogliona. gli addi non definitivi hanno in bocca l’amaro del “E se...”, quelli definitivi hanno l’aspetto messianico della liberazione dai mali. E dagli orpelli. E dalle innecessarie complicazioni. La strada verso la semplificazione e l’intensificazione della vita è lunga e in salita, però sto ricominciando. Stare più vicino alla famiglia, più locale, ricordarsi degli amici e amiche di lunghissima data, raccogliere un fiore, gioire di una passeggiata, rifarsi gli occhi con la campagna umbra (espressione che fa tanto paesaggio-cartolina). Decelerare, non tornare alla terra ché da lì non sono mai venuta, ma abbandonarvi tutti, compreso l’estroflessione continua e irriverente dell’ego su facebook. Sottrarsi dal rumore, fare a meno di intervenire online. Fare più discussioni de visu. L’unico vantaggio competitivo rispetto a chi queste cose le fa già da sempre è che io ho fatto il giro: la verità è sempre processuale, e dunque essi non vivono nella verità, ma nell’abitudine e la comodità.
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alex wood quits everything
I’m on day 1,878 off cocaine day 1,570 off booze, day 1219 off hard drugs, day 1010 off cigarettes, day 704 off amazon, day 539 off plastic water bottles, day 522 off WWE, day 188 off cigars, day 92 off coffee, day 6 off buying anything new, day 6 off online shopping, day 3 off weed and until right now I was 739 days off this podcast.
>>> https://alexwoodquitseverything.libsyn.com/
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La natura è innocente
Siti lancia il guanto di sfida a pagina 17: “Saranno sufficienti i pensieri indimostrabili, le licenze poetiche, le prevaricazioni sui defunti? Le allusioni ambigue, le immersioni palombare, le inferenze per pura vischiosità narrativa, insomma lo (parola ormai impronunciabile) stile?”. E a chi è la sfida lanciata? L’entità non è certo astratta, o perlomeno non si dà in natura, per l’appunto, ma si incarna nella scelta di mettere a tacere il dispositivo narrativo-connotativo ogni volta che un autore poggia la penna sul foglio, alza la testa e pretende di dire che quello che si troverà tra le sue pagine è la verità, nient’altro che la verità.
Un patto recente, non antico, con il linguaggio denotativo, che si libera dal fardello della forma (che in Siti diventa “l’autorità della forma” assieme alla “pazienza dell’artigianato”) e che si presenta al mondo come trascrizione monocorde, mai inventiva, mai fantasiosa, dei fatti, nient’altro che i fatti.
Conoscere la produzione saggistica e letteraria di Siti aiuta certamente nel districarsi nella selva di non detti o, meglio, di detti a metà: quelle che seguono, le 350 pagine che si schiudono come uno scrigno, sono a disposizione di tutti quelli che ancora credono che la forma, lo stile abbiano il loro ruolo, la loro fondamentalità in un’epoca che sembra avere sempre più bisogno di scrittura scarna, precisa, diretta, paratattica. Gli svolazzi sembrano furbate, le impennate liriche fumo negli occhi di chi agogna la storia, la storiella, l’autobiografia, la biografia, la scrittura del reale.
Perché l’opposizione in cui Siti vuole mettersi non è con chi in generale scrive (scrittore o scrivente che sia, non è importante) ma con il filone foltissimo e sempre più frequentato della narrativa non finzionale, o non-fiction. Canone nel quale è ovvio che dei maestri possano essere rintracciati – come il poderoso ego di Carrère o la presenza costante ma non giudicante di Capote in A sangue freddo – ma dove tanti altri e altre che scelgono di battere questa strada rappresentano la spia di un problema più grande. Il problema che abbiamo maturato con lo stile, o forma che dir si voglia. Il debito con la fantasia non lo vogliamo più, cerchiamo di fidarci solo dei giornalisti che diventano narratori. Fotografi, non più pittori – gli autori nel libro di Siti non vengono nominati uno ad uno (comporterebbe certo un argomento lungo e che comunque lui apre altrove, in altre sedi, come l’articolo “contro” Saviano, apparso su Minima&Moralia).
Il problema è, a volte, la qualità dei testi e, in altre occasioni, la pretesa di dirsi neutrali, il vizio di manifestarsi come vestali di una verità fattuale, mai soggiogata da soggettività, pulsioni, fraintendimenti, ossessioni, idiosincrasie personali.
Venendo al libro, La natura è innocente si biforca dal principio in due tronconi, due vite – quasi vere? Beh sì, ci sono almeno quattro ineliminabili livelli di falsità che accompagnano le parole dalla bocca del parlante all’intenzione dello scrivente.
Due vite intrecciate? No, si scopre solo alla fine perché ci vengono consegnate appaiate: il matricida ha avuto il coraggio (o l’impeto? O cos’altro? Di solo coraggio non si tratta) di uccidere la propria madre; l’arrampicatore sessuale body builder è l’oggetto-premio che si sarebbe potuto ottenere una volta compiuto il misfatto. Uccidere la propria madre per vivere le proprie pulsioni in libertà, recidere il filo atavico e mitologico che strozza il vitalismo.
Ingorghi psichico-simbolici sono la cartina tornasole del vitalismo di Siti, sempre esibito e forse arrivato al suo capolinea.
Ma, dunque, le vite – non esemplari né tipiche (la letteratura non insegna, non conforta, non moralizza, non incastona esempi per vivere meglio, tutte funzioni demandate ad altre scritture), ma che stanno assieme nella loro radicalità a dire all’autore: eccoci, nudi e crudi, questa è stata la nostra vita, e ora la tua unica possibilità è scrivere di noi. Non è che la vita media cui Siti accenna nelle ultime pagine è proprio la sua, che in questo romanzo non ha trovato spazio, la sua vita che viene affrontata obliquamente in questa autobiografia bifida e appaltata? Lecito domandarselo, anche se non dev’essere questo il punto. Anche perché è da quando ho iniziato a scrivere che continuo a mancare il fuoco principale.
Filippo Addamo vive i giorni fitti, Ruggero Freddi vive invece una vita: e questo è forse l’elemento che fa tutta la differenza. Perché sì, zio Walter scrive che “Forse, perché la vita cominci davvero, serve un fatto esterno che la invada e la inquini come il casuale granello di sabbia invade il cuore dell’ostrica”.
Un fatto esterno – il tradimento della madre nei confronti di Filippo, e per quanto riguarda Ruggero il fatto che si gonfia fino a diventare sproporzionato qual è? Non c’è.
Perché Filippo, nell’indigenza e nella mancanza di un orizzonte d’attesa benefico, vive questi giorni fitti fitti e a un certo punto l’atto, l’azione, lo mettono sulla strada giusta di avere una vita – forse tutto il libro non è che una spasmodica domanda che gira in tondo “cos’è una vita? Cos’è una biografia?”. Sparare alla madre gli consegna la vita in mano, ora lui è qualcosa, ora lui un ruolo ancestrale e mitologico ce l’ha: ha avuto il coraggio di sottostare alla coazione a ripetere, ha fatto quello che la sua terra e la cultura di cui è intriso si aspetta da lui. È un atto riconoscibile, è un atto nemmeno condannato dalle persone a lui vicine, ma è un atto. Un atto sproporzionato che indica quella che da ora in poi sarà la sua esistenza. Matricida.
Per Ruggero, la vita esiste da sempre, non compie gesta che lo mettano sulla strada che ha già deciso da piccolo: evadere dalla povertà – tant’è che si fa coccolare parossisticamente quando si fa promettere che non ricadrà mai più in situazioni merdose come sono quelle che i poveri sono costretti a vivere.
Ruggero ha un piano, ha la forma bene in testa, ed è secondario il fatto che cambiando gli scenari cambi anche la sostanza di quello che vuole diventare, ma è chiaro che il suo vitalismo è teso come una corda, è un vitalismo teleologico. L’orizzonte è lontano ma viene guadagnato a suon di cazzi e marchette, nulla mette in ginocchio il sogno di una forma, nemmeno l’avvilimento che la sostanza dei giorni comporta.
Tutto questo per dire che le due vite quasi vere di Siti sono degne di questo nome in fasi diverse: una lo è da sempre, l’altra lo diventa con l’atto fondamentale. Uccidere i genitori.
I giorni e la vita: misure del tempo diverse per significato che di tanto in tanto mi ossessionano. Ma nella scrittura è piuttosto scontato che di una vita – una vita come tante, vite che non sono la tua, vite che avrebbero potuto essere la mia – si finisce per parlare. Anche di una che all’inizio non lo è, la forma e la sua autorità si insediano sul trono e dettano grammatiche e linee che facciano ordine ed è una vita quella che ne esce fuori. Prima erano i giorni e poi è una vita. Potere poderoso e salvifico dell’arte? Forse, ma mica tutto deve essere salvato.
Infatti, sempre verso la fine – che è il terzo e conclusivo inserto saggistico dove Walterone tira le somme – fanno capolino le due tane dell’autobiografia: Facebook e Instagram, luoghi ameni dove lacerti di vita quotidiana vengono riportati perlopiù con linguaggio denotativo. Giorni che si spacciano per vite, che provano a darsi una forma in pubblico ben prima che sia possibile capire se l’interesse che suscitano sia duraturo o di consumo estemporaneo e modaiolo. Giorni che si spacciano per forma, ma la connotazione ha lasciato la torre di controllo e non si vede più. E laddove la parola non arriva, la facilitazione della foto – a bassa o alta risoluzione è uguale – aiuta a tirare fuori questa auto-narrazione continua che ci propiniamo a vicenda. Le maschere crescono, il soffocamento pure. Sui social sei quello che: fa polemiche, fa foto zozze, fa i meme, fa squadrismo virtuale. Sui social sei quello che fai, ma quello che decidi di fare ti strozza e dopo un po’ chissà se sei ancora quello che volevi fin dall’inizio. O se il bisogno di un pubblico ti ha fatto mettere in ginocchio e ti ha fatto pensare che dar via un po’ della tua intimità, un po’ dei tuoi pensieri non è un peccato grave, ma solo veniale, quella vanità così insita in noi ora che non è che bisogna vergognarsene, bisogna abitarla con mille layers e post-ironia. Così si risolve l’imbarazzo nel constatare che anche oggi hai messo in vetrina un pezzetto squallidamente inutile di te, che domani è carta straccia.
A Walter Siti direi che siamo giovani e che deve perdonarci questa messa in scena continua, questa distrazione sfibrante, questo gioco di maschere in cui la vergogna di essere giorni e non vita (non per forza tutti lo sono, forse qualcuno sì).
A Walter Siti direi tantissime cose, tra cui che i suoi libri mi hanno cambiato la vita. O i giorni fitti che vivo, non so ancora se sono degna di avere una forma ben ordinata – e anche se vivo ho le stesse preoccupazioni (forse non vere, ma realistiche, e dunque bene così) di Giovanni del Drago: il mio estetismo mi fa precipitare nell’angoscia più nera se dietro di me vedo giorni privi di senso, forme e linee caotiche senza un disegno preciso. Linee e forme che non in ogni momento dicono chi sono.
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prima regola: ogni discorso che comprenda l’espressione “Nella società di oggi”, non è valido, MAI.
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Recidere ogni filo, però della propria vita; agguantare delle forbici, ma per ferire il proprio corpo. Bruciare tutto, per carbonizzare ogni centimetro di pelle prima di sentir scendere sul petto la scure di piombo.
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come essere la prima book influencer su Tinder primo step: match con X X: ciao, che fai? Silvia: Leggo un libro, si chiama XY, costa Xy euro, potresti comprarlo sai? X: grazie ma non leggo molto Silvia: Oh beh, non preoccuparti. Forse potresti leggere EV, è un buon romanzo distensivo e non impegnativo X: no grazie ma ti andrebbe di uscire una di queste sere? Silvia: Sì, certo! Vogliamo vederci davanti alla libreria X? X: scusa ma perchè? Silvia: magari così compri LK, appena uscito, nuovo di pacca costa JJ euro
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San Giuseppe e Sant’Agnese sono icone speculari: il patrono della famiglia guarda verso destra e tiene in braccio il bambino Gesù e un giglio; la martire è volta verso sinistra e sorregge un agnello, che ne simboleggia la tragica fine. Le mani di Neva tremano quando quegli sguardi celesti si girano verso di lei e la trafiggono. Il mare, fuori, inizia a mugghiare furibondo. Una scure di piombo si abbatte sul suo petto.
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Mondo della critica culturale e letteraria, arrivo, fatemi largo ché sono come Walt Whitman solo che non è che contengo moltitudini, è che ci ho il culo grosso.
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Trovata la chiave di volta per Neva: da giovane ha una sorella deforme che la tiene in casa e che non le permette di fuggire e nel momento in cui le arriva la lettera lei è morta. Ma non da poco tipo cadavere puzzone, è morta da tempo, però inizia con la lettera che viene recapitata e rimane sullo zerbino di casa, e si ammonticchia la polvere e gli sguardi indiscreti dei vicini. non deve esserci nessun verbo tipo ‘ricorda’, ‘pensa’, deve essere tutto narrato al passato, perché non c’è nessuno che può ricordare/narrare.
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- ma come fai a sapere tutte ste cose? - ma quanto sei colta per la tua età (comunque quasi 29 anni, non 17)
Allora vi spiego è semplice. La cultura è fatta di piccoli passetti, un po’ di abnegazione e il talento che non guasta mai: io sono tipa da abnegazione, per esempio. vi spiego: tutte le volte che si può leggere, leggete. tutte le volte che non capite qualcosa, approfondite (magari su testate estere). tutte le volte che vi sentite poco sicuri di un argomento, continuate a leggere. io faccio così, quando riesco, ma spesso riesco. se invece ogni giorno della vostra vita decidete di passarlo su Instagram e a guardare serie tv... beh, che dire? la stupidità quando non è congenita è una scelta.
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Gli argomenti giusti? Quelli che fanno più male. Sono contraria alle opere di fantasia o alle opere di lontananza, alle volte basta guardare il proprio flusso e - più importante - la propria diga.
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Eccomi, eccomi, dunque eccomi. Sono stata molto presente a me stessa nel pensiero ma ho smesso di scrivere o prendere appunti qua sopra. Il tempo che passo a Gualdo solitamente è foriero di momenti di illuminismo che fanno brillare quello che da qualche tempo mi piace chiamare la riserva fosca e che solo da poco ho imparato a connettere a una certa ferinità familiare. Sono qui e vedo mia madre, e penso che è il rapporto che più mi ha dato spessore e identità, soprattutto nella ferinità. Sto qua e mi vedo connotata in modo irripetibile, cosa che non confluisce poi in alcun modo nel modo in cui mi vedo quando sono a Milano. io penso di avere un problema nel ritenermi speciale, e però mi son detta che di questa sensazione immediatistica è probabile che io non me ne faccia nulla se rimane monca e sterile. L’unico modo è metterla a frutto. e metterla a frutto forse mi richiederà qualche mese di allontanamento dal lavoro di ufficio. questa è la prima decisione grande del 2020: ripetizioni, lezioni private, quello che vi pare, ma per qualche mese l’ufficio non devo nemmeno sognarmelo. Sono stata in vacanza, in un posto lontano, e ogni giorno l’idea di andare di nuovo in De Agostini mi si è presentata sotto forma di incubo. Nessuno si merita di vivere così e sì, ho le risorse familiari necessarie per non dover per forza lavorare per i due spicci dell’editoria, e quindi sì una cazzo di pausa me la prendo. Vorrei una piccola somma da parte, una somma che non ho perché negli anni ho dilapidato tutto pur di non chiedere ogni tanto dei soldi, ma il mio conto è a 96 euro e dell’altro ho perso la password ma non ci spero nemmeno un po’. Quindi, prossimi 2-3 mesi si scrive. E cosa? Questo è l’altra intuizione che sono non dico felice, ma proprio grata, di aver partorito. Non è detto che sia letteratura: sì, il proto-libro è ancora là e Barbara, un’agente letteraria mia amica, mi chiede se sto lavorando o meno ma la verità è che no, non lo sto facendo. Lo farò, lo prometto. Una routine rigida, una casa libera dalle 8 di mattina alle 18 del pomeriggio, l’assenza degli orari dell’ufficio lontano un’ora, riprendere a fare sport, fare politica, andare 7-10 giorni in esilio a Urbino da un’amica, cercare di capire che 2 mesi persi a far nulla non sono persi ma guadagnati. mi rimetto in piedi. Un’altra cosa divertente è che mentre ero a Praga, una sera abbiamo scritto un pezzo di stand up comedy sulle molestie. Mi sono sentita febbricitante e creativa come non succedeva da tempo. Non posso escludere che. Non posso, non posso escludere nulla. Ho anche pensato che magari quello che per quello che penso e poi mi piacerebbe scrivere sarebbe d’aiuto un supporto audio-visivo, o che so io. e mi ripeto, magari non è la narrativa. Sono indietro, ho quasi 29 anni, ma sto grumo ce l’ho e finché non ci sbatto la faccia io continuo a pensare di essere speciale e di aver qualcosa da dire. Quindi, eccomi, eccomi pronta per sbattere la faccia contro la realtà dei fatti, ma almeno sto cercando di non reprimermi. Non che vivessi male prima, ma passare il tempo del proprio lavoro a sperare che la giornata finisca, e che il finesettimana arrivi presto, e che la vacanze di natale non tardino... No, non voglio più farlo, al momento. Beata me che posso non lavorare per qualche periodo? Sì, senza ombra di dubbio, sono privilegiata, ma questo tarlo me lo devo togliere.
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