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#linguaggio dei segni
clacclo · 11 months
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Ai concerti di Springsteen si divertono anche i sordi!
Nel video Meet me in the city.
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neropece · 6 months
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“the chinese dress” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Le strade lastricate di ciottoli grezzi e le facciate logore dei palazzi antichi costituivano lo sfondo mutevole per la sua passeggiata senza meta. Lei, una figura solitaria in un abito cinese bianco ornato da eleganti pavoni colorati, si muoveva con una grazia discreta, i suoi lunghi capelli lisci e neri scivolavano lungo la schiena come un fiume d'ebano.
Nessuno poteva dire chi fosse o da dove venisse. La città, con la sua atmosfera intrisa di storia e di segreti, sembrava accoglierla con un sussurro sommesso di benvenuto. Era come se fosse destinata a vagare tra le strade tortuose, un'estranea ammaliante in un mondo di sogni e illusioni.
I suoi passi erano misurati, una danza silenziosa tra i vicoli tortuosi e le piazze affollate. Non c'era fretta nei suoi movimenti, solo una calma contemplativa mentre assorbiva l'atmosfera della città che viveva e respirava intorno a lei.
Attraversò antichi vicoli lastricati, dove le pietre portavano i segni indelebili del tempo. Il profumo del pane appena sfornato si mescolava con l'odore pungente del caffè, che si alzava dalle piccole caffetterie nascoste tra gli edifici storici. La vita quotidiana pulsava nelle strade, una sinfonia di voci, odori e movimenti che creava un tappeto vivente sotto i suoi piedi.
La donna bruna si fermò di fronte a una chiesa antica, le sue guglie si stagliavano contro il cielo color turchese. Un sorriso sottile sfiorò le sue labbra mentre osservava i dettagli scolpiti nella pietra, testimoni silenziosi di secoli di storia e devozione umana.
Continuò il suo cammino, incrociando sguardi fugaci con gli abitanti della città. Ogni sguardo raccontava una storia, un frammento di vita vissuta, di speranza e di dolore. C'erano occhi luminosi pieni di gioia e occhi stanchi segnati dalla fatica, ma tutti parlavano lo stesso linguaggio universale dell'umanità.
La luce del pomeriggio si attenuava gradualmente mentre la donna bruna si avvicinava al fiume che attraversava la città. Le acque scure riflettevano timidamente i raggi del sole, creando un gioco di luci e ombre sulle sue sponde. Si sedette sul parapetto di pietra, lasciando che il suono rilassante del flusso d'acqua cullasse la sua mente.
Chissà cosa avesse portato quella donna bruna nelle strade di quella città? Forse era alla ricerca di qualcosa o forse semplicemente seguiva il flusso della vita, senza sapere cosa il destino avesse in serbo per lei. Ma in quel momento, sotto il cielo che si tingeva di arancione e rosso, accanto al fiume che scorreva placido, era semplicemente una presenza, un'anima in viaggio nel labirinto delle esperienze umane.
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fashionbooksmilano · 4 months
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Ephimera Dialoghi sulla moda
a cura di Sofia Gnoli
testi di Antonio Mancinelli, Maria Luisa Frisa, Alessandro Michele, Anna Piaggi, Luca Stoppini, Mariuccia Casadio, Quirino Conti, Bonizza Giordani Aragno, Maria Grazia Chiuri, Giuseppe Scaraffia, Gabriella Pescucci, Valeria Palermi, Daniela Baroncini, Silvia Venturini Fendi, Andrea Mecacci
Electa, Milano 2020, 115 pagine, 16x24cm, brossura con alette, ISBN 9788892820319
euro 29,00
email if you want to buy [email protected]
La moda nelle sue innumerevoli sfaccettature è la protagonista Ephimera, un volume nato dal ciclo di conversazioni che si è tenuto al Parco archeologico del Colosseo, nella Curia Iulia, cuore della civiltà romana, tra il 2019 e il 2020.
Fugace, velocissima, radicata nel presente, la moda sta sempre sul punto di diventare qualcos’altro, di cambiare pelle. È proprio per questo che la curatrice Sofia Gnoli ha scelto Ephimera – da epi “sopra” che messo insieme ad emera “giorno”, significa di un sol giorno – come titolo di questi dialoghi. Il risultato è un libro che esplora la moda da una molteplicità di punti di vista: moda come linguaggio di segni, come espressione artistica, senza trascurare argomenti classici quali l’androginia o il dandysmo e il suo legame con il cinema e con la letteratura, con la fotografia e con il kitsch.
Il continuo scambio tra presente e passato, così come la natura polimorfica di questa disciplina si riflettono anche sulla diversa formazione dei partecipanti di Ephimera, nonché autori del volume: direttori creativi, artisti, saggisti, studiosi e giornalisti, hanno approfondito, attraverso la loro personale visione, un aspetto della contemporaneità. Attraverso tutti questi racconti, Ephimera traccia un quadro della moda con le sue mutevolezze, le sue imprevedibilità e le sue compulsive morti e rinascite. Così, tra presente e passato, tra effimero ed eternità, la moda non smette di incantare.
EPHIMERA SOFIA GNOLI L’AVVENIRE È LA PORTA, IL PASSATO È LA CHIAVE ANTONIO MANCINELLI E SILVIA VENTURINI FENDI ALESSANDRO MICHELE: ARCHEOLOGO DELLE COSE A VENIRE MARIA LUISA FRISA E ALESSANDRO MICHELE MODA: STRUMENTO DI CONSAPEVOLEZZA, ARTE DEL POSSIBILE VALERIA PALERMI E MARIA GRAZIA CHIURI LE D.P. “DOPPIE PAGINE” DI ANNA PIAGGI LUCA STOPPINI ANNA PIAGGI “PRIVATE” PAOLO CASTALDI FENOMENOLOGIA DEL DANDY GIUSEPPE SCARAFFIA IL DANDISMO DI LUIGI ONTANI MARIUCCIA CASADIO L’INDISTINTA SESSUALITÀ DELLA MODA QUIRINO CONTI OSCAR AI COSTUMI GABRIELLA PESCUCCI IL GUARDAROBA DELL’EROS: LETTERATURA, MODA E EDUZIONE DANIELA BARONCINI SGUARDI ITALIANI: LA FOTOGRAFIA DI MODA IN ITALIA BONIZZA GIORDANI ARAGNO CONSIDERAZIONI SUL KITSCH ANDREA MECACCI
23/05/24
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pettirosso1959 · 4 days
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ANIMALI E ANIMALI ❤️❤️❤️
Quando Robin Williams riuscì a far ridere di nuovo un gorilla che stava piangendo la morte del suo amico da sei mesi.
Alcuni etologi statunitensi avevano insegnato ad un gorilla di nome Koko a parlare con gli esseri umani, tramite il linguaggio dei segni.
Koko era estremamente intelligente, ma stava passando un periodo molto difficile, tanto che i biologi temevano avesse cominciato a soffrire di una grave forma di malinconia.
I ricercatori volevano aiutare Koko, trovandogli un nuovo amico, e allo stesso tempo volevano studiare come interagisse con gli esseri umani.
Avendo infatti studiato il linguaggio dei segni ed essendo in grado di comunicare con la nostra specie, rispetto agli altri gorilla, Koko era l'esemplare perfetto per stabilire se esistessero dei veri e propri confini cognitivi tra le nostre specie o meno.
Chiesero quindi a Robin Williams, noto principalmente per essere un grande attore comico, se volesse passare qualche ora in compagnia di Koko, cercando di interagire con lui naturalmente, come se si trattasse di una persona normale bisognosa d'aiuto.
Williams accettò immediatamente, anche se aveva dei dubbi sulle modalità dell'incontro. Non era infatti esperto di primati e temeva di essere troppo impacciato per relazionarsi serenamente con l'animale.
Giunto di fronte al gorilla, Williams ebbe però una vera e propria illuminazione.
Lasciando la possibilità all'animale di conoscerlo autonomamente, Williams si accorse che interagire con Koko era come se stesse interagendo con un bambino molto curioso. A poco a poco, il gorilla infatti si interessò sempre di più al visitatore, tanto che rimase affascinato dal suo paio di occhiali e volle vederlo con "i suoi strani occhi fatti di vetro".
Koko presto cominciò a parlare con Williams, usando il linguaggio dei segni, proponendogli di giocare o facendogli domande sorprendentemente intelligenti, che sconvolsero l'attore. I due, in pochi minuti, iniziarono persino a scherzare, a farsi il solletico, a giocare e a raccontare qualche loro esperienza di vita.
La cosa stupì profondamente i ricercatori, che chiesero a Koko di definire l'attore tramite una parola scelta. Il termine che il gorilla utilizzò fu "amico".
Lo stesso Williams rimase positivamente turbato da quell'incontro, soprattutto quando venne a conoscenza che era riuscito a far ridere un gorilla che rischiava di cadere in depressione per la solitudine.
A seguito di ciò, decise quindi di visitare Koko quando gli era possibile e di girare insieme a lui degli spot, a favore delle conservazione delle specie protette e contro la sperimentazione animale.
Il legame che si andò a creare fra Koko e l'attore statunitense fu così profondo che sopravvisse alla morte di Williams, avvenuta nel 2014. Quando infatti il vecchio gorilla seppe della morte dell'amico, fece segno ai suoi istruttori se poteva piangere e per alcuni giorni rimase pensieroso, con le labbra tremanti per il lutto.
Koko non si dava pace nel sapere che non lo avrebbe rivisto più.
Koko morì 4 anni dopo, nel 2018, all'età di 46 anni. Oggi è ricordato come uno dei primati più importanti della storia della ricerca scientifica.
Da "La scimmia pensa" (su Facebook) ❤️
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ma-come-mai · 3 months
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ATTUALITÀ
Omicidio di Thomas a Pescara: i figli del nulla che vogliono tutto, e quando non basta... Ecco perché aveva ragione Pasolini
28 giugno 2024
Chi sono i (presunti) assassini di Thomas Luciani, il ragazzino colpito da una scarica di coltellate e lasciato morire per un presunto debito di droga di pochi euro? Sono i figli della borghesia, della “Pescara bene”, se questa ancora esiste, ma sono anche i figli del nulla. Quelli che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma vogliono tutto. E quando l’esibire le sneakers, il cellulare, le magliette e le immagini non basta, la risposta è solo una: la violenza. Aveva ragione Pier Paolo Pasolini nei suoi “Scritti corsari”: si regredisce, e…
di Ottavio Cappellani
“Facevano parte della ‘Pescara bene’”, scrivono a proposito dei due sedicenni accusati dell’omicidio di Christopher Thomas Luciani, detto Crox, diciassette anni, albanese, i cui genitori lo avevano affidato alla nonna. “Nessun disagio sociale”, scrivono. I presunti assassini (si scrive così) sono figli di un sottufficiale dei carabinieri e di un avvocato che però insegna. Una lettura da paniere Istat. Quasi che si trattasse dell’omicidio del Circeo: due di destra che uccidono un povero per una questione di rispetto. 25 coltellate contro 250 euro. Ogni dieci euro si ha diritto a infliggere una coltellata, perché io sono il padrone e tu lo schiavo. Li frequento, questi giovani. Li conosco. Ci parlo. È il mio dannato mestiere (“dannato” non è un americanismo: scrivere, studiare, cercare di vedere anziché guardare, è una dannazione, nessuna vanità o compiacimento da intellettuali da queste parti). Con gli scrittori si confidano. Lo fanno in molti. Sperano tutti di finire in una pagina di un libro, un giorno o l’altro, con il nome cambiato, certo, ma con la loro storia ben riconoscibile, in modo da confidare a qualcuno: quello sono io. Io. Io. Io…
L’identità collettiva del consumismo, che all’apparenza dell’apparire si vende come capace di distinguere un io da un altro, cancella di fatto ogni distinzione. Non è più la qualità di un bene a fare la differenza, ma la quantità di danaro che esso vale in un mercato rivolto all’immagine, che oggi non dà più nessuna identità. Sia chiaro, un’identità costruita “per immagini” non è una vera identità; l’identità della classe operaia, con le sue tute da metalmeccanico, la tovaglia cerata, la serena stanchezza della giornata di lavoro; l’identità della borghesia, una volta gli elettrodomestici, l’enciclopedia, il completo dei grandi magazzini (Rinascente, Upim, Standa), oggi la domotica, i device, i brand. Erano e sono identità appiccicaticce, ma che svolgevano e hanno svolto, fino a ieri, il loro sporco lavoro: appartenere a una classe sociale, formare un’identità che nell’epoca del nichilismo non sa dove aggrapparsi.
Ricordo il pezzo di Pier Paolo Pasolini sui capelloni (in “Scritti Corsari”): sta apparendo un nuovo tipo di uomo, lo manifestiamo senza linguaggio, solo con il nostro manifestarci, solo con la nostra immagine, solo con i capelli lunghi. Niente parole. Pasolini procedeva poi, con una lungimiranza profetica, alla critica di questa nuova (per l’epoca) ribellione, contro la generazione dei genitori: i capelloni, non avendo un dialogo con la generazione precedente, non potevano ‘superarla’. Al contrario si trattava di una regressione. Li invitava al dialogo, Pasolini. Parlatene, parlateci. I capelli lunghi, essendo un ‘segno’ senza parole, potevano essere di Sinistra come di Destra (tra gli autori del massacro del Circeo, 1975, uno era capellone).
Parlano invece. Si aprono. Certo, non con i genitori che disprezzano. Parlano con gli amici. Anche solo con i ‘segni’: ‘mostrano’ (da ‘mostro’) il brand di una sneaker, il numero dei follower, un coltello da sub – segni distintivi senza parole. Ed è come parcheggiare lo yacht a Montecarlo: non è mai abbastanza. Non ci sono soldi che bastano. Non esistono più le “Pescara” o le “Milano” o le “Voghera” “bene”. Esiste un mondo dove ci sono gli ultraricchi – italiani, americani, indiani, asiatici, russi – e poi ci sono gli altri. Che non sanno cosa dire. Esseri desideranti. Ultradesideranti. C’era un termine un tempo, e in tanti ne conoscevano il significato, era quasi di uso comune. Significava una bramosia senza oggetto il cui fine non era il possedere qualcosa, ma il possesso in sé, il possesso senza oggetto, il potere (astratto) in luogo della possibilità (concreta). Si chiamava “volontà di potenza” ed era una forma di isteria dell’identità. Oggi se ne parla sempre meno, significherebbe mettere in discussione il modello stesso entro il quale il mondo vive. La ‘volontà di potenza’ viene relegata all’epoca nazifascista, come se fosse il motore di una ideologia autoritaria e bestiale. Ma noi siamo dentro un modello di mondo ideologico e autoritario: quello del denaro, che non solo uccide – anche fisicamente – chi non ne possiede, ma al quale è affidato la creazione dell’identità. E il denaro non parla.
Loro parlano come possono a chi sa ascoltarli, anche se non è un bel sentire. Sì, è una dannazione. Non esiste – e forse non è mai esistita – una società “bene”, se non nelle speranze, nelle pie illusioni. La società è un fagocitarsi a vicenda. Pasolini ci credeva, nel modello identitario passatista: piccoli mondi antichi in cui l’identità era data dal luogo in cui si nasceva e in cui si restava, dai codici di un paese, da una fatalità della classe, di piccoli sogni realizzabili. Ma la ruralità reca con sé una bestialità violenta (di cui, è bene dirlo, Pasolini era vorace). Oggi questi mondi piccoli e violentissimi non esistono più se non nella facciata. Dietro scorre un serpente gigante che chiamiamo rete. La creazione di un’identità attraverso le immagini e le parole è impossibile. I social ci sommergono di modelli, di aspirazioni, di ‘cose’, di ragionamenti, di complotti, di interpretazioni, di lusso, di esibizionismo, di piccole e grandi follie, di tanti punti di vista quanti sono gli account. E così, parlando con loro, parlando con i giovani, parlando con questo “nuovo umano” (non è nuovo, è come sempre è stato, ma adesso lo ‘vediamo’ meglio) ci dicono che “vogliono”. Cosa vogliono? Vogliono e basta. Volontà di potenza: andiamo a comandare.
L’assenza di parole e l’eccesso di parole sono la stessa, identica cosa. La sovra informazione, l’ultra informazione del mondo contemporaneo diventa un rumore bianco. Come diceva Pasolini: si regredisce. L’espressione della propria identità diventa un suono. Non si parla, si emettono suoni. Si mostrano ‘cose’ come code di pavoni. Si torna allo stato di natura. Sopravvive il più forte. Quando l’esibizione di una sneaker, di una maglietta, di un device, di un’auto, di una opinione, non valgono più nulla nel mare magnum delle altre sneaker, delle altre magliette, degli altri device, delle altre auto, delle altre opinioni, resta solo una cosa a dare Potere: la violenza. Voglio il rispetto. Io sono io. Io. Io. Io… I commentatori restano rimminchioniti di fronte a questi episodi di violenza estrema. Tutti a sottolineare che “non c’era disagio sociale”. No? La “Pescara bene” sarebbe quella di una povera (in senso compassionevole) famiglia di impiegati statali? Sì, ragionando secondo i canoni del paniere Istat gli impiegati statali se la passerebbero bene. Se fossimo nel piccolo paese antico senza device, dove già la televisione era una fonte di disturbo e squilibro e liberava sogni deliranti di successo e famosità e volontà di potenza. Ma siamo nell’epoca dei social, dove non c’è ‘bene’ che basti.
Io ci parlo e capisco che vogliono. Non sanno cosa vogliono, ma lo vogliono. A volte, quando le birre diventano troppe, si picchiano tra i tavolini dei bar. I soldi della famiglia ‘bene’ se ne sono andati da un pezzo, nei cristalli di crack, nel fumo, nelle pere, nell’alcol che dà speranze brevi e vane e che alla fine ottunde, nei discorsi che alimentano speranze immancabilmente deluse. Se ne vanno in smartphone, nella droga offerta alle ragazzine sempre più disponibili per una sniffatina, così ci si apre un Of o si inizia a spacciare. Tutti possono fare qualunque cosa. Lo insegnano gli influencer. I social riprendono la televisione che riprende i social. I modelli non mancano. Si esibiscono ricchezze, nudità, e si esibisce anche la malavita. Studiano guardando Gomorra e Peaky Blinders. Funzionano perché vanno a toccare quelle corde lì, le corde della volontà di potenza.
Loro ‘vogliono’. E lo vogliono subito. Come gli influencer, come quelli di Of, come quelli delle serie. Denaro e sesso e violenza (volontà di potenza). Sangue, sesso e denaro: i tre punti cardine di ogni narrazione. E di ogni giornalismo a dire la verità. E vendetta: contro i genitori che non sono mai ricchi abbastanza, contro chi ha più follower, contro chi manca di rispetto. Risucchiati dagli schermi senza alcuna capacità di filtrare le immagini. Bambini che si muovono in un mondo che non sanno più interpretare se non attraverso denaro, sesso e violenza (volontà di potenza): i tre punti cardine per vendere qualcosa. Per vendere qualcosa che si spaccia per identità e che invece è lontanissima dall’esserlo. Loro parlano. Dicono di volere. Non sanno cosa vogliono ma lo vogliono. Non pensano. Appartengono a un gruppo. Vogliono primeggiare nel loro gruppo. Hanno l’identità dona loro il gruppo. Senza gruppo niente identità. A volte scatta la violenza. Non è vero che non li capite. Li capite benissimo anche se fingete sorpresa. Sapete benissimo che loro vogliono senza sapere cosa vogliono. E lo sapete perché voi siete uguali a loro. Non avete un io e disperatamente lo volete. Siete umani. E siete disperati.
P.s. Sono al contempo d’accordo e in totale disaccordo con Francesco Merlo, che oggi, a proposito di questo delitto scrive: “A Pescara è colpevole la solita gioventù bruciata e, in una gara di pensosità e di profondità, c'è chi accusa la scuola e chi biasima i telefoni cellulari, e ovviamente i genitori non sanno educare, e poi ci sono le responsabilità della musica, delle serie tv, il vuoto dei modelli che non sarebbero più quelli di una volta, la società tutta. Mi creda, il sociologismo è una malattia ideologica infettiva”. Sì, concordo, ma Merlo, per così dire, taglia il nodo di Gordio e si macchia di ignavia. Bisogna sciogliere il ragionamento per consentirsi l’ignavia senza sensi di colpa. Il mondo è questo e lo è da sempre. Ragionarci su vuol dire soltanto cercare di metterci una pezza. Che è meglio di fottersene, come suggerisce il caro Francesco. Fottersene responsabilmente è una forma di ignavia più chic. Fottersene come Francesco è solo pigro snobismo.
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gregor-samsung · 1 year
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“ Il dialetto gaddiano, il romanesco del Pasticciaccio tanto spesso avvicinato a quello pasoliniano, entra in un rapporto ludico complesso con la lingua, con i suoi differenti livelli, e nel gioco quello che conta è la scrittura, l'artificio della scrittura come suprema abilità di maneggiare (e magari di distruggere, ma dall'interno) il registro del simbolico, la comunicazione (e la tradizione) letteraria. Al contrario il romanesco pasoliniano vuole prima di tutto essere puro suono, nasce indifferente ai significati, esterno alla comunicazione, posto al servizio di un progetto di ipnosi, di trance. È un dialetto "brutto", rigorosamente privo di tensioni formali, tutto concentrato sulla propria noia. Se nei primi racconti di Alí l'artificio letterario tradizionale, inteso come abilità ed eccezionalità linguistica, era ancora ben presente, col dialetto dei romanzi passa in secondo piano e ci sembra di leggere semplici registrazioni vocali. La letterarietà dell'operazione si è spostata, ha cambiato scopo. L'« intervento dello scrittore in quanto tale »* non si indirizza piú al perfezionamento interno della scrittura, ad esibire gli artifici, le astute scelte, a molare e render "bello" il pezzo testuale; ma punta piuttosto all'effetto finale, pratico, del testo: non interessa la tenuta estetica ma il potenziale di fascinazione che il testo può produrre. Perciò i romanzi pasoliniani, nonostante le apparenze spesso alessandrine, possono anche mostrare rozzezze, e trascuratezze di scrittura. Il romanesco non è affatto un registro "d'arte", viene adottato e trascritto in una chiusa brutalità che lavora efficacemente come un suono addormentatore. Tale vistosa modifica della letterarietà testuale chiarisce le profonde differenze tra l'operazione dialettale romana e il precedente friulano. Nel Friuli il dialetto funzionava come metafora della dimensione immaginaria ma conservava tutti i segni "letterari" del gergo ermetico. L'immaginario era messo in gioco per via di metafora, proprio attraverso la strumentazione raffinata dell'artificio: la cantilena ipnotica del fantasma era prima di ogni altra cosa una scrittura, un'elaborazione testuale, e fingeva abilmente di essere il suo contrario, l'oralità liberata di un registro pre-linguistico. Ora invece l'esperimento pasoliniano è diverso, molto piú radicale. Ora il dialetto dei romanzi, appiattito nella ripetizione, è letteralmente quella oralità dell'immaginario. Se volessimo servirci di una sottile distinzione potremmo dire che il friulano era una « scrittura », il romanesco è invece una « trascrizione » del fantasma.** Certo, anche nel caso del romanesco il dialetto è prima di tutto linguaggio, quindi interno alla generale dimensione della comunicatività; ma Pasolini ne fa un uso così speciale, così limitato (fatto di formule, di indifferenza, quasi di cecità linguistica), che il salto dal dialetto-linguaggio al dialetto-fantasma è facilissimo. Il romanesco, così ridotto e impoverito, è una catena di significanti, senza semantica, e una tale catena non riesce neppure a localizzarsi come sistema di opposizioni, di simboli, di segnali riconoscibili e produttori di senso: insomma, il puro significante di questo dialetto non riesce a diventare organizzazione, griglia simbolica dentro la quale ordinare le cose. “
*Si veda la dichiarazione pasoliniana: « Per assumere nel romanzo il colloquio in dialetto occorre perciò un intervento dello scrittore in quanto tale molto piú accentuato e dichiarato che in una pagina scritta nell'italiano letterario ». Cfr. F. Camon, Il mestiere di scrittore, Milano, 1973, p. 107. **Ci serviamo di una distinzione enunciata da Lacan, a proposito dei suoi seminari, nella Postface a J. LACAN, Le séminaire livre Xl. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse, Paris 1969, pp. 251-254.
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Rinaldo Rinaldi, Pier Paolo Pasolini, Ugo Mursia Editore (collana Civiltà letteraria del Novecento - Profili N. 40), 1982¹; pp. 145-46.
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bones39 · 6 months
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Ci sono molte storie ispiratrici di persone che hanno affrontato la paralisi o il dolore cronico per compiere grandi imprese.
Un esempio notevole è quello di Stephen Hawking, il celebre cosmologo e fisico teorico, che ha continuato a fare importanti contributi alla scienza nonostante la sua battaglia contro la sclerosi laterale amiotrofica (SLA) che lo ha reso paralizzato. Hawking è stato un esempio straordinario di determinazione e intelligenza, dimostrando che la mente può superare molte limitazioni fisiche.
Un'altra storia ispiratrice è quella di Frida Kahlo, l'artista messicana famosa per i suoi autoritratti. Kahlo ha vissuto con dolore costante a causa di un incidente d'auto che ha subito da giovane, che ha lasciato il suo corpo gravemente ferito. Nonostante il dolore e le disabilità fisiche, ha continuato a dipingere opere iconiche che hanno influenzato profondamente l'arte contemporanea.
Inoltre, Rick Hansen, un atleta canadese, ha attraversato il mondo in una sedia a rotelle per sensibilizzare sulle disabilità e raccogliere fondi per la ricerca sulle lesioni del midollo spinale. La sua "Man in Motion World Tour" è stata un'impresa straordinaria che ha ispirato milioni di persone e ha contribuito a migliorare la consapevolezza sulla disabilità.
1. **Nick Vujicic**: Nato senza braccia e gambe a causa della tetra-amelia, Nick Vujicic ha superato le sue sfide fisiche per diventare un motivatore e oratore di fama mondiale. Viaggia in tutto il mondo con il suo messaggio di speranza e incoraggiamento, ispirando milioni di persone a superare le proprie difficoltà.
2. **Wilma Rudolph**: Nonostante fosse stata colpita dalla poliomielite da bambina e avesse perso l'uso di una gamba, Wilma Rudolph è diventata una delle più grandi velociste della storia. Ha vinto tre medaglie d'oro olimpiche nelle Olimpiadi del 1960 e ha infranto numerosi record mondiali, dimostrando che la determinazione può superare qualsiasi ostacolo.
3. **Kyle Maynard**: Nato senza arti inferiori e superiori a causa di una rara condizione chiamata amputazione congenita bilaterale delle estremità superiori e inferiori, Kyle Maynard ha sfidato le aspettative diventando un atleta e un alpinista di successo. Ha scalato il Kilimangiaro e il Monte Aconcagua, dimostrando che la forza interiore può superare qualsiasi ostacolo fisico.
4. **Helen Keller**: Nonostante fosse sorda e cieca fin dall'infanzia a causa di una malattia, Helen Keller è diventata un'icona del coraggio e dell'ottimismo. Ha imparato a comunicare attraverso il linguaggio dei segni e ha ottenuto una laurea, diventando una nota autrice e attivista per i diritti delle persone con disabilità.
5. **Jessica Cox**: È diventata la prima pilota senza braccia al mondo a ottenere la licenza per pilotare un aereo. Nonostante sia nata senza braccia a causa di una rara condizione congenita, Jessica ha imparato a gestire la sua vita quotidiana con i piedi e ha dimostrato che le limitazioni fisiche non devono impedire il raggiungimento dei propri obiettivi.
6. **Bethany Hamilton**: Surfista professionista statunitense che ha perso un braccio in un attacco di squalo all'età di 13 anni. Nonostante la sua disabilità, Bethany è tornata sulle onde e ha continuato a competere con successo nel surf professionale. La sua storia è diventata fonte di ispirazione per molte persone in tutto il mondo.
7. **Arjun Vajpai**: Diventato il più giovane scalatore indiano ad aver raggiunto la cima dell'Everest all'età di 16 anni. Arjun ha affrontato sfide fisiche e mentali durante la sua ascensione, dimostrando che la determinazione e il coraggio possono superare anche le più grandi montagne.
8. **Marlee Matlin**: È diventata la prima e unica persona sorda ad aver vinto un premio Oscar come miglior attrice per il suo ruolo in "Children of a Lesser God". Nonostante sia sorda dalla giovane età, Marlee ha superato le barriere linguistiche e ha avuto successo nel settore cinematografico, diventando un'icona per la comunità sorda.
10. **Jillian Mercado**: È una modella e attivista che ha una forma di distrofia muscolare congenita che la costringe su una sedia a rotelle. Tuttavia, questo non le ha impedito di avere una carriera di successo nel mondo della moda. Ha lavorato con marchi famosi come Diesel e Nordstrom, contribuendo a promuovere la diversità e l'inclusione nell'industria della moda.
11. **Chris Norton**: Dopo un incidente durante una partita di football americano al college che lo ha reso paralizzato dalla vita in giù, Chris Norton ha dimostrato una straordinaria resilienza. Ha fatto grandi progressi nella riabilitazione e ha compiuto il suo primo passo alla laurea, in piedi con l'assistenza, il giorno della sua cerimonia. Inoltre, ha fondato la Chris Norton Foundation per sostenere gli altri con lesioni del midollo spinale.
12. **Zahra Nemati**: È una arciera iraniana che ha subito un grave incidente stradale all'età di 18 anni, che l'ha resa paraplegica. Tuttavia, ciò non ha fermato la sua passione per lo sport. Zahra ha continuato ad allenarsi duramente e ha partecipato con successo alle Olimpiadi, vincendo medaglie d'oro e ispirando milioni di persone in tutto il mondo.
13. **Nicky Abdinor**: È una psicologa e motivatrice sudafricana nata senza braccia. Nonostante la sua disabilità, ha ottenuto una laurea in psicologia e ha fondato la propria azienda di consulenza. Viaggia in tutto il mondo per ispirare gli altri con il suo messaggio di speranza e autostima, dimostrando che non ci sono ostacoli più grandi della tua mente.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti 
AI CONFINI DEL PENSIERO
La maggior parte di noi è indotta a credere che il "pensare" sia costituito da parole: le parole sono gli strumenti che permettono di attribuire significati, e questi sono cardini sui quali scorre la funzione razionale.  Eppure, il pensiero non avrebbe vincoli di natura razionale. Pensare può essere un abisso nel quale, tuffandosi con coraggio, si scorgono altre grammatiche e altre sintassi che nulla hanno in comune con le parole, se non il disegnare sensazioni e stati d'animo. Si tratta di "segni", infiniti "significanti" ai quali non appartengono "significati" univoci. Il linguaggio della "follia" è dato dalla bellezza di un colore, dalla semplicità di una linea, dalla combinazione di geometrie inconsuete capaci di espressioni visive che rifiutano ogni formulazione razionale, che narrano di un "logos" sconosciuto ma che appartiene alla sublime espansione dei pensieri. Alcuni artisti sono riusciti a dare la qualità della forma alle molteplici accezioni del pensiero, Paul Klee, tra questi: la sua esplorazione del reale, lo ha condotto ad intuire le presenze invisibili che ci abitano chiedendo voce. Così, ogni rappresentazione che appaia incomprensibile, deve essere letta attraverso i codici dell'abbandono ai sensi im-mediati, un abbandono che apre i confini di tutto il "possibile impensato". È la favola struggente che abbiamo sempre sperato di vivere. Ma che non abbiamo mai saputo evocare.  Appartiene al mondo nascosto in ciascuno di noi, una "realtà" che ci sfiora con le espressioni di un linguaggio dimenticato.
- Paul Klee (1879 - 1940): "Strada principale e strade secondarie", 1929, Ludwig Museum, Colonia
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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incidentale · 2 years
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patato sethu che ringrazia pure nel linguaggio dei segni 🫶
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omarfor-orchestra · 1 year
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Tg2 costume e società che fa un servizio di elogio ai servizi Rai per non udenti, dal linguaggio dei segni nei festival di musica ai sottotitoli Vs i sottotitoli di vivere non è un gioco da ragazzi sminchiati nei primi 40 secondi
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diariomamace · 2 years
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sto leggendo, a piccolissime dosi e molto frammentato, "le mani della madre" di recalcati. cercando di andare oltre il fastidio fisico che talvolta mi provoca il personaggio (ormai da salotto televisivo) ci sono spunti interessanti che mi fanno riflettere..
mi piaceva condividere con voi alcuni (brevissimi) stralci, con l'unico intento di accendere un lumino, chissà talvolta nel buio possa far comodo. il taglio è fortemente psicanalitico e PER NULLA politico, purtroppo. premettendolo e sapendolo, da forse meno fastidio....
"sul volto della madre"
(...) Solo attraverso il volto dell'Altro posso incontrare il mio volto, solo grazie alla presenza dell'Altro posso costruire la mia vita. (...) La teoria Lacaniana dello stadio dello specchio illustra bene come l'Io i costituisca solo riconoscendo la propria immagine che lo specchio gli offre nella forma di un Altro. Per potersi riconoscere come soggetto differenziato, deve vedersi riflesso in un'immagine di sè che solo l'Altro può restituirgli. (...) C'è stato un tempo in cui per ciascuno di noi il volto del mondo ha coinciso con il volto di una madre; c'è stato un tempo in cui il mondo aveva l'aspetto del volto di una madre.
(...) i disturbi della relazione primaria con la madre coincidono sempre, non casualmente, con la possibilità per il bambino di abitare creativamente l'apertura del mondo. (...) quando una madre guarda il suo bambino vi deposita inconsciamente gran parte della sua storia di figlia. "
"lalingua"
"La nascita della vita è sempre nascita del mondo, cioè nascita della lingua. IN ogni nascita rinasce sempre, nuovamente, la lingua. Questa lingua non è certo quella racchiusa nel codice anonimo del linguaggio, ma una lingua, che Lacan nomina lalangue, fatta di carne, affetti, emozioni, lallazioni, segni, suoni, gesti, bisbigli, corpo, una sorta di sciame che non risponde ancora alle leggi del linguaggio, ma che ne costituisce la materia prima sulla quale quelle leggi si applicheranno. Si tratta di una lingua del corpo, irriducibile ai suoi elementi grammaticali. Si tratta di un primo deposito stratificato di segni generatosi dalla relazione tra la madre e il bambino."
e a proposito di ciò, come si può non accogliere notizie come questa come una bestemmia tremenda... https://www.ilfattoquotidiano.it/2023/02/17/i-neonati-parlano-piu-lingue-attraverso-il-pianto-arriva-la-app-che-traduce-il-bambinese-e-aiuta-i-genitori-a-comprendere-i-bisogni-dei-bebe/7031887/
"sul desiderio"
"Con il riferimento al "desiderio della madre" -centralissimo in tutto l'insegnamento di Lacan- non si tratta tanto di negare l'importanza della dimensione costante e affidabile della presenza della madre, quanto piuttosto di mostrare che, per essere una madre davvero "sufficientemente buona", è indispensabile che il desiderio della donna che è diventata madre non si risolva mai del tutto in quello della madre. Ecco il punto chiave: la differenza, la discontinuità della donna dalla madre.
(...) Come madre può continuare ad offrire l'ossigeno necessario alla vita (...) solo se può esistere come donna.
(...) Quando la madre cede alla collera ed all'irrequietezza è, molto spesso, perchè la donna rigetta il suo sacrificio avanzando richieste irriducibili a quelle della maternità. L'irrequietezza della madre può essere il segno dell'esorbitanza della donna rispetto alla madre.
(...) La cultura patriarcale ha inseguito per secoli questo miraggio: la riduzione della donna a madre era finalizzata a cancellare l'eccesso ingovernabile della femminilità."
.....che boccata d'aria mi hanno regalato queste ultime righe..come una licenza a guardare la mia irrequietezza coe qualcosa di non-sbagliato, di non-dannoso per i miei figli... e il tono assieme ad alcune parole chiave si sono portate dietro con estrema chiarezza l'insegnamento di clarissa pinkola estes in donne che corrono coi lupi. la lupa irrequieta che ulula alla sua libertà.
"sulla cura"
"Nell'epoca in cui domina a tutti i livelli della nostra vita individuale e collettiva un'accelerazione del tempo che sembra far venire meno ogni "interesse particolareggiato" la lezione della maternità evidenzia, al contrario, la centralità del tratto singolare e, per questo, mai ideale del sogetto. L'amore materno, se è amore per il nome, non è mai amore di una rappresentazione ideale del figlio, ma è piuttosto amore per la sua irregolarità, è amore per la sua stortura. Un noto detto napoletano lo ricorda efficacemente: "Ogni scarrafone è bello a mamma sua"."
hahaha con questa nota ilare chiudo, allegandovi una prova video del nostro esegeta della maternità ;)
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loveint-diario · 2 years
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L’aria frizzante profumata di sale dell’estate era diventata bagnata odorante di terra, il sole al tramonto non si nascondeva più oltre Licata, aveva ripreso a tuffarsi nel mare e questi erano i segni che l’autunno stava iniziando a Gela, dove ancora nel 2014 risiedevo e lavoravo. Un’amica conoscendo la mia passione per la fotografia mi parlò di Instagram, dicendomi che era un’app che permetteva alle persone di condividere foto con una breve didascalia, sulla quale anche artisti e fotografi condividevano i loro lavori. L’applicazione era gratuita, bastava scaricarla, registrarsi creando un account e subito si potevano condividere foto, seguire altri user ed essere seguiti da follower.
Instagram è un social media, un servizio di rete sociale basato sulla condivisione di immagini, foto e video, creato nel 2010 e di proprietà di Meta e quindi di Mark Zuckerberg, dal 2012. Il nome deriva dall’unione dei termini Instant Camera e Telegram perché quando fu creata, i suoi sviluppatori la concepirono per consentire la condivisione di foto istantanee accompagnate da un breve testo, che potevano essere catturate dalla fotocamera del proprio cellulare, all’inizio solo per iPhone, e che potevano essere condivise subito in rete. Dalla sua nascita Instagram ha avuto una crescita ogni anno sempre maggiore in termini di numero di utenti e di sviluppo di interfaccia, desing e funzionalità, ma è rimasta sempre un’applicazione scaricabile gratuitamente.
Chiunque si occupi per passione o per lavoro di fotografia, o di immagini e grafica digitali, sa quanta memoria occupino sui propri supporti questi dati; e sa anche quanti giga si consumino nella condivisione di queste immagini, per cui senza voler essere maliziosi, viene da chiedersi come possa una piattaforma fornire gratuitamente, a milioni di utenti, uno spazio infinito di archiviazione di dati senza guadagnarci nulla. Persino un account di posta elettronica gratuito pone un limite di archiviazione di dati, superato il quale è necessario pagare il servizio, mentre invece, un social media offre a milioni di persone, la possibilità di archiviare le fotografie e i video di tutta una vita, senza chiedere in cambio niente.
Niente è gratuito, ogni volta che prendiamo qualcosa gratis la ripaghiamo in perdita di freschezza o di qualità del prodotto ma soprattutto in sicurezza per noi stessi.
Il termine account, letteralmente ‘conto’, o esteso user account ‘conto utente’, è preso dal linguaggio bancario e indica un conto corrente. Un conto bancario è generalmente nominale, infatti diamo il nostro documento d’identità per aprirne uno, ci consente di accedere a determinati servizi, ma cosa più importante ci consente di mantenere in sicurezza le nostre risorse economiche, se vogliamo ciò che ci permette di mantenerci, i nostri averi.
In informatica, un account è un utente registrato ed identificato presso un sito web, che ha la possibilità di usufruire dei servizi messi a disposizione dal sito. Il sistema informatico è in grado di riconoscere l’identità del titolare di un account, ne memorizza i dati e conserva informazioni ad esso attribuite, utilizzando questi dati e queste informazioni per generare un profilo utente associato all’account e permettergli così, di usufruire dei suoi servizi. Pensando al nostro account su Instagram, l’app conserva le nostre memorie fotografiche e i nostri video, il luogo, il giorno e l’ora in cui le abbiamo scattate e condivise, anche se i due momenti di cattura e condivisione possono non coincidere conserva tutti i dati; il nostro profilo permette all’app e agli altri di identificarci e questo ci consente di continuare a condividere le nostre immagini e i nostri video, per farci conoscere o fare conoscere le nostre opere, i nostri prodotti, le nostre abitudini, i nostri animali domestici, i nostri figli, le nostre figlie, i nostri amici, i posti che visitiamo viaggiando, ma anche informazioni come il nostro bar preferito, il nostro libro preferito, l’interno della nostra abitazione, il nostro volto.
È davvero un ‘conto corrente’ nel quale stiamo depositando il nostro tesoro più caro: la nostra vita e la nostra privacy. Ma questo ‘conto corrente’ non è nostro, appartiene all’applicazione che per funzionare correttamente deve anche avere il permesso di accedere alla nostra fotocamera, alla nostra galleria e ai nostri contatti. Instagram conserva i nostri dati e apprende informazioni su di noi e sul nostro comportamento attraverso l’utilizzo che facciamo non solo del servizio, perché autorizziamo il suo accesso a dati che non riguardano il servizio, riguardano la nostra privacy, apprende rastrellando dati anche quando non utlizziamo l’applicazione. Inoltre, attraverso una procedura gamificata ci addestra a condividere sempre di più e in maniera sempre più personalizzata le nostre vite, ci addestra a non poter più fare a meno di avere un account su Instagram, uno su Facebook, uno su WhatsApp, eccetera, eccetera.
È il caso di chiederselo: abbiamo un account su Instagram o siamo noi il ‘conto corrente’?
Quando nel 2014 anche io ho scaricato l’applicazione sul mio cellulare creando un mio personale account, non conoscevo niente di tutto questo, tanto che avevo creato il mio profilo con il mio nome, il mio cognome e persino la mia foto. Pensavo che si trattasse di un social che promuoveva davvero una libera condivisione, solo dopo molto tempo mi accorsi che nella piattaforma nulla era libero, ogni azione degli utenti veniva manipolata e veicolata secondo la logica della prestazione, mirando ad aumentare sempre di più il tempo di permenenza degli utenti stessi sulla piattaforma e in rete, aumentando così la loro condivisione di dati e metadati, e aumentando di conseguenza la qualità e la quantità d’informazioni su di noi, e i nostri comportamenti, che il sistema informatico poteva acquisire, conservare e utilizzare per gestire il nostro profilo.
Instagram era semplice da usare, la sua procedura era facile da apprendere, una volta creato il tuo profilo, potevi caricare dalla tua galleria una foto, o scattarla istantaneamente dal tuo cellulare (al tempo lo smartphone si chiamava cellulare, era ancora solo una cellula dello sviluppo tecnologico, non un telefono intelligente…), potevi aggiungere a piacere filtri, cornici, una breve didascalia, al tempo erano solo 160 caratteri e non c’erano gli emoji o come si chiamarono in principio gli emoticon, infine potevi postarla sul tuo profilo, dove sarebbe rimasta conservata sulla tua galleria personale. Postare una foto significava condividerla con i propri seguaci e, utilizzando gli hashtag, condividerla con chiunque avesse fatto una ricerca seguendo quel tema specifico, per esempio #natura. Adesso cosa sia un hashtag lo sappiamo tutti, ognuno ha un account su diversi social, ma al tempo era qualcosa di nuovo e aveva una funzione specifica, creare contesti e gamificarli, renderli un gioco con il quale attirare sempre più partecipanti.
L’interfaccia di Instagram nel 2014 era semplice, non molto differente da quella attuale, ma più essenziale e minimalista. La barra degli strumenti in basso aveva pochi comandi. Una home che, scorrendo il dito sullo schermo proprio come lo scorrere di una slot-machine, permetteva di vedere le pubblicazioni degli utenti seguiti, una lente d’ingrandimento per fare ricerca digitando uno specifico account o un hashtag, oppure seguire le proposte suggerite dalla piattaforma stessa in base alle tue preferenze, ai tuoi post e ai tuoi contatti. Al centro della barra degli strumenti c’era un simbolo, una croce dentro un quadrato che si utilizzava per caricare l’immagine che si voleva postare, a seguire un cuore, usato per visualizzare i like ricevuti, i follower aggiunti e le attività degli utenti che seguivi. L’ultimo simbolo a forma di omino con testa rotonda e una mezza circonferenza per busto, permetteva di accedere al proprio profilo, alla propria galleria. Non esistevano i messaggi diretti, non esistevano ancora i collage e le storie o le dirette, si poteva postare solo una foto per volta e la si poteva condividere solo nel formato 1:1, quello della fotocamera dei primi iPhone.
A quel tempo l’account ufficiale di Instagram ogni venerdì lanciava un contest, una call, un gioco a tema, gli instagramer erano chiamati a partecipare condividendo foto che avessero per tema quello scelto da Instagram e a condividerle con l’hashtag creato e suggerito dalla piattaforma. Avevano tempo fino al lunedì successivo, quando Instagram avrebbe postato nel corso della giornata, le foto dei cinque fotografi prescelti per aver rappresentato meglio il tema della competizione.
I vincitori guadagnavano solo la menzione e una quantità impressionante di follower, nessun guadagno economico o materiale era previsto. Il modello di gioco promosso da Instagram presto generò un moltiplicarsi di account tematici che pubblicavano, dandogli visibilità, le foto di account inerenti al loro tema o che postavano usando l’hashtag da loro creato. Lo si poteva fare con qualsiasi tema: tramonti sul mare, paesaggi innevati, il tuo gatto, la tua colazione, interni da sogno, hicking, si potevano creare infiniti contesti per invogliare gli utenti a condividere sempre di più, a seguire costantemente le attività sul social, a partecipare commentando, cliccando, ripostando.
Gli istagramer volevano vincere, essere menzionati, vedere la loro foto pubblicata, avere tanti follower. Iniziarono a nascere gli storytellers e tanti corsi per insegnare a tutti come avere successo su Instagram, che di solito avevano tra questi consigli quello di pubblicare costantemente, di essere sempre presenti. Nacquero app che permettevano di monitorare i propri miglioramenti sul social, alcuni acquistavano pacchetti di follower e tutti, proprio tutti volevano diventare virali. Arrivarono infine gli influencer che suggerivano a tutti cosa fare, come e quando farlo per raggiungere il successo che avevano raggiunto loro stessi con i propri post virali. Il primo consiglio degli influencer fu quello di metterci la faccia. I selfie divennero virali.
Chissà cosa penserebbe di queste metafore Susan Sontag se fosse viva oggi…
Non mi azzardo ad ipotizzarlo, certo è che il gioco a cui giochiamo senza rendercene conto, ha un obiettivo molto strano, quello di farci diventare virali, e una probabilità di essere raggiunto pari a quella di vincere la lotteria di Capodanno.
Il successo corrisponde alla fama, alla celebrità, alla ricchezza economica, al potere informatico; le regole del successo le dettano gli pseudoambienti gamificati, per vincere bisogna essere unici, competitivi e vincenti, quello che viene offerto in cambio è un antidoto alla solitudine, all’anonimato, è la sicurezza di esserci.
La paura di scomparire, quella di non essere nessuno, di essere dimenticati hanno a che fare con la paura della morte, sono le paure generate dalle questioni irrisolte di chi vuole percepirsi immortale, non vuole fare i conti con l’angoscia che questa evidenza genera, non vuole dover vivere la propria vita, includendo in essa l’informazione che è a termine e che quando finirà non potremo portare con noi nulla di quello che possediamo adesso, né titoli né tesori.
Come suggeriva Agnese Trocchi la ludicizzazione dei contesti è rassicurante, tende all’infantilizzazione del comportamento, a scoraggiare la facoltà di scegliere, a non sviluppare una riflessione autonoma, ad agire secondo modalità automatizzate e a ci porta a trascorrere molto del nostro tempo guardando uno schermo convinti di stare condividendo qualcosa con i nostri simili.
La paura e la solitudine trovano un piccolo sollievo quando dopo aver postato una foto i nostri seguaci lasciano un commento, ci augurano una buona serata, lasciano una fila di emoji. Commentiamo a nostra volta le foto  degli account che seguiamo e mandiamo avanti questa pseudosocialità, fatta di giochi, di chiamate alla competizione, di complimenti, di insulti, di storie d’amore, di amicizie che spariscono così come sono arrivate nel nulla, di micro mondi che imitano e riproducono il mondo reale. Lo facciamo senza rendercene conto, ogni giorno dedichiamo tempo al nostro profilo, alla nostra comunità ma le regole non cambiano e la paura e la solitudine restano proprio lì dove le abbiamo lasciate, prima di metterle in standby giusto il tempo di essere assorbiti dal flusso gamificato del social. Così come aveva suggerito Sontag, strumentalizzare la paura del contagio aveva avuto l’effetto di isolare le persone le une dalle altre, di scoraggiare il contatto e la socialità fatta di incontri e di prossimità, di incoraggiare una salute fisica che fosse più orientata all’estetica dei corpi e al loro apparire su uno schermo televisivo, tanto che la tecnologia ha veramente fornito oggi nuovi e popolari strumenti per stimolare il desiderio, proteggendolo dai rischi e rendendolo il più possibile mentale.
Il desiderio è mentale e anche questo come la paura e la solitudine è stato addestrato.
Roma 19 dicembre 2022 h: 18:48 am – 29 dicembre 2022 h: 1:08 pm
Capitolo 15 Love Gaming - IV Parte
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fashionbooksmilano · 2 years
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Angela Occhipinti  Il viaggio
Opere 2000-2004
a cura di Marco Meneguzzo
Edizioni Gabriele Mazzotta, Milano 2004, 95 pagine, Brossura, 24 x 22 cm,  Testo italiano e inglese, EAN  8820216914
euro 12,00
email if you want to buy :[email protected]
Fondazione Stelline, Sala del Collezionista, Milano 9-26 giugno 2004
Angela Occhipinti ha lavorato molto sul tema del viaggio e per lei le mete, quelle vere, sono nascoste dietro la curva del cuore e il viaggio è anche la metafora della vita. Lei crede che ognuno di noi ha nel sangue quelle mete e solo attraverso i viaggi si può avere la misura della distanza che ci separa dalle realtà sconosciute.
Per lei “il Viaggio” è scuola di vita e di pensiero, è una ricognizione anche mentale dove ogni forma prende origine e altrettanto misteriosamente scompare. Ogni viaggio scaturisce in lei una tristezza sonora, malinconica e contemplativa, che si traduce in un linguaggio di segni e di combinazioni di simboli pressoché infiniti. Tutto diventa motivo per caricare i suoi oggetti in reperti di penetrante suggestione, che richiedono quel silenzio che si addice alla memoria e alle memorie.
Angela Occhipinti riesce a trasformare i ricordi del viaggio in nuove icone, che vanno dai grandi polittici polimaterici al minimo frammento di carta; ogni opera si carica di rievocazioni, conoscenze, colori e luce; un lungo viaggio verso lo svelamento del contenuto.
Ha viaggiato e soggiornato in Nepal, Birmania, India, Tailandia, Bali, Giappone, Corea, Cambogia, Vietnam, Taiwan, Hong Kong, Cina, Tibet, Russia ecc…. Ha visitato tutta l’Europa fino alla Scandinavia e considera i fiordi norvegesi uno spettacolo unico ed irripetibile. E’ rimasta incantata dall’Islanda, con i suoi fiumi glaciali, le stupende cascate, e le sorgenti calde come la grande fontana geotermale del Geysire e dalla fauna selvatica dell’Alaska nel parco nazionale di Anchorage.
Ha subito il fascino della magia dei deserti dell’’Africa , della California, dell’ Arizona e del Cile.
Sono dentro di lei i colori della Valle della Morte e il silenzio mistico del deserto è ancora vivo nella sua mente come un miraggio pieno di mistero, trafitto da incisioni rupestri che raccontano il passaggio dell’uomo. Anche la suggestiva e grandiosa bellezza del Gran Canyon e del suo parco con le secolari sequoie hanno scavato in lei solchi profondi di emozioni.
18/11/22
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rideretremando · 2 years
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"Poiché l'inclusione è una cosa molto seria, e sull'inclusione (e contro ogni forma di discriminazione) mi batto da anni, in ogni luogo possibile, del linguaggio inclusivo bisogna parlare in modo responsabile, partecipe, consapevole. Il prossimo appuntamento per me sarà all'Università di Milano. In attesa di svelare qualcosa sul mio libro "scientifico" in uscita (in inglese) su un così delicato argomento, riepilogo qui di seguito le dieci ragioni per le quali ritengo inaccettabile l’immissione dello schwa (e di altre modalità analoghe) nell’italiano corrente.
1. Il pericolo di un’“ufficializzazione”. Lo schwa, semplice (ǝ) e “lungo” (з), è stato accolto in sei verbali redatti dalla Commissione per l’Abilitazione Scientifica Nazionale alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia del Settore concorsuale 13/B3 – Organizzazione Aziendale. Entrambi i segni compaiono anche nei giudizi collegiali sui candidati, e in quelli formulati singolarmente dal Presidente, dal Segretario e da un terzo membro dei cinque commissari (nei suoi giudizi, però, in un unico caso, con riferimento a un solo candidato: «Professorǝ Associato»). Con l’importazione dello schwa in un testo “codificato”, un libro, un documento o un pezzo giornalistico, impattiamo in un’aberrazione linguistica, un corpo estraneo all’italiano.
2. L’impulso alla generalizzazione. Nei sei verbali i cinque Commissari hanno utilizzato gli schwa in modo indiscriminato, in riferimento a loro stessi e in riferimento ai candidati e alle candidate, come fossero tutti portatori di identità non binarie.
3. La natura destrutturante dell’innovazione. Lo schwa non è un semplice neologismo, perché viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua, e immetterlo in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza di fatto chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o a disseminarlo di "ke", "xké" o "qlc1" (invece di "che", "perché" e "qualcuno").
4. L’estensione al parlato. Pretendere di trasferire lo schwa alla lingua parlata, stante la limitazione posta al suo utilizzo (la posizione finale), trasformerebbe l’intera penisola, se adottassimo la vocale neutra che lo rappresenta, in una terra di mezzo compresa pressappoco fra l’Abruzzo, il Lazio a sud di Roma e il calabrese dell’area di Cosenza. Sarebbe la rivincita dell’Italia meridionale e mediana contro il modello normativo tosco-fiorentino. Un’idea che sarà pure simpatica, ma è peregrina.
5. La cancellazione dei femminili. Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai "candidati" e alle "candidate", agli "autori" e alle "autrici", e così via, o si poteva parlare di "persone" e chiuderla lì. La scelta di plurali inclusivi come "autorǝ" o "coautorз", anziché contrastare davvero i maschili "autori" e "coautori", spedisce in soffitta i femminili "autrici" e "coautrici".
6. La “dittatura” di una minoranza. Una cosa è chiedere al nostro interlocutore di venirci in qualche modo incontro, con le forme e le parole più adatte e rispettose possibili, se ci siamo scoperti portatori di un’identità incerta o fluttuante, un’altra cosa è pretendere che le norme linguistiche di un’intera comunità nazionale soggiacciano alla prepotenza di pochi, intenzionati a scardinarle con la generalizzazione di usi linguistici teratologici.
7. L’aggravamento di disturbi neuroatipici. Il 4 maggio 2021 il ministro francese dell’Educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, ha inviato una circolare ai direttori amministrativi centrali, ai provveditori agli studi e al personale ministeriale. L’atto, pur incoraggiando forme auspicabili di scrittura inclusiva, come il femminile dei nomi di professioni e mestieri, ne vietava altre, colpevoli, specie ai danni di allievi dislessici (ma anche disgrafici, o altro), di rendere più difficoltosa la lettura, oltreché l’apprendimento, dell’idioma nazionale. Nel 2017 un’altra circolare francese (22 novembre), diramata dal primo ministro Édouard Philippe, aveva invitato i membri del Governo a rinunciare all’écriture inclusive nei documenti ufficiali destinati al pubblico, per non pregiudicarne l’intelligibilità e la chiarezza.
8. La proliferazione incontrollata. La moltiplicazione delle pensate ambigenere, agenere o antigenere è ormai inarrestabile. Devi scrivere ai tuoi colleghi e alle tue colleghe di lavoro? Hai l’imbarazzo della scelta:
"Caro collega, cara collega": "Car* collega", "Caro/a collega", "Car@ collega", "Caro-a collega", "Caro(a) collega", "Carx collega", "Caro.a collega", "Caro·a collega", "Car’ collega", ecc.;
"Cari colleghi, care colleghe": "Car* collegh*, "Carə colleghə", "Cary colleghy", "Carei colleghei" (o "Carie colleghie"), "Carз collegз", "Caru tuttu", ecc.
9. L'elitarismo dell'operazione, nemica dell'idea stessa di una lingua nazionale da intendersi come un bene comune, patrimonio di tutti i suoi parlanti e di tutti i suoi scriventi. L'applicazione sistematica dello schwa è talmente complessa da aver indotto in errore anche i più smaliziati o presunti tali (come i commissari universitari anzidetti, incoerenti nelle loro farsesche scelte schwaiste).
10. L’assenza del neutro nella nostra lingua. Il genere grammaticale è una cosa, il genere naturale un’altra. L’italiano ha due generi (il maschile e il femminile). Il neutro, residui del latino a parte, non l'abbiamo."
Massimo Arcangeli
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oltrearcobaleno · 10 days
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Le Emozioni nel Bambino con Autismo: Comprendere e Supportare il Mondo Interiore
L’autismo è una condizione che spesso viene fraintesa, specialmente quando si tratta delle emozioni che i bambini affetti da questa sindrome provano e manifestano. Un comune pregiudizio è che i bambini con autismo non provino emozioni o, se le provano, le manifestino in modo ridotto. Questo non è assolutamente vero. Anzi, le persone con autismo sperimentano spesso emozioni intense, che possono includere ansia, paura, rabbia e collera, sebbene queste emozioni possano manifestarsi in modo diverso rispetto a quanto ci si aspetta.
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L’Ansia nel Bambino Autistico
Un’emozione molto frequente nei bambini con autismo è l’ansia, che può esprimersi in varie forme. Nei casi di autismo lieve, l’ansia si manifesta spesso attraverso sintomi come l’iperattività, l’ipercinesia e una notevole reattività alle piccole frustrazioni. Questi bambini desiderano spesso socializzare, ma l’ansia e l’eccitazione interna possono rendere difficoltosi i loro tentativi di relazionarsi con i coetanei. Questo porta frequentemente al rifiuto da parte degli altri bambini, in quanto il bambino con autismo non riesce ad ascoltare e comprendere i bisogni degli altri a causa del suo stato d’animo agitato.
In forme più gravi di autismo, l’ansia può essere mascherata da sintomi più evidenti come stereotipie, apatia apparente o indifferenza. Tuttavia, quest’ansia è comunque presente e si può notare attraverso improvvisi sbalzi d’umore e crisi acute di angoscia, spesso scatenate da piccole frustrazioni. L’ansia può anche interferire con il pensiero strutturato e il linguaggio, che può diventare incoerente o slegato.
Paure e Fobie
Il bambino con autismo vive in un mondo che può sembrare ostile e incomprensibile. Oggetti, stimoli visivi, uditivi o tattili, o anche piccoli cambiamenti nell’ambiente circostante, possono scatenare forti reazioni di paura. Queste paure si manifestano spesso in modo drammatico, con urla, pianti o comportamenti agitati. Temple Grandin, una nota scienziata con autismo ad alto funzionamento, descrive il suo rapporto con la paura come una costante presenza nella sua vita. La sua testimonianza sottolinea come la paura possa dominare la quotidianità di una persona con autismo, rendendo difficile affrontare anche le più comuni situazioni sociali.
Le paure nei bambini con autismo possono diventare così pervasive da influenzare tutte le attività e le interazioni sociali, e in alcuni casi possono portare a veri e propri attacchi di panico. Questi attacchi, come descrive Grandin, possono essere improvvisi e incontrollabili, rendendo difficile per il bambino gestire le emozioni in modo adeguato.
Rabbia e Collera
La rabbia è un’altra emozione che può essere intensamente vissuta dai bambini con autismo. Questi bambini possono avere scoppi di collera e manifestazioni aggressive, sia verso gli altri che verso sé stessi. Questo accade soprattutto quando il bambino percepisce che il mondo esterno non rispetta le sue paure, ansie o bisogni. La rabbia può essere una risposta diretta alla frustrazione, specialmente quando il bambino non riesce a comunicare le sue emozioni in modo efficace.
Fortunatamente, con un ambiente adeguato e rispettoso dei bisogni del bambino, queste manifestazioni di rabbia possono ridursi. Quando il bambino si sente compreso e supportato, la sua sofferenza interiore si attenua, permettendo alla rabbia e alla collera di diminuire, e migliorando anche altri sintomi legati all’autismo.
Tristezza e Gioia
Le emozioni di tristezza e gioia possono essere difficili da identificare nei bambini con autismo. Alcuni bambini possono manifestare queste emozioni in modo eccessivo, mentre altri possono sembrare indifferenti o non mostrare segni evidenti di cambiamenti emotivi. Tuttavia, ciò non significa che non provino tali emozioni. In alcuni casi, una risata esagerata può nascondere un profondo senso di tristezza o angoscia, mentre un’espressione apparentemente neutra può celare momenti di vera serenità.
Per gli adulti che interagiscono con bambini con autismo, come genitori o insegnanti, è essenziale andare oltre le espressioni superficiali per cercare di capire le emozioni più profonde. Solo attraverso un ascolto attento e una comprensione empatica è possibile connettersi veramente con il mondo interiore di un bambino con autismo.
Sfiducia e Diffidenza
Un’altra componente del mondo emotivo del bambino con autismo è la diffidenza verso l’ambiente circostante. Spesso, questi bambini percepiscono il mondo come ostile, incoerente e causa di continue frustrazioni. Questo porta a una crescente chiusura verso gli altri, aggravando ulteriormente l’isolamento sociale e la difficoltà nel creare relazioni significative.
Le Difese Emotive
Molti dei sintomi associati all’autismo possono essere visti come meccanismi di difesa contro emozioni intense come l’ansia, la paura e la tristezza. Questi bambini cercano di evitare situazioni che provocano disagio o ansia, preferendo la routine e la prevedibilità. Ogni cambiamento, per quanto minimo, può aumentare il loro senso di vulnerabilità e peggiorare il malessere.
Un’altra difesa comune è l’uso di comportamenti ripetitivi, noti come stereotipie. Questi comportamenti offrono un senso di controllo e riducono temporaneamente l’ansia. In alcuni casi, anche l’autolesionismo può diventare un modo per gestire l’angoscia emotiva, permettendo al bambino di distrarsi dal dolore interiore per un breve momento.
Conclusione
Il mondo emotivo di un bambino con autismo è complesso e spesso incomprensibile per chi lo osserva dall’esterno. L’autismo non riduce la capacità di provare emozioni, ma ne influenza profondamente l’espressione. Comprendere e rispettare queste emozioni, anche quando si manifestano in modi inusuali, è essenziale per costruire un ambiente sicuro e accogliente per i bambini con autismo, permettendo loro di svilupparsi pienamente e vivere una vita più serena e appagante.
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multiverseofseries · 22 days
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A Quiet Place: silenzio e morte nel survival horror che è diventato un cult
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Nonostante alcune svolte narrative fin troppo prevedibili e forzate, A Quiet Place coinvolge, appassiona e spaventa, emanando tensione in ogni singola scena e riuscendo a fare emergere la grande umanità dei suoi personaggi in un mondo che non sembra più averla.
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: Emily Blunt in un'immagine del film
"Se ti sentono, ti danno la caccia". Il concept del nuovo film diretto e interpretato da John Krasinski è semplice ma geniale, e proprio per questo di grande efficacia. Perché a volte per realizzare un horror che funzioni basta davvero poco, l'abbiamo già visto tante volte in passato. Qui si è scelto di inserire creature mostruose e apparentemente invincibili, ma quello che fa più paura è in realtà un semplice rumore, come quello di un giocattolo elettronico che parte nel bel mezzo di una strada silenziosa e deserta. Un rumore che i due protagonisti di A Quiet Place - Un posto tranquillo non dimenticheranno mai.
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: John Krasinski ed Emily Blunt in una scena del film
Non conosciamo il destino del resto del mondo, ma possiamo facilmente immaginarlo. Viviamo in una società dominata dal rumore, spesso nemmeno ce ne accorgiamo, ed è facile intuire che in una situazione del genere ogni piccola abitudine, ogni istinto più elementare - piangere, ridere, urlare o anche semplicemente parlare con chi amiamo - possa diventare il peggior ostacolo per la sopravvivenza. Quando il film ha inizio, la famiglia di Lee ed Evelyn, forse anche grazie alla conoscenza del linguaggio dei segni e alla presenza di una figlia non udente, è riuscita finora a sopravvivere 89 giorni e si trova a vagare all'interno di città ed edifici completamente deserti. Ma basta un minimo rumore a fare la differenza, a determinare chi vive e chi muore.
Il silenzio dei sopravvissuti
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: John Krasinski e Noah Jupe in una scena del film
Ma è possibile continuare a vivere, crescere una famiglia quando si è perduto tutto? È una domanda che nei film abbiamo visto declinata tante volte in modo diverso, d'altronde ne abbiamo visti tanti di film post-apocalittici, e sappiamo bene che in questi casi il concetto di famiglia e sopravvivenza vanno sempre a braccetto. Ma quanto è più difficile vivere e sopravvivere in assoluto silenzio? Quando anche un evento gioioso come due bambini che giocano o addirittura mettere al mondo un nuovo figlio, il sentirlo piangere per la prima volta, può mettere in pericolo tutto quello per cui si è combattuto.
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: Noah Jupe e Millicent Simmonds in una scena del film
Il punto di forza di A Quiet Place è proprio il riuscire a fare emergere la grande umanità dei suoi personaggi in un mondo che non sembra più averla. Un mondo talmente silenzioso e vuoto da apparire abbandonato e privo di ogni speranza, ma che in realtà nasconde l'amore e la forza di chi non può e non vuole arrendersi. Non è un caso che il regista/protagonista abbia scelto al suo fianco quella che è sua moglie anche nella vita reale, la splendida e talentuosa Emily Blunt, perché questa sua terza opera, certamente la più incisiva e memorabile, è anche e soprattutto una splendida storia d'amore. Un amore fatto di sguardo e di frasi non dette; un sentimento talmente forte che permette di superare ogni paura ed affrontare mostri orribili pur di proteggere quello che conta.
Sussurri e silenzi
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: Emily Blunt in una scena del film
Non bisogna però lasciarsi trarre in inganno, perché, nonostante tutto questo, A Quiet Place non è certamente un film per famiglie. Ma innanzitutto un film che emana tensione ed angoscia in ogni singola scena; coinvolge, appassiona e spaventa grazie a personaggi credibili e dei mostri davvero spaventosi. Di cui non sappiamo nulla, così come non sappiamo nulla di quello che è accaduto al mondo nei 95 giorni precedenti, ma è proprio questa scelta di sceneggiatura a rendere ancora più affascinante e scorrevole tutto il film.
Non che nello script manchino difetti: alcune svolte narrative sono fin troppo prevedibili e forzate, ma vale la pena di stare al gioco considerato l'ottimo risultato raggiunto in termini di tensione. Si tratta di un breve viaggio di novanta minuti in cui davvero si è quasi sempre senza respiro, in cui ogni rumore può rappresentare un pericolo e ogni errore o svista da parte dei protagonisti un twist letale. Ed arrivati alla fine, rimane la sensazione non di aver visto semplicemente un film, ma di aver vissuto davvero un'esperienza terrificante ma anche incredibilmente soddisfacente da un punto di vista emotivo.
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A Quiet Place - Un posto tranquillo: Noah Jupe in una scena del film
L’inizio di questo nuovo franchise è stato terrificante e silenzioso e per una volta da una parte rimane il desiderio che questo film rimanesse unico nel suo genere ma dall’altra la curiosità di continuare ad esplorare questo mondo che ha affascinato e coinvolto fin dai primi minuti non vediamo l’ora di vedere anche il sequel che il prequel godendoceli in silenzio, sia mai qualche mostro si annidi sotto il divano.
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