Tumgik
#lovegaming
loveint-diario · 2 years
Text
Tumblr media
L’aria frizzante profumata di sale dell’estate era diventata bagnata odorante di terra, il sole al tramonto non si nascondeva più oltre Licata, aveva ripreso a tuffarsi nel mare e questi erano i segni che l’autunno stava iniziando a Gela, dove ancora nel 2014 risiedevo e lavoravo. Un’amica conoscendo la mia passione per la fotografia mi parlò di Instagram, dicendomi che era un’app che permetteva alle persone di condividere foto con una breve didascalia, sulla quale anche artisti e fotografi condividevano i loro lavori. L’applicazione era gratuita, bastava scaricarla, registrarsi creando un account e subito si potevano condividere foto, seguire altri user ed essere seguiti da follower.
Instagram è un social media, un servizio di rete sociale basato sulla condivisione di immagini, foto e video, creato nel 2010 e di proprietà di Meta e quindi di Mark Zuckerberg, dal 2012. Il nome deriva dall’unione dei termini Instant Camera e Telegram perché quando fu creata, i suoi sviluppatori la concepirono per consentire la condivisione di foto istantanee accompagnate da un breve testo, che potevano essere catturate dalla fotocamera del proprio cellulare, all’inizio solo per iPhone, e che potevano essere condivise subito in rete. Dalla sua nascita Instagram ha avuto una crescita ogni anno sempre maggiore in termini di numero di utenti e di sviluppo di interfaccia, desing e funzionalità, ma è rimasta sempre un’applicazione scaricabile gratuitamente.
Chiunque si occupi per passione o per lavoro di fotografia, o di immagini e grafica digitali, sa quanta memoria occupino sui propri supporti questi dati; e sa anche quanti giga si consumino nella condivisione di queste immagini, per cui senza voler essere maliziosi, viene da chiedersi come possa una piattaforma fornire gratuitamente, a milioni di utenti, uno spazio infinito di archiviazione di dati senza guadagnarci nulla. Persino un account di posta elettronica gratuito pone un limite di archiviazione di dati, superato il quale è necessario pagare il servizio, mentre invece, un social media offre a milioni di persone, la possibilità di archiviare le fotografie e i video di tutta una vita, senza chiedere in cambio niente.
Niente è gratuito, ogni volta che prendiamo qualcosa gratis la ripaghiamo in perdita di freschezza o di qualità del prodotto ma soprattutto in sicurezza per noi stessi.
Il termine account, letteralmente ‘conto’, o esteso user account ‘conto utente’, è preso dal linguaggio bancario e indica un conto corrente. Un conto bancario è generalmente nominale, infatti diamo il nostro documento d’identità per aprirne uno, ci consente di accedere a determinati servizi, ma cosa più importante ci consente di mantenere in sicurezza le nostre risorse economiche, se vogliamo ciò che ci permette di mantenerci, i nostri averi.
In informatica, un account è un utente registrato ed identificato presso un sito web, che ha la possibilità di usufruire dei servizi messi a disposizione dal sito. Il sistema informatico è in grado di riconoscere l’identità del titolare di un account, ne memorizza i dati e conserva informazioni ad esso attribuite, utilizzando questi dati e queste informazioni per generare un profilo utente associato all’account e permettergli così, di usufruire dei suoi servizi. Pensando al nostro account su Instagram, l’app conserva le nostre memorie fotografiche e i nostri video, il luogo, il giorno e l’ora in cui le abbiamo scattate e condivise, anche se i due momenti di cattura e condivisione possono non coincidere conserva tutti i dati; il nostro profilo permette all’app e agli altri di identificarci e questo ci consente di continuare a condividere le nostre immagini e i nostri video, per farci conoscere o fare conoscere le nostre opere, i nostri prodotti, le nostre abitudini, i nostri animali domestici, i nostri figli, le nostre figlie, i nostri amici, i posti che visitiamo viaggiando, ma anche informazioni come il nostro bar preferito, il nostro libro preferito, l’interno della nostra abitazione, il nostro volto.
È davvero un ‘conto corrente’ nel quale stiamo depositando il nostro tesoro più caro: la nostra vita e la nostra privacy. Ma questo ‘conto corrente’ non è nostro, appartiene all’applicazione che per funzionare correttamente deve anche avere il permesso di accedere alla nostra fotocamera, alla nostra galleria e ai nostri contatti. Instagram conserva i nostri dati e apprende informazioni su di noi e sul nostro comportamento attraverso l’utilizzo che facciamo non solo del servizio, perché autorizziamo il suo accesso a dati che non riguardano il servizio, riguardano la nostra privacy, apprende rastrellando dati anche quando non utlizziamo l’applicazione. Inoltre, attraverso una procedura gamificata ci addestra a condividere sempre di più e in maniera sempre più personalizzata le nostre vite, ci addestra a non poter più fare a meno di avere un account su Instagram, uno su Facebook, uno su WhatsApp, eccetera, eccetera.
È il caso di chiederselo: abbiamo un account su Instagram o siamo noi il ‘conto corrente’?
Quando nel 2014 anche io ho scaricato l’applicazione sul mio cellulare creando un mio personale account, non conoscevo niente di tutto questo, tanto che avevo creato il mio profilo con il mio nome, il mio cognome e persino la mia foto. Pensavo che si trattasse di un social che promuoveva davvero una libera condivisione, solo dopo molto tempo mi accorsi che nella piattaforma nulla era libero, ogni azione degli utenti veniva manipolata e veicolata secondo la logica della prestazione, mirando ad aumentare sempre di più il tempo di permenenza degli utenti stessi sulla piattaforma e in rete, aumentando così la loro condivisione di dati e metadati, e aumentando di conseguenza la qualità e la quantità d’informazioni su di noi, e i nostri comportamenti, che il sistema informatico poteva acquisire, conservare e utilizzare per gestire il nostro profilo.
Instagram era semplice da usare, la sua procedura era facile da apprendere, una volta creato il tuo profilo, potevi caricare dalla tua galleria una foto, o scattarla istantaneamente dal tuo cellulare (al tempo lo smartphone si chiamava cellulare, era ancora solo una cellula dello sviluppo tecnologico, non un telefono intelligente…), potevi aggiungere a piacere filtri, cornici, una breve didascalia, al tempo erano solo 160 caratteri e non c’erano gli emoji o come si chiamarono in principio gli emoticon, infine potevi postarla sul tuo profilo, dove sarebbe rimasta conservata sulla tua galleria personale. Postare una foto significava condividerla con i propri seguaci e, utilizzando gli hashtag, condividerla con chiunque avesse fatto una ricerca seguendo quel tema specifico, per esempio #natura. Adesso cosa sia un hashtag lo sappiamo tutti, ognuno ha un account su diversi social, ma al tempo era qualcosa di nuovo e aveva una funzione specifica, creare contesti e gamificarli, renderli un gioco con il quale attirare sempre più partecipanti.
L’interfaccia di Instagram nel 2014 era semplice, non molto differente da quella attuale, ma più essenziale e minimalista. La barra degli strumenti in basso aveva pochi comandi. Una home che, scorrendo il dito sullo schermo proprio come lo scorrere di una slot-machine, permetteva di vedere le pubblicazioni degli utenti seguiti, una lente d’ingrandimento per fare ricerca digitando uno specifico account o un hashtag, oppure seguire le proposte suggerite dalla piattaforma stessa in base alle tue preferenze, ai tuoi post e ai tuoi contatti. Al centro della barra degli strumenti c’era un simbolo, una croce dentro un quadrato che si utilizzava per caricare l’immagine che si voleva postare, a seguire un cuore, usato per visualizzare i like ricevuti, i follower aggiunti e le attività degli utenti che seguivi. L’ultimo simbolo a forma di omino con testa rotonda e una mezza circonferenza per busto, permetteva di accedere al proprio profilo, alla propria galleria. Non esistevano i messaggi diretti, non esistevano ancora i collage e le storie o le dirette, si poteva postare solo una foto per volta e la si poteva condividere solo nel formato 1:1, quello della fotocamera dei primi iPhone.
A quel tempo l’account ufficiale di Instagram ogni venerdì lanciava un contest, una call, un gioco a tema, gli instagramer erano chiamati a partecipare condividendo foto che avessero per tema quello scelto da Instagram e a condividerle con l’hashtag creato e suggerito dalla piattaforma. Avevano tempo fino al lunedì successivo, quando Instagram avrebbe postato nel corso della giornata, le foto dei cinque fotografi prescelti per aver rappresentato meglio il tema della competizione.
I vincitori guadagnavano solo la menzione e una quantità impressionante di follower, nessun guadagno economico o materiale era previsto. Il modello di gioco promosso da Instagram presto generò un moltiplicarsi di account tematici che pubblicavano, dandogli visibilità, le foto di account inerenti al loro tema o che postavano usando l’hashtag da loro creato. Lo si poteva fare con qualsiasi tema: tramonti sul mare, paesaggi innevati, il tuo gatto, la tua colazione, interni da sogno, hicking, si potevano creare infiniti contesti per invogliare gli utenti a condividere sempre di più, a seguire costantemente le attività sul social, a partecipare commentando, cliccando, ripostando.
Gli istagramer volevano vincere, essere menzionati, vedere la loro foto pubblicata, avere tanti follower. Iniziarono a nascere gli storytellers e tanti corsi per insegnare a tutti come avere successo su Instagram, che di solito avevano tra questi consigli quello di pubblicare costantemente, di essere sempre presenti. Nacquero app che permettevano di monitorare i propri miglioramenti sul social, alcuni acquistavano pacchetti di follower e tutti, proprio tutti volevano diventare virali. Arrivarono infine gli influencer che suggerivano a tutti cosa fare, come e quando farlo per raggiungere il successo che avevano raggiunto loro stessi con i propri post virali. Il primo consiglio degli influencer fu quello di metterci la faccia. I selfie divennero virali.
Chissà cosa penserebbe di queste metafore Susan Sontag se fosse viva oggi…
Non mi azzardo ad ipotizzarlo, certo è che il gioco a cui giochiamo senza rendercene conto, ha un obiettivo molto strano, quello di farci diventare virali, e una probabilità di essere raggiunto pari a quella di vincere la lotteria di Capodanno.
Il successo corrisponde alla fama, alla celebrità, alla ricchezza economica, al potere informatico; le regole del successo le dettano gli pseudoambienti gamificati, per vincere bisogna essere unici, competitivi e vincenti, quello che viene offerto in cambio è un antidoto alla solitudine, all’anonimato, è la sicurezza di esserci.
La paura di scomparire, quella di non essere nessuno, di essere dimenticati hanno a che fare con la paura della morte, sono le paure generate dalle questioni irrisolte di chi vuole percepirsi immortale, non vuole fare i conti con l’angoscia che questa evidenza genera, non vuole dover vivere la propria vita, includendo in essa l’informazione che è a termine e che quando finirà non potremo portare con noi nulla di quello che possediamo adesso, né titoli né tesori.
Come suggeriva Agnese Trocchi la ludicizzazione dei contesti è rassicurante, tende all’infantilizzazione del comportamento, a scoraggiare la facoltà di scegliere, a non sviluppare una riflessione autonoma, ad agire secondo modalità automatizzate e a ci porta a trascorrere molto del nostro tempo guardando uno schermo convinti di stare condividendo qualcosa con i nostri simili.
La paura e la solitudine trovano un piccolo sollievo quando dopo aver postato una foto i nostri seguaci lasciano un commento, ci augurano una buona serata, lasciano una fila di emoji. Commentiamo a nostra volta le foto  degli account che seguiamo e mandiamo avanti questa pseudosocialità, fatta di giochi, di chiamate alla competizione, di complimenti, di insulti, di storie d’amore, di amicizie che spariscono così come sono arrivate nel nulla, di micro mondi che imitano e riproducono il mondo reale. Lo facciamo senza rendercene conto, ogni giorno dedichiamo tempo al nostro profilo, alla nostra comunità ma le regole non cambiano e la paura e la solitudine restano proprio lì dove le abbiamo lasciate, prima di metterle in standby giusto il tempo di essere assorbiti dal flusso gamificato del social. Così come aveva suggerito Sontag, strumentalizzare la paura del contagio aveva avuto l’effetto di isolare le persone le une dalle altre, di scoraggiare il contatto e la socialità fatta di incontri e di prossimità, di incoraggiare una salute fisica che fosse più orientata all’estetica dei corpi e al loro apparire su uno schermo televisivo, tanto che la tecnologia ha veramente fornito oggi nuovi e popolari strumenti per stimolare il desiderio, proteggendolo dai rischi e rendendolo il più possibile mentale.
Il desiderio è mentale e anche questo come la paura e la solitudine è stato addestrato.
Roma 19 dicembre 2022 h: 18:48 am – 29 dicembre 2022 h: 1:08 pm
Capitolo 15 Love Gaming - IV Parte
3 notes · View notes
tharadieeule · 6 months
Video
youtube
AC Unity # 6 ~ Allein auf Templerjagd
0 notes
yozorasworld · 1 year
Text
Tumblr media
Tumblr media
Last week I finally completed my Madden EA Sports collection on the PS2! :D I do madden gaming content on youtube along with other stuff and it's really fun!
0 notes
strawdool · 6 months
Text
Tumblr media
i wanna f- goverment hookeeerr
(au and designs are from @xmajordumps )
984 notes · View notes
holymaccaronii · 7 months
Text
Tumblr media
Erm yeaaaahh… *scratches the back of my head* how can you tell I need to have my hyperfixations be turned into figurines…
P.S.: You can find the guides for the papercraft models of P03 and Yes Man in this post, Edgar is still a wip. They’re free for you to build ( Ü ).
808 notes · View notes
mcroutfits · 9 months
Text
Tumblr media
9/10 let's have some fun this bitch is sick i wanna take a ride on you disco stick 🎤 minimalistically wild era. when radioactive red haired men in sleeveless tank tops where a 🧿 t h i n g 🧿 to admire, great boots too
he is so cool for doing this
239 notes · View notes
hyperesthesias · 1 year
Text
Tumblr media
Tumblr media
Happy International Asexuality Day from your friendly neighborhood bounty hunter.
1K notes · View notes
vashsusedundies · 1 year
Text
Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media
he
198 notes · View notes
amengaga · 1 year
Photo
Tumblr media Tumblr media
306 notes · View notes
em1e · 7 months
Text
ෆ LOVEGAME ෆ
let's play a love game.
Tumblr media Tumblr media Tumblr media
⌜HOW TO PLAY ⌟
☆ send in the character of your choice + receive a gift from them this valentine's day! ★ limit 1 request per person. must be off anon to receive your gift ! ☆ event status: open until 2/13/23 ★ filter tag: lovegame if you don't want to see this on the dash !
Tumblr media
38 notes · View notes
androgymess · 6 months
Text
Tumblr media
— i wasn’t out for you, don’t have a plan to break your heart 🥂🍾
23 notes · View notes
loveint-diario · 2 years
Text
Tumblr media
La prima fase del Love Gaming inzia con l’aggancio, che raramente consiste in azioni chiare o esplicite, come inviare un messaggio diretto o diventare un follower della persona che si vuole agganciare; è un’azione che si esplica nei dettagli di spazio e di tempo, nel decifrare post con messaggi criptati che attirano la nostra attenzione, proprio perché fanno eco a qualcosa di personale, di specifico e di riferibile solo, e soltanto, a noi.
Sul finire del 2014 Instagram rispetto ad oggi, aveva poche funzionalità, permetteva di postare una sola foto in formato 1:1, quindi un quadratino, il testo che accompagnava la didascalia al post non poteva essere molto lungo, ma aveva un numero finito di caratteri, non si potevano ancora aggiungere link e anche gli hashtag usati erano sempre gli stessi e avevano lo scopo di assicurare al nostro post la maggiore visibilità possibile, sfruttando i contenitori più grandi e noti. Un post era dunque composto da una foto, una didascalia e degli hashtag. Ognuno di questi tre componenti poteva diventare un blocco testuale che, unito agli altri due, serviva a comporre un discorso più ampio di quello manifesto, serviva a comunicare un messaggio a chi sapeva, o aveva imparato, o a chi era stato istruito a leggere tra le righe.
Il fotografo britannico, il terzo account che avevo iniziato a seguire su Instagram, cercò subito di attirare la mia attenzione, servendosi della sincronicità, della somiglianza e della ripetitività. Pur non seguendomi postava una foto immediatamente dopo di me, era una foto che aveva una somiglianza di tema con la mia, per esempio un bosco nella luce del primo mattino, o di palette, un tramonto tinto di viola, oppure nella sua didascalia o tra i suoi hashtag, c’era una parola che avevo usato nel mio post o nei miei hashtag. Questo accade molte volte, tutte le volte necessarie finché non capii che era un modo di comunicare con me. La cosa mi sembrò divertente e risposi, anche io giocando questo gioco.
L’aggancio era dunque avvenuto e poteva iniziare la seconda fase, quella degli effetti speciali.
Una volta addestrata a leggere tra le righe, mi sorprendeva in un modo ogni volta diverso, per esempio quando le didascalie dei suoi post erano laconici titoli, quegli stessi erano i titoli di bellissime canzoni, che potevo ascoltare cercando su Youtube. Mi insegnò a comunicare seguendo le sue attività, guardavo cosa gli piaceva e si profilava un lungo discorso che iniziava con un saluto, scorrendo account di artisti, a volte eccezionali, che da tutto il mondo condividevano le loro opere, con poesie, canzoni e pensieri di altri, parlava di quello che ci stava accadendo. Mi sembrò un modo di comunicare straordinario. Ero incantata, passavo ore sul social, dimenticandomi del tempo e dello spazio, condividevo sempre di più e quando non lo facevo pensavo a cosa avrei condiviso. Gli effetti speciali non finivano mai, un giorno postai una foto che fu l’inizio di una serie di post, dei quali la parola chiave era mood, umore. Il social si riempì di account con questa parola, @inthemoodoftheday, @inthemoodof, @mymood, eccetera eccetera, ma mi sembrò una coincidenza, anche quando il venerdì dopo la call su Instagram fu proprio #mood. Poco tempo dopo, postai una foto, era il mare d’inverno, agitato, eccetto la schiuma delle onde e le nuvole entrambe bianchissime era tutto azzurro e tra gli hashtag scrissi, in Inglese però, #voglioubriacartidiblue.
A quel punto tutto il social diventò blu, Instagram fece la sua call #blue, tutti postavano foto blu, era tutto blu. Stupore e ansia si mischiavano in egual parte.
Presi il coraggio a due mani e scrissi un’email nel mio sgangherato Inglese a questo istagramer, dato che il suo indirizzo era sul suo profilo pubblico. Scherzai sugli effetti speciali che mi aveva mostrato fino a quel momento e gli dissi che per quanto belli, secondo me, nulla poteva essere meglio di una conoscenza reale e gli proposi di conoscerci magari scrivendoci, data la distanza geografica.
Rispose alla mia email in maniera garbata e formale, concluse dicendo che non era solito condividere informazioni personali attraverso la rete.
Sì, rispose proprio così.
Non pensai minimamente a leggere tra le righe, e mai avrei immaginato quanto questa frase avrebbe contato per me negli 8, ormai 9, anni successivi. La sua risposta formale mi fece dubitare di quanto avessi vissuto, mi chiedevo come facesse a seguirmi se non mi seguiva, mi domandavo perché proliferavano account che avevano a che fare con me, perché Instagram? Mi fece dubitare a tal punto che mi bloccai, non postai per qualche giorno, guardavo soltanto.
Le cose più importanti accaddero proprio in quel momento. Il fotografo che mi aveva risposto così freddamente, non mancò di postare sul suo account foto che facevano riferimento al contenuto della mia email, così fece Instagram e ogni account di cui avevo dubitato o sospettato. Quegli stessi account selezionarono e pubblicarono una delle sue foto e così fece anche Instagram, che una volta a settimana sceglieva un/a fotografo/a da presentare alla comunità. Apparve una delle sue foto e un articolo con una breve intervista.
Poco dopo, i suoi post cambiarono, non erano più paesaggi ma ritratti di persone, di solito donne, che presentava proprio come faceva l’account di Instagram. Iniziò anche a seguirmi con l’account di un fotografo che si diceva spagnolo.
Mi sembrò di iniziare a capire. Capii che tutti questi account tematici, compreso quello ufficiale di Instagram erano gestiti da persone in carne e ossa, e che con ogni probabilità lui era una di queste, o tutte queste. Non capivo a quel tempo perché lo facesse, pensavo fosse il suo lavoro e pensavo che volesse mantenere una comprensibile riservatezza, così continuai a scrivergli delle email alle quali rispondeva raramente con sue email, ma non mancava mai di usarne il contenuto costantemente sul social. Continuava a sembrarmi solo una forma originale di comunicare, così continuai anche io a comunicare con lui, che nel frattempo continuava a creare tendenze e comunità, facendomi pensare che stesse favorendo la socialità e la cultura, che provasse a promuovere l’arte e la creatività attraverso il social.
Lo scopo vero l’ho capito molto tempo dopo quando ho potuto riconoscere lo schema, quello di tenere gli utenti sempre agganciati alla piattaforma, sempre in rete e sempre pronti a condividere, come anche quello di creare reti tra di loro.
I follower erano spinti a creare comunità tra di loro, usavando gli stessi hashtag, concorrendo per le stesse, a volte, elitarie call, erano chiamati a distinguersi non soltanto come singoli ma come gruppo. Questo era quello che il fotografo che seguivo faceva, sia con la sua identità pubblica, creando attorno a sé una comunità di fotografi vicini per area geografica o pronti a partire, generando contesti fotografici e account che li avrebbero poi pubblicati, sia celandosi attraverso fakeaccount con nazionalità diverse e nomi di fantasia, sia anche utilizzando gli account tematici che lui stesso generava, o quello ufficiale di Instagram.
Vi starete chiedendo a che serve tutto questo. A che serve creare gruppi e comunità di utenti? Non basta creare contesti per ottenere visibilità, follower, premi? Non basta che i singoli utenti siano costantemente collegati alla piattaforma?
No, è necessario che siano anche in rete, uniti tra loro, in comunicazione tra loro, perché quando ci si conosce si condividono molte più informazioni personali, ci si scambia l’inidirizzo email, il numero di telefono, l’indirizzo di residenza. E molto, molto di più, ci si scambia emozioni. Questi sono metadati importanti per conoscerci. Sono informazioni su di noi, che possono essere acquisite solo osservandoci agire e interagire. Inoltre vi ricordo che per utilizzare Instagram, e qualsiasi altra applicazione social, bisogna dare il consenso affinché l’applicazione possa accedere ai nostri contatti e alla nostra fotocamera, due delle cartelle più private che abbiamo sui nostri smartphone e le più ricche di dati sensibili su di noi e sulla nostra rete di relazioni.
Ad un certo punto, il fotografo mise in vendita delle sue foto, io ne acquistai qualcuna e senza il minimo sospetto gli fornii il mio indirizzo di residenza e probabilmente la possibilità di recuperare i miei dati anagrafici, dalla carta di credito che usai per pagare in sterline quelle foto.
Capii che era anche uno sviluppatore della piattaforma quando, dopo avergli scritto un’email in cui speculavo, o sarebbe meglio dire straparlavo in una lingua che mal padroneggiavo, sull’importanza di considerare la vita non soltanto nella sua dimensione orizzontale, la dimensione terrena e quotidiana, ma di lasciarsi ispirare e guidare dalla dimensione verticale dell’esistenza, quella che preme per ascendere, per farsi infinito, la piattaforma annunciò un nuovo aggiornamento, scaricato il quale, potevamo postare le foto scegliendone l’orientamento: orizzontale o verticale.
Qualunque effetto speciale potesse mettere in campo, non mi divertivo più. Avevo come l’impressione che ad ogni cosa che condividessi, ne scaturisse fuori un’eco che si ripeteva così all’infinito da perdere del tutto senso. Mi sentivo frustrata, da questo suo modo di darmi attenzione che mancava di qualsiasi riconoscimento, come mancava di una vera e sana comunicazione. Così come da mia ingenua abitudine, pensai che parlarne sarebbe servito a far evolvere questa esperienza, che per quanto stupefacente all’inizio, si stava rivelando non solo povera di veri contenuti ma decisamente asimmetrica e unilaterale.
Scrissi l’ultima email, a quello che oggi so essere stato il primo ad aver hackerato i miei supporti, una lettera, nella quale gli raccontavo di una persona che incontrai qualche anno prima. Erano i primi anni del 2000 e mi trovavo all’aeroporto, stavo tornando a Roma, non ricordo con esattezza se da Barcellona o dalla Sicilia. Ero seduta in attesa dell’imbarco e stavo leggendo un libro su Second Life, uno dei primi giochi interattivi creati. Il gioco consisteva nel crearsi una seconda vita virtuale, ci si iscriveva e si creava un avatar (il film penso si sia ispirato a questa esperienza perché è successivo) che poteva avere le sembianze che ognuno preferiva. Attraverso una serie di tappe si potevano guadagnare soldi virtuali, ci si poteva costruire una casa, mettere su un’azienda, diventare sindaco di una comunità, costruire città, insomma riprodurre una vita virtuale in ogni aspetto simile a quella reale.
Mi ricordo che mi colpì molto il fatto che le persone scegliessero di cambiare il loro aspetto, principalmente modificando il colore dei loro corpi e aggiungendovi una parte animale, per cui la loro pelle poteva essere blu, rossa, verde e potevano avere orecchie e coda da gatto, musi da lupi o artigli da pantere. Stavo leggevo il testo quando un signore americano, sulla cinquantina, si sedette nel posto accanto al mio e sbirciando il mio libro, attaccò bottone chiedendomi se lo trovassi interessante. Iniziammo a parlare e mi disse che era un sociologo che studiava i processi sociali attraverso le teconologie informatiche, che stava andando a Roma perché avrebbe insegnato per un semestre in una università della Capitale e meraviglia della vita che non smette mai di sorprenderti, che era stato uno dei sociologi che aveva partecipato allo studio dei processi sociali, a partire dal suo lancio, proprio di Second Life!
Facemmo amicizia, ci scrivemmo qualche email e ci incontrammo qualche volta a Roma, ma io ero poco più che ventenne e parlavo un pessimo Inglese, per cui la nostra amicizia non continuò a lungo, ma abbastanza da permettermi di capire che in parole poverissime, lo studio aveva dimostrato che nonostante lo schermo, nonostante l’avatar e il mascheramento, ognuno di quelli che aveva partecipato a Second Life, alla fine aveva riprodotto la stessa vita, lo stesso tipo di relazioni, lo stesso tipo di dinamiche sociali che viveva nella vita reale, quella fuori dal gioco, quella non virtuale. Non cambiava niente tra le due vite. Infatti il gioco ebbe vita breve.
Raccontai di questa storia al fotografo e conclusi che pensavo che su Instagram accadesse proprio lo stesso e che preferivo la vita vera a quella virtuale. Conclusi con un invito all’amicizia, al dialogo vero e franco e gli proposi anche d’incontrarci.
Mi rispose dicendo solo di ‘non essere sicuro di cosa fosse reale e cosa non lo fosse’ e da quel momento sparì. Sul suo account ufficiale smise di apparire. Non mi rispose mai, ma l’account del National Geographic proponeva bellissime mete di viaggi. I miei follower aumentarono di account di uomini che prima o poi, si rivelavano essere lui. Era iniziata l’ultima fase del Love Gaming, la fase soap opera.
Roma 11 gennaio 2023 h: 3:36 pm
Capitolo 17 Love Gaming – VI parte
0 notes
dogflowerz · 7 months
Text
derek danforth the typa guy to listen to start listening to lady gaga because of fortnite festival
26 notes · View notes
chainlollipop · 7 months
Text
Tumblr media Tumblr media
car karaoke
25 notes · View notes
angelstills · 3 months
Text
Tumblr media Tumblr media Tumblr media Tumblr media
LoveGame (2009)
13 notes · View notes
Text
DAN AND PHIL X LOVE GAME COMPLETES A CYCLE IN MY LIFE THAT IS LARGER THAN I CAN PERCEIVE
21 notes · View notes