#impero zarista
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" Scorro nella memoria tutto il mio passato e involontariamente mi chiedo: a che fine ho vissuto? Per che scopo sono nato?… Probabilmente uno scopo c’era e devo avere avuto un’alta destinazione, perché mi sento forze sconfinate nell’anima; ma non sono riuscito a scoprire questa destinazione, mi sono distratto con le lusinghe di passioni vuote e ingrate; dal loro crogiolo io sono uscito duro e freddo come l’acciaio, ma ho perso per sempre il fuoco delle nobili aspirazioni, il fiore migliore della vita. E da allora quante volte ho già recitato il ruolo dell’ascia nelle mani del destino! Come lo strumento del boia, io sono caduto sulla testa delle vittime predestinate, spesso senza cattiveria, sempre senza rimpianto…
Il mio amore non ha mai reso felice nessuno, perché non ho mai sacrificato nulla per coloro che ho amato; io amavo per me, per il mio proprio piacere; mi limitavo a soddisfare uno strano bisogno del cuore, inghiottivo avidamente i loro sentimenti, la loro tenerezza, le loro gioie e sofferenze: e non ne ero mai sazio. Così chi è sfinito dalla fame si addormenta stremato e vede in sogno cibi sontuosi e vini spumeggianti; divora con entusiasmo i doni aerei dell’immaginazione, e gli pare di stare meglio… ma non appena si sveglia, la visione scompare… restano la fame raddoppiata e la disperazione! Così, forse, domani io morirò!… e sulla terra non resterà nemmeno un essere che mi abbia veramente capito. Alcuni mi ritengono peggiore, altri migliore di quanto io non sia in realtà… Alcuni diranno: era un bravo ragazzo, altri: un farabutto!… E l’una e l’altra cosa saranno false. Dopo di questo vale forse la pena di vivere? Eppure si vive: per curiosità, nell’attesa di qualcosa di nuovo… È ridicolo e irritante! "
Michail Jur'evič Lermontov, Un eroe del nostro tempo, traduzione e introduzione di Pia Pera, Collana Oscar Classici n.635, Mondadori, 2009.
Nota: il testo fu pubblicato a puntate sulla rivista letteraria russa Отечественные записки (Otechestvennyua Zapiski, "Annali patrii") nel 1839 e l'anno seguente uscì in volume presso l'editore Iliya Glazunov.
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Claudia Berton - Crimea. Viaggio nella penisola contesa - Oltre Edizioni
Claudia Berton – Crimea. Viaggio nella penisola contesa – Oltre Edizioni
Claudia Berton – Crimea. Viaggio nella penisola contesa – Oltre Edizioni Le vicende storiche della splendida penisola che si affaccia sul Mar Nero. Scritto nel 2013 dopo un viaggio a Kiev e, appunto, in Crimea, per visitare i luoghi in cui si svolse a metà Ottocento la guerra feroce contro l’impero zarista delle potenze occidentali (Francia, Regno Unito, Regno di Sardegna) e dell’impero Ottomano…
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#’impero Ottomano#Claudia Berton#Crimea#impero zarista#Kiev#Oltre Edizioni#Viaggio nella penisola contesa
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Dalla finta rivoluzione inglese ( 1620/1640) i banchieri guidati da Rothschild capirono che la maniera migliore per controllare il popolo sia illuderli che stia cambiando qualcosa in meglio, talvolta con repentini cambiamenti che portino effettivamente ad un miglioramento temporaneo.
Se la rivoluzione inglese serviva oltre a fare ingrassare la banca Rothschild affittando e finanziando gli eserciti, conquistando la proprietà della city di Londra che tuttora persiste e nessuno osa mettere in discussione e, porre fine all'annosa questione Stuart-Tudor, la finta rivoluzione francese oltre a depredare le ricchezze transalpine e guadagnare enormemente sempre sugli eserciti, sancì di fatto la fine della sovranità francese, la Francia da allora è sempre stata governata da personaggi fedeli alla corona di Inghilterra, o per meglio dire a chi ne tira le redini.
E così un poco per volta questa egemonia di controllo occulto delle Nazioni venne esteso a quasi tutto il mondo, certo, ogni tanto qualcosa sfugge di mano e quindi si organizzano finte rivoluzioni, primavere arabe, guerre di liberazione, esportazione di democrazia e quant'altro.
Tralasciando gli intrighi che precedettero la WWI e finalizzati a decapitare le più grandi sovranità europee, ovvero, Serbia, Austria Ungheria, impero zarista, impero ottomano e impero di Prussia, voglio far notare che i più grandi protagonisti del 900 sono tutti passati attraverso un famoso caffè di Parigi, evidentemente sarà di buon auspicio, tuttavia chiunque sia passato di li, nel corso degli anni ha sempre e comunque in un certo qual modo favorito gli inglesi.
Lenin e Trotsky passarono di là, ma anche Hitler e Mussolini, come pure Gorbaciov e Eltsin e recentemente anche Putin.
Il lavoro di Putin è esattamente lo stesso fatto a suo tempo da Mussolini e Hitler, ovvero, politiche interne scaltre che favorissero l'economia e il benessere nazionale, ma politiche estere tali che a lungo termine favorissero la distruzione del paese.
Ma andiamo sui dettagli, Mussolini salì alla ribalta grazie ad una ridicola marcia su Roma fatta in treno e nella quale non venne sparato un colpo di moschetto, il Re nano illegittimo figlio di una delle numerose amanti di re Umberto, ucciso da un complotto nel quale la massoneria addestrò e finanziò un gruppo di anarchici, e del quale parlai nel dettaglio a suo tempo ( se trovo l'articolo ve lo posto) avrebbe potuto schierare l'esercito, invece aprì le porte del palazzo e diede il là ad un ventennio prospero per gli italiani, i quali in breve divennero tutti fascisti. Lo stesso buon senso non dimostrò evidentemente durante la WWII, il Re e Badoglio da una parte sancirono ufficialmente lo stato di colonia per il nostro bistrattato paese, con la complicità appunto di Mussolini agente inglese, il quale volutamente non attaccò e distrusse l'esercito Inglese in più occasioni nelle quali avrebbe potuto farlo, ma anzi dispiegò inutilmente le truppe spargendole in Slovenia, Croazia, Istria e Dalmazia, Albania e Grecia, contribuendo allo smantellamento di un apparato militare già di suo abbastanza debole seppur valoroso e disgregando quindi i principi del fascismo, ovvero l'unità nazionale. Stessa cosa fece Hitler in Germania, una politica economica che in breve portò al benessere la popolazione, ma scriteriata in materia di politica estera: in Africa avrebbe potuto sterminare l'esercito Inglese, invece lo lascio fuggire per poi schierare truppe in Francia, Belgio, Olanda e Est Europa, Ucraina, paesi baltici, paesi nordici, e infine Russia.
Lo scopo di Hitler era distruggere la Germania e fare il maggior numero di morti possibile tra tedeschi e Russi.
In mezzo a loro Stalin, al potere dopo aver fatto uccidere tutti i traditori, non ebbe altra scelta che stare al gioco e radere al suolo mezza Europa facendo milioni di vittime.
Dopo la WWII creò un blocco di controllo da contrapporre agli anglo americani, Blocco che ovviamente dava fastidio, per cui, i dubbi sulla naturalità della sua morte non cesseranno mai d'essere; il suo successore Berjia venne detronizzato in fretta e furia e sostituto da Nikita Chruščëv, un altro simpaticone passato dal caffè di Parigi e chiaramente filo americano, non ostante la fuffa mostrata col finto braccio di ferro con l'Occidente, destalinizzo' il paese come prima cosa.
Vengo al dunque, io non sono mai stato filosovietico, ma riconosco che la Russia assieme alla Serbia, sono gli ultimi baluardi rimasti per la tutela del mondo tradizionale contro il globalismo; se la Serbia è già stata fatta a spezzatino da quasi 30 anni e adesso al comando c'è un filoamericano che provvede a tenere tutto sotto controllo, lo stesso non può dirsi per la Russia e per la Bielorussia, in quest'ultimo stato è prevista a breve una sorta di colpo di stato in stile Ucraino, in Russia la situazione è tale e quale a quelle italiane e tedesche degli anni 30/40.
Putin in questi anni ha fatto una politica economica che ha migliorato notevolmente il tenore di vita dei russi, lo stesso non si può dire sotto altri aspetti.
Provo a spiegarmi meglio, la guerra in Ucraina chiaramente è stata causata dalle persecuzioni ucraine alla popolazione russofona degli ultimi 8 anni, quindi apparentemente la reazione Russa è stata lecita e dovuta, tuttavia, nel momento in cui ti trovi ad affrontare l'esercito più numeroso, armato e addestrato d'Europa, e tu:
✅ schieri il 5% delle tue forze
✅ non utilizzi armi tattiche
✅ non distruggi le infrastrutture strategiche del nemico
✅ non proteggi le tue infrastrutture strategiche
✅ lasci che ti affondino la tua nave ammiraglia
✅ schieri le truppe in maniera tale che tu subisca più perdite del nemico
✅ sprechi inutilmente tantissimi armamenti in tattiche di sfondamento oscene, giustificando che non vuoi creare vittime tra i civili, ma le crei al tuo esercito
Ecco, se tu persona indubbiamente intelligente, fai tutte queste cose, non stai commettendo errori di valutazione: stai commettendo un atto di tradimento, oscuro, ma neanche tanto, è semplicemente la storia che si ripete, la sola differenza spero la facciano i Russi, il loro orgoglio e il loro amor patrio, l'ultimo baluardo di normalità nel mondo cristiano.
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La globalizzazione, finirà nel 2023. Ecco spiegato come e perchè.
La globalizzazione, finirà nel 2023. Ecco spiegato come e perchè. Non so se ora ci sia questo complotto, per fare chi sa quale dittatura. Io vedo altro. Un periodo precedente di merda. Dominato da una ideologia, la globalizzazione liberista. L'ultima ideologia totalitaria del '900. Che ha fatto solo disastri e adesso sta crollando. Questo periodo attuale (secondo decennio del ventunesimo secolo), è il risultato della globalizzazione, e segna la sua fine. Per me, che finisca, è un bene. A prescindere da qualsiasi considerazione. Un regime, è peggio quando è forte. Mentre quando crolla, starai anche peggio. Ma dopo, hai l'opportunità di costruire qualcosa di migliore. Bisogna sempre tenere presente il nazismo. Il più estremo, e quindi il più chiaro esempio di regime ideologico totalitario. La globalizzazione, come il nazismo, ha distrutto la vita di milioni di persone. Sia nei posti coinvolti nelle guerre, sia nel terzo mondo, sia in occidente. Ha invece leggermente avvantaggiato la Cina, ma per errore strategico degli americani. Infatti l'America sperava di trarne lei, e solo lei i vantaggi. Il nazismo, era sicuramente peggiore. Ma l'analogia è questa: nel periodo di nazismo al potere, vennero perseguitati milioni di tedeschi. Soprattutto ebrei. Ma anche dissidenti politici. E semplici cittadini, costretti a combattere guerre assurde, tornando morti o mutilati. Costretti ad adeguarsi ai voleri del regime (si pensi ad artisti e docenti. Imprenditori costretti a perdere mano d'opera capace ma non ariana, scienziati costretti a dimostrare idee pazzesche in modo para-scientifico, giornalisti, semplici cittadini privati della libertà di azione e parola). Quando il nazismo crollò, crollò per le proprie scelte. Le persecuzioni e le guerre, gli si ritorsero contro. La Germania venne rasa al suolo. Città come Dresda, vennero date alle fiamme insieme ai loro abitanti. Berlino era distrutta. E i suoi abitanti superstiti, alla fame. Tuttavia, la situazione, era meglio di quando il nazismo era al potere. Perchè, appunto, il nazismo era finito. Mentre finchè era forte, poteva proseguire le sue atrocità. Tutti i sistemi ideologici totalitari, hanno questa caratteristica comune: la capacità di piegare la realtà in una determinata direzione, stabilita precedentemente. Lo fanno con forza, violenza, e impongono il loro volere. Governando in questo modo, accumulano tutte le loro contraddizioni. Finchè queste esplodono in modo piuttosto rapido. Portando al crollo del sistema stesso. In modo sempre catastrofico. Per loro stessa natura, sono incapaci di cambiare ed evolversi. Per diventare altro. Così facendo, dovrebbero mettere in discussione tutti i loro fondamenti ideologici. Tentano a volte di riformarsi. Ma sempre, sempre, sempre, questo viene fatto quando il crollo è già in corso. E queste riforme, si traducono solo in una estremizzazione delle basi ideologiche e delle azioni. Questa breve fase, è un tentativo disperato, che allunga di poco l'agonia. Mussolini, gli ultimi anni, ridisegnò tutto l'apparato politico. Poi tentò di trasformarsi da monarchico a "repubblicano". Ovviamente, restava non solo quello che era, ma scivolava sempre più verso l'abisso. Hitler, invece non cambiò nulla. Limitandosi ad eliminare gerarchi ritenuti incapaci. Il comunismo sovietico, ebbe quasi trent'anni di agonia, in cui tentò più volte di riformarsi per restare se stesso. Il destino della globalizzazione neo liberista, è , forse più simile a quello del comunismo marxista leninista, che a quello nazista. Il comunismo marxista leninista era una variante del comunismo. Si caratterizzava per un forte realismo. Era congegnato, per governare concretamente un territorio in modo collettivistico. Abolendo la proprietà privata, accentrava tutto il potere economico nelle mani dello stato. Stato che doveva poi essere retto da una dittatura. Per brevità, chiameremo il comunismo marxista leninista, semplicemente comunismo. Tenendo presente che non stiamo parlando dei comunismi asiatici, maoisti o sudamericani. Ma del comunismo che governò Russia, URSS, e Europa Orientale. E sempre tra l'altro, lo fece chiamandosi Socialismo. Poichè il comunismo, sarebbe stata la sua futura evoluzione. A differenza del nazismo (che durò dieci anni) o del fascismo (venti), il comunismo governò in Europa per oltre settanta anni. Ventotto (1917-1945) solo nell'ex impero zarista che aveva rovesciato (cioè Russia e paesi dell'ex URSS, Ucraina, Armenia, Georgia, Moldavia, Lettonia ecc.) E per 44 (1945-1989) in tutta l'Europa orientale, mediante l'instaurazione di regimi comunisti fantoccio.Per quanto se ne dica, il comunismo, era molto diverso dal nazismo. Era un regime meno estremo. Con una certa democrazia interna, che ne permetteva deboli aggiustamenti. Aveva una base ideologica, con delle finalità teoriche positive. La giustizia sociale. Che anche se mai raggiunta, rimaneva un fine teorico imprescindibile. Mentre la base ideologica nazista era sostanzialmente questa: il più debole va ucciso. Se i più deboli sono gli altri, li ammazziamo. Se saremo più deboli noi (come fu), ci faremo ammazzare. Il nazismo predicava e praticava questo. E durò ovviamente pochissimo. Mentre il comunismo, ha sempre sostenuto la giustizia e la pace tra i popoli. Solo, da ottenersi con regimi comunisti. Che in realtà ottenevano strutturalmente il contrario. Nel nazismo era sbagliato il fine ed il mezzo. Nel comunismo, solo il mezzo. Un sistema sbagliato, e repressivo ai massimi termini. Ma in grado di funzionare a lungo. E in questo del tutto simile alla globalizzazione. Quasi speculare. La globalizzazione, si proponeva anch'essa pace, giustizia e benessere tra i popoli. Ma da ottenersi con la disastrosa ideologia liberista, anzichè con la disastrosa ideologia comunista. Già nel 1977, il sistema comunista era in crisi irreversibile. Lo sapevano tutti, sia i capi occidentali, che quelli orientali. Tuttavia tentò di sopravvivere, riformandosi, fino al 1989. Prima, tentò un'estremizzazione repressiva delle libertà e una accentuazione dell'economia collettivistica. Il breve periodo dopo Brežnev e prima di Gorbaciov. Che nella Globalizzazione, coincide con la Troika, Monti e company ecc dopo la crisi economica. Poi con Gorbaciov, tentò di immaginare un rinnovamento totale, senza riuscirci. Ottenne solo di precipitare la popolazione in miseria, distruggere definitivamente l'economia, inasprire i regimi satelliti, creare conflitti etnici, disastri ecologici ( Chernobyl ) e infine crollare. Quello di Gorbaciov, è assimilabile nella globalizzazione, all'attuale periodo. La "Next generation UE", Trump e Biden e il ripensamento tardivo sulla Cina, il disastro del Covid, speculare a quello di Chernobyl .Potremmo addirittura usare un parametro, un vincolo temporale. Per allineare i due sistemi ideologici e la loro durata. E vedremmo che ripercorrendo a ritroso la storia, i momenti di ascesa, crisi e crollo sono identici. Se Chernobyl avvenne nel 1986, passarono tre anni alla fine totale del comunismo marxista leninista (1989). Che sopravvisse nel suo cuore, l'URSS (Russia ecc), fino al 1990. Quindi Chernobyl non rappresenta solo un disastro ecologico-sanitario. Ma l'incapacità, ormai raggiunta dal sistema ideologico comunista, di gestire le situazioni. Mentre esplodeva la centrale nucleare, anche tutto il resto dell'apparato stava crollando, facendo meno rumore, come la centrale. Il Covid, rappresenta esattamente la stessa cosa. Il raggiungimento di marcescenza del sistema. Non più in grado di fronteggiare, e tanto meno prevenire, gli eventi prodotti dal suo modo di esistere. E quindi, in entrambi i casi, i sistemi sono davanti a due soluzioni: o proseguire fino al crollo totale, o decidere di cessare di esistere. Dualità, che si risolse nel comunismo, in un mix delle due scelte. Nel nazismo, nella scelta di proseguire fino alla catastrofe, dopo il disastro della guerra che aveva voluto. Nella globalizzazione, non possiamo ancora saperlo.Probabilmente sceglierà a pezzi. Proseguendo fino al crollo in America e Cina, scegliendo di cessare di esistere in parti d'Europa. Anche il comunismo alla fine, scelse a pezzi. Scegliendo di smettere di esistere i paesi come Germania Est e Polonia. Scegliendo di proseguire fino al crollo in URSS. In ogni caso, abbiamo tempi certi. Il nazismo, iniziò a crollare dopo tre anni di guerra, dal 1943. Durò altri due anni. Era appunto un regime estremo, con tempi di vita e di crollo accelerati.Ma il comunismo ebbe Chernobyl nel 1986. Crollò tre anni dopo in tutta Europa (1989) e finì in URSS nel 1992, sei anni dopo. Il covid, è scoppiato nel (e per) la globalizzazione nel 2020. Quindi la globalizzazione neoliberista, dovrebbe finire quasi ovunque nel 2023. E tentare di sopravvivere forse in America e Cina, fin verso il 2026. Anche se questo tentativo sarà assurdo, dato che non può esistere una globalizzazione senza “globo” con pochi paesi.
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Una russa in Italia: la vita avventurosa di Elena Sciltian
Ho conosciuto Elena Abramovna Boberman (Erevan 1902-Roma,1991) nella casa sul Lungotevere Raffaello Sanzio, dove risiedeva col marito, il celebre pittore Gregorio Sciltian, nell’autunno del 1983, dopo una lunga conversazione con l’artista che mi aveva ricevuto in studio per una intervista. Elena era una bella signora formosa ormai avanti con gli anni, vivissima di spirito e di sguardo, piena di energia e prestanza signorile. Aveva per il marito una sincera devozione e commentava con battute di spirito e precise memorie di vita artistica italiana ed europea le sue caustiche reprimende sull’arte contemporanea che andava guastando sempre di più la lezione della tradizionale pittura e scultura italiana, “che ci ha insegnato come vedere la realtà più vera e più bella del vero”.
Figlia di un ricco banchiere ebreo russo residente in Armenia, al tempo della rivoluzione russa, Elena aveva vissuto gli sconvolgimenti dell’ex impero zarista ed era passata con la famiglia per temestosi eventi ed alterne fortune da Tbilisi ad Istambul, poi Berlino e Parigi. Nella capitale francese aveva vissuto la bohème europea assieme al marito e al fratelllo Valdemar, anche lui pittore di felice gusto postimpressionista, che poi si sarebbe trasferito ad Ibiza, mentre lei assieme a Sciltian si sarebbe stabilita in Italia. Tramite gli amici Iljia Erenburg e Pavel Muratov, aveva conosciuto la pittrice russa Valentina Chodasevic, vicina a Maksim Gorkij, e con lei era stata a Sorrento ospite nella residenza dello scrittore, simbolo del nuovo potere sovietico, prediletto da Lenin .
I coniugi Sciltian, una volta insediati a Roma, avevano partecipato all’ animato mondo artistico della capitale, dove frequentarono il salotto artistico letterario di Olga Signorelli, attorno al gruppo dei ‘Valori Plastici’, stringendo una solida amicizia con i fratelli De Chirico; e fu proprio tramite Elena che il ‘pictor optimus’ conobbe Isabella Far, sua musa ispiratrice e compagna di vita. Nei primi anni ’30 Elena per ragioni economiche lavorò e si fece valere presso una casa di moda in Via Condotti, e più tardi nella sartoria Zezza in via Due Macelli, mentre il marito, oltre all’opera di pittura, eseguiva disegni ornamentali per tessuti.
Nel 1939 Elena acquistò una villetta a Gardone Riviera, dove trascorse col marito gli anni della guerra e dove in seguitò passò lunghi periodi fino alla morte di Sciltian, avvenuta nel 1985. Intenzionata fin dall' inizio ad onorare e rendere accessibile la collezione del marito, Elena pensò in un primo momento di aprire un museo nella abitazione romana sul lungotevere. Poi decise, poco prima di morire, di donare alla Fondazione del Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera 32 quadri, di cui 16 del marito e 16 di maestri antichi di sua proprietà. I quadri vennero collocati al piano terra di Villa Mirabella di Gardone Riviera, tenuto aperto come Museo Šciltjan fino al 1997. Elena Boberman riposa al Cimitero acattolico di Testaccio, a Roma, a fianco di Šciltjan.
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:: La questione russo-ucraina, un’analisi del Prof. Luigi Bonanate — Liberi di scrivere
:: La questione russo-ucraina, un’analisi del Prof. Luigi Bonanate — Liberi di scrivere
I. Quello che era chiamato, all’inizio del XX secolo, Impero zarista perse la sua più importante guerra nel 1904-5 contro il Giappone. Perse (e in quanto impero sparì) la prima guerra mondiale venendo sostituita da una rivoluzione. Il ventennio successivo vide una economia stagnante. Nella seconda guerra mondiale su notevolissimamente aiutata dagli Stati Uniti, e […] :: La questione…
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La Corazzata Potëmkin
La scomparsa di Paolo Villaggio, che ha emozionato tantissimi (me compreso), ha riportato alla ribalta una delle gag più famose e leggendarie del Rag. Ugo Fantozzi ne Il Secondo Tragico Fantozzi (1976). In quel film, per motivi di diritti, il nome Potëmkin fu trasformato in Kotiomkin, e il nome del regista Sergej Michajlovič Ėjzenštejn in Serghei M. Einstein, e le stesse scene del classico del cinema russo furono completamente rifatte a Roma, sulla scalinata di Villa Giulia da Luciano Salce, il regista del capolavoro fantozziano. L’opera originale di Ėjzenštejn è davvero un capolavoro del cinema di tutti i tempi, e non dura le colossali 3 ore per 18 bobine raccontate dalla voce narrante fantozziana ma una sessantina di minuti. Il film racconta un avvenimento realmente accaduto e che ebbe protagonista l’equipaggio della vera corazzata Potëmkin.
La nave infatti era il gioiello della cantieristica militare russa e fu varata, dopo varie peripezie, il 26 agosto 1900 a Sebastopoli;era la punta di diamante della Flotta del mar Nero. Deve il suo nome al principe Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, principe della Tauride (che equivale all’odierna Crimea) che fu durante il Regno di Caterina la Grande (XVIII secolo) il fautore della Flotta del Mar Nero. Anni fa lessi un libro su questa nave, Ammutinamento. La vera storia della corazzata Potëmkin di Neal Bascomb (Mondadori) che racconta la tragica vicenda di questa nave. Lunga 113 metri, corazzata con il miglior acciaio tedesco, provvista di 38 tra cannoni e cannoncini, iniziò la normale attività solo nel 1904, dopo numerosi problemi tecnici. Non partecipò quindi, come molte navi della Flotta nel Mar Nero, nel 1905, alla sconfitta navale clamorosa nella guerra con il Giappone a Tsushima che pose fine al conflitto, con l’umiliante trattato di resa firmato dallo Zar Nicola II che produsse una forte contestazione nell’immenso Impero proprio contro la debolezza del Regime Zarista. Il fulcro della rivolta fu San Pietroburgo (dove la polizia proletaria instaurata dal Pope ortodosso fu letteralmente disintegrata dalle truppe zariste), ma l’episodio della Potëmkin ebbe un’eco straordinaria e secondo gli storici fu uno dei motori della rivolta. Il tutto nasce dalla rivolta dell’equipaggio avvenuta nel giugno del 1905, secondo la leggenda dovuto al rifiuto dei marinai di mangiare carne infestata dai vermi, in realtà per i livelli scarsissimi di igiene, le paghe arretrate e altri soprusi. Lo scontro sulla nave provocò la morte di 7 dei 18 ufficiali, tra cui ammiraglio e il capitano, e uno dei ammutinati, Grigorij Vakulenčuk, che subito divenne un eroe. Anche la nave appoggio della corazzata fu sconvolta da un ammutinamento, la silurante 267, e tutte e due si diressero al porto di Odessa con la bandiera Rossa issata a bordo. La Marina Imperiale inviò due squadroni di navi da battaglia con l’ordine di affondare persino la Potëmkin se non fosse stata possibile riconquistarla, ma clamorosamente i militari zaristi si rifiutarono di attaccare i rivoltosi, per solidarietà. La nave per circa un mese vagò per tutto il Mar Nero, fino a quando gli ammutinati si fermarono nel porto rumeno di Costanza, chiedendo asilo politico. Afanasij Matjušenko, proclamato dagli ammunitati loro capo, chiese cittadinanza rumena, salvo poi ritornare nel 1907 a Odessa dove fu arrestato, processato per tradimento e impiccato a Sebastopoli. La nave ritornò a Odessa, e per cancellare l’onta fu rivarata come Panteleimon in onore di San Pantaleone, patrono del giorno del ritorno a Odessa della nave. Con questo nome, combatté durante la prima guerra mondiale nel Mar Nero contro i Turchi. Dopo la rivoluzione, fu ribattezzata nuovamente Potëmkin in ricordo degli eroici marinai, salvo poi, nel maggio 1917 rivarata come Boreč za Svobodu, che significa Combattente per la libertà. Ebbe una fine tragica: venne catturata dalle truppe anglo-francesi e tra il 22-24 aprile 1919 fu resa inutilizzabile dagli inglesi per non ricosegnarla all'Armata Rossa. Durante la guerra civile russa, in seguito all'occupazione di Sebastopoli il successivo 24 giugno cadde nelle mani dell'Armata Bianca e, il 15 novembre 1920, quando i bolscevichi ripresero Sebastopoli, trovarono la nave all'ormeggio, danneggiata irreparabilmente e ne ordinarono la demolizione, che avvenne tra il 1922 ed il 1924, mentre la nave venne radiata il 21 novembre 1925.
Un mese dopo, il 21 dicembre 1925 il capolavoro di Ėjzenštejn fu proiettato al Teatro Bol'šoj nel ventennale della rivolta, e divenne uno dei più grandi esempi di propaganda cinematografica mai effettuati. Il film, va detto, fu criticato anche da Pasolini come una bruttezza, non solo da Fantozzi; in realtà è un grandissimo film, anche per le tecniche cinematografiche che introdusse, che il Geometra Calboni sfotte nella storica scena dell’incendio delle bobine (il famoso “montaggio analogico”). L’incipit del film era una storica frase di Lenin:
Rivoluzione significa guerra. Questa è l'unica legittima, ragionevole vera grande guerra di tutte le guerre che la storia ha conosciuto. In Russia questa guerra è stata appena dichiarata ed è appena cominciata.
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Ottobre Russo
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Ottobre. Il nome di un mese che diventa un simbolo di ribellione e di sovvertimento. Vai a sapere poi che in Russia utilizzano un altro calendario e quello che da noi è novembre, loro lo chiamano ottobre. Sempre in autunno siamo comunque, cadono le foglie ed esattamente cento anni fa cadeva anche l'ultimo impero che si proclamava discendente di Roma. La Grande Guerra che sta divorando l'Europa apre una crepa profonda nei secolari muri portanti dell'assolutismo zarista. Da lì un progressivo, inesorabile e disastroso crollo che in pochi mesi tavolge monarchia, governo liberale, esperimenti democratici, spinte riformiste e risvolti anarchici. Tutto viene spazzato via dalla ferrea determinazione di un uomo che nella primavera di quel fatidico 1917 ha rimesso piede sul suolo natio dopo un lungo periodo all'estero. E' Vladimir Il'ič Ul'janov, noto ai più con il nome di Lenin. Gli bastano davvero pochi mesi e la leadership di un gruppo coeso di militanti per rovesciare il rovesciabile ed instaurare quella che forse impropriamente viene definita “dittatura del proletariato”. Con i nostri libri vi riportiamo a quel periodo cruciale della storia del '900.
Seguiamo il futuro capo della rivoluzione, prima nell'insolita location descritta in Scacco allo Zar da Gennaro Sangiuliano. Il sole e il mare dell'isola di Capri fanno da sfondo al maturare di alcune idee chiave del bolscevismo. Tra un discorso incendiario ed un articolo sul suo giornale “La Scintilla”, il nostro trova il tempo per un amore che la storia ha quasi cancellato. Merito di Ritanna Armeni aver rievocato la figura delicata di Inessa Armand nel saggio Di questo amore non si deve sapere. Poi prendiamo posto nella carrozza “piombata” che lo trasporta da Zurigo a Pietrogrado per quel famoso “ritorno a casa destinato a cambiare il mondo intero”. Lenin sul treno di Catherine Merridale. Segnatevi questo titolo davvero particolare perché è in arrivo sui nostri scaffali.
Per il momento cruciale della rivolta facciamo una scelta che potrà anche far storcere il naso per la sua smaccata faziosità ma che dire... lui c'era ed era dannatamente bravo con la penna. John Reed giornalista e comunista americano è stato tra i pochi occidentali a capire nel '17 che la Storia stava per passare da Pietrogrado. Si precipita e segue passo passo gli sviluppi dell'Ottobre nei Dieci giorni che sconvolsero il mondo. Pochi titoli possono vantare tante imitazioni. Lasciatevi tranquillamente prendere anche dall'epica del film Reds diretto ed interpretato nel 1981 da uno straordinario Warren Beatty, tanto stiamo per riportarvi con i piedi per terra. Una narrazione critica, asciutta e al contempo godibilissima è quella contenuta nella prima parte della Storia dell'URSS dal 1917 a Eltsin di Mihail Heller e Aleksandr Nekric. Non fatevi spaventare dalle dimensioni importanti. Difficilmente vi fermerete alla prima parte. Grazie al meticoloso lavoro di scavo sulle fonti compiuto da Guido Carpi Russia 1917 è in grado di offrire uno spettro completo delle posizioni allora assunte dai più diversi attori in campo. Sorprendentemente tutta questa accuratezza si traduce in una scrittura scorrevole che incuriosisce e coinvolge. Interessante anche l'esperimento di Marcello Flores che in 1917, la rivoluzione si sforza di guardare a fatti così lontani nel tempo attraverso il filtro della nostra contemporaneità.
Un centenario importante che abbiamo voluto ricordare con questo percorso a tema storico. Ma non è il solo avvenimento fondamentale che spegne cento candeline. Un anno denso di eventi epocali che hanno cambiato il corso del secolo appena trascorso. Per una panoramica degli anniversari e tanti inediti riferimenti al presente non perdete 1917 L'anno della rivoluzione di Angelo d'Orsi.
д�� свидания!
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MONTANELLI IN FINLANDIA
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MONTANELLI IN FINLANDIA
Tutte le corrispondenze degli inviati di guerra sembrano assomigliarsi: mescolano i comunicati delle agenzie stampa con i pettegolezzi diffusi ad arte dalle diplomazie, fanno sfoggio di un linguaggio militare preso a prestito, esaltano il coraggio personale dei corrispondenti, anche quando le prove che esso ha sopportato sono modeste, non perdono occasione per rinunciare ad ogni umiltà di giudizio, come se il fatto di essere testimonianze oculari, o presunte tali, le esentasse da ogni fraintendimento, danno fiato alla retorica pro o contro la guerra, ricordando quanta violenza possa scaturire dall’animo umano.
Sembrano assomigliarsi, ma non è così.
A fare la differenza non sono soltanto la distanza dal fronte dei corrispondenti, la loro intelligenza politica, la loro integrità morale e professionale, la loro effettiva competenza nel decifrare le dichiarazioni e gli atti dei generali e delle cancellerie, la loro indipendenza di giudizio, ma sono soprattutto le loro qualità letterarie, come la capacità di cogliere lo stato d’animo di un popolo in guerra, di descrivere con pochi tratti, sfuggendo alla banalità del male, l’atrocità della guerra, di tratteggiare una pagina di storia resistendo alla tentazione di ridurla ad un déjà vu.
Nella nostra epoca tecnologica le qualità letterarie rischiano di apparire una inutile anticaglia, insopportabile sia per i lettori dei giornali, sia per i telespettatori. I giornalisti sono sulla notizia, nel senso che registrano e diffondono l’evento in tempo reale, ma la sintesi spesso manca, sommersa da una sovrabbondanza di informazioni e di immagini. Il paradosso è che l’immagine letteraria è più vera di una ripresa dal vero, poiché dovendo affidarsi soltanto alla parola deve distillare il senso degli avvenimenti. Certamente anche una ripresa è soggettiva ed offre ampi spazi di espressione all’intelligenza ed alla sensibilità del suo autore, ma l’apparente povertà della parola scritta è ben più imperiosa nell’imporre la sintesi, la ricerca del senso più profondo degli avvenimenti.
Anche il caso e l’intuito sono determinanti per distinguere una grande cronista da un semplice testimone.
Indro Montanelli giunse ad Helsinki per caso nell’ottobre del 1939 e vi rimase affidandosi unicamente al suo istinto. Dopo l’espulsione dall’albo dei giornalisti e la sospensione dal partito fascista a causa delle sue corrispondenze dalla Spagna per il Messaggero, giudicate troppo tiepide nei confronti della crociata franchista, la sua carriera era stata salvata in extremis dal direttore del Corriere della Sera, Aldo Borelli, che lo aveva assunto come “redattore viaggiante”, con il compito di occuparsi di temi giudiziosamente lontani dalla politica. Nel corso del suo “esilio preventivo” aveva viaggiato per l’Europa ed il caso lo aveva portato in Germania nell’agosto del 1939, offrendogli persino l’occasione di incontrare Hitler in compagnia dell’architetto Albert Speer. I suoi articoli, bollati come filopolacchi, avevano messo in imbarazzo il regime fascista che si era affrettato a chiedere l’espulsione dalla Germania dello scomodo giornalista fiorentino. Imbarcatosi a Lubecca, Montanelli, su di una rotta minata, aveva raggiunto Tallin in Estonia, proprio alla vigilia della capitolazione all’esercito sovietico, che aveva mostrato subito insofferenza per la sua lingua tagliente espellendolo. Un traghetto per la Finlandia era stato l’unica via di fuga.
La Finlandia però non si presentava come un rifugio sicuro, Stalin si preparava ad aggredire il piccolo stato scandinavo per ricostituire i confini del passato impero zarista. La logica dei numeri, 30.000 raccogliticci soldati finnici dotati di armamenti antiquati contro le sterminate schiere dell’Armata Rossa, animata, almeno nei proclami della propaganda, dalla tenace volontà di esportare il socialismo reale, avrebbe consigliato a chiunque di abbandonare alla svelta Helsinki, non soltanto per ragioni di elementare prudenza, ma anche per l’assenza di un caso giornalistico da raccontare. Tutto lasciava supporre che Helsinki, come già Kaunas, Riga, Tallin, avrebbe capitolato. Montanelli, contro il parere del suo direttore, decise di rimanere. La sua ostinazione lo ripagò fornendogli l’occasione di raccontare all’Italia ed all’Europa l’epopea della resistenza del popolo finlandese.
Nelle corrispondenze inviate dalla Finlandia al Corriere della Sera nell’inverno 1939-40 le qualità letterarie di Indro Montanelli giganteggiano. Il suo istinto di cronista si rafforza e si completa con la capacità di ricostruire con uno scorcio una atmosfera morale, con la rapida descrizione di un prigioniero di guerra la cultura politica di un regime, senza alcuna sicumera professorale, senza alcuna pretesa di aver detto l’ultima parola. L’immediatezza vince sulla tentazione di scrivere per i posteri. Il fiero anticomunismo di Montanelli rinuncia persino ad ogni argomento ideologico per affidarsi alla descrizione dei fatti e dei personaggi. La condanna del comunismo scaturisce così dalla cronaca, evitando il ricorso a stilemi ed argomenti preconfezionati dalla propaganda nazionalista e fascista.
Per il pubblico italiano di allora anestetizzato da un ventennio di rituali bellicisti e di propaganda di regime, spesso ottusa e monocorde, quelle pagine montanelliane dovettero apparire come un inaspettato ed incomprensibile spiraglio di luce sulla realtà della guerra. Il ruolo di aggressore dell’Unione Sovietica contro un piccolo paese inerme salvò I cento giorni della Finlandia dalla censura del Minculpop in cui caddero invece i reportage dello stesso autore sulla campagna polacca e su quella norvegese che furono ritirati subito dopo la pubblicazione per i tipi di Mondadori.
La cortina protettiva dell’anticomunismo, appena sfumato dalla necessità politica del momento di non intralciare il patto Ribbentrop-Molotov, rese una volta tanto arrendevoli i censori fascisti. A farli recedere dalla diffida a continuare a dare spazio alle corrispondenze dalla Finlandia bastarono le proteste del direttore Aldo Borelli che affermò: “Se ritiro Montanelli, perdo 500 mila copie. I lettori del Corriere, come tutti gli italiani, sono dalla parte dei finlandesi”. Grazie a questa coraggiosa, quanto insperata, presa di posizione, ed ancor più alle incertezze politiche del periodo della neutralità italiana, gli articoli di Montanelli continuarono ad essere pubblicati sulle colonne del Corriere e poterono persino essere raccolti in un volume, edito da Garzanti, dal titolo I cento giorni della Finlandia.
Rileggendo oggi le corrispondenze finlandesi di Montanelli risulta evidente che i censori fascisti, se avessero saputo andare oltre il loro anticomunismo, avrebbero trovato ottimi motivi per imporsi sulle proteste di Borelli.
Montanelli infatti non ha alcuna reticenza a dare conto della coraggiosa resistenza di un popolo libero, stretto attorno alle sue istituzioni, contro le mire espansioniste di una grande potenza totalitaria. La descrizione della dignità e della tenacia finlandese avrebbe potuto insegnare molto agli italiani sui rischi di una guerra di aggressione decisa senza tenere in alcun conto i sentimenti popolari. I fanti russi, mal equipaggiati e peggio condotti, incapaci di comprendere le ragioni politiche ed ideologiche della guerra, storditi da una propaganda tanto martellante quanto surreale, non ci appaiono poi molto diversi dai fanti italiani che furono inviati nell’ottobre del 1940 alla frontiera greca. Con il senno di poi Grecia e Finlandia rappresentano come due volti dello stesso mostro: lo stato totalitario che si nutre di propaganda, guerra ed oppressione.
Ma torniamo alle qualità letterarie di Montanelli.
L’accordo tra Ribbentrop e Molotov del 23 agosto 1939 attribuiva nel protocollo segreto le sfere di influenza alla Germania ed all’Unione Sovietica nell’Europa orientale. Oltre a prevedere la spartizione della Polonia lungo la linea Bug-San, tale accordo dava via libera a Stalin per l’espansione verso gli stati Baltici e la Finlandia. Il 28 settembre la Lituania passava sotto la sfera d’influenza sovietica, con la firma di un trattato di reciproca assistenza. La stessa formula veniva riservata all’Estonia qualche settimana più tardi e infine anche la Lettonia era indotta a firmare un trattato in cui la sua sovranità veniva ridotta ai minimi termini. Lo stesso approccio fu impiegato nei confronti della Finlandia, ma le proposte sovietiche, che comprendevano cessioni territoriali nel litorale artico e nell’istmo di Carelia, vennero ripetutamente respinte.
Ecco come Montanelli descrive al suo arrivo ad Helsinki l’atmosfera di un paese minacciato, ma pronto a tutto pur di non cedere un palmo di territorio alla prepotenza sovietica: “All’aeroporto di Helsinki una ragazza dagli occhi color acqua di scoglio fa con impareggiabile grazia gli onori di casa e fornisce le ultime informazioni. Cortese, oggettiva, diligente, col petto decorato del distintivo della “Lotta Svärd”, essa è venuta a occupare il posto del fratello richiamato alle armi. Helsinki mi ha fatto un’ottima impressione. La gente rarefatta dagli sgomberi di questi ultimi giorni, che ha visto l’esodo di quasi 100.000 persone, vi si muove in un’atmosfera di calma assoluta. La mobilitazione, iniziata con un senso avaro di previdenza e attuata con molto criterio, non ha causato confusione n�� scompiglio. Un volontarismo sereno, la capacità di sacrificio, il senso del dovere hanno secondato i provvedimenti presi dalle autorità civili e militari. Queste autorità civili e militari hanno agito con molta saggezza in previsione del peggio, quasi che la guerra fosse fatale. Con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato, mentre non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza.”.
In poche righe, attraverso gli occhi acqua di scoglio di una hostess, si avverte distintamente tutto il dramma di una nazione che si appresta ad una prova durissima, facendo appello alle virtù del suo popolo: unità, calma, compostezza, dignità, determinazione.
Le più fosche previsioni del governo finlandese non tardarono ad avverarsi. Dopo circa un mese di sterili trattative, il 27 novembre 1939, prendendo a pretesto un presunto tiro provocatorio dell’artiglieria finlandese contro le truppe sovietiche concentrate in Carelia, l’Unione Sovietica denunciò il trattato di non aggressione del 1932 e due giorni più tardi ruppe le relazioni diplomatiche con Helsinki. Stalin si affrettò a creare una goffa copertura politica alla brutale aggressione della Finlandia. Il Comintern fu come sempre tempestivo nell’offrire il candidato ideale per la creazione di un governo fantoccio: Otto Kuusinen che costituì un sedicente governo popolare, entusiasta di invocare l’aiuto dell’Armata Rossa per innalzare nell’istmo di Carelia la bandiera del socialismo reale. 45 divisioni sovietiche per un totale di quasi 800 mila uomini con 1500 mezzi corazzati ed un migliaio di aerei si avventarono sulla Finlandia che, richiamando alle armi tutti gli uomini validi, riuscì a mettere insieme non più di 200 mila soldati distribuiti in 9 divisioni, dotate di artiglierie antiquate e di un flotta aerea di appena 150 apparecchi.
La schiacciante superiorità aerea e terrestre dei sovietici venne ben presto neutralizzata da un elemento, facilmente prevedibile, tuttavia trascurato dal Cremlino: la neve, che salvò Helsinki dalla distruzione e rallentò, sino quasi a bloccarle, le operazioni terrestri su tutti fronti.
L’agile penna di Montanelli descrive con impareggiabile efficacia il ruolo svolto dalla neve nel rimettere in gioco le sorti della Finladia. Il 4 dicembre 1939 scrive: “Bismarck diceva che un uomo di stato deve avere il coraggio ad un certo punto di dire: ‘Domani pioverà’ e poi raccomandarsi a Dio perché ciò avvenga. I giornalisti in tono minore si trovano, a volte, nella stessa condizione. Fu il caso di ieri sera quando la paura di non essere a tempo a farlo mi spinse a dire sommariamente cos’era Helsinki, lasciando intendere che forse oggi questa città non sarebbe più esistita. (…) Stamane alle dieci Helsinki, deserta ma ancora viva, era avvolta in un sudario di neve che si sbriciolava da un cielo basso a portata di mano. L’occultamento era perfetto. Un gelido vento di Nord incrostava i bioccoli in lacrime di vetro. Fregandomi le mani pensavo a quali effetti avrebbero provocato quei ghiaccioli sulle ali degli aeroplani. Fuori il termometro segnava otto sotto zero. Meglio sotto che sopra pensai. Gente era rientrata dal momentaneo confino e guardava il cielo, beata: questo bravo cielo di cotone sporco così brutto a vedersi, ma tanto, tanto caro. (…) La neve resta l’avvenimento più sensazionale della giornata. Mentre parlava distrattamente delle conversazioni a Mosca, il sig. B., del ministero degli Esteri, palpava con compiacenza un pugno di questa neve, l’appallottolava e strizzandola da finnico intenditore: ‘è farinosa’, diceva soddisfatto come se fosse alle viste non una guerra ma una gara di sci. E poi aggiungeva: ‘La neve viene dalla Carelia’, vecchio adagio finlandese tornato di grande attualità. In Carelia, infatti, la neve s’è alzata di un metro, bloccando senza scampo ogni operazione militare. Quando fui in questa zona or è un mese, mi fu facile farmi un’idea di cosa possa essere una guerra da queste parti, fra gli impenetrabili boschi di abeti e un lago incrostato di ghiaccio. Di notte qui si va a trenta sotto zero e le notti durano venti ore su ventiquattro. L’aviazione non si alza. L’artiglieria spara in un bianco vuoto. Chi avanza deve trascinarsi dietro un penoso bagaglio poiché alle spalle di chi si ritira non restano che macerie di villaggi bruciacchiati. Questo nel Sud. Nel Nord la guerra ha un aspetto addirittura fantomatico, l’impiego di grandi masse vi risulta impraticabile dopo la prima esperienza sovietica che va considerata fallita. Successo di sorpresa nei primi giorni, pronta ritirata dei Finlandesi, ritorno offensivo a piccoli gruppi, alla beduina, a tergo dell’avversario. La truppa dislocata lassù è scarsissima, nemmeno duemila uomini, e non sarà rinforzata. Niente artiglieria. Fucili, mitragliatori e pugnale. Molto pugnale.”
Con l’approssimarsi del disgelo l’eroica resistenza finlandese perse gran parte della sua forza e dovette arretrare difronte alle poderose offensive dell’Armata Rossa. All’inizio di marzo del 1940, Vipuri, l’ultimo caposaldo finlandese nell’ istmo di Carelia, cadde in mano ai sovietici. Helsinki non esitò ad attivare i canali diplomatici per porre fine ad un conflitto dall’epilogo inevitabilmente catastrofico. Il 12 marzo venne sottoscritto a Mosca il trattato di pace in base al quale la Finlandia cedeva all’U.R.S.S. l’intera zona dell’istmo, compresa Vipuri, una parte della Carelia orientale ed una parte della penisola dei Pescatori sul mare di Barents.
La ripartizione delle perdite di uomini e mezzi ci presenta la dimensione dell’eroismo finlandese. La Finlandia perse circa 25.000 uomini e 60 aerei, l’Unione Sovietica oltre 200.000 uomini, quasi 700 aerei e 1.600 carri armati.
La resistenza finlandese non fu soltanto un prodigio del “generale inverno”, anche il fattore umano ebbe un ruolo determinante. Montanelli si mostra attentissimo a tale fattore, consegnandoci rapidi bozzetti da cui scaturisce la psicologia dei combattenti. Dai dettagli che la sua prosa asciutta illumina con lampi improvvisi si intravvede la trama sottile, talvolta impalpabile, che lega indissolubilmente uomini, ideologie e fatti. Tout se tient, dal generale al particolare e viceversa. Le scarpe slabbrate di un fante russo prigioniero lasciano trasparire la disorganizzazione di uno stato totalitario che bleffa cinicamente sulla pelle di uomini storditi dalla propaganda. Le granitiche certezze di altri prigionieri russi suggeriscono la capacità del regime sovietico di conquistare il cuore e la mente di intere generazioni, plasmando un modo di pensare in cui nemmeno l’evidenza può smentire la parola del partito e del compagno Stalin.
Nella corrispondenza dell’8 dicembre 1939 Montanelli annota: “Ho visto tre prigionieri russi, internati qui e offerti alla curiosità di qualche giornalista. Siamo d’accordo che tre uomini sono un campione inadeguato per giudicare d’un popolo e di un esercito, ma certo essi non mi hanno ispirato ottimistiche opinioni sull’armata rossa. Fisicamente tutti e tre bene attrezzati, indifferenti a ciò che avveniva loro intorno, il loro equipaggiamento era pessimo. Di scadente e rude stoffa le divise, sporche e lacere. Orribili scarpe, slabbrate, le cui suole somigliavano stranamente al cartone. Buone invece le armi che portavano al momento della cattura: moschetti e pistole. (…) Ho chiesto loro a quale reparto appartenessero. Hanno risposto che appartenevano alla seconda squadra del terzo plotone. Ma a quale compagnia appartenesse questo plotone non lo sapevano e tanto meno a quale battaglione e a quale reggimento. Sapevano solo che, quando varcarono il confine, era stato loro detto che la guerra sarebbe durata una settimana e che dopo li avrebbero lasciati tornare a casa.”.
L’ indagine montanelliana sul tipo umano sovietico non si accontenta dei primi risultati, prosegue alla ricerca di veri alfieri del socialismo e finisce per trovarli, tratteggiando profili che hanno l’immediatezza della realtà, filtrata dal talento letterario, e non scadono mai nella caricatura o nella demonizzazione. Si avverte invece un fondo di umana pietà dell’autore verso le vittime di un indottrinamento che rende ciechi ed ottusi.
“Finora fra i prigionieri non avevo incontrato nessuno che fosse comunista, e la convinzione era venuta formandosi in me che negli interrogatori essi nascondessero, per paura, questa loro qualità. Ma forse non è vero. Forse di comunisti in Russia ce ne sono veramente pochi, o altrimenti al fronte essi non sono stati mandati, poiché di tutti i soldati coi quali ho parlato, uno solo ne ho trovato iscritto al partito. (…) Questo che ho visto oggi era un bell’uomo sui 35 anni dagli occhi grigi e dai capelli biondissimi, alto, squadrato, mal vestito, ma pulito, anzi accuratissimo come igiene personale. Nonostante tre giorni di prigionia (d’altronde molto umana) aveva la barba perfettamente rasa, la divisa a posto, le unghie bianche e limate, la chioma pettinata. (…) Gli chiesi se era comunista e lui rispose con forza: ‘Sì’. Parlava sicuro e calmo. (…) Alla domanda se aveva preso parte ai bombardamenti di Helsinki rispose vivamente che l’aviazione sovietica non aveva mai bombardato Helsinki, avendo ricevuto l’ordine sin dal primo giorno di operazioni, di non colpire che obiettivi militari. Gli feci osservare che ero presente al bombardamento. Rispose: ‘Impossibile’. Insistetti che avevo visto con i miei occhi le donne e i bambini uccisi. Rispose: ‘Non è vero’. Non c’era nulla da fare. Gli domandai cosa pensava dei Finlandesi e lealmente mi disse che sono bravi soldati. Gli domandai cosa pensava dei Russi e mi rispose che sono bravi soldati. Allora ne spinsi avanti uno e gli feci palpare il cotonaccio della divisa, chiedendogli se anche l’equipaggiamento gli pareva buono. Egli rispose, impassibile, toccando il panno della propria divisa: ‘E’ buono come il mio’.”
Non sempre però la compassione di Montanelli riesce ad affiorare. Ad esempio, difronte al fanatismo di una giovane donna sembra prevalere il ribrezzo: “Oggi ho visto un personaggio di un certo interesse, una donna sovietica. E’ una ragazza di 22 anni, studentessa del terzo anno di medicina, infermiera volontaria sul fronte settentrionale dove è caduta prigioniera: una ragazza più bella che brutta; lavata e pettinata un po’ meglio, potrebbe essere bella addirittura e i Finlandesi per galanteria la trovano bellissima. Sempre per la stessa galanteria essi si sono rifiutati di internare la compagna Olga in un campo di concentramento con gli altri prigionieri, sebbene lei protestasse di voler essere trattata come un soldato qualunque. Come un soldato qualunque invece era vestita: pantaloni, stivali, ecc. Fumava come un camino e si dava arie militaresche. Si è avuta molto male perché le ho usato quei pochi elementari riguardi che ancora il sesso femminile ci impone, sesso che ella ha tenuto a farmi dimenticare ricorrendo a un gergo e a maniere piuttosto indecenti. Non ho avuto modo di interrogarla molto. Dopo le prime domande la conversazione si è risolta in un monologo, in cui riecheggiavano i luoghi comuni più tristi e più vieti della propaganda comunista. Io volevo saper qualcosa di più modesto che non la cosmogonia bolscevica, e cioè come era organizzato il servizio sanitario nell’esercito russo. (…) Posso riassumere così il contenuto di questa allocuzione: gli uomini sono nella massa stupidi. Solo una frazione di essi, quando sia ben guidata, riesce a rendersi conto dove e quale sia la felicità. Non è tutta la frazione che se ne rende conto, ma i capi di essa. Gli altri sono superiori alla stupida massa non perché hanno intelligenza bastevole a capire la verità, ma perché hanno intelligenza bastevole a capire che, non potendo capire, debbono rimettersi alla saggezza dei dirigenti. E’ il caso dell’umanità di questo secolo, che è come tutti gli altri secoli stupido anch’esso. Ma c’è stata una frazione di questa umanità che, un po’ meno stupida, si è rimessa disciplinatamente al retto giudizio di pochi illuminati. Tale frazione è la Russia. Dentro la Russia la maggioranza non è illuminata (Olga ha detto testualmente così), ma la disciplina la obbliga seguire i pochi veggenti. Diventata anche contro voglia felice, questa Russia ha il dovere di imporre la felicità a tutto il resto del genere umano. Ecco perché fa la guerra. I morti non contano perché quando si tratta del genere umano non si ha il diritto di lesinare il sangue, ma si ha il dovere di profonderlo. Era la rivoluzione universale in persona. (…) Le chiesi se ora, in mezzo alla infelice umanità di Finlandia, si sentiva infelice. E Olga, mangiando con ingordigia una patata lessa, mi rispose queste precise parole: ‘Compagno giornalista, puoi scrivere e stampare che un sovietico prigioniero dei borghesi finlandesi ha il dovere di sentirsi infelice’. Sia fatta la volontà di Olga e prendiamo atto che esiste il dovere sovietico di essere infelici. Fra i tanti sciagurati prigionieri che ho visto questo è forse il più sciagurato, perché non è riuscito nemmeno a farmi compassione.”
Se la compassione di Montanelli per i prigionieri russi è intermittente non lo è invece per le vittime innocenti della guerra. Tra le tante sceglie di soffermarsi su di un gruppo di monaci di Valamo, dando prova le sue doti di narratore: “La notte del 18 febbraio, duecentocinquanta monaci greco-ortodossi raccolsero in fretta i sacri paramenti bizantini, gli ornamenti e i gioielli della sagrestia, un favoloso tesoro di crocifissi d’oro, di antiche icone e di pergamene manoscritte in caratteri slavonici, si riunirono nella chiesa e pregarono per la salvazione dell’anima dei loro persecutori. Fuori nel chiaro di luna, ronzavano i motori sovietici, bombe cadevano in cerca di batterie finlandesi appostate intorno ai monasteri, razzi luminosi di pattuglie avanzate indicavano, a pochi chilometri di distanza sul lago, le posizioni sempre più vicine e minacciose del nemico. E i duecentocinquanta monaci continuavano a pregare, le ieratiche note del coro riempivano le navate della chiesa. Il comandante dell’artiglieria venne, rimase sulla soglia, guardò nervosamente l’orologio e non osò avanzare. L’archimandrita lo vide, gli fece un cenno con la testa sorridendo, seguitò a pregare con gli altri. Finalmente … il canto cessò, i monaci comparvero fuori, le ombre nere sul biancore riflesso della neve, chi a piedi, chi su slitte trainate da cavalli e da cani, dietro il carico dei loro sacri tesori. Essi presero il cammino della terraferma attraverso i ghiacci del lago, alle spalle lasciandosi le rovine dei loro monasteri distrutti dalle bombe sovietiche, ultimo angolo della Santa Russia sopravvissuto nel Nord. Così è finita Valamo, monte Athos di Finlandia. (…) Il 18 tutti i monaci … scamparono sulla terraferma a Lahdenpohja e poi furono smistati a qui a Kannonkoski e alloggiati nella scuola, dove li ho trovati. Sono tutti vecchi, il più giovane ha 70 anni; e hanno occhi di bambini. Pregano sempre perché Dio perdoni ai loro persecutori e padre Hariton ottuagenario sorride.”.
Montanelli gioca sapientemente sui contrasti, insiste su dettagli apparentemente insignificanti per descrivere le sfaccettature dello spirito del popolo finlandese, capace di conservare intatta la sua sensibilità umana anche in mezzo all’orrore imposto dagli imperativi della guerra. Nel febbraio 1940 osserva: “Questo popolo è indipendente da venti anni e la sua Patria se l’è sofferta per secoli. L’ama a tal punto e con tale gelosia che pur di alienarla è pronta a distruggerla. E lo fa soffrendo sotto una maschera di indifferenza che a volte ci fa dubitare se questi siano esseri umani. ‘Ma siete esseri umani?’ chiedevo proprio oggi a un amico, appunto di Vipuri, che da Vipuri giungeva con un gruppo di esuli e che, per aver vissuto molti anni in Italia, comprende i miei dubbi. Eravamo per strada, nevicava, il mio amico si stringeva nelle spalle, gli altri esuli ristavano e guardavano. A un tratto uno di essi corse verso il marciapiede, raccolse qualcosa che si agitava su di un lastrone di ghiaccio. Era un passerotto mezzo assiderato. Tutti lasciarono il loro bagaglio per accorrere a vedere. Il passerotto stava lì nella mano dell’uomo che lo serrava con strana tenerezza. A un tratto si provò a volare. Fece un piccolo volo sul ramo di un alberello. Tutti si misero a discutere. Deliberarono qualcosa, uno andò a cercare una scala in un magazzino di fronte, un altro una gabbiuzza in una casa dirimpetto. Era buffo vedere gente di sessante, settant’anni dare la caccia a un passerotto. Finalmente lo presero, lo scaldarono coi fiati, lo depositarono in gabbia e furono contenti di una contentezza gonfia di visibile commozione. Senza punta visibile commozione costoro 24 ore prima avevano appiccato il fuoco alle loro case, perché non cadessero in mano ai Sovietici.”.
Dai carnefici alle vittime, dalle comparse ai protagonisti, nessuno rimane escluso dalla cronaca montanelliana. Nella descrizione del maresciallo Mannerheim, comandante supremo dell’esercito finlandese, riecheggiano le virtù di un intero popolo. Il ritratto offertoci da Montanelli non è questa volta vivido ed immediato, assomiglia piuttosto al busto di un eroe della classicità scolpito nel marmo. Non si tratta tuttavia di una celebrazione di maniera concepita per finalità propagandistiche o per semplice piaggeria, ma di una intuizione capace di cogliere nella figura di Mannerheim l’incarnazione del popolo finlandese in guerra. Certamente siamo difronte ad una semplificazione giornalistica, ma dalla grande forza letteraria, una semplificazione che tenta di cogliere il senso degli eventi ed individuare una linea interpretativa, affidandosi all’istinto. Nella corrispondenza del 30 dicembre 1939 Montanelli scrive: “A settantadue anni suonati, il maresciallo Mannerheim si incontrava ogni mattina in tempo di pace a galoppare nel parco su un bianco cavallo. Bellissimo uomo, adusto, militaresco; coi capelli folti e lucidi, con corti baffetti neri, si teneva ancora poche settimane fa un poco in disparte dalla vita pubblica, non per alterigia o disprezzo ma per un istintivo amore di solitudine. Cordiale e indulgente, il suo sforzo era quello di far dimenticare al suo interlocutore chi egli fosse e che cosa rappresentasse nella storia della Finlandia e dei Paesi nordici. Difficilmente si riusciva a trascinarlo a parlare di se stesso e dei suoi ricordi. Unici argomenti per i quali mostrava interesse erano la caccia, i cani, i cavalli. (…) Durante la crisi che ha condotto alla guerra con la Russia alcune voci di popolo hanno attribuito a Mannerheim la parte di rappresentante dell’intransigenza. Il suo passato di ufficiale zarista e il progetto di crociata antibolscevica del 1919 rafforzavano l’opinione che il maresciallo pensasse sempre ad una vendetta contro il bolscevismo. E sebbene egli limitasse rigorosamente la sua opera al campo tecnico-militare, i settori più accesi del nazionalismo finnico guardavano a lui come al naturale interprete dei loro voti. Ma Mannerheim non ha avuto, finché la partita si è svolta al tavolo diplomatico, opinioni o per lo meno non ne ha mostrate. Ora Mannerheim non si vede più. Per sua particolare natura è sempre stato un personaggio stranamente lontano e solitario, circondato per sua stessa volontà da una zona fredda nella quale raggelavano e smorivano le espansioni dei suoi simili. Ma ora egli è più lontano che mai, al centro del misterioso quartier generale finnico di cui tutti ignorano la sede. Da una stanzetta disadorna quasi monacale, seduto ad una grande ordinatissima scrivania, Mannerheim dirige le operazioni vittoriose del suo esercito. Egli manovra sulla carta, calcola con pazienza, ascolta con attenzione, emana pochi ordini precisi. Tutto dipende da lui: esercito marina aviazione. E tutto a lui rassomiglia nell’azione: equilibrato calmo tenace.”
Lugi G. De Anna, docente di lingua e cultura italiana presso l’università di Turku, nel suo volume dedicato al rapporto tra Montanelli e la Finlandia ha ridimensionato, soprattutto in relazione ad alcuni dettagli legati alla figura del maresciallo Mannerheim, l’attendibilità di Montanelli. Ciò non toglie nulla al valore dei Cento giorni della Finlandia come reportage giornalistico di straordinaria forza e ricchezza di informazioni. Naturalmente è sempre lecito, anzi doveroso, nutrire dubbi sulla attendibilità storiografica della scrittura giornalistica. Visiti da vicino i fatti ed i personaggi possono essere distorti dai testimoni persino inconsapevolmente. Testimonianza diretta non è sinonimo di verità assoluta. Non si può tuttavia negare l’efficacia di un buon reportage per chiarire un contesto, suggerire interpretazioni e fornire un ampio ventaglio di fatti da verificare e da ridefinire alla luce dei documenti disponibili a posteriori. Qualche brandello di verità può semmai scaturire dalla pluralità delle fonti. Le cronache di Montanelli sono una di esse, una delle più preziose. Grazie Indro.
Bibliografia
I. MONTANELLI, Cronache di guerra. La lezione polacca, I cento giorni della Finlandia, La guerra nel fiordo, Milano, Editoriale nuova, 1978.
B. P. BOSCHESI, Enciclopedia della Seconda Guerra Mondiale, Milano, Mondadori, 1983.
D. FERTILIO, Montanelli, inviato ribelle nella Finlandia aggredita da Stalin, “Il Corriere delle Sera”, 15 Febbraio 1997.
L. G. DE ANNA, La memoria perduta. Montanelli e la Finlandia, Rimini, Edizioni all’insegna del Veltro, 2005.
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" Alla fine dell’estate Péjsach doveva partire per l’America con la sua famiglia. Si era già abituato al “tubino” e invece degli occhiali di prima portava il pince-nez con un nastro. Una volta, passeggiando con lui, gli restai indietro di mezzo passo, e l’occhio mi cascò per caso sulla sua lente. “Aspetta un po’,” dissi stupito. Gli tolsi il pince-nez dal naso e lo poggiai sul mio. Il giorno stesso andai dall’oculista e mi misi le lenti sul naso. Adesso vedevo benissimo i visi per strada, leggevo i numeri sulle carrozze e le insegne all’altro lato della strada. Vedevo tutte le foglioline sugli alberi. Guardai la vetrina del negozio “Faenza” e vidi cosa c’era sugli scaffali interni. Vidi dodici piatti messi in fila su cui erano disegnati degli ebrei ricoperti di stracci, sotto c’era scritto “Facevano credito”. Oltre il fiume, stupito, vedevo le persone, un gregge, il mulino a vento di Griva Zemgal’skaja. Fischiettando passò sulla riva Osip, insieme a cui avevo studiato per gli esami della classe preparatoria. Si era tolto tutto rapidamente ed era rimasto marrone con addosso solo il cappellino rotondo, con quello era corso in acqua. Correndo, mi guardò con la coda dell’occhio. Volevo dirgli “Salve”, ma non osai.
Andai alla casa dove l’inverno prima abitava Eršov. Vidi un disegno di chiodi sul cancellino da lui tante volte aperto. Cigolò. Attraverso la soglia, curvo, passava Olechnovič. Aveva quel mantello con il cappuccio in cui l’avevo visto d’inverno. Adesso riuscii a vedere che l’abbottonatura del mantello era composta di due teste di leone e di una catenella'che le univa. La sera, quando fece buio, vidi che c’erano molte stelle e che avevano i raggi. Pensai che fino a quel momento tutto quello che avevo visto lo avevo visto male. Sarebbe stato interessante, vedere adesso Natalie e sapere com’era. Ma Natalie era lontana. Quell’anno passava l’estate a Odessa. "
Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; p. 139.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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accadde...oggi: nel 1881 nasce Mary Antin
accadde…oggi: nel 1881 nasce Mary Antin
Mary Antin (Polack, 13 giugno 1881 – Ramapo, 15 maggio 1949) è stata una scrittrice, attivista e politica statunitense di origine ebraica.
Mary Antin nacque il 13 giugno 1881 a Polack, una cittadina all’epoca facente parte dell’impero zarista. Il padre, Israel, emigrò negli Stati Uniti nel 1891 e, riuscito a raccogliere i fondi sufficienti per pagare la traversata, si fece raggiungere dal resto…
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" Russia! Russia! Ti vedo, dalla mia meravigliosa, bellissima lontananza vedo te: sei povera, dispersa e inospitale; non hai arditi prodigi di natura coronati da arditi prodigi d'arte, che rallegrino o intimoriscano gli sguardi: città con alti palazzi dalle molte finestre, cresciuti nelle rocce, alberi pittoreschi ed edere cresciute nelle case, fra lo scroscio e il pulviscolo eterno delle cascate; il capo non si piega all'indietro per vedere massi di pietra che sopra di esso si innalzano senza fine verso il cielo; non scintillano attraverso bui archi sovrapposti, avvolti da tralci di vite, d'edera e da miriadi di rose selvatiche, non scintillano attraverso di essi in lontananza le linee eterne di monti radiosi, che fuggono in limpidi cieli d'argento. Tutto in te è aperto, deserto e uniforme; come punti, come piccoli segni, modestamente spuntano in mezzo alle pianure le tue non alte città; nulla lusinga e incanta lo sguardo. E dunque quale forza incomprensibile, misteriosa, attira a te?
Perché echeggia e risuona senza tregua all'orecchio il tuo canto malinconico, che vola per tutta la tua lunghezza e ampiezza, da mare a mare? Che c'è in questa canzone? Che cosa chiama, e singhiozza, e stringe il cuore? Quali suoni baciano dolorosamente, e vogliono penetrare nell'anima, e si avviluppano intorno al mio cuore? Russia! Che vuoi dunque da me? Quale legame incomprensibile si cela fra noi? Perché mi guardi così, e perché tutto ciò che è in te mi rivolge occhi pieni di attesa?… E ancora, pieno di perplessità, io resto immobile, e già sul mio capo incombe una nube minacciosa, gravida di piogge future, e il pensiero ammutolisce davanti alla tua vastità. Che cosa profetizza questa vastità sconfinata? Non deve forse nascere qui, in te, un'idea infinita, quando tu stessa sei senza fine? Non deve forse apparire qui un eroe favoloso, quando c'è spazio in cui possa agire liberamente e muoversi? E minacciosamente mi afferra la vastità possente, riflettendosi con forza tremenda nel mio profondo; i miei occhi sono illuminati da un potere sovrannaturale: oh! quale distesa fulgente, splendida, ignota alla terra! Russia!… "
Nikolaj Vasil'evič Gogol', Anime morte, traduzione di Paolo Nori, Feltrinelli, 2009.
[Edizione originale: Мёртвые души, 1842]
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“ Adesso Serge e Andrej erano entrambi nella prima classe. Serge era alla sezione "principale" e Andrej alla "parallela". Avevano in comune le lezioni di catechismo, e allora si sedevano accanto. Una volta Andrej disegnò una vignetta durante l'ora di catechismo. Si chiamava Vogliate favorire, miei cari ospiti. La Karmanova la vide e ne fu molto scontenta. "Tutte queste pasquinate," prese a dire disgustata. "Solo chi è perfetto può permettersi di criticare." Ordinò a Serge di cambiare banco. Avevamo già festeggiato l'onomastico dell'erede e avevamo partecipato alla liturgia nell'anniversario della "salvezza a Borki"¹. L'indomani, non so in che posto molto vicino, una bomba esplose all'improvviso e fece un boato spaventoso, proprio mentre suonava la campanella e l'insegnante entrava lisciandosi la barba e facendosi il segno della croce davanti all'immagine, mentre il supplente aveva cominciato a recitare il Beatissimo. Quel giorno la scuola fu chiusa a tempo indeterminato. Mentre pranzavamo, nelle officine all'improvviso le sirene risuonarono in un modo particolare. Dopo un po' udimmo degli spari. Sul far della notte Evgenija andò a informarsi per noi e venne a sapere che quattro uomini erano stati fucilati. I rivoltosi li avevano presi e li portavano per la strada al lume delle fiaccole per sollevare il popolo. Andammo a vedere la sepoltura. I preti avanzavano con visi solenni. "Ecco quelle canaglie," disse la Karmanova e ci spiegò che secondo la religione sarebbero tenuti a stare per il governo, ma loro odiano la Russia e sono pronti a tutto pur di farci carognate. Dietro le tombe suonavano le orchestre delle officine e dei pompieri. Bandiere e stendardi con scritte avanzarono oscillando per quasi un'ora intera davanti alle nostre finestre e alla fine perdemmo interesse. Più tardi venimmo a sapere che al cimitero c'era stata una sparatoria durante la quale Vasja Strižkin era stato ferito da una scheggia. Poveretto, fino alla guarigione non poté né stare sdraiato sulla schiena, né mettersi a sedere. Perché non chiacchierassi, maman mi ordinò di leggere Opere di Turgenev. Le lessi con zelo, ma non mi piacquero più di tanto. Ricominciammo le lezioni più volte per poi rismettere. Cominciammo a usare parole come "meeting", "Centuria nera", "arancia",² "speck". Una volta, quando di nuovo ci fu sciopero, Serge e Andrej vennero da me e mi dissero che avevano appena sgominato la scuola tedesca. Si erano appropriati del giornale di classe. Il "Registro" iniziava così: "Anòchina, Bòldyreva"³. Mi misi a ridere, ma verso sera mi rattristai. Pensai che facevano tutti qualcosa di interessante, mentre a me invece non veniva mai nulla in mente. Anche dove lavorava maman c'erano ogni tanto degli scioperi. Lei era "di destra", ma scioperava volentieri. Una volta mi raccontò che il suo capufficio era stato a un meeting ma aveva deciso di non andarci più, perché mentre si trovava lì s'era accorto di condividere opinioni inammissibili. Lo lodammo. Anche Jampol'skij e Livšic davano dei talloncini con l'indicazione della somma spesa a ogni acquisto, e chi poteva esibirne per dieci rubli riceveva qualcosa. L'allievo Martinkevič, che su incarico del padre aveva comprato gli accessori di cancelleria, ricevette da Jampol'skij un album per versi. Quando noi eravamo a scuola a studiare lui esigeva che gliene scrivessimo. Io lo tenni a lungo quel piccolo album, mi tormentavo perché non sapevo che scriverci. C'erano dei versi intitolati Decotto di salvezza. Cominciavano così: Prendete un'oncia di mitezza aggiungetene due di pazienza. ed erano firmati "Con la mia benedizione, ieromonaco Gavriil". Risultò che il monaco della chiesa di fronte casa nostra era parente di Martinkevič. “
¹Il 17 ottobre 1888 a Borki, una stazione sulla linea ferroviaria Kursk-Charkov-Sevastopol', il treno su cui viaggiava Alessandro III fu colpito da una bomba dei terroristi di Narodnaja volja, ma lo zar e la sua famiglia restarono illesi; in ricordo vi fu fondato un monastero [N.d.C.]. ²Le “Centurie nere” erano organizzazioni antisemite che perseguitavano gli ebrei e organizzavano pogrom; le bombe artigianali fatte dai terroristi erano soprannominate "arance" [N.d.C.]. ³Ossia dei normalissimi cognomi russi [N.d.C.].
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Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; pp. 70-72.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*. Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “
*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.
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Andrej Amalrik, Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.
[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]
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