#lotta operaia
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maggiethecatchatterley · 9 months ago
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«Non è giusto fare questa vita di merda dicevano gli operai nell’assemblea nei capannelli alle porte. Tutta la roba tutta la ricchezza che produciamo è nostra. Ora basta. Non ne possiamo più di essere della roba della merce venduta anche noi. Noi vogliamo tutto. Tutta la ricchezza tutto il potere e niente lavoro. Cosa c’entriamo noi col lavoro. Cominciavamo a avercela su a volere lottare non perché il lavoro non perché il padrone è cattivo ma perché esiste».
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Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, Milano, 1971 [Fondazione Bonotto, Molvena (VI)]
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lucas-veg · 7 months ago
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Il Comitato di lotta per il Cile (Avanguardia Operaia, Lotta Continua, Partito di Unita Proletaria) in Piazza della Repubblica. Foligno. 1974.
El Comité de lucha por Chile (vanguardia obrera, Lucha continua, Partido de unidad proletaria) en Plaza de la República. Foligno, Italia. 1974
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radiso1978 · 1 year ago
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RADISOL, Il sogno della rivoluzione nell’Italia del 1978. Romanzo, Alfredo Facchini, Ed. Red Star Press
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Il libro è ordinabile sulle piattaforme Feltrinelli, Amazon, Red Star Press, Libreria Universitaria, Mondadori, Rizzoli, Ibs
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curiositasmundi · 5 months ago
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Luana è morta il 3 maggio del 2021 finendo nell’ingranaggio di un orditoio della fabbrica in cui lavorava, a Montemurlo, in provincia di Prato. Lavorava lì da circa due anni, aveva fatto quella scelta per avere una paga sicura anche per dare stabilità al suo bambino. Si era alzata come ogni mattina alle cinque per andare a svolgere il suo lavoro di apprendista. «Quel giorno lei sarebbe dovuta rientrare a pranzo: era il mio compleanno – ricorda la madre Emma – alle 13.40, mentre l’acqua della pasta stava per bollire, sono arrivati due carabinieri a darmi la notizia: mia figlia si trovava all’obitorio».
La signora Marrazzo si batte per il tema della sicurezza sul lavoro, porta avanti le sue istanze, partecipa ai processi, interviene nelle scuole. «Senza la sicurezza, non si torna a casa. Voglio dirlo ai giovani perché le Istituzioni sono assenti e, mentre i responsabili patteggiano o si salvano, in un modo o nell’altro, con attenuanti e con sospensioni della pena, il nostro, di noi famigliari, è un ergastolo a vita. Ci vogliono pene gravi o gravissime».
«Non si può immaginare il dolore di una mamma che perde un figlio. Non passa, aumenta. Mi aggrappo a mio nipote, non ricordo più com’ero prima di quel giorno. Luana riempiva la casa di gioia, mi manca in tutto. Quella porta non si apre più e così la ritrovo nei ricordi e nel suo cellulare, dove riascolto i suoi audio. Mi manca andare in giro con lei, condividere. Quando riscuoteva lo stipendio era felice e mi portava subito fuori. Aveva tempo per tutti, anche dopo il lavoro. Con suo figlio, con me, con le amiche, con il suo compagno: trovava il tempo per amarci tutti. Non è giusto andare a lavorare per produrre quel poco di più per l’azienda e perdere la vita, lasciare un figlio orfano. I sindacati devono unirsi tutti. Non ho mai ricevuto una lettera da parte dell’azienda e il giorno del funerale hanno lasciato aperta la fabbrica. Non voglio vendetta, ma dare un segnale chiaro».
Sono passati diversi anni, ma di lavoro si continua a morire, come ha scritto Raffaele Bortoliero nel libro “Non si può morire di lavoro – Storia di giovani vite spezzate”. L’autore è impegnato a promuovere la sicurezza sui luoghi di lavoro raccontando le storie di giovani, alcuni studenti lavoratori, che hanno perso la vita lavorando e che nessun Paese civile dovrebbe dimenticare. Così come non si dovrebbero dimenticare le loro famiglie, abbandonate al loro dolore e alla rassegnazione.
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ninocom5786 · 10 months ago
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Come nacque il fascismo? Non nacque solo dal fanatismo, dal nazionalismo e dal razzismo, nacque per necessità delle classi sociali più ricche, degli aristocratici, dei nobili, degli impreditori, dei banchieri e persino dei politici liberali, democratici e conservatori.
Il fascismo nacque per sedare le lotte sociali dei lavoratori e delle lavoratrici, per irrigidire i poteri delle istituzioni borghesi e dei padroni, per stroncare il movimento operaio rivoluzionario innescato dalla rivoluzione d'ottobre in Russia.
I comunisti furono i primi a essere antifascisti e alla testa del movimento antifascista perché furono i primi e unici a denunciare la collusione delle democrazie occidentali, delle loro istituzioni, dei politici liberal democratici, dei padroni e delle banche con il fascismo perché loro braccio destro.
A quasi 80 anni dalla morte (giusta) di Mussolini, ci troviamo ancora a fare accostamenti ridicoli e inutili, a sdoganare il fascismo, a reprimere ogni lotta operaia e popolare, a censurare ogni libertà, dissenso e analisi. È tutto un mondo al contrario questo, veramente inaccettabile e stupido.
Abbiamo avuto 40 anni Democrazia Cristiana, 20 anni di Berlusconi berlusconiano, 10 anni di governi PD, ma il fascismo non è mai morto, anzj si è reincarnato prettamente nel centrodestra e nelle istituzioni della Repubblica italiana.
I fascisti sopravvivono e vivono grazie alla liberal democrazia e al profitto. E allora perché indignarsi per i saluti fascisti di Acca Larentia per poi dare armi a bande naziste e al fantoccio Zelensky in Ucraina? Perché indignarsi contro Meloni e Salvini quando sino a ieri Draghi, Conte e Renzi hanno ridotto sul lastrico lavoratori e lavoratrici?
Non tutti gli antifascisti sono comunisti, giusto, ma tutti i liberal sono antifascisti di cartone e sono persino anticomunisti. L'anticomunismo non è antifascismo perché legittima è favorisce solo il fascismo. Le 'rivoluzioni' liberali del 1989 hanno solo riabilitato i ratti fascisti che erano stati sconfitti e repressi grazie all'Armata Rossa dell'Urss. L'esercito sovietico liberò mezza Europa e i nazifasci si arresero solo dinanzi agli angloamericani per poi essere fuggiti in America o reintegrati in un nuove liberal democrazie. I sovietici invece li fucilavano.
La differenza tra fascismo e comunismo sta in tutto questo: interesse di classe e struttura economica e sociale.Accomunarli in quanto estremismi e totalitari è inaccettabile, volgare, infantile e idiota. Perciò non rompete le ⚾️⚾️ per i numeri di morti. 🤫🤐
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t-annhauser · 1 year ago
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Disprezzo per l'operaio (nella repubblica fondata sul lavoro)
Facciamo studiare i figli per garantirgli un futuro, perché non finiscano a fare gli operai, l'operaio è un esempio di fallimento nella repubblica fondata sul lavoro, la fine che fanno gli asini che non vogliono studiare, ma qualcuno che faccia l'operaio pure ci vuole e per questo ci sono gli immigrati, che tanto loro si accontentano, anzi, ci servono per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare, non dobbiamo discriminarli (a voi rilevare il razzismo implicito in questo argomento). Uno dice: ma se è un lavoro che nessuno vuole più fare almeno sarà ben retribuito... eh no, si tratta di un lavoro di infimo livello intellettuale, non serve una laurea, lo possono fare tutti, sennò a quest'ora i pulitori di cessi alla Stazione Centrale si sarebbero fatti lo yacht. Alla fine quel che si dovrebbe garantire a tutti è la dignità, ma già da come pensiamo si capisce quanto poco dignitosamente teniamo in conto il lavoro altrui... insomma lotta operaia, sì, ma coi figli degli altri.
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mucillo · 7 months ago
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"Weekend glory" Maya Angelou
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La poesia dell’autrice americana una donna nera della classe operaia,è il manifesto esplicito di tutta quella gente onesta, che preferisce vivere la propria vita senza compromessi, sotterfugi e azioni illecite.
Descrive lo stato d’animo di quei lavoratori che non hanno bisogno di indebitarsi fino al collo per apparire.  
Weekend Glory di Maya Angelou è una poesia che, malgrado sia stata scritta nell’ambito della lotta per i diritti civili e contro la discriminazione che colpisce i neri americani e in generale tutte le minoranze, può essere il simbolo di un modo d’intendere la vita.
In definitiva, la poesia celebra le gioie semplici e la resilienza della classe operaia.
***********
"Fine settimana" di Gloria di Maya Angelou
Alcune persone sciocche
non si rendono conto di come stanno le cose,
si atteggiano e si pavoneggiano
e si mettono in mostra,
tirandosela.
Si trasferiscono in condomini
sopra i ranghi,
impegnano le loro anime
alle banche locali.
Comprano auto di grossa cilindrata
che non possono permettersi,
girano per la città
facendo finta di annoiarsi.
Se vogliono imparare a vivere bene la vita
dovrebbero studiare me il sabato sera.
Il mio lavoro in fabbrica
non è una grande scommessa,
ma pago le bollette
e non ho debiti.
Mi faccio i capelli
per il mio bene,
così non devo raccattare
e non devo fare soldi a palate.
Prendo i soldi della chiesa
e vado dall’altra parte della città
a casa della mia amica
dove organizziamo il nostro giro.
Incontriamo i nostri uomini e andiamo in un locale
dove la musica è forte
e al punto giusto.
La gente scrive di me.
Non riescono a capire
come faccio a lavorare tutta la settimana
in fabbrica.
Poi mi metto in ghingheri
e ridere e ballare
e allontanare le preoccupazioni
con uno sguardo sorridente.
Mi accusano di vivere
di vivere alla giornata,
ma chi vogliono prendere in giro?
Anche loro.
La mia vita non è il paradiso
ma di sicuro non è un inferno.
Non sono al top
ma mi sento soddisfatta
se riesco a lavorare
e di essere pagata bene
e ho la fortuna di essere Nera
il sabato sera.
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polaroidblog · 11 months ago
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Sostanza di cose sperate. Voci e storie dal processo 7 aprile
di Massimo e Ivan Carozzi
https://www.raiplaysound.it/playlist/sostanzadicosesperatevociestoriedalprocesso7aprile
Il 7 aprile 1979, un'imponente operazione di polizia porta all'arresto di decine e decine di militanti dell'area di Autonomia Operaia. Il più noto è il professor Antonio Negri, docente di Dottrina dello Stato all'Università di Padova. L'accusa del magistrato Pietro Calogero desta scalpore. Secondo Calogero, dietro i tanti episodi di illegalità e terrorismo diffuso dell'Italia degli anni Settanta - dall'esproprio nel supermercato al sequestro Moro - ci sarebbe la regia di un gruppo ristretto, che manovra le tante sigle del mondo extraparlamentare e i gruppi clandestini che praticano la lotta armata. Per la prima volta nella storia della Repubblica viene contestato il reato di «insurrezione armata contro i poteri dello Stato». Le voci, i volti e le storie del processo 7 aprile occuperanno per anni le cronache dei giornali e dei tg, eppure oggi se n'è quasi del tutto perduta la memoria. Attraverso gli audio dei processi, interviste e documenti sonori, viene ricostruito il clima di un'epoca insieme alla vicenda di un teorema giudiziario, che se da una parte portò ad accertare molti reati, dall'altra fu responsabile di un abuso dello strumento della carcerazione preventiva e contribuì alla liquidazione di un'opzione politica ed esistenziale, quella «sostanza di cose sperate» evocata in aula dall'imputato Paolo Virno.
documentario alla radio davvero molto bello - come tutto quello che scrive Carozzi - che si chiude con questa canzone incredibile che avevo dimenticato:
youtube
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carmenvicinanza · 1 year ago
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Ágota Kristóf
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Ágota Kristóf, scrittrice e drammaturga ungherese passata alla storia della letteratura mondiale col suo capolavoro La trilogia della città di K. che ha ricevuto numerosi premi letterari ed è stato tradotto in oltre trenta lingue.
I suoi romanzi, dalla scrittura asciutta e incisiva, la prosa austera e la narrazione senza fronzoli, esplorano, in maniera cruda e provocatoria, temi universali come la violenza, la guerra, l’infanzia e la natura umana. I personaggi dei suoi racconti sono spesso segnati dalla condizione esistenziale dell’erranza, di chi è costrettə ad abbandonare la propria terra per cercare rifugio in un paese straniero
Nata il 30 ottobre 1935 a Csikvánd, un piccolo villaggio in Ungheria, a quattordici anni scriveva le sue prime poesie mentre studiava in un collegio di sole ragazze.
Nel 1956, dopo l’intervento dell’Armata Rossa per soffocare la rivolta popolare contro l’invasione sovietica, è fuggita con il marito e la figlia in Svizzera stabilendosi a Neuchâtel, dove ha vissuto fino alla morte, avvenuta il 27 luglio 2011.
Quando è scappata aveva poco più di vent’anni e una bambina di undici mesi avvolta alla schiena. Ha dovuto imparare a ricostruirsi una nuova vita, una nuova lingua, che ha adoperato per scrivere sentendosi sempre analfabeta perché non la padroneggiava abbastanza. Ha lavorato come operaia in una fabbrica, poi è stata insegnante e traduttrice, ha divorziato e avuto altri due figli. 
La sua fuga è stato un trauma da cui non si è mai ripresa, allontanata dagli affetti in un mondo totalmente diverso da quello a cui apparteneva. La condizione inesorabile della persona migrante che deve adattarsi a una realtà da cui si sente estranea.
Ha raggiunto il successo internazionale nel 1987, con la pubblicazione de Le grand cahier che, insieme a La preuve e Le troisième mensonge è confluito in quel grande capolavoro che è stato la Trilogie (Trilogia della città di K.). I tre libri ripercorrono il tema del distacco, la separazione di due gemelli, Klaus e Lucas, e il ritrovamento dopo la guerra.
La sua scrittura è scarna, crudele, reale. Un pugno nello stomaco di chi la legge. Quello che racconta non ha bisogno di fronzoli o abbellimenti, è il ritratto di una realtà dura che molto coincide con la sua biografia. Ha rappresentato le tragedie della guerra con una disperazione fredda e sorda, come se scrivesse attraverso gli occhi di un bambino che non giudica mai niente, che si limita a registrare quello che accade con spietata ingenuità.
Vari i romanzi e le opere teatrali che ha scritto consumando, con parole dure, la lotta per integrarsi in una nuova cultura, la continua guerra di chi ha perso la propria terra e non potrà mai più tornare indietro.
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conte-olaf · 2 years ago
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Difendere Gkn, ora, tentare il futuro, creare un precedente a favore di tutte/i.
Quello che stanno facendo alle lavoratrici e lavoratori QF ex-Gkn Firenze non può essere più permesso.
Cosa ci stiamo giocando in Gkn? E perché ce lo stiamo giocando ora?
Nel 9 luglio del 2021 la Gkn di Firenze sale alle cronache nazionali: una mattina, una mail licenzia tutti i 422 lavoratori. Da lì scaturisce una lotta che ad oggi è già storia: l’assemblea permanente, il motto Insorgiamo, la convergenza con il resto delle lotte sociali e ambientali e molto altro.
Quei licenziamenti vengono sconfitti. Prendono con il tempo però un’altra forma: quella dei licenziamenti per logoramento, silenziosi, non dichiarati ma ugualmente efficaci.
Ad oggi sono stati bruciati 220 posti di lavoro: 90 dei quali nell’ultimo anno con l’arrivo della nuova proprietà. Si tratta di Francesco Borgomeo, il quale acquista la Gkn nel dicembre del 2021. E l’ex advisor di Gkn e gli accordi tra lui e Gkn stessa rimangono riservati. Fa grandi promesse ma, di tavolo in tavolo, di rinvio in rinvio, non arrivano né piani industriali né investitori. Le istituzioni tollerano di fatto tale gioco: ad ogni incontro istituzionale la pazienza non ha mai limite ed ogni limite trova una nuova pazienza.
Il Collettivo di Fabbrica la chiama da subito la tattica della rana bollita: la rana viene cotta a fuoco lento, senza che se ne renda conto. E quando infine capisce di essere stata giocata, non ha più la forza per saltare via.
Da 20 mesi l'assemblea permanente è sempre la stessa, stesso obiettivo: preservare una risorsa industriale, tutelare i posti di lavoro. L’obiettivo dell’azienda, evidentemente anche: mandare via i lavoratori dalla fabbrica e smantellarla. La speculazione finanziaria ha forse semplicemente lasciato il posto a quella immobiliare.
Contro ogni previsione, l’assemblea permanente però resiste. E allora l’attacco dell’azienda si fa sempre più feroce. Dal logoramento passa a quella che abbiamo chiamato: la tattica dell’assedio. Assedio “per fame”: da novembre 2022 non vengono più pagati gli stipendi. Viene di fatto azzerato il contratto nazionale e interno: diritti acquisiti da 60 anni di lotte, ereditati internamente dalla vecchia Fiat di Novoli. Se osano comportarsi così, in una vertenza nazionale e alla luce del sole, cosa succede quotidianamente nelle piccole aziende, nei capannoni, nei magazzini, nei campi, nel turismo stagionale?
Si cerca di fare terra bruciata attorno agli assediati, a screditare la RSU, il Collettivo di Fabbrica, il movimento delle solidali e solidali, la Società Operaia di Mutuo Soccorso Insorgiamo, l’assemblea permanente.
Ma la lotta Gkn non è solo resistenza. E’ anche un progetto. Il Comitato Tecnico Scientifico del Collettivo ha progetti industriali, avanzati, sociali, mutualistici ecologici. L’intervento pubblico chiuderebbe la partita in cinque minuti e permetterebbe di renderli realtà. Ma i lavoratori sono pronti a ripartire a tutti i costi, anche con le proprie gambe, valutando l’autogestione cooperativa. Lanciano infatti un nuovo Insorgiamo tour e una vasta campagna di raccolta fondi.
Gkn è in bilico tra essere un ulteriore caso di scuola su come si chiudono le aziende o un precedente che può scompaginare in positivo l’intero metodo di lotta contro licenziamenti e precariato, di avvio di una reale transizione ecologica.
L’assemblea permanente chiama oggi a una nuova mobilitazione di popolo, operaia, di intellettuali, artisti solidali, dalla parrocchia al centro sociale, di tutte le organizzazioni sindacali, mutualistiche, dei movimenti ambientalisti e transfemministi il 25 marzo a Firenze.
Per la rana è arrivata la necessità di saltare. O la peggiore sconfitta o un salto verso il futuro. Ognuno al proprio posto. Liberiamo Gkn, rompiamo l'assedio, tentiamo il futuro. Teniamoci libere e liberi il 25 marzo, pronti ad andare a Firenze. Sosteniamo la campagna di crowdfunding per la reindustrializzazione autogestita. Intervento pubblico ora.
FIRMATAR3
Vittorio Agnoletto - Medicina Democratica
Bengi Akbulut - Concordia University Canada
Alessandra Algostino - Università di Torino
Massimiliano Andretta - Università di Pisa
Giorgio Ardeni - economista
Alessandro Arrighetti - Università di Parma
Lucio Baccaro - Direttore Max Planck Institute
Simona Baldanzi - scrittrice
Filippo Barbera - Università di Torino
Fabrizio Barca - Forum Disuguaglianze Diversità
Maura Benegiamo - Università di Pisa
Marco Bersani - coordinatore nazionale Attac Italia
Alioscia Bisceglia - Casino Royale
Sandra Bonsanti - giornalista
Paolo Borghi - Università di Modena e Reggio Emilia
Matteo Bortolon - Cadtm
Vando Borghi - Università di Bologna
Emiliano Brancaccio - economista
Luciana Castellina - giornalista
Fulvio Cervini - Università di Firenze
Federico Chicchi - Università di Bologna
Sandro Chignola - Università di Padova
Don Luigi Ciotti - Libera
Francesca Coin - sociologa
Max Collini - cantante
Chiara Colombini - storica
Massimo Cuono - Università di Torino
Giacomo D'Alisa - ICTA Barcellona
Angelo D’Orsi - storico
Monica dall'Asta - Università di Bologna
Donatella della Porta - Scuola Normale Superiore Firenze
Federico Demaria - Università di Barcellona
Marco Deriu - Università degli Studi di Parma
Donatella Di Cesare - filosofa
Tommaso Di Francesco - giornalista
Monica di Sisto - vicepresidente Fairwatch
Ida Dominijanni - giornalista
Cristina Donà - cantante
Enrico Donaggio - Université Aix-Marseille e Università di Torino
Giovanni Dosi - Scuola Superiore Sant’Anna Pisa
Nick Dyer-Witheford - Western University Canada
Ornella De Zordo - La Città Invisibile
Federico Faloppa - Università di Reading, Uk
Marta Fana - economista
Tommaso Fattori - Forum mondiale sull'acqua
Lorenzo Feltrin - sociologo
Francesco Filippi - storico
Valeria Galimi - Università di Firenze
Andrea Ghelfi - Università di Firenze
Federica Giardini - Università Roma Tre
Heidi, Elena e Giuliano Giuliani - Comitato Piazza Carlo Giuliani
Eric Gobetti - storico
Irene Grandi - cantante
Davide Grasso - scrittore e internazionale in Rojava
Carlo Greppi - storico
Lorenzo Guadagnucci - giornalista
Mauro Guerrini - Università di Firenze
Giovanni Impastato - Casa Memoria Felicia e Peppino Impastato
Rahel Jaeggi - Humboldt Universität Berlin
Walter Lapini - Università di Genova
Emanuele Leonardi - Università di Bologna
Gad Lerner - giornalista
Fabrizio Loreto - Università di Torino
Mimmo Lucano - attivista
Cristiano Lucchi - Fuori Binario
Citto Maselli - regista
Leonard Mazzone - Università di Firenze
Maria Grazia Meriggi - storica
Sandro Mezzadra - Università di Bologna
Tomaso Montanari - Storico dell'arte
Andrea Morniroli - saggista, cooperativa dedalus
Gaia Nanni - attrice
Alberto Negri - giornalista
99 Posse - musicisti
Alessandro Orsetti - Associazione Lorenzo Orsetti
Moni Ovadia - attore
Pancho Pardi - attivista
Don Pasta - “attivista” del cibo
Valentina Pazè - Università di Torino
Luigi Pellizzoni - Scuola Normale Superiore Firenze
Laura Pennacchi - economista
Adriano Prosperi - storico
Alberto Prunetti - scrittore
Gianfranco Ragona - Università di Torino
Christian Raimo - insegnante e scrittore
Paolo Ramazzotti - Università di Macerata
Vanessa Roghi - storica
Andrea Roventini - Scuola Superiore Sant’Anna Pisa
Don Alessandro Santoro - Comunità Le Piagge Firenze
Giorgia Serughetti - Università di Milano-Bicocca
Salvatore Settis - Archeologo e Storico dell'Arte
Joao Pedro Stedile - MST brasiliano
Cecilia Strada - Emergency
Diana Toccafondi - storica
Alto Tortorella e Vincenzo Vita - Presidenza ARS
Nadia Urbinati - politologa e giornalista
Maria Enrica Virgillito - Scuola Superiore Sant’Anna Pisa
Paolo Virzì - regista
Peppe Voltarelli - cantautore
Massimo Torelli - Firenze Città Aperta
Zerocalcare - fumettista
Alberto Zoratti - presidente Fairwatch
Hanno aderito le seguenti realtà:
Alter.POLIS (Torino)
ARCI
ATTAC ITALIA
AUTOGESTIONE IN MOVIMENTO-FUORI MERCATO
CASA DEL POPOLO DI SAN NICCOLÒ (Firenze)
CENTRO STUDI PIERO GOBETTI
COMITATO PIAZZA CARLO GIULIANI
COMUNE-INFO
CO.MU.NET-OFFICINE CORSARE (Torino)
DEMOCRATIZING WORK ITALIA
FAIRWATCH
FORUM DISUGUAGLIANZE DIVERSITÀ
GRUPPO ABELE
LIBERA
OXFAM ITALIA
PRIORITÀ ALLA SCUOLA
RETE DEI BENI COMUNI
RETE DEI NUMERI PARI
RETE ITALIANA IMPRESE RECUPERATE
RETE ITALIANA E CAROVANA NAZIONALE DEI MUTUALISMI
RIMAFLOW (Milano)
RSU COSPE
RSU OXFAM
UNIONE CULTURALE FRANCO ANTONICELLI (Torino)
UP! SU LA TESTA
VOLERE LA LUNA (Torino)
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anothermessagetoyou · 2 months ago
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Sbirri
Antonio Gramsci
Ogni volta che la politica manda a effetto una operazione contro la classe operaia, i primi a gioirne o, “meglio”, i primi a dare manifestazioni esteriori della loro contentezza non sono i “pezzi grossi”, commissari di polizia od ufficiali delle regie guardie o dei carabinieri, ma sono i più umili agenti, i più modesti carabinieri, l’ultima delle guardie regie.
Sono cioè gli agenti del governo usciti dalle file del proletariato più arretrato, costretti a questo passo dalla miseria o dalla speranza di trovare, abbandonando il campo o l’officina, una vita migliore, dalla persuasione di divenire qualche cosa di più di un povero contadino relegato in un paesetto sperduto fra i monti, di un manovale abbruttito dal quotidiano lavoro d’officina.
Questa gente odia, dopo averne disertato le file, la classe lavoratrice con un accanimento che supera ogni immaginazione. “Ecco le armi”, urlò trionfante non so se un agente investigativo od un carabiniere in borghese, scoprendo una rivoltella durante la perquisizione all’ “Ordine Nuovo”. E rimase stupito, spiacente che nonostante tutta la buona volontà non si riusciva a trovare nulla di compromettente per il nostro giornale. Pochi minuti dopo, un altro agente udendo uno scambio di parole tra il commissario ed un nostro redattore, esclamò: : “Finiremo per arrestarli tutti! Li arresteremo tutti!” A questo pensiero la sua bocca si aprì ad un riso tanto cattivo da sbalordire chiunque non sia abituato a questo genere di fratellanza umana. Ho compreso allora perché nelle caserme e nei posti di polizia, carabinieri, rinnegati, per quelli che sono passati nell’altro campo, per i mercenari che impegnano ogni loro energia per soffocare qualsiasi movimento del proletariato. E al disprezzo del proletariato s’aggiunge quello di gran parte della borghesia che guarda con occhio diffidente questa puzza di questura. Perché? Perché questa è la sorte di tutti i mercenari: al disprezzo e all’odio degli avversari s’aggiunge quasi sempre il disprezzo dei padroni. Ed è naturale, è umano che nell’animo di questa gente mal pagata, che non sempre riesce a procurarsi quanto occorre per una vita piena di stenti e di privazioni e che si sente circondata da una barriera che la divide dagli altri uomini, che la mette quasi fuori dalla società, germogli l’odio, metta radici la crudeltà: odio contro quelli che prima erano i fratelli, i compagni di lavoro e che ora disprezzano con maggior forza, crudeltà che si esplica contro di essi sotto mille forme diverse. Così, arrestare un operaio è una gioia, un trionfo, bastonarlo e malmenarlo, una festa, rinchiuderlo in carcere una rivincita. Solo nel momento in cui essi tengono un uomo fra le mani e sanno di poter disporre della sua libertà, della sua incolumità, sentono di possedere una forza che in qualche momento della vita li rende superiori ai loro simili. La gioia di acciuffare un uomo non proviene dalla consapevolezza di servire la legge, di difendere l’integrità dello Stato: è una piccola bassa soddisfazione personale, è la gioia di poter dire: “Io sono più forte”. Quale altra gioia possono essi provare? Quanti di essi sono in grado di formarsi una famiglia senza che la vita di stenti diventi vita di patimenti? Non è forse vero che a molti di questi transfughi del proletariato la vita non riserva altre soddisfazioni che qualche umile offerta di una passeggiatrice notturna in cerca di protezione? Noi li abbiamo visti pochi giorni or sono nella nostra redazione. Moltissimi, dall’abito, potevano benissimo essere scambiati per operai in miseria. E’ certo che erano umilmente, più che umilmente vestiti non solo per introdursi tra gli operai, per raccoglierne i discorsi, per spiarli, ma anche perché non potrebbero fare diversamente. E guardavano con gli operai veri, quelli che si dibattono tra la reazione e la fame e cercano affannosamente la via della liberazione. Essi comprendevano, sentivano che chi lotta è sempre superiore a chi serve. E quando hanno ammanettato i giovani che difendevano il giornale del loro partito il giornale della loro classe, il loro giornale, gli agenti hanno avuto un lampo di trionfo, hanno riso. Ma non era un riso spontaneo, giocondo. Era un riso a cui erano costretti dalla rabbia, dal disprezzo degli altri, dalla loro vita, dal destino a cui non potevano sottrarsi. Quel riso era la smorfia di Gwynplaine.
(A.Gramsci “L’Ordine Nuovo”, 30 agosto 1921)
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giancarlonicoli · 5 months ago
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22 apr 2024 10:32
“LA STORIA DELLA SINISTRA ITALIANA TERMINÒ NEL 1980” – FAUSTO BERTINOTTI RICORDA I 35 GIORNI DI LOTTA AI CANCELLI DI MIRAFIORI, LA MARCIA DEI 40MILA E LA SCONFITTA SINDACALE: “MOLTI ANNI DOPO ROMITI MI RACCONTÒ CHE DURANTE QUEI 35 GIORNI SI FACEVA PORTARE CON UN’AUTO AI CANCELLI, SOPRATTUTTO DI NOTTE. MI DISSE: ‘SPESSO HO PENSATO CHE AVREMMO POTUTO PERDERE’” – “POCHI MESI DOPO LA NOMINA DI D’ALEMA A PRESIDENTE DEL CONSIGLIO, QUANDO INIZIÒ L’ATTACCO DELLA NATO CONTRO BELGRADO, FRANCESCO COSSIGA MI CONFIDÒ CHE ‘SERVIVA UN POSTCOMUNISTA PER FARE LA GUERRA...’” -
Estratto dell’articolo di Francesco Verderami per il “Corriere della Sera”
D’un tratto la sua voce si incrina e le parole si fanno confuse. Prova a tenere il filo del racconto ma è costretto a fermarsi. «Chiedo scusa», dice Fausto Bertinotti mentre trattiene le lacrime e tenta di riprendersi. Non sono stati i trascorsi politici da leader di Rifondazione e da presidente della Camera ad averlo emozionato, «non c’era più pathos allora».
Sono stati i ricordi della sua vita sindacale ad averlo sopraffatto: le stagioni da segretario regionale della Cgil in Piemonte e la durissima vertenza sindacale con la Fiat del 1980: «Lì sì che ci fu pathos. Lì terminò la storia della sinistra italiana del dopoguerra, il 14 ottobre del 1980».
Anche se 18 anni più tardi la sinistra sarebbe arrivata a Palazzo Chigi con Massimo D’Alema?
«Ma quella è tutta un’altra storia. Ricordo che pochi mesi dopo la nomina di D’Alema a presidente del Consiglio, quando iniziò l’attacco della Nato contro Belgrado, Francesco Cossiga mi confidò che “serviva un postcomunista per fare la guerra...”».
Cosa vuol dire?
«Voglio dire che a seguito della sconfitta del movimento operaio negli anni Ottanta, il capitalismo non solo si liberò del suo avversario storico ma inglobò anche coloro i quali sarebbero dovuti diventare i suoi nuovi avversari, portandoli al governo. E infatti in Germania, in Francia, in Gran Bretagna e ovviamente in Italia, si affermarono i leader del centrosinistra, cioè quelli che avevano accettato la sconfitta del 1980 come una liberazione» […]
Sta dipingendo un centrosinistra succube di un sistema di potere che si muoveva come una Spectre.
«Nel 1980 il capitalismo si convinse che era l’ora dell’aut-aut in tutto l’Occidente. E decise di mettere fine al ciclo storico che negli anni Settanta aveva prodotto un forte avanzamento dei diritti sociali e civili. Nel 1980 in Inghilterra il sindacato dei minatori fu posto di fronte a licenziamenti di massa. E perse.
Rammento ancora la scena terribile dei lavoratori che rientrano nei fori delle miniere con le bandiere rosse ripiegate. Negli Stati Uniti i controllori di volo che facevano una rivendicazione salariale vennero piegati duramente. E in Italia la Fiat annunciò quattordicimila licenziamenti. La Fiat, che era stata madre e matrigna, luogo di repressione anti-operaia e di sicurezza del posto di lavoro, aveva pronunciato la parola indicibile».
Era l’11 settembre.
«E fu un trauma. Utilizzando un’improvvisa crisi di governo, l’azienda aveva tramutato i 14 mila licenziamenti in 24 mila casse integrazioni a zero ore per 18 mesi. E mentre il sindacato si interrogava sulla risposta da adottare, come reazione immediata i lavoratori decisero di presidiare la fabbrica. Nacque quel giorno il popolo dei cancelli.
Gli operai furono invitati a bloccare l’entrata e l’uscita di uomini e mezzi per bloccare la produzione. Questa scelta durò trentacinque giorni, caso senza precedenti nella storia europea. Allora maturò la convinzione che ci stavamo giocando tutto. O passavamo noi, salvando le riforme degli anni Settanta, o passavano loro che puntavano alla rivincita di classe».
E «loro» erano rappresentati da Cesare Romiti, amministratore delegato della Fiat e capofila della linea dura con il sindacato.
«La Fiat aveva deciso di rompere con la tradizione del negoziato. Non trattava. Fu una contesa di una drammaticità senza pari, uno scontro di classe allo stato puro. Molti anni dopo Romiti mi raccontò che durante quei trentacinque giorni si faceva portare con un’auto nei pressi dei cancelli. Ci andava soprattutto di notte. “Spesso — mi disse — ho pensato che avremmo potuto perdere. Ho avuto paura di perdere”. Mentre i padroni lottavano contro i lavoratori, il popolo dei cancelli issava all’ingresso di Mirafiori una grandissima tela con l’effigie di Marx».
Quel «popolo» poteva davvero contare sulla solidarietà esterna?
«La solidarietà manifesta era totale ma all’interno del sindacato e ai vertici del Partito comunista c’era chi pensava che, in fondo, la Fiat stesse operando una necessaria ristrutturazione aziendale».
Eppure Enrico Berlinguer venne ai cancelli.
«Ma Berlinguer era un’eccezione».
Un’eccezione?
«Berlinguer non era il Pci, era Berlinguer. Lui era in minoranza. E quando venne a Torino a parlare al Lingotto, Tonino Tatò, il suo più prezioso collaboratore, mi chiamò da parte: “Fausto, visto il contesto così drammatico, chiamate qualche volta. Tu lo sai che Enrico è su una posizione isolata rispetto alla vertenza Fiat. Ed è qui contro il parere prevalente della direzione. Perciò fatevi vivi”».
E lei chiamò Berlinguer?
«Qualche giorno dopo. Perché nel partito sotto un certo aspetto c’era grande libertà. Una volta ricordo di averlo contattato ripetutamente per un suo intervento alla Camera contro un provvedimento sulla mobilità. Chiedevo che tenesse una posizione intransigente. Ma in una di queste telefonate accadde un incidente.
Credendo di parlare con Tatò fui, come dire, piuttosto esplicito: “Tonino — esordii — puoi dire per favore ad Enrico di non fare come fa sempre lui? Stavolta deve essere netto. Lo so che non è nelle sue corde, ma per favore...”. Dall’altro capo del telefono una voce con chiara inflessione sarda rispose: “Ho capito benissimo. Se vuoi ti leggo il testo che ho preparato”».
Era Berlinguer?
«Sì. E mentre io provavo a scusarmi, a dirgli che non pensavo di parlargli in quel modo, lui imperterrito mi leggeva il discorso. Confesso di non aver compreso il contenuto tanto ero in imbarazzo. Non ero più in condizione di ascoltare».
E con Luciano Lama? Com’era il suo rapporto con il segretario della Cgil?
«Ammetto di aver apprezzato Lama con il passare del tempo. Ma la sua autorevolezza non era in discussione. Lo si intuiva anche dal modo in cui gestiva le assemblee».
Perché, come le gestiva?
«A Torino era stata organizzata una conferenza operaia del Pci. Allora c’era un contrasto tra il sindacato piemontese e il sindacato nazionale sul ruolo nelle industrie dei capi fabbrica, che avevano un peso significativo alle catene di montaggio. Ecco, per noi piemontesi i quadri intermedi erano “la frusta dei padroni”. Per il vertice nazionale erano invece “lavoratori come gli altri”. Il confronto era già iniziato a pranzo, dove c’era anche Berlinguer. A tavola la discussione si era un po’ scaldata quando Berlinguer alzò la testa dal piatto e chiese: “Ma quanti sono questi quadri?”. Risposi: “Quindicimila”. E lui: “Troppi”. E tornò a mangiare».
Dalla chiosa non sembrava sulle posizioni di Lama.
«Più tardi all’assemblea il segretario della Cgil affrontò quel tema con un breve inciso del suo discorso: “E siccome i quadri, che sono naturalmente lavoratori come voi...”. La sala esplose con i fischi. Lui fece un passo indietro dal leggio, guardò la platea, tornò davanti al microfono e stavolta scandì: “I quadri, che sono lavoratori come voi...”. La sala a quel punto si divise, tra fischi e applausi. Lui ripetè i suoi movimenti. Andò indietro, tornò al leggio. E mentre si avvicinava al microfono sferrò un pugno sulla tavoletta e urlò: “I quadri sono lavoratori come voi, dico io”. Scattò l’applauso generale. Era il segno del carisma del ruolo».
Ma quel carisma venne meno il 14 ottobre del 1980, quando veniste sconfitti dalla manifestazione dei dipendenti Fiat che volevano tornare a lavorare.
«La marcia dei Quarantamila non fu la nostra sconfitta, registrò la nostra sconfitta. La lotta si era fatta molto difficile e intanto si era incrinata l’unità del gruppo dirigente. Il segretario della Cgil però, durante quei 35 giorni, non espresse mai una critica alla lotta. E non contestò mai, né allora né dopo, la conduzione della vertenza. Al contrario di altri dirigenti autorevoli, come Bruno Trentin e Sergio Garavini, da Lama non sentii mai dire: “Non potete continuare con il blocco dei cancelli”. La sua fu una grande figura, drammatica, senza alcuna traccia di banalità. Lo dimostrò subito dopo la fine del presidio davanti alla Fiat, quando andammo a Roma al dicastero del Lavoro».
Dove incontraste Romiti.
«Romiti era il capo della delegazione Fiat. A guidare la delegazione del sindacato c’erano i segretari di Cgil, Cisl e Uil. C’era un’atmosfera funerea. Entrando nella sala ci accolse il ministro del Lavoro, che dopo un breve confronto disse: “Mi sembra che si siano determinate le condizioni per un comunicato conclusivo. Propongo che a redigerlo siano il dottor Romiti e il dottor Lama”. Lama compì un gesto semplice quanto solenne, che ho custodito per anni. Si alzò e disse: “Chiedo scusa. Io, noi, abbiamo perso. Che sia il dottor Romiti a scrivere il comunicato. Io lo firmerò”. Silenzio glaciale e fine. La nostra storia finisce così... Non potevamo non batterci... Accettare la resa... Tradire i nostri ideali...». ( Bertinotti si commuove ).
Se vuole riprendiamo dopo.
«Chiedo scusa. No, finiamo pure. Perdemmo e da allora c’è stata una progressiva dissintonia tra la sinistra e il suo popolo. Ma, come spiegò anni dopo con cinismo e lucidità il finanziere Warren Buffet, “Non è vero che la lotta di classe non c’è più. È vero che abbiamo vinto noi”. Cioè hanno vinto i padroni».
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guattarianbitch · 9 months ago
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«E' innegabile che la gioventù proletaria ha bisogno di educarsi alle lotte sociali e che lo scopo del nostro movimento è appunto tale preparazione. Ma è il metodo tutto speciale che noi seguiamo quello che gli adulti si ostinano a non comprendere.»
«Pur non trascurando la coltura teorica dei giovani, noi crediamo che la loro coscienza debba svilupparsi nel cimentarli alla lotta di classe che non ha bisogno di preparazioni filosofiche ma scaturisce viva e irresistibile dalle loro condizioni materiali.»
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radiso1978 · 1 year ago
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LETTERE A LOTTA CONTINUA: FAUSTO E IAIO
Scrivo di Fausto e Iaio perché eravamo amici. Avevano diciotto-diciannove anni, non erano di nessun gruppo, nonostante le ricorrenti simpatie di Iaio per Autonomia Operaia e il recente entusiasmo di Fausto per Lotta Continua.
L’istituto professionale non erano riusciti a sopportarlo e se ne erano andati. Fausto per passare all’Artistico e Iaio per andare a lavorare.
A Iaio piaceva mettersi la bombetta nelle serate del Leoncavallo, era buffo con quella faccia da indiano ragazzino. Una volta sul pullman, ha chiesto a una giovane signora che non conosceva: «Mi presta il bambino, che ci gioco un po’?».
Dal falegname dove lavorava come decoratore lo sfruttavano moltissimo, ma recentemente aveva un progetto di andare a lavorare con altri.
Gli piaceva leggere. Quando lo hanno ucciso aveva con sè I sotterranei di Kerouac. Raramente ho visto uno più autonomo di Iaio da miti e mode culturali, a parte il suo recente pallino per i segni zodiacali (era dell’Ariete). Con Iaio avevamo in cantiere una intervista sulla sua vita, il che lo divertiva molto. Gli chiedevo: «A che pensi Iaio?», e lui: «Niente, sogno».
Con Fausto avevamo recentemente parlato di proporre a «Lotta continua» un paginone su Baudelaire e compagni e i giovani che li leggono oggi.
Li trovavo spesso il sabato sera a ballare al Leoncavallo, Fausto imitava in modo eccezionale il dimenarsi da decadent-rock e poi veniva in radio a farci compagnia nelle notturne, collaborando alla scelta dei dischi, ma senza mai voler parlare al microfono per timidezza e discrezione.
Per caso sono stati uccisi proprio loro. Ma casualmente i killers hanno scelto con precisione esemplare: non due militanti organizzati, non due “combattenti comunisti”, non due “freaks alternativi”, ma due giovani compagni che stavano esattamente sotto e sopra queste dimensioni e figure.
So che è retorico usare le parole innocenza e verità a proposito di persone. Ma la sensazione terribile è proprio questa: d’innocenza e verità stroncate.
Paolo
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RADISOL, Il sogno della rivoluzione nell’Italia del 1978. Romanzo, Alfredo Facchini, Ed. Red Star Press
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personal-reporter · 1 year ago
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Vasco Pratolini, nella storia di Firenze
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Lo scrittore che raccontò la Toscana del Novecento… Vasco Pratolini nacque a Firenze il 19 ottobre 1913 in una famiglia di estrazione operaia, perse la madre quando aveva  solo cinque anni, così visse la sua infanzia con i nonni materni. Una volta tornato dal fronte, il padre si risposò, ma Vasco non riuscì ad inserirsi nella nuova famiglia, mentre lavorava in una bottega di tipografi, ma anche come cameriere, venditore ambulante e rappresentate. A diciotto anni Pratolini lasciò il lavoro e si dedicò agli studi da autodidatta ma. tra il 1935 e il 1937, gli fu diagnosticata la tubercolosi e venne  ricoverato in sanatorio. Tornato a Firenze nel 1937 lo scrittore cominciò a frequentare la casa del pittore Ottone Rosai che lo spinse a scrivere di politica e letteratura sulla rivista Il Bargello. Vasco fondò poi con l'amico poeta Alfonso Gatto la rivista Campo di Marte, conobbe anche Elio Vittorini che lo spinse a focalizzarsi più sulla letteratura che sulla politica. Intanto Pratolini si trasferì intanto a Roma dove nel 1941 pubblicò il suo primo romanzo Il tappeto verde, partecipò attivamente alla resistenza e, dopo un breve periodo a Milano, si trasferì a Napoli dove visse fino al 1951, mentre scriveva Cronache di poveri amanti, sulla vita degli abitanti della via del Corno, dove visse insieme ai nonni materni, vista come un’isola protetta dall'infuriare della lotta fascista e antifascista. In seguito Pratolini scrisse i romanzi: Un eroe del nostro tempo (1949) e Le ragazze di San Frediano (1949)  definiti neorealisti per la capacità di descrivere la gente, il quartiere, il mercato e la vita fiorentina con perfetta aderenza alla realtà. Con uno stile semplice, Pratolini descrisse il mondo che lo circonda, i ricordi della sua vita in Toscana e i drammi familiari come quello della morte del fratello, con il quale instaurò un vero e proprio dialogo immaginario nel romanzo Cronaca familiare (1947). Spesso i protagonisti dei romanzi di Pratolini sono in condizioni di miseria e di infelicità, ma restano animati dalla convinzione e dalla speranza di potersi affidare alla solidarietà collettiva. Tornato definitivamente a Roma nel 1951 Pratolini pubblicò Metello (1955), primo romanzo della trilogia Una storia Italiana, con lo scopo di descrivere diversi mondi, quello operaio con Metello, quello borghese con Lo scialo  (1960) e quello degli intellettuali in Allegoria e derisione (1966). Con la storia del manovale Metello lo scrittore desiderò superare i confini ristretti del quartiere, che fino ad ora era il protagonista dei suoi romanzi, per un affresco più completo della società italiana a partire dalla fine dell'Ottocento.. Si dedicò anche all'attività di sceneggiatore partecipando alle sceneggiature di Paisà di Roberto Rossellini, Rocco e i suoi fratelli di Luchino Visconti, e Le quattro giornate di Napoli di Nanni Loy. Alla pubblicazione della trilogia fece seguito un lungo periodo di silenzio, interrotto solo nel 1981 dalla pubblicazione de Il mannello di Natascia, con testimonianze e ricordi risalenti agli anni Trenta. Vasco Pratolini morì a Roma il 12 gennaio 1991, a 77 anni. Read the full article
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notiziarioicurezza · 1 year ago
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