#dissidenti sovietici
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“ Nulla minaccia la libertà della persona e il significato della vita come la guerra, la povertà e il terrore. Ma ci sono anche minacce indirette, appena più remote. Una di queste è l'intossicazione e l'istupidimento dell'uomo (la « massa grigia », per usare il cinico linguaggio dei profeti borghesi) da parte della cultura di massa. Il livello e il contenuto dell'intelligenza si abbassano, sia intenzionalmente che sulla base di interessi puramente commerciali. I mezzi usati sono l'insistenza sull'intrattenimento e sull'utilitarismo insieme a una censura sempre vigile nella sua opera di controllo e di protezione. Un altro esempio riguarda il problema dell'educazione. Un sistema educativo sotto il controllo del governo, la separazione della scuola dalla chiesa, una libera educazione garantita a tutti, tutte queste sono grandi conquiste del progresso sociale. Ma ogni medaglia ha il suo rovescio. In questo caso si tratta dell'eccesso di standardizzazione che arriva a comprendere persino il processo dell'insegnamento, i piani di studio, specie quelli di letteratura, storia, educazione civica e geografica, e il sistema di esami. I pericoli di un'eccessiva fiducia nell'autorità, della limitazione del dibattito e del coraggio intellettuale, è tanto più grave in un'età in cui le convinzioni personali si stanno ancora formando. Nella Cina di un tempo, il sistema degli esami per l'ammissione agli impieghi dello Stato portò alla stagnazione mentale e alla canonizzazione degli aspetti reazionari del Confucianesimo. Sarebbe davvero spiacevole avere a che fare con un sistema di questo genere in una società moderna. “
Andrei Dmitrievic Zacharov [alias Andrej Sacharov], Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, traduzione dal russo di Carlo Bianchi, Etas Kompass (Nuova collana di saggi n° 10), Milano, agosto 1968¹; pp. 83-84.
NOTA: Il testo, completato dall'autore nel maggio 1968, circolò dapprima in Urss in forma di samizdat quindi fu pubblicato il 6 luglio sul quotidiano di Amsterdam Het Parool con una traduzione di Karel van het Reve.
#Andrej Sacharov#saggi#saggistica#scritti saggistici#letture#Progresso coesistenza e libertà intellettuale#Carlo Bianchi#libri#dissidenti sovietici#citazioni#Guerra Fredda#regimi totalitari#relazioni internazionali#società russa#intelligencija#pacifismo#intellettuali sovietici#pacifisti#samizdat#diritti civili#civismo#nobel per la pace#scienziati#Unione Sovietica#libertà civili#libertà della persona#cultura di massa#educazione#coraggio#giustizia sociale
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Putin contro i gay: terapie di conversione allo studio e transizioni di genere al bando
I centri di riorientamento sessuale sono già diffusi nel Paese. Ma ora per ordine del presidente verrà creato un istituto di ricerca presso il Centro Serbskij dove venivano internati i dissidenti sovietici. E intanto la Duma ha approvato in prima lettura il divieto di quelli che… source
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#aggiornamenti da Italia e Mondo#Mmondo#Mmondo tutte le notizie#mmondo tutte le notizie sempre aggiornate#mondo tutte le notizie
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La vecchia Russia, la cui condizione preoccupava, anzi ossessionava i suoi scrittori, era evidentemente, per certi versi, una società ateniese nella quale una piccola élite, provvista di un corredo di notevoli qualità intellettuali e morali, di un gusto raro e di una portata dell'immaginazione senza precedenti, era mantenuta da una massa oscura di iloti nullafacenti, inetti e semibarbari, circa i quali molto è stato detto, ma, come hanno osservato correttamente alcuni marxisti e altri dissidenti, molto poco è stato conosciuto, men che meno dai benintenzionati che più hanno parlato di loro e, come credevano di fare, a loro e in loro vantaggio. Se nella politica leninista esiste una qualche tendenza duratura, è il desiderio di trasformare questa gente oscura in esseri umani a pieno titolo, capaci di stare in piedi da soli, riconosciuti come pari e magari anche come superiori dai vicini occidentali ancora sprezzanti. Per arrivare a questo, nessun prezzo è troppo alto; il progresso materiale pianificato è ancora considerato il fondamento sul quale poggia tutto il resto; e se si ritiene che la libertà intellettuale, e naturalmente civile, intralci o ritardi il processo di trasformazione dei popoli sovietici nella nazione meglio equipaggiata per capire e affrontare il mondo postliberale tecnologicamente nuovo, allora questi "lussi" devono essere sacrificati; o almeno temporaneamente messi da parte. Ogni cittadino dell'Unione Sovietica si è visto ricordare tutto questo con vari gradi di forza e, se qualcuno mette in atto una protesta interiore, resta inespressa e inefficace. Ciò nonostante, non è chiaro se questa linea implacabile potrà essere mantenuta con tanto rigore quando non ci sarà più la generazione di fanatici determinati che ha conosciuto la Rivoluzione. La speranza principale che l'affrancato genio russo possa rifiorire abita nella vitalità ancora inesaurita, nella curiosità onnivora, nella brama morale e intellettuale, incredibilmente intatta, del più immaginoso e meno gretto di tutti i popoli, che a lungo - forse lunghissimo - andare, e malgrado lo spaventoso danno inflittogli dalle catene che oggi lo vincolano, esibisce ancora la più grande promessa di giganteschi successi nell'uso delle sue vaste risorse materiali, e analogamente, di pari passo, nelle arti e nelle scienze, rispetto a ogni altra società contemporanea.
Isaiah Berlin, Le arti in Russia sotto Stalin, Adelphi 2018.
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Lezioni di Storia
Oggi su Twitter leggo di tal Stefano Parisi che scopro essere politico italiano.
Non parla di una qualche legge che ha scritto o di una proposta di legge o cose simili, no.
Ci racconta che trova inappropriato cantare Bella Ciao in una manifestazione come quella di Milano. Sì perché dopo l'inno di Mameli andava bene quello americano perché (giuro, ha scritto così) "Sono gli americani che hanno liberato gli ebrei dai campi di concentramento".
Peccato che i primi ad entrare nei campi di concentramento furono i sovietici dell'Armata Rossa. I comunisti, insomma.
Resosi conto della stronzata è riuscito a scriverne una anche più grossa dicendo che andava bene cantare pure l'inno sovietico ma poi in URSS i dissidenti venivano mandati nei gulag e non si viveva della stessa libertà che c'è in America. Ci sarebbero milioni di nativi americani che non sarebbero d'accordo, come milioni di vietnamiti, cubani, palestinesi e altri.
Di solito uno quando pesta una merda chiede scusa e cancella. Questo evidentemente trova gratificante fare simili figure.
Faccio fatica a non insultarlo pesantemente. Gli basterebbe fare qualche esame di scienze politiche tipo storia delle dottrine politiche o solo storia contemporanea o storia moderna per capire quanto si sbaglia. Oppure un sussidiario delle elementari. Niente, devono fare queste figure per dire sostanzialmente che detestano il comunismo.
Capre ignoranti.
Stamattina ho svegliato Tigrotto cantandogli "Bella Ciao", non volesse iddio che mi diventasse come Stefano Parisi. Se proprio deve diventare come Parisi preferirei Heather.
Ripenso ai miei nonni, ai sacrifici che hanno fatto per far studiare mia madre e i suoi fratelli. Vedo questi personaggi e mi chiedo dove, di preciso, è cambiato il modo di pensare. Dove di preciso si è smesso di dare importanza alla cultura.
Un tempo il commissario tecnico aveva la passione per i classici di Orazio, un attore aveva la laurea in giurisprudenza, oggi invece leggiamo questi strafalcioni da gente che pretende di amministrare la cosa pubblica.
Che tristezza!
#pensieri in solitudine#pensieri miei#la situazione è grave ma non seria#la situazione politica#Stefano Parisi
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Si chiama #Transfagarasian, è una strada che attraversa i carpazi fatta costruire da Ceausescu per ragioni militari agli inizi degli anni'70; il leader rumeno temeva una rappresaglia sovietica per essersi rifiutato di partecipare all'invasione della Cecoslovacchia nel 1968. Strano Paese la Romania, mi ha sempre incuriosito, un'enclave latina incastonata tra Mittleuropa e Balcani, l'unico tra i Paesi latini, però, di confessione ortodossa. Case ed edifici che richiamano la Baviera dentro le quali si parla un idioma che discende direttamente dalle popolazioni italiche mandate lì da Traiano dopo la conquista romana ed è l'unica tra le antiche province romane a conservare il ricordo della propria appartenenza all'impero nel proprio nome; insomma, un #rompicapo. Nicolae Ceausescu, più che un grigio burocrate del socialismo reale, sembrava un Caudillo, tra i suoi appellattivi c'era quello di "conducator", la versione rumena dell'italiano "duce". In occidente se lo contendevano e se lo coccolavano, l'uomo che riusciva a dire di no ai sovietici, una volta lessi che durante un pranzo presso i reali di Inghilterra, i coniugi Ceausescu, misero in tasca alcuni pezzi di argenteria e se da questa parte d'#Europa venivano corteggiati, ai vertici del Patto di Varsavia, invece, i rappresentanti rumeni venivano isolati ed additati come gli amici dei capitalisti. Poi arrivò l'89 che rovesciò il tavolo, i primi ad andarsene furono i polacchi seguiti dagli ungheresi, a Praga la polizia provò a reprimere ma il regime si arrese anche lì, nella DDR, il leader #Honecker si ricordò di quando, durante gli anni bui di Pinochet, aveva dato asilo ai dissidenti cileni e si rifugiò a Santiago lasciando che il muro cadesse, persino nella lontana ed immobile Bulgaria l'anziano leader si fece da parte. E il conducator? Il 15 dicembre del 1989 si svolse a Bucarest lo spareggio tra Romania e Danimarca per i mondiali del '90, Ceausescu in tribuna d'onore sembrava l'imperatore Commodo nel film "il Gladiatore" e una folla osannante lo acclamava al grido di "Ceausescu, Romania, Democratia"; la Romania travolse i danesi e staccò il biglietto per i mondiali e #Ceausescu volò in Iran a firmare contratti (presso Transfăgărășan)
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LA VERA STORIA DI WLADYSLAW SZPILMAN, “IL PIANISTA” RACCONTATO NEL FILM DI ROMAN POLANSKY, E DEL TEDESCO CHE GLI SALVÓ LA VITA Prima la prestigiosa Accademia Chopin, poi quella di belle arti di Berlino, gli insegnamenti dei grandi maestri dell’epoca, poi i primi palcoscenici, il debutto alla radio, i concerti, le colonne sonore e quella voglia di suonare la musica classica ma anche quella popolare, importando in Polonia perfino il jazz. Nel 1939, quando la Germania invade la Polonia, Wladyslaw Szpilman era ormai una star nel panorama musicale polacco, anche grazie al programma radiofonico in cui si esibiva quotidianamente. E proprio alla radio, il 23 settembre 1939, rischia di morire per un bombardamento tedesco che insieme al palazzo distrugge anche tutte le sue certezze. Pochi giorni dopo Varsavia viene occupata e presto le autorità germaniche impongono ai cittadini di origini ebraiche tutta una serie di limitazioni fino alla creazione del ghetto e alla deportazione. Wladyslaw è di famiglia ebrea. Vive insieme alla madre, al padre, al fratello Henryk e a due sorelle, Regina e Halina. Per sopravvivere va a lavorare al Cafe Nowoczesna e poi allo Sztuka Cafe. Purtroppo non basta ad impedire che gli Szpilman entrino nelle liste di persone da deportare. Tutti vengono caricati su un treno con destinazione Treblinka, tutti tranne Wladyslaw, “salvato” da un poliziotto ebreo che lo toglie dalla fila dei deportati. E così mentre vede i suoi vanno verso morte certa “il pianista” continua a lavorare come facchino insieme ai pochi sopravvissuti alle deportazioni. Nell’ aprile 1943, quando gli ultimi ebrei lotteranno armi in pugno contro le deportazioni, Wladyslaw riesce a rimettersi in contatto con vecchi colleghi della radio e con alcuni musicisti che per parecchi mesi lo ospitano clandestinamente. Più volte evita la cattura per un soffio, fino a quando rimasto senza cibo e acqua, durante l’insurrezione della città, poi repressa dalle truppe tedesche, è costretto a girovagare tra le macerie del ghetto. Qui viene sorpreso da Wilhelm Adalbert Hosenfeld, capitano della Wermacht, che invece di denunciarlo alle SS, decide di sfamarlo e aiutarlo, così come ha già fatto con altri polacchi e dissidenti. Il capitano porta all’ebreo pane, marmellata e gli regala perfino il suo cappotto, indicandogli quale sia il luogo migliore dove nascondersi. Grazie a lui “Il pianista” sopravvive alla guerra. Hosenfeld invece viene catturato dai soldati sovietici e mandato in un campo di prigionia. La sua divisa è la sua condanna. Nel 1951 Wladyslaw, ormai tornato al lavoro di un tempo, scopre l’identità dell’uomo che gli ha salvato la vita e cerca in tutti i modi di riabilitare la sua figura. Ma non ci riuscirà. Il 13 agosto 1952 Wilhelm muore in URSS. Sarà il figlio del “pianista” a continuare la sua battaglia per la riabilitazione del capitano tedesco che alla fine vedrà riconosciuto il suo coraggio, venendo riconosciuto come “Giusto tra le Nazioni”. Cannibali e Re
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"Così gli 007 inglesi lasciarono tornare i jihadisti in Libia"
2 giugno 2017
di Lorenzo Forlani
Una politica della "porta girevole", quella che secondo alcune rivelazioni fatte al quotidiano online Middle East Eye avrebbe adottato il Regno Unito nei confronti dei cittadini britannici di origine libica e dei libici in esilio in Gran Bretagna. A partire dal 2011 l'Mi5, il servizio di controspionaggio britannico, avrebbe permesso a questi ultimi di uscire ed entrare dal Paese per unirsi alle rivolte contro Gheddafi, nonostante su alcuni di loro pendessero sospetti su possibili attività terroristiche. Alcuni testimoni - combattenti ribelli attivi oggi in Libia, oppure rientrati in Regno Unito - avrebbero rivelato di essere partiti dall'Inghilterra per unirsi alle rivolte contro Gheddafi, senza essere soggetti ad alcun interrogatorio o indagine. Persone potenzialmente come Salman Abedi, il 22enne autore della strage di Manchester, la cui famiglia era rientrata in Libia per prendere parte alla rivoluzione contro il Rais.
Anche Abedi era rientrato nel Paese nordafricano nel 2011 per poi fare ritorno a Manchester in diverse occasioni. La polizia inglese è certa che Abedi sia parte di un più ampio network, certezza che ha portato all'arresto di numerose persone a lui collegate, incluso il fratello maggiore Ismail. Il fratello minore del kamikaze, Hashem, era stato arrestato invece dalle forze di sicurezza libiche poiché intendeva commettere attentati a Tripoli. In manette per presunti legami con jihadisti era stato anche il padre, Ramadan, uno dei tantissimi libici in esilio il cui rimpatrio sarebbe stato facilitato dal governo inglese per ingrossare le fila dei rivoltosi contro Gheddafi.
Da Londra a Tripoli, senza interrogatorio
Un cittadino britannico di origini libiche in condizioni di anonimato sostiene di essere rimasto sorpreso per il fatto di esser riuscito a volare facilmente in Libia nel 2011, nonostante fosse stato fino a pochi giorni prima agli arresti domiciliari per sospette attività terroristiche. "Mi hanno fatto partire, senza farmi alcuna domanda", rivela, aggiungendo di aver incontrato nel 2011 a Londra molti altri cittadini britannici di origine libica, le cui ordinanze di custodia cautelare erano appena state rimosse, proprio in corrispondenza dell'inasprirsi della guerra contro Gheddafi, in cui Regno Unito, Francia e Stati Uniti in particolare sostenevano i ribelli con una campagna aerea.
"Le autorità britanniche sapevano"
"Si trattava di ragazzi dell'al Jama'a al Islamiyah al Muqatilah bi Lybia (Gruppo dei combattenti islamici libici, LIFG, fondato negli anni '90 da veterani libici per combattere i sovietici in Afghanistan), e le autorità britanniche lo sapevano". Il Regno Unito aveva inserito il LIFG tra le organizzazioni terroristiche nel 2005, descrivendoli come una formazione che vuole "stabilire uno Stato islamico radicale", come "parte di un più ampio movimento estremista ispirato ad Al Qaeda". Belal Younis, un altro cittadino britannico recatosi in Libia nel 2011, racconta di essere stato fermato al suo ritorno dalla Libia secondo il "programma 7", che permette alla polizia e agli agenti dell'immigrazione di detenere e interrogare chiunque passi ai controlli di frontiera portuali o aeroportuali, per determinarne il possibile coinvolgimento in attività terroristiche. Younis poi aggiunge che le autorità, nel chiedergli se aveva intenzione di combattere in Libia, gli avevano chiaramente detto di non avere alcun problema con chi volesse andar a combattere contro Gheddafi. Younis conclude rivelando di aver addirittura intimidito due agenti dell'Mi5 che lo avevano fermato di nuovo al suo ritorno dalla Libia, confidando loro il nome e il numero dei loro colleghi che invece avevano quasi caldeggiato la sua partenza per la Libia.
Ma Abedi non c'entrava
"Gran parte dei ragazzi partiti per la Libia aveva circa vent'anni e veniva perlopiù da Manchester. Va precisato che secondo Younis questa politica della "porta girevole" adottata dal Regno Unito non avrebbe un ruolo nei fatti di Manchester, visto che nel 2011 l'Isis ancora non esisteva nella sua forma definitiva, e in ogni caso non c'era in Libia. "Io sono andato in Libia a combattere solo per la liberta'", aggiunge. La gran parte dei combattenti libici partiti dalla Gran Bretagna si recava prima in Tunisia, per poi passare il confine libico, oppure viaggiava passando da Malta. "Sono andato e tornato dalla Libia più volte nel 2011, e non sono mai stato né fermato né interrogato", afferma un altro cittadino britannico di origine libica, che sostiene di aver incrociato Salman Abedi nella moschea di Didsbury e che però quest'ultimo "non era parte della comunità e rimaneva sulle sue". "Un giorno sono spacciatori, il giorno dopo diventano musulmani", sostiene un altro libico di Manchester, aggiungendo di essere quasi certo che Abedi fosse in contatto con Anil Khalil Raoufi, un reclutatore dell'Is proveniente dal quartiere di Manchester, morto in Siria nel 2014.
Miliziani minorenni con "un forte accento di Manchester"
Un altro testimone rivela di aver svolto un lavoro di "pubbliche relazioni" in Inghilterra per il fronte ribelle prima delle rivolte contro Gheddafi, occupandosi di montare i video che mostravano i programmi di addestramento dei ribelli da parte delle SAS britanniche e delle Forze speciali irlandesi. Poi aggiunge di aver incontrato una volta in un campo di addestramento di ribelli a Misurata un gruppo di circa otto britannici di origine libica come lui, che gli avrebbero confidato di non essere mai stati in Libia prima di quel momento. "Sembrava avessero 17-18 anni, forse 20. Avevano un forte accento di Manchester".
Quel "patto nel deserto" tradito
Con l'inizio del ventunesimo secolo, molti libici in esilio in Regno Unito, che avevano legami con il LIFG, erano stati messi sotto sorveglianza in seguito alla firma di un accordo di collaborazione - il "patto nel deserto" - nel 2004 tra Tony Blair e Muammar Gheddafi. Poco prima dell'inizio delle rivolte contro Gheddafi, i servizi di sicurezza britannici avrebbero onorato l'accordo arrestando vari dissidenti libici sul suolo del Regno Unito, oltre a riconsegnare a Gheddafi due leader del LIFG, Abdel Hakim Belhaj e Sami al Saadi. Più avanti, Behlaj sarà uno dei leader della rivolta contro Gheddafi, mentre secondo alcune testimonianze un altro ex esiliato libico già segnalato dai servizi inglesi si occuperà addirittura dell'organizzazione della sicurezza per i dignitari in visita in Libia, come David Cameron, Nicolas Sarkozy e Hillary Clinton. Ziad Hashem, ex membro del LIFG a cui era stato dato asilo in Regno Unito, nel 2015 sosteneva di essere stato arrestato senza capi d'imputazione per 18 mesi prima del 2011, sulla base di informazioni fornite a Londra dai servizi libici. "Quando è iniziata la rivoluzione, le cose sono cambiate in Gran Bretagna", spiega Hashem. "Le autorità hanno cambiato il loro modo di rivolgersi a me e mi trattavano diversamente, offrendomi benefit, o la possibilità di lasciare il Paese, o quella di rimanere e di ottenere la cittadinanza". Preso da: http://ift.tt/2qKFpWI http://ift.tt/2rKuucU
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Documento CIA del 1988 sull’origine dell’inimicizia tra armeni ed azeri
– Nel 1988, l’allora Direttore della CIA, William H. Webster, scrisse una nota al Vice-Presidente per illustrare l’origine dell’inimicizia tra gli armeni e gli azeri. Il documento risulta molto interessante e rivela la consapevolezza degli USA riguardo alla situazione storica del Nagorno-Karabakh e dei motivi politici che hanno portato la regione ad essere parte dell’Azerbaigian. Di seguito il documento originale declassificato e la traduzione in italiano.
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Storia dell’inimicizia tra Armeni ed Azeri
L’inimicizia tra gli Armeno-Sovietici e gli Azero-Sovietici si basa fondamentalmente sulle differenze etniche e religiose. Gli Armeni sono Cristiano-Ortodossi, mentre gli Azeri sono etnicamente turchi e sciiti. Queste differenze lungo i secoli hanno prodotto acerrime dispute territoriali, specialmente riguardo il Nagorno-Karabakh.
I territori Armeni ed Azeri sono stati storicamente sempre contesi tra l’Impero Ottomano e l’Impero Persiano. L’Impero Russo si espanse fino al Caucaso del sud agli inizi del XIX secolo, prendendo entrambi i gruppi etnici sotto la propria tutela e spingendo in alcune occasioni i due gruppi a combattersi l’uno contro l’altro.
La deportazione quasi totale da parte della Turchia dell’intera popolazione Armena nel 1915, portando alla morte di circa 1.5 milioni di persone, ha accresciuto enormemente l’acredine armeno nei confronti delle popolazioni turche, inclusi gli Azeri. Allo stesso tempo, molti Armeni hanno cominciato a vedere i Russi come propri protettori, o almeno come il “male minore”.
Quando l’Impero zarista collassò nel 1917, sia l’Armenia che l’Azerbaigian esistettero come Repubbliche indipendenti per circa 2 anni. Ad ogni modo, la reciproca inimicizia rese il compito facile all’Armata Rossa di stabilire l’egemonia sovietica nel Caucaso nel 1920, ed entrambe le Repubbliche vennero incorporate nell’URSS.
L’acquisizione bolscevica lasciò il territorio del Nagorno-Karabakh nelle mani dell’Azerbaigian. Ma gli Armeni reclamarono da subito i territori come propri sia per composizione etnica (con predominanza armena) sia per il ruolo fondamentale nella storia della propria nazione. Inizialmente Mosca assegnò il Karabakh agli Armeni, ma quando la Turchia espresse contrarietà ad uno Stato Armeno troppo grande nei pressi dei propri confini, le autorità sovietiche nel 1923 assegnarono il Karabakh (rinominato nell’occasione Nagorno-Karabakh) nuovamente all’Azerbaigian.
Da allora, gli Armeni protestarono periodicamente per il ritorno del Nagorno-Karabakh. Secondo il consigliere economico di Gorbachev Abel Aganbegyan, che è etnicamente armeno per metà, per decenni le riunioni del partito Armeno e le assemblee pubbliche hanno silenziosamente sostenuto il problema. Negli anni Sessanta e Settanta i dissidenti Armeni facevano circolare manifesti in cui si richiedeva il ritorno della regione.
L’intransigenza azera sulla questione è intensificata dal risentimento di ciò che considerano un favoritismo russo nei confronti degli Armeni, basato su affinità religiose e sulla grande rappresentanza degli Armeni nell’élite politica di Mosca. Inoltre, gli Azeri si sentono vittime del trend demografico che gonfia il numero di giovani disoccupati azeri e peggiora le condizioni di vita. Queste aggravanti alimentano indirettamente le tensioni Armeno-Azere ed incrementano le potenziali violenze degli Azeri nei confronti degli Armeni che vivono in Azerbaigian.
Come si vede, il documento, pur risalendo a quasi 30 anni fa, riporta una situazione fotografata tutt’oggi nei rapporti delle agenzie internazionali che monitorano il rispetto dei diritti umani nei vari Paesi del mondo. A tal proposito, leggasi il rapporto ECRI 2016 sulla situazione degli abitanti di origine armena in Azerbaigian.
(Link al documento originale della CIA)
Documento CIA del 1988 sull’origine dell’inimicizia tra armeni ed azeri Documento CIA del 1988 sull'origine dell'inimicizia tra armeni ed azeri - Nel 1988, l'allora Direttore della CIA, William H.
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“ La divisione del genere umano implica attualmente il pericolo della sua distruzione. La civiltà è minacciata da una guerra termonucleare totale, dalla catastrofe della fame per la maggioranza del genere umano, dall'intossicazione prodotta dalla droga della « cultura di massa » e dal dogmatismo burocratizzato, dall'esplosione di miti di massa che gettano interi popoli e continenti in balia di demagoghi crudeli e impostori, e dalla distruzione, o degenerazione dell'ambiente naturale, dovuta alle imprevedibili conseguenze di rapidi mutamenti nelle condizioni di vita sul nostro pianeta. Di fronte a questi pericoli, ogni azione fendente ad accentuare la divisione del genere umano, ogni tesi volta a sottolineare l'incompatibilità tra le ideologie mondiali e tra le nazioni, è una follia e un crimine. Solo la cooperazione di tutti in condizioni di libertà intellettuale, e gli alti ideali del socialismo e del lavoro, liberati dal dogmatismo e dalle imposizioni degli interessi dissimulati della classe dominante, salveranno la civiltà. Il lettore comprenderà che la collaborazione ideologica non può essere applicata anche alle ideologie fanatiche, settarie ed estremiste che rifiutano ogni possibilità di avvicinamento, di discussione e di compromesso, per esempio le ideologie della demagogia fascista, razzista, militarista e maoista. Milioni di persone nel mondo stanno lottando per metter fine alla povertà. Tutti questi uomini detestano l'oppressione, il dogmatismo, la demagogia (e le loro manifestazioni estreme, razzismo, fascismo, stalinismo e maoismo). Essi credono nel progresso fondato sull'utilizzazione di tutta l'esperienza positiva accumulata dal genere umano, in condizioni di giustizia sociale e di libertà intellettuale. “
Andrei Dmitrievic Zacharov [alias Andrej Sacharov], Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, traduzione dal russo di Carlo Bianchi, Etas Kompass (Nuova collana di saggi n° 10), Milano, agosto 1968¹; pp. 32-33.
NOTA: Il testo, completato dall'autore nel maggio 1968, circolò dapprima in Urss in forma di samizdat quindi fu pubblicato il 6 luglio sul quotidiano di Amsterdam Het Parool con una traduzione di Karel van het Reve.
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“ Il 10 luglio 1961 parlando a un ricevimento di specialisti del suo incontro con Kennedy a Vienna, il compagno Krusciov ricordò la preghiera di Kennedy che l'Unione Sovietica, nel condurre la sua politica e nel fare le proprie richieste, tenesse conto delle reali possibilità e difficoltà della nuova amministrazione Kennedy e si trattenesse dall'esigere più di quanto essa potesse garantire senza andare incontro al pericolo di essere sconfitta alle elezioni e sostituita con forze di estrema destra. A quel tempo Krusciov non prestò la giusta attenzione alla richiesta senza precedenti di Kennedy, e tese anzi a farsene beffa. Ora, dopo gli spari di Dallas, nessuno può dire quali occasioni fortunate per la storia del mondo siano state se non distrutte in ogni caso messe da parte per difetto di comprensione. “
Andrei Dmitrievic Zacharov [alias Andrej Sacharov], Progresso, coesistenza e libertà intellettuale, traduzione dal russo di Carlo Bianchi, Etas Kompass (Nuova collana di saggi n° 10), Milano, agosto 1968¹; p. 113.
NOTA: Il testo, completato dall'autore nel maggio 1968, circolò dapprima in Urss in forma di samizdat quindi fu pubblicato il 6 luglio sul quotidiano di Amsterdam Het Parool con una traduzione di Karel van het Reve.
#Andrej Sacharov#saggi#saggistica#scritti saggistici#letture#Progresso coesistenza e libertà intellettuale#Carlo Bianchi#libri#dissidenti sovietici#citazioni#Guerra Fredda#regimi totalitari#relazioni internazionali#società russa#intelligencija#pacifismo#intellettuali sovietici#pacifisti#samizdat#diritti civili#civismo#nobel per la pace#libertà civili#scienziati#Unione Sovietica#John Fitzgerald Kennedy#Vienna#Nikita Chruščёv#Dallas#JFK
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“ Stavamo [...] guardando alla televisione un film di guerra. Un film che aveva la pretesa di essere vero e critico. - Vedi, questo simpatico maggiore che fa la corte alla ragazza? Quanto tempo! Quante parole! E come tutto è puro e nobile! Ma nella realtà gli bastava un ordine, e lei senza fiatare sarebbe andata a letto con lui. E di solito si faceva così. - Non ci vedo niente di orribile - disse Tamurka. - Nemmeno io — disse Anton. - Affermo soltanto che il film è una menzogna. - Certo, una menzogna - disse Tamurka. - Ma la verità non sarebbe interessante. - Dipende — disse Lenka. — Io avrei preferito la verità. - Perché tu sei ancora piccola e stupida - disse Tamurka. La Suocera, Lenka e Tamurka cominciano un noioso battibecco, il che tuttavia non impedisce loro di guardare e commentare il film. Io cerco di orecchiare quel che dicono Anton e Saška. -Fa' attenzione - dice Anton - a come sono presentati i «nostri» e i tedeschi. Tutti i nostri hanno un nome, un volto, un carattere, un destino. Moriranno tutti, naturalmente, ma ci faranno vedere la loro vita individuale. Essi, diremo così, sono personificati. Per me e per te sono delle persone autonome con un proprio «io». E noi trasferiamo su di loro questa nostra interpretazione come fossero personificati per se stessi. È una delle leggi della percezione delle opere d'arte. Adesso guarda i tedeschi. Sei in grado di distinguere i loro nomi e i loro volti? Per te sono uomini che hanno un loro destino? Si presentano sullo schermo all'improvviso e per caso come dei fantasmi. Bum, e via uno. Bum, e via un altro. Essi non sono personificati. Prova a metterti al loro posto. Immaginati di essere uno di loro, come lo presentano: una breve apparizione, uno sparo, e non ci sei più. Ecco, la menzogna principale della nostra arte non è tanto ciò di cui ho parlato. Ma che nella realtà per la stragrande maggioranza delle persone (in guerra, ma anche in tempo di pace!) non esiste la personificazione come ce la presenta la nostra arte. E se anche esiste per qualcuno, le forme sono del tutto diverse. Quali? Ad esempio, servilismo e disponibilità nei confronti dell'autorità. Il mettersi in mostra. Le pagliacciate. Eccetera. L'eroismo? A volte. Ma di quale eroismo si può parlare per masse di uomini annientati alla cieca da aerei, carri armati, cannoni? E poi cos'è l'eroismo? Uno stormo d'aerei. L'aereo che mi precede viene abbattuto, io mi salvo. Mi prendo una medaglia. Dov'è l'eroismo? Un caso. Da noi si parla addirittura di eroismo di massa. Cos'è? Nella realtà si tratta di sofferenze di massa. Qui, mio caro, c'è un grosso problema. - Ma anche prima era così. Anche in Occidente succede così. - Certamente. Ma qui c'è un aspetto fondamentale. La civiltà occidentale, dopo aver sviluppato al massimo grado la personificazione dell'individuo per una notevole parte della popolazione, l'ha sviluppata in una certa misura per tutta la società. Non dimenticare, tra l'altro, che un credente una minima personificazione già ce l'ha: davanti a Dio, e quindi davanti a se stesso. “
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985; pp. 370-72.
[ 1ª pubblicazione: Светлое будущее, Éditions L'Âge d'Homme, Lausanne (Svizzera), 1978 ]
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Che cosa ci fosse per colazione, lei non lo diceva, ma era facile indovinarlo: patate lesse o minestra di patate o cascia d'orzo (altre granaglie non si potevano trovare, quell'anno, a Torfoprodukt, ma anche l'orzo si faceva fatica a procurarselo perché era il cibo più a buon mercato per i maiali e la gente lo comperava a sacchi). Non sempre la cascia era salata a dovere, spesso era bruciata e, dopo il pasto, sul palato e sulle gengive restava una patina e lo stomaco bruciava. Ma la colpa non era di Matrjona: a Torfoprodukt non c'era il burro, la margarina andava a ruba, e liberamente vendevano soltanto grasso artificiale. E poi la stufa russa, come mi accorsi, non è adatta a preparare il cibo: la roba cuoce nascosta alla cuciniera e il calore giunge alla pentola da varie parti in modo diseguale. Ma ai nostri antenati s'è tramandata dall'età della pietra perché, una volta ben accesa di primo mattino, mantiene in sé caldi per tutta la giornata il foraggio e il beverone per le bestie, il cibo e l'acqua per l'uomo. E sopra ci si dorme in un bel tepore. Io mangiavo docilmente tutto quello che m'era stato preparato, mettevo da parte con pazienza quel che mi capitava di trovare nel cibo: un capello, un pezzetto di torba, la zampina d'uno scarafaggio. Non mi bastava l'animo di rimproverare Matrjona. In fondo lei mi aveva avvertito: — Se non so far niente, neppure da mangiare, come ti contento? — Grazie, dicevo io con assoluta sincerità. — Di che? Della roba vostra? — mi disarmava lei con un sorriso radioso. E guardandomi ingenuamente coi suoi occhi d'un azzurro slavato, chiedeva: — E per la sera che cosa vi preparo? Mangiavo due volte al giorno, come al fronte. Che cosa potevo ordinare per la sera? Sempre lo stesso: patate o minestra di patate. Mi ero rassegnato a questo, perché la vita mi aveva insegnato a non trovare nel cibo il senso dell'esistenza quotidiana. Mi era piú caro quel sorriso del suo volto tondeggiante che, quando potei finalmente comperarmi una macchina fotografica, cercai invano di afferrare. Vedendo su di sé il freddo occhio dell'obiettivo, Matrjona assumeva un'espressione forzata o insolitamente severa. Soltanto una volta la fotografai mentre sorrideva, guardandomi dalla finestra nella via.
Aleksandr Solženicyn, Una giornata di Ivan Denisovič - La casa di Matrjona - Alla stazione, (traduzioni di Raffaello Uboldi, Vittorio Strada, Clara Coïsson; collana Gli struzzi, n°17), Einaudi, 1971; pp. 182-84.
[ Edizione originale: Матрёнин двор, Novy Mir, 1963 ]
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La storia della moneta era questa. Un anno prima (quando io non ero ancora arrivato al museo) il quotidiano della Repubblica aveva pubblicato in quarta pagina un lungo articolo: “Il Kazachstàn è stato una colonia romana?” Il punto interrogativo era pura civetteria. L'autore dell'articolo, che era il professor Stoljàrov dell'Istituto per la cultura nazionale, non aveva nessun dubbio: diceva di sì, e basta. Ma quante cose diceva! Affermava che dall'Aral al Tien-scian il Kazachstàn aveva fatto parte della provincia romana d'Asia, «residuo dell'impero d'Alessandro il Macedone ». Governava la provincia il proconsole romano Sanabar, il quale per primo aveva introdotto nella colonia il latino in luogo «del greco prima imperante». Tutto questo doveva essere successo nel terzo decennio del I secolo d. C. Alla periferia occidentale d'Alma-Atà, «ove ora si stendono orti e frutteti», si trovava a quel tempo il centro della provincia, con gli uffici amministrativi e il palazzo del governatore. Le montagnole che orlavano la Via Dàčnaja non erano colli, ma «tombe di personaggi imperiali». (Quali - quali?) Infine, il professore così terminava l'elenco delle sue scoperte : «Riteniamo assodato che 2500 anni fa nel Kazachstàn si usasse una scrittura cuneiforme, di tipo più complesso di quella assiro-babilonese e persiana». Tutte queste cose erano state rivelate al professore da una moneta romana dissepolta in un orto.
Jurij O. Dombrovskij, Il conservatore del museo, Rizzoli, 1965; pp. 50-51.
[Prima pubblicazione col titolo Хранитель древностей sulla rivista moscovita Novyi mir, nn. 7-8 del 1964]
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Io e Senzanome andammo a bere il caffè al «Kosmos», dove incontrammo Vadim, un conoscente di Senzanome. Quando Vadim se ne andò, Senzanome mi raccontò la sua storia. Senzanome lavorava già all'Istituto e teneva un seminario per gli studenti del secondo anno. Tra di loro c'era anche questo Vadim. Un ragazzo, pareva, abbastanza dotato. Interessato. Vadim divenne un estimatore di Senzanome (che aveva già successo quand'era ancora aspirante) ed entrò a far parte della sua cerchia. Un bel giorno Vadim disse a Senzanome di essere stato convocato al KGB (allora MGB), dove gli avevano proposto di diventare loro informatore. E adesso era venuto a chiedergli consiglio su cosa fare. Senzanome capì subito che Vadim aveva già acconsentito, e si era confidato con lui o in un accesso di sentimento, o per qualche ordine segreto, e gli consigliò di accettare. Tanto più, pensava, che in tal modo avrebbe avuto un suo uomo tra gli agenti. Passarono gli anni. Vadim non manifestò doti particolari. Ma un po' di carriera la fece: sostenne la tesi, ebbe dei titoli. Si recava regolarmente all'estero. Da poco Senzanome per caso aveva scoperto che controllava tutta la sua attività per conto del KGB. Vadim era diventato membro permanente di varie organizzazioni internazionali, aveva pubblicato una serie di libri modestissimi ma all'apparenza moderni. Insomma, era diventato una figura di rispetto e influente. Chi era? Un collaboratore del KGB? Non del tutto. Era considerato un eminente scienziato. All'estero lo conoscevano. E lo accoglievano. Scienziato? Assolutamente no. Aveva imparato le lingue. Sapeva compilare e gettare polvere negli occhi. È un fenomeno abbastanza tipico per la nostra società. Un funzionario di partito, dello stato, del KGB, ecc. (il che di solito è la stessa cosa) si spaccia per scienziato, scrittore, pittore, compositore, ecc. E come scienziato, scrittore, ecc., viene formato e a volte ottiene addirittura un notevole successo in questi campi. E tuttavia non è uno scienziato, scrittore, ecc., ma un funzionario di partito, dello stato, ecc. E questo fatto ha le sue conseguenze. Uno solo di loro è capace di distruggere lo spirito creativo in un intero campo della cultura, perché egli tocca i più sottili e i più intimi fili della creazione. Senzanome aveva analizzato e tirato le somme dell'attività di Vadim nel corso di molti anni ed era rimasto terrorizzato dalle dimensioni della sua funesta influenza. E soprattutto non lo si può accusare di nulla. Formalmente è puro come una verginella. Senzanome aveva comunicato a tutti i colleghi stranieri che Vadim era un collaboratore del KGB. Nessun effetto. Per loro laggiù pareva fosse un fatto senza alcuna importanza.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 387-88.
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“ Ponendo l’interrogativo della durata possibile del regime è interessante tracciare alcuni paralleli storici. Alcune delle condizioni che hanno provocato la prima e la seconda rivoluzione russa esistono forse anche oggi: gruppi di caste inamovibili; sclerosi di un sistema statale entrato nettamente in conflitto con le esigenze dello sviluppo economico; burocratizzazione del sistema e, quindi, creazione di una classe privilegiata; contraddizioni nazionali in seno ad uno Stato plurinazionale e situazione privilegiata di alcune nazioni. Eppure, se il regime zarista si fosse protratto più a lungo, avrebbe forse resistito ad una pacifica modernizzazione, a patto che il gruppo dirigente non avesse valutato fantasticamente la situazione generale e le proprie forze e non avesse svolto all’esterno una politica espansionista che provocò un eccesso di tensione. In effetti, se il governo di Nicola II non avesse iniziato la guerra contro il Giappone, non avremmo avuto la rivoluzione del 1905-1907 e, se non fosse stata dichiarata la guerra alla Germania, la rivoluzione del 1917 non sarebbe scoppiata*. Perché qualsiasi indebolimento interno va sempre di pari passo con eccessive ambizioni di politica estera? Non so rispondere. Forse si cerca nelle crisi esterne uno sfogo delle contraddizioni interne. Forse, al contrario, la facilità con la quale viene soffocata qualsiasi opposizione interna crea l’illusione di una potenza illimitata. Forse l’esigenza di avere un nemico al di fuori, nutrita dagli obbiettivi di politica interna, crea una tale inerzia, che è impossibile fermarsi, tanto più che tutti i regimi totalitari si logorano fino all’estinzione senza accorgersene. Perché Nicola I ebbe bisogno della guerra di Crimea che mandò in rovina il regime da lui costituito? Perché Nicola II ebbe bisogno della guerra contro il Giappone e contro la Germania? Il regime di oggi compendia in sé in modo curioso aspetti dei regni di Nicola I e di Nicola II ed in politica interna, direi anche di quello di Alessandro III. Ma è ancora meglio paragonarlo al regime bonapartista di Napoleone III. Se questo paragone è valido, il Medio Oriente sarà il suo Messico, la Cecoslovacchia i suoi Stati Pontifìci e la Cina il suo Impero Germanico. “
*Rigorosamente parlando, non è lui che ha cominciato queste due guerre, ma ha fatto di tutto perché scoppiassero.
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Andrej Amalrik, Sopravviverà l'Unione Sovietica fino al 1984?, introduzione di Carlo Bo, traduzione dal russo di Caterina Darin, Coines edizioni spa, Roma, 1970¹; pp. 57-59.
[1ª Edizione originale: Просуществует ли Советский Союз до 1984 года?, Alexander Herzen Foundation, Amsterdam, 1970]
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