#Leonid Dobyčin
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" Alla fine dell’estate Péjsach doveva partire per l’America con la sua famiglia. Si era già abituato al “tubino” e invece degli occhiali di prima portava il pince-nez con un nastro. Una volta, passeggiando con lui, gli restai indietro di mezzo passo, e l’occhio mi cascò per caso sulla sua lente. “Aspetta un po’,” dissi stupito. Gli tolsi il pince-nez dal naso e lo poggiai sul mio. Il giorno stesso andai dall’oculista e mi misi le lenti sul naso. Adesso vedevo benissimo i visi per strada, leggevo i numeri sulle carrozze e le insegne all’altro lato della strada. Vedevo tutte le foglioline sugli alberi. Guardai la vetrina del negozio “Faenza” e vidi cosa c’era sugli scaffali interni. Vidi dodici piatti messi in fila su cui erano disegnati degli ebrei ricoperti di stracci, sotto c’era scritto “Facevano credito”. Oltre il fiume, stupito, vedevo le persone, un gregge, il mulino a vento di Griva Zemgal’skaja. Fischiettando passò sulla riva Osip, insieme a cui avevo studiato per gli esami della classe preparatoria. Si era tolto tutto rapidamente ed era rimasto marrone con addosso solo il cappellino rotondo, con quello era corso in acqua. Correndo, mi guardò con la coda dell’occhio. Volevo dirgli “Salve”, ma non osai.
Andai alla casa dove l’inverno prima abitava Eršov. Vidi un disegno di chiodi sul cancellino da lui tante volte aperto. Cigolò. Attraverso la soglia, curvo, passava Olechnovič. Aveva quel mantello con il cappuccio in cui l’avevo visto d’inverno. Adesso riuscii a vedere che l’abbottonatura del mantello era composta di due teste di leone e di una catenella'che le univa. La sera, quando fece buio, vidi che c’erano molte stelle e che avevano i raggi. Pensai che fino a quel momento tutto quello che avevo visto lo avevo visto male. Sarebbe stato interessante, vedere adesso Natalie e sapere com’era. Ma Natalie era lontana. Quell’anno passava l’estate a Odessa. "
Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; p. 139.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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“ Le foglie si stavano già diradando. "L'autunno, l'autunno è vicino," dicevamo scuotendo la testa. All'improvviso trillò un campanello, e su un tendone, alle cui porte gridavano "correte a vedere" si accese una scritta di luci colorate: Fotografia animata. Per entrarci ci volevano dei biglietti a parte, ci consultammo e li comprammo. Dentro c'erano delle sedie, di fronte vi era appesa una tela, e quando tutti si furono seduti la luce si spense, il pianoforte e il violino presero a suonare, e noi vedemmo Giuditta e Oloferne, dramma storico a colori. Colpiti, ci guardammo. Le persone dipinte sul quadro si muovevano e i rami degli alberi disegnati si muovevano pure loro. Al mattino, mentre mi accingevo a scrivere a Serge di Giuditta, Evgenija entrò e mi diede un biglietto arrotolato a forma di tubicino. "Vi è piaciuta la fotografia viva?" mi scrivevano. "Ero seduta dietro di voi. Permettetemi di fare la vostra conoscenza. S." La compositrice di questa lettera attendeva una risposta seduta sulla panchina davanti a casa, e quando uscii dal portone si alzò. "Sono Stefanija Grikjupel'," sì presentò, e facemmo quattro passi. Ammirammo la ciambella di rame sulla porta della panetteria e la chiesa di zucchero. "Il mio amico Serge è partito per Jalta," raccontai, "invece Andrej Kondrat'ev è in colonia. Potrei starci anch'io per un po', ma Andrej non mi va molto a genio perché vuole sempre dire la sua su tutto." Venne fuori che anche Stefanija Grikjupel' stava per cominciare la scuola, e aveva una paura tremenda che fosse difficile: i numeri arabi, comporre composizioni. Contenti l'uno dell'altro ci separammo. Avvicinandomi al mio cancelletto vidi un funerale: portatori di fiaccole in grossi sai bianchi, carri con la cupola decorata da una corona, dietro il carro la vedova. Vasja Strižkin le dava il braccio. Quando maman tornò, mi presi una bella sgridata. Mi proibì gli incontri con Stefanija e la definì una corruttrice. La Čigil'deeva, che era venuta a sentire, prese le mie difese: "Ma è una cosa così naturale," disse e si mise a pensare non so cosa. Sorridendo salì di sopra e mi portò Gentilezza per gentilezza. "Te lo regalo," mi disse. “
Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; pp. 49-50.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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“ Adesso Serge e Andrej erano entrambi nella prima classe. Serge era alla sezione "principale" e Andrej alla "parallela". Avevano in comune le lezioni di catechismo, e allora si sedevano accanto. Una volta Andrej disegnò una vignetta durante l'ora di catechismo. Si chiamava Vogliate favorire, miei cari ospiti. La Karmanova la vide e ne fu molto scontenta. "Tutte queste pasquinate," prese a dire disgustata. "Solo chi è perfetto può permettersi di criticare." Ordinò a Serge di cambiare banco. Avevamo già festeggiato l'onomastico dell'erede e avevamo partecipato alla liturgia nell'anniversario della "salvezza a Borki"¹. L'indomani, non so in che posto molto vicino, una bomba esplose all'improvviso e fece un boato spaventoso, proprio mentre suonava la campanella e l'insegnante entrava lisciandosi la barba e facendosi il segno della croce davanti all'immagine, mentre il supplente aveva cominciato a recitare il Beatissimo. Quel giorno la scuola fu chiusa a tempo indeterminato. Mentre pranzavamo, nelle officine all'improvviso le sirene risuonarono in un modo particolare. Dopo un po' udimmo degli spari. Sul far della notte Evgenija andò a informarsi per noi e venne a sapere che quattro uomini erano stati fucilati. I rivoltosi li avevano presi e li portavano per la strada al lume delle fiaccole per sollevare il popolo. Andammo a vedere la sepoltura. I preti avanzavano con visi solenni. "Ecco quelle canaglie," disse la Karmanova e ci spiegò che secondo la religione sarebbero tenuti a stare per il governo, ma loro odiano la Russia e sono pronti a tutto pur di farci carognate. Dietro le tombe suonavano le orchestre delle officine e dei pompieri. Bandiere e stendardi con scritte avanzarono oscillando per quasi un'ora intera davanti alle nostre finestre e alla fine perdemmo interesse. Più tardi venimmo a sapere che al cimitero c'era stata una sparatoria durante la quale Vasja Strižkin era stato ferito da una scheggia. Poveretto, fino alla guarigione non poté né stare sdraiato sulla schiena, né mettersi a sedere. Perché non chiacchierassi, maman mi ordinò di leggere Opere di Turgenev. Le lessi con zelo, ma non mi piacquero più di tanto. Ricominciammo le lezioni più volte per poi rismettere. Cominciammo a usare parole come "meeting", "Centuria nera", "arancia",² "speck". Una volta, quando di nuovo ci fu sciopero, Serge e Andrej vennero da me e mi dissero che avevano appena sgominato la scuola tedesca. Si erano appropriati del giornale di classe. Il "Registro" iniziava così: "Anòchina, Bòldyreva"³. Mi misi a ridere, ma verso sera mi rattristai. Pensai che facevano tutti qualcosa di interessante, mentre a me invece non veniva mai nulla in mente. Anche dove lavorava maman c'erano ogni tanto degli scioperi. Lei era "di destra", ma scioperava volentieri. Una volta mi raccontò che il suo capufficio era stato a un meeting ma aveva deciso di non andarci più, perché mentre si trovava lì s'era accorto di condividere opinioni inammissibili. Lo lodammo. Anche Jampol'skij e Livšic davano dei talloncini con l'indicazione della somma spesa a ogni acquisto, e chi poteva esibirne per dieci rubli riceveva qualcosa. L'allievo Martinkevič, che su incarico del padre aveva comprato gli accessori di cancelleria, ricevette da Jampol'skij un album per versi. Quando noi eravamo a scuola a studiare lui esigeva che gliene scrivessimo. Io lo tenni a lungo quel piccolo album, mi tormentavo perché non sapevo che scriverci. C'erano dei versi intitolati Decotto di salvezza. Cominciavano così: Prendete un'oncia di mitezza aggiungetene due di pazienza. ed erano firmati "Con la mia benedizione, ieromonaco Gavriil". Risultò che il monaco della chiesa di fronte casa nostra era parente di Martinkevič. “
¹Il 17 ottobre 1888 a Borki, una stazione sulla linea ferroviaria Kursk-Charkov-Sevastopol', il treno su cui viaggiava Alessandro III fu colpito da una bomba dei terroristi di Narodnaja volja, ma lo zar e la sua famiglia restarono illesi; in ricordo vi fu fondato un monastero [N.d.C.]. ²Le “Centurie nere” erano organizzazioni antisemite che perseguitavano gli ebrei e organizzavano pogrom; le bombe artigianali fatte dai terroristi erano soprannominate "arance" [N.d.C.]. ³Ossia dei normalissimi cognomi russi [N.d.C.].
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Leonid Dobyčin, La città di enne, traduzione e postfazione di Pia Pera, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; pp. 70-72.
[Edizione originale: Город Эн, Krasnaya Nov editore, Mosca, 1934]
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