#scritti satirici
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" Russia! Russia! Ti vedo, dalla mia meravigliosa, bellissima lontananza vedo te: sei povera, dispersa e inospitale; non hai arditi prodigi di natura coronati da arditi prodigi d'arte, che rallegrino o intimoriscano gli sguardi: città con alti palazzi dalle molte finestre, cresciuti nelle rocce, alberi pittoreschi ed edere cresciute nelle case, fra lo scroscio e il pulviscolo eterno delle cascate; il capo non si piega all'indietro per vedere massi di pietra che sopra di esso si innalzano senza fine verso il cielo; non scintillano attraverso bui archi sovrapposti, avvolti da tralci di vite, d'edera e da miriadi di rose selvatiche, non scintillano attraverso di essi in lontananza le linee eterne di monti radiosi, che fuggono in limpidi cieli d'argento. Tutto in te è aperto, deserto e uniforme; come punti, come piccoli segni, modestamente spuntano in mezzo alle pianure le tue non alte città; nulla lusinga e incanta lo sguardo. E dunque quale forza incomprensibile, misteriosa, attira a te?
Perché echeggia e risuona senza tregua all'orecchio il tuo canto malinconico, che vola per tutta la tua lunghezza e ampiezza, da mare a mare? Che c'è in questa canzone? Che cosa chiama, e singhiozza, e stringe il cuore? Quali suoni baciano dolorosamente, e vogliono penetrare nell'anima, e si avviluppano intorno al mio cuore? Russia! Che vuoi dunque da me? Quale legame incomprensibile si cela fra noi? Perché mi guardi così, e perché tutto ciò che è in te mi rivolge occhi pieni di attesa?… E ancora, pieno di perplessità, io resto immobile, e già sul mio capo incombe una nube minacciosa, gravida di piogge future, e il pensiero ammutolisce davanti alla tua vastità. Che cosa profetizza questa vastità sconfinata? Non deve forse nascere qui, in te, un'idea infinita, quando tu stessa sei senza fine? Non deve forse apparire qui un eroe favoloso, quando c'è spazio in cui possa agire liberamente e muoversi? E minacciosamente mi afferra la vastità possente, riflettendosi con forza tremenda nel mio profondo; i miei occhi sono illuminati da un potere sovrannaturale: oh! quale distesa fulgente, splendida, ignota alla terra! Russia!… "
Nikolaj Vasil'evič Gogol', Anime morte, traduzione di Paolo Nori, Feltrinelli, 2009.
[Edizione originale: Мёртвые души, 1842]
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Steinberg A-Z
a cura di Marco Belpoliti
Electa, Milano 2021, 584 pagine, 17 x 24 cm, ISBN 9788892821187
euro 42,00
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Pubblicato in occasione della mostra Saul Steinberg Milano New York (Triennale Milano, 15 ottobre 2021 – 13 marzo 2022), Steinberg A-Z si presenta come una raccolta enciclopedica contemporanea che analizza l’opera di Saul Steinberg nei suoi molteplici aspetti, dall’architettura al disegno, dal rapporto con Milano a quello con New York, alle mappe, all’epistolario con Aldo Buzzi, agli artisti che gli furono amici e compagni come Costantino Nivola e Alexander Calder, ma anche Alberto Giacometti e Le Corbusier. Il volume restituisce uno spaccato dell’universo di Steinberg, ricostruito attraverso un racconto plurale che coinvolge 31 autori coordinati da Marco Belpoliti. Gli scritti sono raccolti in una struttura composta da 22 voci -che spaziano da Architettura a Cartoons, da Ghirigori a Labirinto, da Milano a Romania– suddivise in sottovoci per un totale di 139 lemmi. Il desiderio è quello di restituire una visione sfaccettata ed inedita della personalità artistica e poliedrica di Saul Steinberg, il quale ha coltivato una molteplicità di dimensioni espressive, talvolta non ancora indagate, sempre caratterizzate da una capacità comunicativa davvero straordinaria.
Saul Steinberg nasce in Romania nel 1914 e studia per un anno filosofia presso l’università di Bucarest. Negli anni trenta pubblica i suoi disegni satirici nella rivista milanese “Bertoldo” e, poco dopo, i suoi lavori appaiono sulle riviste internazionali come “Life” e “Harper’s Bazar”. Le leggi razziali italiane contro gli ebrei lo costringono a emigrare negli Stati Uniti e, dal 1941, comincia a pubblicare su “The New Yorker”, avviando una collaborazione destinata a durare sessant’anni e firmando novanta copertine. Fin da subito il suo lavoro grafico è riconosciuto come vera e propria forma d’arte, protagonista di mostre in importanti musei accanto ad artisti del calibro di Arshile Gorki, Isamu Noguchi e Robert Motherwell. Questo periodo costituisce l’inizio di un intenso susseguirsi di esposizioni in gallerie e nei musei più prestigiosi, mostre americane ed internazionali. La straordinaria immaginazione di Steinberg gli permette di esplorare i sistemi sociali e politici, le debolezze umane, la geografia, l’architettura, la lingua e, naturalmente, l’arte stessa. Saul Steinberg si spegne nel 1999 a New York.
07/07/23
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L'Unità: il quotidiano torna in edicola
L'Unità, il quotidiano fondato da Gramsci nel 1924, è tornato in edicola. Dopo sette anni, ieri 16 maggio, è uscito il primo numero di quella che promette di essere un nuovo giornale. Edito da Romeo editore e diretto da Piero Sansonetti, il programma del quotidiano, disponibile in versione cartacea e online, è chiaro. L'Unità, il quotidiano degli operai e dei contadini L'Unità - Quotidiano degli operai e dei contadini nasce nel 1924 per idea di Antonio Gramsci come organo del Partito Comunista Italiano. Dal 1926 al 1945 il quotidiano esce come giornale clandestino. Viene editato prima in Francia e, dal 1942, torna in Italia. Dalle sue pagine segue le vicende del nostro Paese fino agli anni Novanta. In occasione del rapimento di Aldo Moro non esita a condannare le Brigate Rosse definendole "nemici della democrazia". Vede il crollo del muro di Berlino, lo scioglimento del Partito Comunista Italiano, e la nascita da allora di Partito Democratico della Sinistra e i Democratici di Sinistra. Con gli anni Ottanta iniziano i primi problemi legati alle vendite. Le numerose iniziative editoriali riescono a tenerlo a galla per alcuni anni ma gli anni Novanta e i primi Duemila sono caratterizzate da continue chiusure e rinascite. Come indicato da Gramsci, l'Unità continuerà ad essere dalla parte dei più deboli. E se all’origine era rivolto a contadini e operai, oggi sarà la testata anche di migranti e detenuti. Pur mantenendo sempre netta la propria indipendenza, l’Unità sarà vicina al Pd, principale forza politica della sinistra, e al pensiero di Papa Bergoglio che, attualmente, rappresenta un punto di riferimento ideologico.Piero Sansonetti alla presentazione della nuova edizione de l'Unità La Festa dell'Unità Nei suoi sessant'anni e più, l'Unità curato non solo la riflessione più strettamente legata all'attualità e alla politica ma si è proposto come luogo di scambio culturale. Ha ospitato scritti, tra gli altri, di Cesare Pavese, Italo Calvino, Ada Gobetti, Pier Paolo Pasolini. Ha editato i settimanali satirici Tango, curato dal vignettista Sergio Staino, e Cuore curato da Michele Serra. Quel legame tra appartenenza politica di sinistra e interesse culturale si esprimeva ancora maggiormente in quella che possiamo considerare un'iniziativa iconica del quotidiano: la Festa de l'Unità. Organizzata originariamente per finanziare il partito, la Festa de l'Unità diventa ben presto una rete di appuntamenti in diverse città d'Italia. La nuova Unità Dopo la direzione da parte di nomi quali Ottavio Pastore, Pietro Ingrao, Emanuele Macaluso, Massimo D'Alema, Walter Veltroni, Furio Colombo, la nuova edizione dell'Unità è diretta da Piero Sansonetti, ex direttore de Il Riformista. Come dichiarato dallo stesso Sansonetti, il quotidiano sarà "garantista, socialista, cristiano, liberale, non liberista". In edicola a 1,50 euro, la redazione del cartaceo conterà sei redattori, altri per la redazione online e diversi collaboratori esterni. Il giornale si comporrà di 12 facciate e ospiterà ogni settimana la rubrica Nessuno tocchi Caino, curata da Sergio D'Elia ed Elisabetta Zamparutti. Ogni giorno, infine, sarà pubblicato un articolo dall'archivio de l'Unità. Un archivio che ben presto sarà a disposizione di tutti online. In copertina foto di Pexels da Pixabay Read the full article
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<< “Non era nulla più che una giovane donna di buon carattere, educata e gentile; per quanto fosse difficile non amarla, era facile disprezzarla.” Frasi come questa sono scritte per durare ben più a lungo delle feste di Natale.>>
Virginia Woolf a proposito di Jane Austen (e dei suoi scritti “satirici” per divertire la famiglia)
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Pasquino
(NdR) Per i fiorentini fuoriporta significa abbandonare la città per una escursione nei dintorni di Firenze. Un significato adatto a questa categoria di articoli che parlano di qualcosa che esula da Firenze. Un'altra città o un'altro argomento, qualcosa che non ha niente a che vedere con Firenze ma che ha stimolato l'editore o gli autori nel narrarlo.
Pasquino Passato qualche giorno a Roma, oltre che goderne la bellezza storica e il sudiciume odierno, con le suole consumate come un “pellegrino”, non potevo non rendere omaggio ad una statua in particolare, quella di Pasquino sita nell'omonima piazza a due passi da piazza Navona. Per chi non conoscesse la storia di Pasquino due righe per apprendere velocemente. Nel 1400 il potere era in mano alla chiesa e questo potere era esercitato, sempre in nome di dio, con alterigia e violenza generando molto malumore nel popolo Romano. Ovviamente allora come oggi l'espressione della dittatura si riconduceva all'impossibilità di esprimere questo malumore e la voglia di libertà espressa a parole poteva costare la prigione se non la vita. Oggi la tecnica di soppressione delle altrui idee è attuata in modo diverso, ma lo scopo è sempre impedire l'espressione di taluni e soprattutto la conoscenza dei più. All'epoca a Roma cominciarono a comparire dei cartelli al collo delle statue romane, statue definite da quel momento “parlanti”. Messaggi satirici in versi che colpivano personaggi dell'epoca e soprattutto chiesa e papa. I messaggi erano appesi alle statue nottetempo e con il passare degli anni la satira divenne più aggressiva e soprattutto permetteva ai romani stessi di riflettere nel leggere quelle parole. La più famosa di queste statue diventò Pasquino, oggi ancora conservata, tanto da divenire sinonimo della voce del popolo. La leggenda narra che questo “giornalista” dell'epoca fosse un bottegaio o un calzolaio, (Manfredi lo rappresentò anche in un film che vi consiglio di vedere o anche rivedere dal titolo “Nell'anno del signore”) che armato di arguzia e furbizia metteva in scacco i potenti dell'epoca. La leggenda racconta che nell'arco di 500 anni al susseguirsi dei vari pasquini il maestro insegnava all'allievo. L'ultimo Pasquino fu il poeta Gioacchino Belli se ne conosce il nome perchè lo stesso Belli non volle rimanere nell'anonimato. Una volta raggiunta la pubblicazione dei suoi scritti cessarono i messaggi satirici e con lui si interruppe la lunga tradizione. Veniamo a noi. Comprendete l'importanza in quel tempo di questi cartelli? L'importanza di queste informazioni? Di come il popolo romano concretizzava l'informazione in quelle rime satiriche e come attraverso esse capiva e “cresceva”. Era talmente negativo per il potere che le statue furono anche messe sotto controllo per riuscire a scoprire il satirico giornalista del 1400. La stessa Carboneria, i sovversivi contro il potere temporale, ingrossavano le file perchè la gente si svegliava proprio grazie ai cartelli. Questa la loro funzione.
Immaginate la mia sorpresa quando giunto davanti alla voce di Roma e ricordandola secondo la foto che apre questo pezzo l'ho invece ritrovata pulita e spoglia. Dovete sapere che molti romani, ancora oggi, attaccavano volantini e proclami, denunce e scomode verità su quella statua; ecco oggi è bella candida, forse ripulita in nome della civiltà dato che non si danneggia un'opera pubblica, scordando o volendo scordare che nella realtà la statua come tale ha davvero scarso valore artistico e che il suo valore è nella sua funzione storica. Non solo, ma è stato rimosso anche il cartello dal suo piedistallo, il cartello che raccontava la storia di Pasquino. Si è fatto di tutto per renderla sterile e anonima, un pezzo di marmo davanti al quale si può transitare senza degnarla di uno sguardo. Sarò forse esagerato nel pensare che anche questa è censura, nascondere un fatto storico perchè scomodo o perchè potrebbe tornare attuale, ma come si dice... a pensar male.... Sapete cosa mi ha fatto decidere di scrivere questo pezzo? Il fatto che mentre raccontavo la storia di Pasquino alla prole un astante seduto ad un ristorante li accanto ha mollato la forchetta con la carbonara e si è messo ad ascoltare, la luce dei suoi occhi guardando la statua prima ignorata è stata risolutiva. Cari Romani, invece di prendere una scopa in mano e pulire la vostra Roma (alla Gassman-maniera) facendo quel lavoro per cui pagate profumate delle tasse e che i vostri amministratori dovrebbero organizzare al meglio per rendere giustizia alla città e a voi, ringiovanite Pasquino; rendetelo ancora parlante e satiricamente aggressivo, siate ancora la voce contro il potere e la dittatura, che so, magari attaccando nuovamente sulla statua nuovi articoli e denunce, obbligando l'amministrazione a ripristinare un cartello con la storia, quella vera, rendendo di nuovo mito Pasquino.
Jacopo Cioni Read the full article
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Begum Rokeya
https://www.unadonnalgiorno.it/begum-rokeya/
Si definiscono musulmani e tuttavia vanno contro lo stesso principio base dell’Islam che riconosce uguale diritto all’istruzione. Se gli uomini non vengono deviati una volta istruiti, perché allora le donne dovrebbero?
Begum Rokeya scrittrice, attivista e educatrice, viene considerata la prima femminista del Bangladesh.
Attraverso i suoi lavori, discorsi, iniziative, denunciava le ingiustizie, sensibilizzava le donne allo studio e a ribellarsi alla propria condizione
Il suo vero nome era Rokeya Sakhawat Hossain. Nacque a Rangpur, in Bangladesh, il 9 dicembre 1880, suo padre era uno zamindar (ricco proprietario terriero) e un intellettuale multilingue che ebbe quattro mogli e vari figli e figlie.
A 18 anni, sposò un vedovo trentottenne che si era laureato in Inghilterra ed era membro della Royal Agricultural Society of England. L’uomo, con idee liberali, l’aveva incoraggiata a studiare l’inglese e a scrivere.La sua prima opera letteraria è datata 1902, saggio scritto in bengalese intitolato Pipasa (Sete) con il nome di Mrs R S Hossain. Successivamente ha pubblicato Matichur (1905) e
Il sogno di Sultana
del 1908, considerato il suo libro più importante e una pietra miliare per la letteratura femminista. Romanzo utopico e satirico di grande denuncia sociale ambientato a Ladyland, una terra di donne, nella quale gli uomini avevano perso potere a causa della loro arroganza e incapacità. Un mondo al contrario che dona alle donne autorevolezza e possibilità di espressione e comando. Begum Rokeya, nel corso degli anni, ha collaborato con numerose riviste.Dopo la morte del marito, avvenuta nel 1909, ha fondato a Calcutta una scuola superiore femminile che ha diretto fino alla sua morte. Andava di casa in casa per convincere i genitori a mandare le loro figlie a scuola.Nel 1916 ha fondato l’Associazione delle donne islamiche, organizzazione che combatteva per l’istruzione e l’occupazione delle donne, promuovendo riforme sociali basate sugli insegnamenti originali dell’Islam che, riteneva fossero andati perduti nel tempo.
Nella sua carriera ha pubblicato racconti, poesie, saggi, romanzi e scritti satirici, con un personale stile letterario caratterizzato da creatività, logica e tanta ironia. Nelle sue opere denunciava i privilegi di cui godevano gli uomini a discapito delle donne ostacolate e discriminate da leggi ingiuste e maschiliste. Incitava le giovani a studiare, perché solo l’istruzione avrebbe potuto dare loro maggiori opportunità di riscatto.
Begum Rokeya ha lottato strenuamente per i suoi ideali, nonostante le tante difficoltà e ostacoli che le si posero davanti nel suo cammino.
Nel 1926, ha presieduto la Women’s Education Conference a Calcutta, il primo importante sforzo per riunire le donne a sostegno del diritto all’istruzione.
Ha anche attaccato fortemente il velo islamico, che considerava indumento di oppressione e segregazione femminile, tematica ripresa anche in
The secluded ones
, identificandolo come l’esempio più chiaro di come l’uomo intenda recludere i diritti delle donne, causando la loro morte identitaria.
La maggior parte delle sue opere, utopiche e femministe, sono state scritte in bengalese affinché potesse trasmettere al meglio il suo sentimento di denuncia e arrivare direttamente nel cuore di tutte le sue connazionali. Scelse, invece, di scrivere Sultana’s Dream in inglese, come se questa “terra di donne” si trovasse necessariamente al di fuori della sua cultura, in Occidente.
Ha partecipato a dibattiti e conferenze riguardanti i progressi delle donne fino alla sua morte, avvenuta a Calcutta il 9 dicembre 1932, subito dopo aver presieduto alla Indian Women’s Conference.
Il Bangladesh ha istituito a Rangpur la prima università pubblica denominata in suo onore, la Begum Rokeya University. Le sono stati intitolati anche parchi, edifici pubblici, statue, strade e centri culturali.
Ogni anno, il 9 dicembre, in Bangladesh si celebra il Rokeya Day, che commemora la sua vita e gesta. In quel giorno, viene conferito il Begum Rokeya Padak, un premio alle donne che hanno dato un contributo eccezionale nella lotta per il riconoscimento dei propri diritti.
La sua figura e attivismo sono ancora oggi di grande ispirazione per tutte le donne bengalesi, in patria e all’estero, che sono costrette a lottare per occupare un posto da protagoniste nella società.
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Mistero Buffo con Ugo Dighero
< Recensione > Il giorno 17 gennaio ‘18 è stato rappresentato all’auditorium “Le Fornaci” di Terranuova Bracciolini lo spettacolo “Mistero Buffo” di Dario Fo, interpretato da Ugo Dighero. Riproporre un'opera di uno dei più grandi drammaturghi italiani è sicuramente un'impresa, ma lo è ancora di più mettere in scena un testo da nobel. In questo si è cimentato Ugo Dighero scegliendo di rappresentare "Il primo miracolo di Gesù bambino" tratto da Mistero buffo e "La parpaja topola" da Il fabulazzo osceno. Entrambi i brani furono scritti e portati per la prima volta in scena da Dario Fo rispettivamente nel 1969 e nel 1982, presentando temi irriverenti e satirici arricchiti dall'uso del grammelot (lingua reinventata fortemente onomatopeica). Come era solito fare Dario Fo, anche Dighero, con un prologo, spiega al pubblico ciò che verrà rappresentato. "Il primo miracolo di Gesù bambino" narra un passo estrapolato dai vangeli apocrifi dove Gesù è protagonista e, in quanto bambino straniero, tenta di integrarsi compiendo il suo primo miracolo: farà volare statuine di fango e si vendicherà delle prepotenze subite. “La parpaja topola” invece, tratta alcune vicende della vita di Giavanpietro, un pastore che era stato convinto che le donne fossero pericolose. Una volta sposato è costretto ad affrontare la sua paura, che si trasforma in curiosità. Comincerà così la caccia alla parpaja topola (organo riproduttivo femminile). Alla fine dello spettacolo, Ugo Dighero propone al pubblico un testo di sua composizione, dal titolo “Ho deciso di esportare una merce nuova”, presentandolo come poesia. La rappresentazione ha coinvolto tutto il pubblico, dimostrando la bravura dell’attore e l’immortalità e l’attualità dei temi presenti nei testi di Dario Fo. Egli infatti è riuscito a mantenere un’atmosfera comica durante tutta la durata dello spettacolo, anche nei momenti di pausa in cui non stava recitando. Sorprendente è anche stata la sua capacità nell’evocare scenari diversi senza l’utilizzo di oggetti di scena, rendendo la sua interpretazione più interessante. Lo spettacolo è stato un connubio perfetto tra la presenza di tematiche forti e la leggerezza della comicità, questo sia nell’esecuzione di Dighero che nel testo di Dario Fo.
[ Alessia Gori, Elena Cucciatti e Haidi Myrtaj ]
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“Era quello alto che gli piaceva Frank Zappa”: Gianluca Barbera dialoga con Marco Drago
Marco Drago è uno schietto, che non le manda a dire. A volte così diretto da risultare spiazzante, perfino offensivo. Per questo mi piace. L’ho incontrato una sola volta ma si può quasi dire che siamo amici. Lo stimo e lo rispetto. Mi piace come scrive e mi piace come persona. Non saprei dire perché. Ma è così. Ci sono persone con le quali abbiamo affinità. Tutto qua. E questo conta. Scrittore con all’attivo numerosi romanzi per importanti editori, come racconta nell’intervista, autore radiofonico e fondatore di una rivista mitica negli anni Novanta, Maltese Narrazioni, con Varbella, Galiazzo e altri eroici scrittori. L’ho intervistato in questi giorni di uscita dal letargo forzato.
Lui è Marco Drago (pare)
La vita riprende, le librerie ripartono. Il tuo futuro di scrittore? cosa bolle nella tua pentola?
Radio! Sempre radio. È da poco andato in onda su Rete Due della RSI “My name is Depero”, un radiodramma lungo due ore e mezza, diviso in dieci puntate, sui due anni americani di Depero e sua moglie Rosetta (dall’11 al 22 maggio alle 13,30 – puntate ascoltabili qui). Intanto sto scrivendo il copione per una nuova avventura radiofonica sempre per RSI, un adattamento da un libro poco noto di MarkTwain. Stavolta la produzione sarà tutta da remoto. Sono curioso di vedere come sarà, è la prima volta che facciamo un radiodramma senza restare tutti insieme chiusi per una settimana o più in studio. Lo scrittore lo faccio così, spero sia chiaro. I lettori di libri sono molto restii a seguire un autore che cambia mezzo espressivo. Infatti ancora oggi sono perseguitato da quelli che mi chiedono perché ho smesso di scrivere.
Qual è la tua idea di letteratura?
Non ne ho idea. La mia istruzione è mediocre, non sono mai stato un granché come studente, ho riflettuto sempre molto poco sulla teoria della letteratura. Ho letto tanti libri, devo anche aver visto tanti film e poi ho scritto parecchie cose, senza mai ripetermi. Ho cominciato con i racconti, sono passato al romanzo, ai dialoghi radiofonici, ai radiodrammi, alle canzoni, alla nonfiction, alle biografie, ai libri scritti in segreto come ghost writer, ho sempre preso al volo le occasioni in cui mi sembrava di poter dire la mia. Quindi l’idea della mia letteratura è un’idea molto poco delineata, casuale, figlia del destino. Riconosco di avere alcune fissazioni e dunque ammetto di abusare del cliché. Non riesco a resistere, devo sempre frequentare il frasario già pronto del luogo comune. Il cliché è l’unica strada verso il sublime.
I tuoi autori preferiti?
Nella musica Frank Zappa, Brian Eno. Due geni molto diversi, a volte antitetici, ma che hanno poi finito per creare un catalogo di musiche e testi del tutto diverso dal cliché del rock: pochissime e mai serie le canzoni d’amore, così come quelle legate agli stati d’animo. Grande spazio all’ironia, al nonsense, alla critica sociale più o meno esplicita. Poi ho da tempo tre storie d’amore unilaterali parallele con Martin Amis, Bret Easton Ellis e William T. Vollmann.
Il libro che avresti voluto scrivere? il tuo libro migliore?
Avrei voluto scrivere il primo libro di Donna Tartt. “Dio di illusioni”. Il mio libro migliore è sempre l’ultimo, diciamo “La prigione grande quanto un Paese”. Seguito da “Domenica sera”, “La vita moderna è rumenta”, “L’amico del pazzo”, “Zolle”, “Cronache da chissà dove”. Ma cambio idea ogni giorno, quindi un titolo a caso.
Sei anche autore radiofonico, come ci sei arrivato?
Sono le cose che succedono per caso, o che succedevano per caso alla fine degli anni ’90. Grazie al primo libro, L’amico del pazzo, comincio a farmi conoscere un po’ dappertutto. All’epoca (circa 1999) Lorenzo Pavolini curava uno splendido progetto su Radio3. Si chiamava “Centolire” ed erano 5 puntate di circa 15 minuti l’una di radiodocumentario assegnate a uno scrittore. Credo che in un paio d’anni siano passati decine di autori bravissimi, nei “Centolire”. Io scelsi di documentare il mondo immaginifico del pallone elastico, uno sport antichissimo che raggiunge picchi di idolatria tra il Basso Piemonte e la Liguria Occidentale, più o meno l’area geografica da cui provengo io. Dunque andai a produrre le 5 puntate a Torino, dove conobbi Franco Vergnano, un programmista della Rai. Fu poi Vergnano che decise di puntare su di me come voce maschile di un programma che avrebbe esordito alla fine di gennaio del 2000. Gli era piaciuta la mia voce, ero un autore, potevo andare bene per affiancare la giornalista Antonella Fiori alla conduzione di “Candide”. La co-autrice di “Candide” era un’altra giovane giornalista, Barbara Frandino, con la quale ho lavorato in radio fino al 2002. Nel frattempo ho conosciuto il giovane enfant prodige della radio italiana, Gaetano Cappa, all’epoca fresco del successo di “Le avventure di Sam Torpedo” su Radio2. Con Cappa è scattata la scintilla e ormai sono quasi 20 anni che facciamo cose insieme.
Quali sono le cose più importanti che hai realizzato?
La rivista “Maltese Narrazioni” quando ero giovane. E poi la radio. I nove anni a Radio3 sono stati all’insegna dell’eccellenza, tutti i programmi realizzati con Cappa e l’Istituto Barlumen, “Remix”, “Leon”, “Razione K” (3 edizioni) e “La fabbrica di polli” (4 edizioni) erano dei bijoux. Un tipo di radio fuori da ogni cosa già sentita, sboccato ma raffinato, in un miracoloso equilibrio tra idiozia e acume. E poi tutto il contesto: Cappa è un fuoriclasse del montaggio audio ed è anche musicista, per cui da uno sketch nasceva una canzoncina ad hoc che finiva poi in trasmissione, durata 1 minuto e mezzo, tempo di realizzazione: 18 ore. Poi anche a Radio24 abbiamo portato una ventata di novità con le due edizioni e mezza di “Chiedo asilo”. Ogni giorno, alle cinque meno un quarto, la radio della Confindustria mandava in onda una decina di minuti di psichedelia a bassa tensione, con tanto di canzoni originali. Però se devo dire i progetti più interessanti che abbiamo fatto come Barlumen allora dico “Tritato di città”, “Pollycino”, Prix Italia 2011 e “My name is Depero”.
Come hai ricordato anche tu, sei tra i fondatori della rivista “Maltese Narrazioni”; che tracce lascia quella esperienza? L’epoca delle riviste è finita?
“Maltese” ha fatto un gran lavoro, quando non c’era ancora Internet le riviste svolgevano la funzione di network. Le idee passavano da una rivista all’altra, da un curatore di rivista all’altro. Si andava alla ricerca del racconto perfetto, come discografici che cercano la canzone pop perfetta. E ogni infornata di nuovi talenti corrispondeva poi a un’infornata di nuovi titoli per le maggiori case editrici del Paese. Ci sono stati anni in cui gli esordienti di Einaudi erano tutti passati prima da “Maltese” o da altre riviste. Gli editori leggevano le riviste e le usavano come una specie di library da cui captare una voce, un timbro, qualcosa che li attirasse. Poi i blog prima e i social dopo si sono presi la scena. A un certo punto fare la rivista stampata in 1000 copie da distribuire nelle catene ci è sembrata una cosa davvero di altri tempi. E abbiamo smesso.
Nelle settimane di lockdown hai realizzato una serie di video satirici, il supermercato alla fine del mondo, ce ne parli?
Bella la mia esperienza di scrittura sotto pressione in casa a Milano, bella l’esperienza degli attori che hanno registrato sotto pressione e dentro armadi, e bella l’esperienza di montaggio sotto pressione di Cappa sul Lago di Garda. 49 videini di un minuto, con l’altoparlante del Supermercato Acme, il supermercato alla fine del mondo, a promuovere i più assurdi prodotti figli del lockdown. Il primo video è stato pubblicato il giorno prima del mio compleanno, il 17 marzo, uno dei giorni più depressivi dell’intero periodo di isolamento. Bravi tutti, Cappa e gli attori Speziani, Fracasso e Timpanaro. Le cose a distanza si possono fare e diventeranno uno standard.
E la politica, entra nella tua vita? Come?
Me ne occupo sempre meno. Con questi ultimi due governi – anche mettendoci la buona volontà – ho preferito ritirarmi dall’agone. Prima ero radicale, adesso i radicali non esistono più, ci sono i liberali liberisti filonordici e un po’ ottusi di +Europa e poi una serie di sconosciuti dirigenti di Radicali Italiani che non riescono a essere invitati ai talk show televisivi e dunque nessuno sa che esistono. Quindi non voto quasi mai, non ho ideali per cui morire, mi basterebbe una sterzata in senso progressista di cose come l’eutanasia, le droghe, i modi di vivere la sessualità e la definizione di “famiglia”. Per il resto non ho nessuna fiducia. 5 Stelle e Lega e adesso 5 Stelle e PD hanno dato vita a due esecutivi che sono una presa in giro della democrazia rappresentativa. Gli elettori italiani hanno preso una sbandata pericolosa e spero irripetibile.
Hai paura della morte?
No.
Come vorresti essere ricordato? un tuo ipotetico epitaffio?
Era quello alto che gli piaceva Frank Zappa.
Gianluca Barbera
*Quello in copertina è Frank Zappa
L'articolo “Era quello alto che gli piaceva Frank Zappa”: Gianluca Barbera dialoga con Marco Drago proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/3bLIWXi
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James Gunn: 10 cose che non sai sul regista
Nuovo post su italianaradio http://www.italianaradio.it/index.php/james-gunn-10-cose-che-non-sai-sul-regista/
James Gunn: 10 cose che non sai sul regista
James Gunn: 10 cose che non sai sul regista
James Gunn: 10 cose che non sai sul regista
James Gunn è un regista spesso controverso, con un gran senso dell’ironia e della satira, a volte un po’ sopra righe e che spesso gli ha causato qualche problema (vedi il licenziamento da parte di Disney).
Tuttavia, Gunn è un ottimo regista e un eccellente sceneggiatore, capace di captare e dare vita a tante sfumature dei suoi personaggi e facendoli amare dalla gran parte del pubblico, tanto da trovare dei fan che lo hanno sostenuto nel periodo di distaccamento da casa Disney e dal suo licenziamento avvenuto in quattro e quattr’otto.
Ecco, allora, dieci cose da sapere su James Gunn.
James Gunn film
1. James Gunn: i film e la carriera. La carriera registica di James Gunn inizia del 2006 quando si trova a dirigere il suo primo lungometraggio intitolato Slither, di cui è anche sceneggiatore e attore. Nel corso degli anni successivi, la sua carriera continua con titoli come Super – Attento crimine!!! (2010), Comic Movie (2013), Guardiani della Galassia (2014) e Guardiani della Galassia Vol. 2 (2017). Il lato registico si interseca molto con il lavoro di sceneggiatore, scrivendo film come Terror Firmer (1999), Scooby-Doo (2002), L’alba dei morti viventi (2004) e sceneggiando i due film dei Guardiani.
2. James Gunn è anche attore e produttore. Nel corso della sua carriera, James Gunn ha sperimentato anche altri ambiti del cinema: come attore ha lavorato in film come Tromeo & Juliet (1996), The Specials (2000), The Ghouls (2003), Humanzee! (2008) e nelle serie Team Unicorn (2013) e Con Man (2015). In quanto produttore, Gunn ha prodotto film come LolliLove (2004), Doggie Heaven (2008), PG Porn (2008-2009), Avengers: Infinity War (2018) e Avengers: Endgame (2019).
James Gunn Twitter
3. James Gunn ha ironizzato su temi delicati. La miccia che ha fatto scoppiare la bomba in casa Disney e che è esplosa firmando il licenziamento del regista, risiede nella piattaforma di Twitter quando lo stesso regista, anni fa, aveva cinguettato su temi delicati. Pare che Gunn, nel periodo precedente agli accordi lavorativi con i Marvel Studios, avesse scritto dei tweet estremamente satirici su temi come l’11 settembre, l’AIDS, lo stupro e altri.
4. Il licenziamento è stata conseguenza dei tweet. Sebbene i tweet di James Gunn fossero molto datati e che la gran parte delle persone fosse a conoscenza della sua ironia e satira molto estrema, sembra che qualcuno abbia voluto “incastrarlo” andando a scovarli nella sua bacheca di Twitter. I motivi potrebbero essere politici e i suoi cinguettii, risalenti a circa dieci anni fa, erano stati scritti con il chiaro intento di provocare reazioni sgradevoli. In ogni caso, al di là dei parteggiamenti, ciò è servito alla casa di Topolino per andare su tutte le furie e per decretare il suo licenziamento, avvenuto in tronco.
James Gunn Guardiani della Galassia vol. 3
5. James Gunn dirigerà Guardiani della Galassia Vol. 3. Sembrava incredibile, ma dopo diversi mesi dal divorzio con casa Disney che lo aveva licenziato, la stessa casa di Topolino è tornata sui suoi passi, affidandogli la regia del terzo film dei Guardiani della Galassia. Prima del licenziamento, né Disney, né Marvel Studios avevano mai annunciato che avrebbe diretto il film da lui scritto, anche se Gunn aveva manifestato la cosa sui social media. A quanto pare, quindi, sarà tutto vero.
6. La regia dei Guardiani si scontrerebbe con Suicide Squad. Il ritorno di James Gunn, per quanto gaio e sperato, si scontrerebbe con la realizzazione del sequel di Suicide Squad, film per il quale il regista americano aveva già scritto la sceneggiatura e di sarebbe anche regista. Per potersi venire incontro, sembra che i Marvel Studios abbiano accettato di ritardare le produzione del Volume 3 per poterlo realizzare, senza limitazioni, finiti i lavori del film targato DC.
James Gunn Suicide Squad
7. James Gunn si dedicherà alla run originali. Per realizzare il seguito del fortunato Suicide Squad, sembra che James Gunn – che aveva già realizzato la sceneggiatura e a cui pare sia stato affidato l’intero progetto – si ispirerà alle run originali dei fumetti DC. Ciò significa che la figura di Deadshot sarà quella centrale che il villain del lungometraggio potrebbe rendere omaggio alla storie di Jon Ostrander e Kim Yale, che furono pubblicate negli ’80.
8. Il sequel sarà molto distante dal film di David Ayer. Date le premesse, c’è motivo di credere che il film di James Gunn sarà molto diverso da quello di David Ayer in cui l’eroe veniva introdotto come un assassino che si prende cura di sua figlia. È possibile comunque che ritorni Harley Quinn come personaggio jolly – dato che il personaggio non si unisce con gli altri criminali fino al reboot del 2011 – dopo lo spin-off Birds of Prey.
James Gunn Superman
9. James Gunn avrebbe potuto dirige un film su Superman. Sembra che il regista americano, prima di essere contattato per realizzare il sequel/reboot di Suicide Squad, fosse stato già arruolato dalla Warner Bros. per poter dirigere un nuovo capitolo sulle avventure di Superman. Il regista non avrebbe mai preso seriamente in considerazione la cosa, anche se rimasto incuriosito dal personaggio.
James Gunn moglie
10. James Gunn è stato sposato. Della vita sentimentale di James Gunn non si è mai saputo più tanto, tranne il fatto che sia stato sposato in passato. Nel 2000, infatti, il regista ha sposato l’attrice Jenna Fischer (conosciuta per aver interpretato il personaggio di Pam nella serie The Office): tuttavia, dopo 8 anni di matrimonio, i due anno deciso di divorziare, anche se le cause della loro rottura non sono conosciute. Negli anni successivi, sembra che Gunn si sia fidanzato con la modella Melissa Statten: non è chiaro se i due siano ancora fidanzati.
Fonti: IMDb, deadline
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
James Gunn: 10 cose che non sai sul regista
James Gunn è un regista spesso controverso, con un gran senso dell’ironia e della satira, a volte un po’ sopra righe e che spesso gli ha causato qualche problema (vedi il licenziamento da parte di Disney). Tuttavia, Gunn è un ottimo regista e un eccellente sceneggiatore, capace di captare e dare vita a tante sfumature […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Mara Siviero
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La canzone, scritta da Dario Fo e Leo Chiosso, fu la sigla di Canzonissima 1962. Quell’edizione della kermesse musicale Rai fu particolare: non solo per la conduzione, proprio di Dario Fo e Franca Rame, non solo per la sigla finale, che venne cantata da Mina (che poi inserì il brano nell’album “Renato”), ma perché fu l’edizione in cui i testi satirici scritti da Chiosso e Fo vennero censurati, dopo una serie di sketch che avevano citato la «mafia in Sicilia» e le «morti sul lavoro». Da allora la coppia di attori, comici, cantastorie fu “interdetta” per decenni da mamma RAI…. Dallo spettacolo “Franca Rame: una vita all'improvvisa - storie d'amore e di libertà”, 11 marzo SOMS di corso Acqui, Alessandria. Con Rudi Bargioni, Fulvia Maldini e Betti Zambruno.
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Il critico che non salva nessuno (salvo se stesso) e vuole insegnarti come si vive e si legge: saggio contro Alfonso Berardinelli, che sculaccia chi è più grande di lui
“La Storia è implacabile contro gli apostati”, scrive Šestov.
Il mondo dei dotti da sempre custodisce gelosamente un’arma di distruzione di massa: l’ironia elevata a feroce satira, a compiaciuto cinismo, per polverizzare ogni scisma che tocca le corde profonde, con la persuasione, se possibile, con la forza, se necessario. Non è il boato di una risata cosmica, affermazione della vita, ma la pallida ironia che vanta una venerabile tradizione, una folta schiera di prìncipi del pensiero, e perfino di artisti che, lungo i secoli, hanno sfoggiato un ghigno di scherno, gli occhi socchiusi a lama di rasoio, una dissacrazione a getto continuo, il ridimensionamento umoristico, la morale dello scrupolo critico, la feroce ironia fatta metodo. L’olocausto dei poeti, dei creatori.
Volendo, infatti, possiamo trovare difetti micidiali in chiunque. Ma proprio tutti. Anche qualora ci trovassimo di fronte a un genio, grandi qualità si accompagnano sempre a grandi difetti! Materiale non manca mai. Gli esseri umani, in generale, nascondono un lato profondamente patetico, una parte di massiccia e brutale meschinità. Grattate, grattate e troverete. Inutile evocare, a titolo probatorio, il fetore della potente circolazione tra arte e vita tipico della letteratura russa, anche di quella più raffinata, dove il tragico e il meschino aleggiano sovrani, statuari. Ancora oggi, dall’oltretomba, Dostoevskij ci ossessiona con quel territorio.
Esiste, inoltre, un metodo particolarmente vile, molto di moda tra i critici di ogni razza e rango, soprattutto tra quelli intellettualmente disonesti, interessati a tirare acqua al proprio mulino, a buon mercato, e non disdegnando le più raffinate calunnie: quello di elencare la somma di difetti superficiali o limiti reali di un pensatore e uno scrittore di rango assoluto, e usarli contro di lui per dissacrarlo o delegittimarlo, anche qualora le sue qualità, sul piatto della bilancia, pesino di gran lunga di più rispetto ai difetti. Sono quegli intellettuali, i meri compositori e commentatori di idee altrui, che criticano ferocemente i propri simili o chi li sovrasta, si divertono con talento, crudeltà e sarcasmo nello smascherare l’intellettuale o il creatore, quando questi diventano la caricatura di loro stessi, con i loro giudizi satirici, irrisori, dimenticando però di includere anche il criticante nel quadro dissacratorio.
Ciò che rende insopportabile e patetico colui che fa della satira e l’ironia il suo mestiere, la sua arte e la sua ossessione, è l’impertinenza della sua dissacrazione a getto continuo, di tutto e di tutti; salvo che poi, lui, avendo riso di tutto, a un certo punto vorrà essere preso sul serio, vorrà la sua dose di dramma, essere risparmiato insomma dallo scherno universale. Vorrà essere profondo, serio. È poi ammissibile permettere a un altro essere umano di giocare con il mistero della nostra esistenza, e conferirgli così il potere di ridurci a un niente, a qualcosa di patetico e ridicolo, di ridimensionarci impietosamente, quando lui stesso vorrà essere qualcuno e non chiunque? Si è mai visto uno che usa la satira e l’ironia come una clava, esercitare su di sé, ininterrottamente, questa pratica, fino al punto da massacrare e cancellare in se stesso fino all’ultima traccia di orgoglio o vanità? Solo un mostro sarebbe capace di fare quello che fa agli altri anche e soprattutto a se stesso. Solo allora sarebbe un dio che ride di tutto e di tutti.
Sputo subito sul piatto il movente impuro. Ci sono articoli e personaggi che stimolano in me reazioni scomposte e, soprattutto, tirano mi fuori, ancora una volta, temi che ormai ho già digerito da decenni. Il primo impulso è di profonda noia, poi quello di fare a pezzi, verbalmente, la viscida probità di chi pretende di insegnarci a vivere, da critico, con la tipica espressione dell’angoscia di uomini impersonali, i saggi, dediti a quella spietata macchina sociale che riduce gli esseri umani a creature amorfe e grigie: “le passioni fanno vivere l’uomo, la saggezza lo fa semplicemente durare”, scrive Chamfort, che aveva capito.
Ahimè, mi tocca rigurgitare il vecchio e trito armamentario silloggizzante. E già mi si chiude la vena.
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Un paio di giorni fa mi capita di leggere un articolo di L. Mascheroni (su ciò che penso dei bibliomani, ho già scritto qui), Cari venerati maestri, attenti a non pungervi col cactus della critica, dedicato ad Alfonso Berardinelli e il suo nuovo, spinoso libro (e già qui vorrei gridare a bruciapelo contro il recensore che le SPINE sono ben altre, da quelle di un critico): Cactus. Meditazioni, satire, scherzi, ovvero una raccolta di testi scritti tra gli anni ’80 e ’90 su varie riviste. Due polieruditi. L’accanito bibliomane, il sontuoso alfiere del nulla, che recensisce ed elogia lo sferzante critico della cultura, il saggista, il Proteo intellettuale, secolarizzato, che a sua volta fustiga al culo, con lo straccio bagnato, il suo stesso mondo di appartenenza, con la velleità di trasformare la sua critica in Letteratura; è risaputo che ahimè alcuni critici, ostinati, si rifugiano nella frase di Oscar Wilde: “la critica è più creativa della creazione”, nella pretesa e nella speranza di essere più Erode di Erode. Io al contrario penso subito alla frase di Cioran: “Quando uno non ha niente da dire, diventa critico letterario – e quando ha ancora meno da dire, diventa critico dei critici”.
Lui è Luca Orlandini
Il critico italiano non salva nessuno dei suoi avversari, eccetto se stesso, implicitamente. Allora tocca a noi compiere l’esercizio apotropaico, l’attacco dissacrante, ironico, satirico, contro di lui, per una volta.
Di lui, e delle vittime dei suoi ritratti feroci, ahimè ho letto quasi tutto, come si leggono i nemici, una curiosa specie aliena, per immunizzarvi, da lui e da tutti quelli come lui. Da sempre. A vent’anni, infatti, già sapevo che questa gente non aveva niente da dirmi, se non in negativo. È sempre stata pars destruens. Mi sono alfabetizzato in ‘cultura’ studiando i miei nemici, per poi lasciare per strada le loro brainfart. Di loro non mi rimane niente, se non un monito letale, che mette al riparo da clamorosi errori di connivenza. Non sono loro, i critici, cari lettori, a rivelarvi la potenza occulta dei rivolgimenti epocali, i recessi della storia, il vero nomadismo sapienziale, lo scandalo della creazione; né in loro troverete lucidità e linfa, o il dramma personale che si svolge in seno a un’autentica opera d’arte. La fisiologia del mondo, il suo mormorìo ininterrotto, il furore della sua evidenza silenziosa, non riaffiora mai nel pantheon della critica.
Certo, Berardinelli non scrive male, di tanto in tanto, a volte ha perfino qualche picco di talento. Ma scrive come un saggista, e non è un fuori classe. Non un Arbasino, meno che mai un Flaiano. D’altronde, lo leggiamo, e mai che vi faccia saltare sulla sedia, ridere di gusto, piangere, scorrere un brivido lungo la schiena. E se gli capita di essere corroborante, di riuscire a regalarvi un flebile frisson, immancabilmente scoccato dalla sua fottuta ironia maieutica, è solo quello del raisonneur. Il sordo clangore incatenato di una coscienza bibliografica. Io vagheggio un uccello selvatico, feroce, roso dalla nostalgia del cielo e del vento, che prende alle viscere, provoca un brivido lungo la schiena, scuote i nervi; immagino colui che spiega ali come un’aquila e si alza in volo, per creare opere immortali, per predare e lottare, e poi vedi quelli come Berardinelli, un probo, un amico fraterno della mediocrità aristotelica, che non è mai libero di volare, e di sbagliare. Uno che osa addirittura scrivere – ahimè, il bisogno di fissarlo su carta, di avere testimoni, di giustificarsi! – che lui nell’anima è un anarchico, terribile, e che solo per discrezione liberal-democratica recita un responsabile disincanto, la “disavventura dell’impegno” del critico della cultura; lui, che non apprezza in quanto critico le qualità per cui è in difetto in quanto creatore! Un fottuto Tersite che sceglie di essere fiero della propria mediocrità, che dice di aver scelto in tutta lucidità, preferendosi ad Achille. Uno di quelli che ti insegna la viltà speculativa, che avere paura di qualcosa è un buon motivo per mancarle di rispetto, e non che, al contrario, se certe cose non è consigliabile accoglierle, è altrettanto disdicevole respingerle – choosing not to believe in the Devil won’t protect you from It. È quel genere di pensatore, dalla faziosità stupefacente, che ti mette una mano paternalistica sulla spalla e, sotto sotto, gratta gratta, disprezza tutto ciò che esiste, si amareggia per ogni grandezza degli esseri umani e delle creature, per tutto ciò che crede in sé.
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Certo, con me lui sfonda una porta aperta, quando critica e ridicolizza a ragion veduta gli heideggeriani e il loro gergo. Quando sbeffeggia coloro che annegano nell’abuso delle parole in corsivo, con la loro voluttà essenzialista, nella “ricerca mistica, come illustrazione, messa in scena, decorazione, orgia culturalista, estetica della profondità”, un lamento estenuato, un luogo comune o un ridicolo conformismo; dove il gusto della lucidità viene consumato come potrebbe esserlo una portata al ristorante, e “l’estatico alla Kirillov e non del genere dei credenti” sarebbe solo alta pasticceria per animali da cortile, manichei da salotto. Il mainstream dei lettori. Il prêt-à-porter dell’orgoglio, vanità déguisé, coatta degli scrocconi di un assoluto pletorico e sentimentale.
E c’è del vero quando sottolinea i plateali difetti di alcuni colleghi. G. Vattimo e il suo pedante quanto vano “pensiero debole”, pura metallica ingegneria filosofica creata in laboratorio, in vitro e mai en plein air; il soporifero M. Cacciari, di cui vi invito a leggere, come regale esempio di supercazzola, se avete tendenze masochiste, la sua prefazione al Diaro postumo di Simmel, da lui curato e tradotto, dove sfoggia un rutilante affastellamento di concetti, un frastuono di pretenziosa erudizione, e la totale assenza di senso del ridicolo; T. Negri, verboso nipotino del suo idolo Spinoza, con i suoi abracadabra teorici, e il suo stile arcigno, metallico, così desolante, privo di immagini, uno che ha sempre elevato la forza probatoria del concetto a danno della linfa espressiva, come si conviene a gente come lui; C. Magris, l’ennesimo obnubilato – rincoglionito? – in malafede che sbeffeggia la prosa struggente di Cioran; U. Eco, vera e propria icona della Kultura, e amato da Elisabetta Sgarbi (che oggi pubblica santo Houellebecq e quel disturbatore in livrea cinica di Parente, uno che ha l’ansia di informare i lettori della sua depressione, e del fatto che vegeta tutto il giorno seduto sul divano a giocare alla play station), che ai miei occhi ha sempre rappresentato il prototipo dell’intellettuale che ho sempre disprezzato, e dello scrittore sopravvalutato (Il nome della Rosa e Il pendolo di Foucault). La sua vanità, elevata al rango del genio, si manifestava sulfurea durante i corsi che teneva all’università, quando, per manifestare platealmente il suo dissenso, e il suo viscerale fastidio per qualcosa, alzava la voce e sputava bilioso contro la lavagna portentosi agglomerati di catarro, davanti ai suoi allievi. Era il suo modo per far capire al mondo delle giovani generazioni che lui non era solo il re dei polieruditi, una Testa che cammina, il fiero detentore di trentamila volumi, il kantiano, il tuttologo, il semiologo ma il Carmelo Bene degli intellettuali, dei bibliomani. La fottuta rockstar delle pippe mentali. Uno di quelli che, sostengo io, avrebbe dovuto essere sepolto sotto il boato di una risata cosmica, e invece è stato osannato, e ricompensato con ricchezze e onori. Me lo sono sempre immaginato nel suo castello di Urbino, questo Napoleone di ogni geografia intellettuale, soddisfatto della sua testa.
Oggi il mercato del circuito culturale ci spaccia la pedanteria intellettuale del più modesto Fusaro. Un prodotto confezionato a tavolino, rivestimento o prefigurazione di logo, marketing. Desolante spirito del tempo.
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Naturalmente, Berardinelli, a fronte di certe follie reali della cultura di oggi, ne approfitta anche per dichiarare off-limits la profondità, una nozione tipicamente romantica – e questo è il problema – in nome di una proba e recitata assoluta prosaicità.
Rifiuta il Romanticismo tout court, benché, cazzo, anche Leopardi oppose un netto rifiuto alla sirena dialettica e idealista, e con quale ineguagliabile profondità, per rimanere, nonostante tutto, a suo modo un rapace ultraromantico. Rifiuta la Mitteleuropa e la sua letteratura, la matrice ambigua e oscura, la depravazione slava. Rifiuta Nietzsche e la tenebrosa filosofia tedesca, sebbene già criticate con ineguagliabile profondità e nitida concisione dalla stupefacente poesia in prosa di Cioran, decenni prima; e ancor prima dallo stesso Leopardi. Rifiuta ogni oscuro fondo animale, velato da una pellicola opaca, impenetrabile, refrattaria a rendere conto all’intelligenza. Rifiuta la parola carica, ogni ingorgo di linfa, addensamento di energia, ogni pressione dell’ignoto. Disprezza l’antenna metafisica, le determinazioni metafisiche dell’arte, ossia il magico e il religioso, dimenticando che in passato tutto ciò che in filosofia era vivo si riduceva a qualche prestito dal religioso (e lo scrivo io, che non ho la minima inclinazione religiosa, né scientifica), che veste il linguaggio poetico; inutile citare Robert Graves. Rifiuta il mito, che, nonostante la voluta miopia, non è semplice storia remota, ma realtà senza tempo che si ripete nella storia, l’irruzione dell’assoluto nel tempo, il respiro delle ere geologiche, il non umano, la capacita di stimolare l’istinto vitale, la carica di verità delle prima mitologie – scrive infatti Benjamin Fondane: “ogni metodo implica un linguaggio e dunque un mistero; ogni cosa nasce nel mito… Oh santa semplicità, cosa non è mito?!”. Rifiuta la vena carsica inattuale, immoralista, antiumanista, antistoricista – così cara, al contrario, a Leopardi – una realtà che non deve e non può rappresentare la costruttiva e sommamente impoetica critica della cultura, la moderna religione dell’umano, l’immacolata concezione del sociale che aleggia ovunque, onniavvolgente, sull’arte, la poesia, la letteratura. Soprattutto, su tutto ciò che è individuale.
Ma Berardinelli non si ferma qui.
Nel tempo ha criticato ferocemente, esattamente come Edmondo Berselli, l’Adelphi (vogliamo paragonare i Quaderni piacentini, con un editore per fighetti, con le copertine color pastello?!) – la casa editrice che alla fine degli Sessanta nasce da una costola della sovietica Einaudi, per proporre un cultura antagonista a quella marxista o neo-marxista, allora dominante – e un buon numero di suoi alfieri: R. Calasso, P. Citati, G. Ceronetti, E. Cioran. La santa setta delle “C”.
Calasso viene rubricato per direttissima sotto la philosophia perennis. Ascoltate: “Tra le ossessioni di Calasso occupa una zona centrale del suo spirito la lotta contro il mondo occidentale moderno, contro le idee di Storia e di Progresso, contro l’Illuminismo e contro la politica ‘di sinistra’… Il limite stilistico del libro – il Rosa Tiepolo – è che Calasso ci racconta una favola di cui conosce in anticipo la morale. Un sapiente come lui non è, e non potrebbe essere un narratore moderno”, ossia un probo critico della cultura. “Per lui la verità non accade, è già accaduta nei miti delle origini”. Stiamo parlando di uno che, per quanto criticabile – e ce ne sarebbero di cose da dire – ha prodotto saggi o monografie tutt’altro che disprezzabili, di primissimo ordine: Le rovine di Kash, Il rosa Tiepolo, I quarantanove gradini, La Folie Baudelaire (che in Francia ha vinto il Prix Chateubriand, l’unico italiano di sempre). Nondimeno, il critico è lì, chino a testa bassa, con la zelante opera di dissacrazione. Ndo cojo cojo! Tattica levantina. Non gli piace il progetto culturale che Calasso & Company portano avanti, il territorio spirituale da cui parlano, che tra l’altro ha il grave difetto, ai suoi occhi, di allevare in seno alla società un popolo di solitari. Ne propone uno alternativo, e con che mezzi.
Anche G. Ceronetti, a sua volta, è sminuito, non senza qualche equanime concessione, che non manca mai, nel momento in cui viene definito laconicamente un “esteta del sacro” (la stessa accusa che gli rivolge S. Quinzio), per far ammutolire in blocco anche la sua forza reale, sapienzale, quella che sulla bilancia pesa di più: il suo contatto con “l’anguilla delle verità profonde”. Un’altra personalità di rango assoluto, liquidata in quattro battute, a buon mercato.
Pietro Citati, poi, è definito un “manipolatore postmoderno del passato culturale”, un abile sfruttatore compulsivo della citazione, che rimaneggia con estro. Un grondare ipertrofico di saggezza esoterica, in posa plastica: quella assorta e profonda, ieratica. Uno che ha guizzi estrosi, troppo personali (qui B. copia uno degli aedi della ragionevolezza critica, T.S. Eliot, il quale sostenne che perfino le letture sull’opera di Shakespeare dei ‘creativi’ e troppo personali Goethe e Coleridge erano un’“aberrazione critica”!), che manca della dovuta impersonalità, tipica di quella persone che “volano basso”! In ogni caso, è quanto di peggio possa esistere, per B., che detesta la profondità in ogni sua forma. Già solo la parola “esoterico” gli fa venire l’orticaria, figuratevi citargli la “gnosi”. Non dite di essere metafisicamente single, è un’eresia. E non osate mai citare, di fronte a lui, il lirico, potrebbe colpirvi con uno schiaffo a bruciapelo. Meno che mai l’irrazionale, la sterile prerogativa di coloro che si perdono in “bambinate”, come le chiamava Jean Wahl, arcigno studioso accademico di Kierkegaard, suo sterile tuttologo, quando definiva così le Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. C’est dure dure être ‘be��bé’! Soprattutto non evocate la potente poesia, quella degli appassionati amanti e non quella dei falsi figli delle Muse, dagli amorosi eunuchi, perché B. è uno di quelli che si perde in fantasmagoriche pedanterie, come quelle che trovate in Che noia la poesia. Pronto soccorso per lettori stressati. Un libro noiosissimo, di sfibrante inutilità, scritto in coppia con H.M. Enzensberger!, e dove non trovate un etto di vera poesia. Niente, zero. Da spararsi nei coglioni. Per carità, neanche io stravedo per Citati, e trovo comici i ferventi adepti della Adelphi (conosco uno scrittore, un demente, che appena ha fatto due soldi si è comprato tutto il catalogo, in blocco), ma la questione è un’altra: B. spara a zero su Citati soprattutto per un motivo. Quest’ultimo ha il grave torto di difendere un mondo, quello che trovate per esempio ne Il male assoluto, che B. detesta inquadrato al modo degli aedi della cultura adelphiana, poiché lui è un esorcista dell’inquietudine metafisica, e afferma candido che non esiste alcuna ragione, oggi, per aggrapparsi a questo genere di inquietudine, a questo “culto da princisbecchi, che non innerva nessuna seria critica della cultura”.
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Ora, un caso di clamorosa disonestà intellettuale, da parte di B., lo trovate nel suo commento a Emil Cioran. Altro gigante che fa sembrare B. quello che è, a confronto – un nano. Cioran viene massacrato senza mezzi termini, a buon mercato. Leggete qui di seguito un sunto dei suoi miasmi isterici e la prova fatale dell’idiozia dei suoi commenti. Sono esemplari. In Cioran, il più pessimista, il critico italiano, che ancora oggi definisce il rumeno un “petulante manierista”, scrive in appena poco più di tre fottute pagine: “Pensiero negativo”, “parvenu dell’intelligenza e dello spirito” (la stessa ridicola accusa che gli rivolse A. Camus, al tempo del fenomenale Sommario di decomposizione), “antiprogressivo senza incertezze”, “acrimonioso”, “splenetico”, pieno di “infatuazioni, di piccoli dogmi personali”, quello che deve essere sempre “il più fine”, “volgare”, “dispotismo e feticismo dello stile”, “finge la lucidità”, la migliore dimostrazione dell’“ottusità dello spirito puro come categoria assoluta”, “pensa solo a se stesso… alla propria immagine”. Emil Cioran liquidato in tre pagine, e con che argomenti! Ed è quanto meno curioso. E già mi vergogno per lui. Non solo perché Berardinelli, per esempio, ammira W.H. Auden, quello stesso poeta e lettore infallibile (a cui Brodskij dedicò un saggio ispirato in Fuga da Bisanzio, elevandolo al rango della “più grande mente del XX secolo”) che 1971 scrisse una recensione entusiasta sulla New York Review of Books, dedicata a The Fall into Time, dove definisce Cioran: “il miglior scrittore in lingua francese dal dopo guerra in poi, insieme a Malcolm de Chazal”. Saint-John Perse, a sua volta, votava un’ammirazione incondizionata a Cioran. Al pari di Iosif Brodskij, che ne consigliava i libri nei corsi che tenne in vari College americani. Auden, Perse, Brodskij. Il rango assoluto. Basterebbero loro per schiacciare come una cimice Berardinelli. Eppure la lista continua… Ammirazione nei suoi confronti, la votarono Elie Wiesel, Jules Superveille (la prima persona ad aver letto il Sommario, ancora in manoscritto – era già molto anziano, profondamente incline alla depressione, ma disse: “È incredibile quanto mi abbia stimolato il suo libro”), Giorgio Manganelli, Italo Calvino, Alain Delon. Lo scrittore rumeno fu apprezzato anche da Paul Celan, che tradusse in tedesco il Sommario di decomposizione. Ma anche da Ernst Junger, Jean Rostand, Margeurite Yourcenar, Henri Michaux. Ma non andiamo oltre con la fiera degli ammiratori.
In realtà, ancor prima del brutale e rachitico libello di Berardinelli, fu pubblicato l’attacco ancor più impietoso, ostile e vile di un altro critico di fama, lo zelante pedagogo G. Steiner (osannato per la sua “profonda probità”, dalla liberal Susan Sontag, una saggista che capì poco e male di Cioran, se prestiamo fede a quello che scrive nella sua lunga prefazione al The temptation to exist). È appena il caso di notare, infatti, che l’attacco di B. è del 1985, curiosamente uscito solo pochi mesi – opportunismo? – dopo l’articolo di più di nove pagine di George Steiner sul New Yorker, nel 1984. In tutte le nove pagine di Steiner, più raffinato e se non altro meno sbrigativo del critico italiano, solo due accenni positivi: “Cioran è autore di un interessante saggio su De Maistre” (quando in realtà è uno dei migliori, in assoluto, che io abbia mai letto), “si dà il caso che io sia convinto che lo stoico élitarismo di Cioran, il suo rifiuto del migliorismo à l’américaine contengano più verità delle varie etichette attualmente di moda di progressismo ecumenico”.
Note positive subito abbattute da una sequela di impressionanti detrazioni: “odora di falso”, “pseudopensiero”, “funereo sermone”, “pronunciato da molti prima di lui… non è originale”, “eccesso massiccio e brutale di semplificazione”, “facile”, “minacciosa faciloneria”, “nessun pensiero analitico profondo”, le sue frasi “facili da scrivere… gratificano lo scrittore con il tenebroso incenso dell’oracolarità”, pretende “ottusa acquiescenza… un’eco compiacente”, “flebile gioco di parole”, “non convincente”, il tono “gonfio di macabro chic”, “portentosa stupidità”, “apocalittiche convinzioni”, “pessimismo letale”, “futile”, “idee politiche nere come la notte”, lo “stoico élitarismo”, “non c’è niente qui di molto originale o sensazionale che vada ad aggiungersi all’apologia delle tenebre di De Maistre, in Nietzsche o nelle idee politiche visionarie di Dostoevskij”, “frisson alla moda”, “ridicolo grido”.
Ma non è finita. Steiner sostiene che altra cosa è la non meno chiaroveggente tristezza di Tocqueville, di Henry Adams, Schopenhauer, poiché le loro ragioni “sono scrupolosamente argomentate”! Ossia liberali, storiche, talvolta kantiane, politiche, filosofiche. Ah, la dialettica! Con loro non si rischia il krampf della ragione, la bancarotta della speculazione. La preferenza di Steiner è ovvia. Tutto il loro argomentare, come il loro pessimismo, è per lui circoscritto storicamente. Schopenhauer, ci dice infatti Steiner soddisfatto, malgrado il suo pessimismo, portava con sé ancora significative tracce di Kant e di odio per l’io, faceva inoltre profondamente sua l’ironia del pallido riso dianoetico (il risus purus di Beckett); e, infine, di lui rimaneva il moraliste. Questi pensatori, secondo Steiner, esprimono “dubbi, riserve, rendendo onore al lettore. Non pretendono acquiescenza o un’eco compiacente, ma un ripensamento e una critica”. E “c’è poi molto da dire sulla morte?”, ci dice la fottuta lucidità tutta diurna di questo critico, con una nota perfettamente spinoziana – anche quelli che vegetano ancora nell’infanzia dell’intelletto, in fondo, intuiscono che il tragico era la bestia nera di Spinoza, e che perdersi in cogitationes sulla morte, per lui, non era da uomini “ragionevoli”. Eppure, lo stesso Leopardi, più di un secolo prima, alla temperante frase di Steiner obbietta potente e lapidario: “le opere di genio… non trattando né rappresentando altro che la morte”; Šestov, a sua volta, sostenne che il timore della sofferenza è il timore di scuotere l’ordo et connexio idearum.
Steiner ci parla anche dell’“indiscutibile autorità” di Karl Kraus, Wittgenstein, Beckett (anche lui enormemente influenzato, apertamente, dalla strategia ironica di Schopenhauer!) e Kafka (colui che rappresenta, sì, un tragico potente, ma soprattutto l’antagonismo del più mite degli uomini, una volontà di potenza disarmata, il Kafka animale, sì, ma soprattutto scarafaggio, coleottero, talpa, tenero, puro, accorato e straziante!). “Pensate a Rousseau e Nietzsche – continua Steiner – che giunsero alle stesse conclusioni, ma con ben maggiore forza probatoria”, rispetto a Cioran. L’affondo, nonché l’esempio principe – udite udite – di “traboccante autorità, nata da una sintesi autentica, da una scrittura la cui concisione si ritraduce, obbligatoriamente, in una psicologia e sociologia di attenta coscienza storica su vaste proporzioni”, è il pensiero dei Minima Moralia di T.W. Adorno: “Qualsiasi onesto confronto con Squartamento sarebbe disastroso. Senza dubbio ci sono esempi migliori nell’opera di Cioran… Ma una raccolta di questo tipo… solleva non tanto la questione se il re sia nudo, quanto se un re ci sia.”, conclude Steiner, che rifila al lettore la squallida e conciliante zampata della dialettica negativa.
Steiner gioca Adorno, la Weil, Tocqueville, Kraus, Nietzsche, Schopenhauer, Dante, Kafka, De Maistre, Adams, Beckett, Wittgenstein, Rousseau contro Cioran, che non solo scriveva con grande considerazione della Weil, Tocqueville, Beckett, Kafka, Hume e di tanti altri che non dispiacerebbero a Steiner, ma criticava con grande lucidità e profondità – probabilmente è questo il problema per Steiner: troppa profondità – le alienazioni della nostra epoca con anni, se non decenni di anticipo rispetto a quegli autori che avrebbero svolto analisi analoghe a quelle di Cioran ma limitate, talvolta, a un ordine puramente sociologico e politico, come ad esempio Hannah Arendt (la pia e rivoluzionaria, che nel suo resoconto del processo Eichmann scrisse: “noi riteniamo che nessuno, cioè nessun essere umano desideri coabitare con te. Per questo, e solo per questo, tu devi essere impiccato”) o Raymond Aron e Canetti; e anticipando di mezzo secolo, nel suo Lacrime e Santi, alcune analisi che il narcotico Derrida avrebbe svolto nel suo Glas.
Insomma, un aut-aut. L’alfiere della notte, l’esteta egoista, moralmente e socialmente irresponsabile, il pessimista scettico, deve sparire. È inutile, il peggiore di tutti. Sterile su tutta la linea. Non era lui stesso a dirlo? È un aborto per la continuità della specie, urta ogni continuità vitale e storica, compromette il continuo, ogni generazione, ogni trasmissione organica della vita, fisica o intellettuale. Non lo avrebbe ammesso anche lui nei suoi Cahiers? Chi mi legge è fregato! Ti diceva che tutto stava morendo, ma ahimè in un modo così vitale, con un tale senso dell’umorismo, che purtroppo ci si sente assolutamente sedotti. Ma è poco utile, se non per il piacere di una superba scrittura. Dopotutto, i nichilisti e gli scettici non hanno perso, non sono datati, a cold product? ci dicono i critici americani. Leopardi al contrario scrive: “Così che il Misantropo ch’io era, feci un’opera più utile agli uomini… di quante mai n’abbia prodotte la più squisita filantropia, o qualunque altra qualità umana…”!
Cioran ha il gravissimo difetto, agli occhi di Steiner, di non essere un teologo, uno psicologo, un sociologo, un filosofo politico, uno storico, un moralista. Un pensatore sociale. Gli manca troppo logos! Second Steiner, Cioran non può neanche essere annoverato tra i moraliste, poiché non applica valori e princìpi universali ai problemi della condotta sociale, della società del suo tempo; non riduce le analisi sull’uomo ai rapporti che lo legano ai suoi simili, al sociale, al culto per la cultura che oppone la dittatura del dialogo, e la sua impietosa forma di vita, la tirannia dei valori. La preferenza di Steiner è ovvia: sebbene i moralisti non cerchino di modellare l’uomo, almeno si fermano all’uomo esteriore, all’essere nel tempo, nella società, all’uomo tutto in superficie, e non risparmiano il mistero di niente e di nessuno; per loro nulla è misterioso; spiegare un essere per loro equivale ad abolirlo, a ridurlo a un nulla. Ne scorgono solo le infermità mediocri, generali, di individui socievoli e indaffarati; sfugge loro il male essenziale, guardano alle amarezze diurne, sondano solo il fondo delle apparenze comuni. Lo aveva capito, Cioran, nel Antologia del ritratto. Quella dei moralisti è la stessa superficialità di fronte a cui si arresta, sterile, Berardinelli. A lui, e a una legione di quelli come lui, non interessa la ricerca della profondità, l’anguilla della verità profonde, il sottosuolo che uccide la teoria, ma solo l’abuso della speculazione.
Di conseguenza, Joseph de Maistre, il potente autore del pamphlet in favore del boia, per Steiner rimane un interlocutore poiché, per quanto agli antipodi rispetto alle sue idee, era pur sempre contro il romanticismo, difendeva la trinità costituita dal classicismo, dalla monarchia, dalla chiesa, era l’incarnazione del chiaro spirito latino, l’antitesi stessa della cupa anima germanica; classificava, era rigoroso nel suo pragmatismo politico. All’interno di questo quadro cognitivo, per quanto reazionario, De Maistre rimane un interlocutore passibile di confronto e di confutazione, nonché autore di notevoli intuizioni moderne e precursore di altre, ultramoderne. In lui permane una fondamentale psicologia politica, circoscritta storicamente! Una ragione reazionaria è pur sempre una ragione. Il pessimismo reazionario di De Maistre, infatti, è lontano dal radicale ma paradossale pessimismo reazionario di un Leopardi, nel quale De Maistre non avrebbe potuto riconoscersi, dato l’atteggiamento di dichiarata non-politica del grande recanatese. È solo per questo motivo che Steiner include De Maistre nel pantheon della critica della cultura. Cioran, al contrario, con la sua estetica evanescenza, con il suo stile aristocratico e la sua gnosi permanente, il suo lutto a getto continuo nero come la notte, è roba per artisti, poeti, attori, cantanti, i puer e i perduti di ogni angolo della terra! I lumpen. Non fa una piega, vi pare?
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Il paradosso esilarante di Berardinelli, infine, è quello di criticare sarcasticamente il dna dell’Adelphi, salvo poi recensire recentemente (in Avvenire, 1 aprile 2016) un grande libro della filosofia esistenziale degli anni Trenta, La coscienza infelice, di un poeta e pensatore rumeno, l’unico erede diretto di Lev Šestov, ossia Benjamin Fondane, e senza neanche accorgersi che se Šestov, per molti aspetti, è in parte uno dei nonni del dna dell’Adelphi, Fondane, il filosofo e poeta dell’assurdo e della tragedia, per molti aspetti rappresenta il fratello maggiore (è nato nel 1898) di Cioran (1911) e Ceronetti (1927). Scrivono e pensano, tutti, ognuno con le proprie modulazioni, da un identico territorio spirituale, quello che Berardinelli ha sempre sbeffeggiato.
Il critico, nella cultura, ha sempre svolto la stessa funzione che svolge Cristo nel cattolicesimo. Il ruolo di vicario. Nel caso del critico, il laico pensatore pubblico. Il professor publicus ordinarius. Come in religione si crede in Cristo per non credere direttamente in Dio, per non avere un rapporto autonomo con lui, così i critici sono i vicari del pensiero di tutti, per impedirci di accedere a quella profonda autonomia individuale che testimonia l’esperienza del pensatore privato, del selbstdenker, colui che pensa da sé e per sé, che vede il mondo con i propri occhi. Sono due realtà inconciliabili. Brodskij affermava che la psichiatria è dello Stato. Si può affermare qualcosa di analogo della critica, che, da sempre, pretende di essere il filtro intellettuale tra noi e il reale. Il processo di pastorizzazione, normalizzazione, a danno della individuo. Ridotto all’osso, spogliato da ogni maschera, il meccanismo della critica è sempre stato questo. Il critico vuole curare. Dato che gli artisti non compirebbero le loro opere abbastanza coscientemente, occorre che qualcuno le verifichi, le spieghi e le completi! Susan Sontag ammette candidamente: “Il mio io è gracile, cauto, troppo sano di mente. I buoni scrittori sono egotisti sfrenati, fino al punto della fatuità. Gli uomini sani di mente, i critici, li correggono, ma la loro sanità mentale è parassitica e vive della fatuità creativa altrui.” è un territorio diafano, immateriale, dove una forza reale diventa finta solo perché ne è stata contrastata la vitalità.
“C’è un élite di ansiosi. Il resto è l’umanità.”, scrive Cioran.
Spazziamo via quella impertinenza intellettuale di chi non ha il rango per poter essere annoverato tra queste élite.
Luca Orlandini
L'articolo Il critico che non salva nessuno (salvo se stesso) e vuole insegnarti come si vive e si legge: saggio contro Alfonso Berardinelli, che sculaccia chi è più grande di lui proviene da Pangea.
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