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aneddoticamagazinestuff · 7 years ago
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MONTANELLI IN FINLANDIA
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MONTANELLI IN FINLANDIA
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Tutte le corrispondenze degli inviati di guerra sembrano assomigliarsi: mescolano i comunicati delle agenzie stampa con i pettegolezzi diffusi ad arte dalle diplomazie, fanno sfoggio di un linguaggio militare preso a prestito, esaltano il coraggio personale dei corrispondenti, anche quando le prove che esso ha sopportato sono modeste, non perdono occasione per rinunciare ad ogni umiltà di giudizio, come se il fatto di essere testimonianze oculari, o presunte tali, le esentasse da ogni fraintendimento, danno fiato alla retorica pro o contro la guerra, ricordando quanta violenza possa scaturire dall’animo umano.
Sembrano assomigliarsi, ma non è così.
A fare la differenza non sono soltanto la distanza dal fronte dei corrispondenti, la loro intelligenza politica, la loro integrità morale e professionale, la loro effettiva competenza nel decifrare le dichiarazioni e gli atti dei generali e delle cancellerie, la loro indipendenza di giudizio, ma sono soprattutto le loro qualità letterarie, come la capacità di cogliere lo stato d’animo di un popolo in guerra, di descrivere con pochi tratti, sfuggendo alla banalità del male, l’atrocità della guerra, di tratteggiare una pagina di storia resistendo alla tentazione di ridurla ad un déjà vu.
Nella nostra epoca tecnologica le qualità letterarie rischiano di apparire una inutile anticaglia, insopportabile sia per i lettori dei giornali, sia per i telespettatori. I giornalisti sono sulla notizia, nel senso che registrano e diffondono l’evento in tempo reale, ma la sintesi spesso manca, sommersa da una sovrabbondanza di informazioni e di immagini. Il paradosso è che l’immagine letteraria è più vera di una ripresa dal vero, poiché dovendo affidarsi soltanto alla parola deve distillare il senso degli avvenimenti. Certamente anche una ripresa è soggettiva ed offre ampi spazi di espressione all’intelligenza ed alla sensibilità del suo autore, ma l’apparente povertà della parola scritta è ben più imperiosa nell’imporre la sintesi, la ricerca del senso più profondo degli avvenimenti.
Anche il caso e l’intuito sono determinanti per distinguere una grande cronista da un semplice testimone.
Indro Montanelli giunse ad Helsinki per caso nell’ottobre del 1939 e vi rimase affidandosi unicamente al suo istinto. Dopo l’espulsione dall’albo dei giornalisti e la sospensione dal partito fascista a causa delle sue corrispondenze dalla Spagna per il Messaggero, giudicate troppo tiepide nei confronti della crociata franchista, la sua carriera era stata salvata in extremis dal direttore del Corriere della Sera, Aldo Borelli, che lo aveva assunto come “redattore viaggiante”, con il compito di occuparsi di temi giudiziosamente lontani dalla politica. Nel corso del suo “esilio preventivo” aveva viaggiato per l’Europa ed il caso lo aveva portato in Germania nell’agosto del 1939, offrendogli persino l’occasione di incontrare Hitler in compagnia dell’architetto Albert Speer. I suoi articoli, bollati come filopolacchi, avevano messo in imbarazzo il regime fascista che si era affrettato a chiedere l’espulsione dalla Germania dello scomodo giornalista fiorentino. Imbarcatosi a Lubecca, Montanelli, su di una rotta minata, aveva raggiunto Tallin in Estonia, proprio alla vigilia della capitolazione all’esercito sovietico, che aveva mostrato subito insofferenza per la sua lingua tagliente espellendolo. Un traghetto per la Finlandia era stato l’unica via di fuga.
La Finlandia però non si presentava come un rifugio sicuro, Stalin si preparava ad aggredire il piccolo stato scandinavo per ricostituire i confini del passato impero zarista. La logica dei numeri, 30.000 raccogliticci soldati finnici dotati di armamenti antiquati contro le sterminate schiere dell’Armata Rossa, animata, almeno nei proclami della propaganda, dalla tenace volontà di esportare il socialismo reale, avrebbe consigliato a chiunque di abbandonare alla svelta Helsinki, non soltanto per ragioni di elementare prudenza, ma anche per l’assenza di un caso giornalistico da raccontare. Tutto lasciava supporre che Helsinki, come già Kaunas, Riga, Tallin, avrebbe capitolato. Montanelli, contro il parere del suo direttore, decise di rimanere. La sua ostinazione lo ripagò fornendogli l’occasione di raccontare all’Italia ed all’Europa l’epopea della resistenza del popolo finlandese.
Nelle corrispondenze inviate dalla Finlandia al Corriere della Sera nell’inverno 1939-40 le qualità letterarie di Indro Montanelli giganteggiano. Il suo istinto di cronista si rafforza e si completa con la capacità di ricostruire con uno scorcio una atmosfera morale, con la rapida descrizione di un prigioniero di guerra la cultura politica di un regime, senza alcuna sicumera professorale, senza alcuna pretesa di aver detto l’ultima parola. L’immediatezza vince sulla tentazione di scrivere per i posteri. Il fiero anticomunismo di Montanelli rinuncia persino ad ogni argomento ideologico per affidarsi alla descrizione dei fatti e dei personaggi. La condanna del comunismo scaturisce così dalla cronaca, evitando il ricorso a stilemi ed argomenti preconfezionati dalla propaganda nazionalista e fascista.
Per il pubblico italiano di allora anestetizzato da un ventennio di rituali bellicisti e di propaganda di regime, spesso ottusa e monocorde, quelle pagine montanelliane dovettero apparire come un inaspettato ed incomprensibile spiraglio di luce sulla realtà della guerra. Il ruolo di aggressore dell’Unione Sovietica contro un piccolo paese inerme salvò I cento giorni della Finlandia dalla censura del Minculpop in cui caddero invece i reportage dello stesso autore sulla campagna polacca e su quella norvegese che furono ritirati subito dopo la pubblicazione per i tipi di Mondadori.
La cortina protettiva dell’anticomunismo, appena sfumato dalla necessità politica del momento di non intralciare il patto Ribbentrop-Molotov, rese una volta tanto arrendevoli i censori fascisti. A farli recedere dalla diffida a continuare a dare spazio alle corrispondenze dalla Finlandia bastarono le proteste del direttore Aldo Borelli che affermò: “Se ritiro Montanelli, perdo 500 mila copie. I lettori del Corriere, come tutti gli italiani, sono dalla parte dei finlandesi”. Grazie a questa coraggiosa, quanto insperata, presa di posizione, ed ancor più alle incertezze politiche del periodo della neutralità italiana, gli articoli di Montanelli continuarono ad essere pubblicati sulle colonne del Corriere e poterono persino essere raccolti in un volume, edito da Garzanti, dal titolo I cento giorni della Finlandia.
Rileggendo oggi le corrispondenze finlandesi di Montanelli risulta evidente che i censori fascisti, se avessero saputo andare oltre il loro anticomunismo, avrebbero trovato ottimi motivi per imporsi sulle proteste di Borelli.
Montanelli infatti non ha alcuna reticenza a dare conto della coraggiosa resistenza di un popolo libero, stretto attorno alle sue istituzioni, contro le mire espansioniste di una grande potenza totalitaria. La descrizione della dignità e della tenacia finlandese avrebbe potuto insegnare molto agli italiani sui rischi di una guerra di aggressione decisa senza tenere in alcun conto i sentimenti popolari. I fanti russi, mal equipaggiati e peggio condotti, incapaci di comprendere le ragioni politiche ed ideologiche della guerra, storditi da una propaganda tanto martellante quanto surreale, non ci appaiono poi molto diversi dai fanti italiani che furono inviati nell’ottobre del 1940 alla frontiera greca. Con il senno di poi Grecia e Finlandia rappresentano come due volti dello stesso mostro: lo stato totalitario che si nutre di propaganda, guerra ed oppressione.
Ma torniamo alle qualità letterarie di Montanelli.
L’accordo tra Ribbentrop e Molotov del 23 agosto 1939 attribuiva nel protocollo segreto le sfere di influenza alla Germania ed all’Unione Sovietica nell’Europa orientale. Oltre a prevedere la spartizione della Polonia lungo la linea Bug-San, tale accordo dava via libera a Stalin per l’espansione verso gli stati Baltici e la Finlandia. Il 28 settembre la Lituania passava sotto la sfera d’influenza sovietica, con la firma di un trattato di reciproca assistenza. La stessa formula veniva riservata all’Estonia qualche settimana più tardi e infine anche la Lettonia era indotta a firmare un trattato in cui la sua sovranità veniva ridotta ai minimi termini. Lo stesso approccio fu impiegato nei confronti della Finlandia, ma le proposte sovietiche, che comprendevano cessioni territoriali nel litorale artico e nell’istmo di Carelia, vennero ripetutamente respinte.
Ecco come Montanelli descrive al suo arrivo ad Helsinki l’atmosfera di un paese minacciato, ma pronto a tutto pur di non cedere un palmo di territorio alla prepotenza sovietica: “All’aeroporto di Helsinki una ragazza dagli occhi color acqua di scoglio fa con impareggiabile grazia gli onori di casa e fornisce le ultime informazioni. Cortese, oggettiva, diligente, col petto decorato del distintivo della “Lotta Svärd”, essa è venuta a occupare il posto del fratello richiamato alle armi. Helsinki mi ha fatto un’ottima impressione. La gente rarefatta dagli sgomberi di questi ultimi giorni, che ha visto l’esodo di quasi 100.000 persone, vi si muove in un’atmosfera di calma assoluta. La mobilitazione, iniziata con un senso avaro di previdenza e attuata con molto criterio, non ha causato confusione né scompiglio. Un volontarismo sereno, la capacità di sacrificio, il senso del dovere hanno secondato i provvedimenti presi dalle autorità civili e militari. Queste autorità civili e militari hanno agito con molta saggezza in previsione del peggio, quasi che la guerra fosse fatale. Con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato, mentre non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza.”.
In poche righe, attraverso gli occhi acqua di scoglio di una hostess, si avverte distintamente tutto il dramma di una nazione che si appresta ad una prova durissima, facendo appello alle virtù del suo popolo: unità, calma, compostezza, dignità, determinazione.
Le più fosche previsioni del governo finlandese non tardarono ad avverarsi. Dopo circa un mese di sterili trattative, il 27 novembre 1939, prendendo a pretesto un presunto tiro provocatorio dell’artiglieria finlandese contro le truppe sovietiche concentrate in Carelia, l’Unione Sovietica denunciò il trattato di non aggressione del 1932 e due giorni più tardi ruppe le relazioni diplomatiche con Helsinki. Stalin si affrettò a creare una goffa copertura politica alla brutale aggressione della Finlandia. Il Comintern fu come sempre tempestivo nell’offrire il candidato ideale per la creazione di un governo fantoccio: Otto Kuusinen che costituì un sedicente governo popolare, entusiasta di invocare l’aiuto dell’Armata Rossa per innalzare nell’istmo di Carelia la bandiera del socialismo reale. 45 divisioni sovietiche per un totale di quasi 800 mila uomini con 1500 mezzi corazzati ed un migliaio di aerei si avventarono sulla Finlandia che, richiamando alle armi tutti gli uomini validi, riuscì a mettere insieme non più di 200 mila soldati distribuiti in 9 divisioni, dotate di artiglierie antiquate e di un flotta aerea di appena 150 apparecchi.
La schiacciante superiorità aerea e terrestre dei sovietici venne ben presto neutralizzata da un elemento, facilmente prevedibile, tuttavia trascurato dal Cremlino: la neve, che salvò Helsinki dalla distruzione e rallentò, sino quasi a bloccarle, le operazioni terrestri su tutti fronti.
L’agile penna di Montanelli descrive con impareggiabile efficacia il ruolo svolto dalla neve nel rimettere in gioco le sorti della Finladia. Il 4 dicembre 1939 scrive: “Bismarck diceva che un uomo di stato deve avere il coraggio ad un certo punto di dire: ‘Domani pioverà’ e poi raccomandarsi a Dio perché ciò avvenga. I giornalisti in tono minore si trovano, a volte, nella stessa condizione. Fu il caso di ieri sera quando la paura di non essere a tempo a farlo mi spinse a dire sommariamente cos’era Helsinki, lasciando intendere che forse oggi questa città non sarebbe più esistita. (…) Stamane alle dieci Helsinki, deserta ma ancora viva, era avvolta in un sudario di neve che si sbriciolava da un cielo basso a portata di mano. L’occultamento era perfetto. Un gelido vento di Nord incrostava i bioccoli in lacrime di vetro. Fregandomi le mani pensavo a quali effetti avrebbero provocato quei ghiaccioli sulle ali degli aeroplani. Fuori il termometro segnava otto sotto zero. Meglio sotto che sopra pensai. Gente era rientrata dal momentaneo confino e guardava il cielo, beata: questo bravo cielo di cotone sporco così brutto a vedersi, ma tanto, tanto caro. (…) La neve resta l’avvenimento più sensazionale della giornata. Mentre parlava distrattamente delle conversazioni a Mosca, il sig. B., del ministero degli Esteri, palpava con compiacenza un pugno di questa neve, l’appallottolava e strizzandola da finnico intenditore: ‘è farinosa’, diceva soddisfatto come se fosse alle viste non una guerra ma una gara di sci. E poi aggiungeva: ‘La neve viene dalla Carelia’, vecchio adagio finlandese tornato di grande attualità. In Carelia, infatti, la neve s’è alzata di un metro, bloccando senza scampo ogni operazione militare. Quando fui in questa zona or è un mese, mi fu facile farmi un’idea di cosa possa essere una guerra da queste parti, fra gli impenetrabili boschi di abeti e un lago incrostato di ghiaccio. Di notte qui si va a trenta sotto zero e le notti durano venti ore su ventiquattro. L’aviazione non si alza. L’artiglieria spara in un bianco vuoto. Chi avanza deve trascinarsi dietro un penoso bagaglio poiché alle spalle di chi si ritira non restano che macerie di villaggi bruciacchiati. Questo nel Sud. Nel Nord la guerra ha un aspetto addirittura fantomatico, l’impiego di grandi masse vi risulta impraticabile dopo la prima esperienza sovietica che va considerata fallita. Successo di sorpresa nei primi giorni, pronta ritirata dei Finlandesi, ritorno offensivo a piccoli gruppi, alla beduina, a tergo dell’avversario. La truppa dislocata lassù è scarsissima, nemmeno duemila uomini, e non sarà rinforzata. Niente artiglieria. Fucili, mitragliatori e pugnale. Molto pugnale.”
Con l’approssimarsi del disgelo l’eroica resistenza finlandese perse gran parte della sua forza e dovette arretrare difronte alle poderose offensive dell’Armata Rossa. All’inizio di marzo del 1940, Vipuri, l’ultimo caposaldo finlandese nell’ istmo di Carelia, cadde in mano ai sovietici. Helsinki non esitò ad attivare i canali diplomatici per porre fine ad un conflitto dall’epilogo inevitabilmente catastrofico. Il 12 marzo venne sottoscritto a Mosca il trattato di pace in base al quale la Finlandia cedeva all’U.R.S.S. l’intera zona dell’istmo, compresa Vipuri, una parte della Carelia orientale ed una parte della penisola dei Pescatori sul mare di Barents.
La ripartizione delle perdite di uomini e mezzi ci presenta la dimensione dell’eroismo finlandese. La Finlandia perse circa 25.000 uomini e 60 aerei, l’Unione Sovietica oltre 200.000 uomini, quasi 700 aerei e 1.600 carri armati.
La resistenza finlandese non fu soltanto un prodigio del “generale inverno”, anche il fattore umano ebbe un ruolo determinante. Montanelli si mostra attentissimo a tale fattore, consegnandoci rapidi bozzetti da cui scaturisce la psicologia dei combattenti. Dai dettagli che la sua prosa asciutta illumina con lampi improvvisi si intravvede la trama sottile, talvolta impalpabile, che lega indissolubilmente uomini, ideologie e fatti. Tout se tient, dal generale al particolare e viceversa. Le scarpe slabbrate di un fante russo prigioniero lasciano trasparire la disorganizzazione di uno stato totalitario che bleffa cinicamente sulla pelle di uomini storditi dalla propaganda. Le granitiche certezze di altri prigionieri russi suggeriscono la capacità del regime sovietico di conquistare il cuore e la mente di intere generazioni, plasmando un modo di pensare in cui nemmeno l’evidenza può smentire la parola del partito e del compagno Stalin.
Nella corrispondenza dell’8 dicembre 1939 Montanelli annota: “Ho visto tre prigionieri russi, internati qui e offerti alla curiosità di qualche giornalista. Siamo d’accordo che tre uomini sono un campione inadeguato per giudicare d’un popolo e di un esercito, ma certo essi non mi hanno ispirato ottimistiche opinioni sull’armata rossa. Fisicamente tutti e tre bene attrezzati, indifferenti a ciò che avveniva loro intorno, il loro equipaggiamento era pessimo. Di scadente e rude stoffa le divise, sporche e lacere. Orribili scarpe, slabbrate, le cui suole somigliavano stranamente al cartone. Buone invece le armi che portavano al momento della cattura: moschetti e pistole. (…) Ho chiesto loro a quale reparto appartenessero. Hanno risposto che appartenevano alla seconda squadra del terzo plotone. Ma a quale compagnia appartenesse questo plotone non lo sapevano e tanto meno a quale battaglione e a quale reggimento. Sapevano solo che, quando varcarono il confine, era stato loro detto che la guerra sarebbe durata una settimana e che dopo li avrebbero lasciati tornare a casa.”.
L’ indagine montanelliana sul tipo umano sovietico non si accontenta dei primi risultati, prosegue alla ricerca di veri alfieri del socialismo e finisce per trovarli, tratteggiando profili che hanno l’immediatezza della realtà, filtrata dal talento letterario, e non scadono mai nella caricatura o nella demonizzazione. Si avverte invece un fondo di umana pietà dell’autore verso le vittime di un indottrinamento che rende ciechi ed ottusi.
“Finora fra i prigionieri non avevo incontrato nessuno che fosse comunista, e la convinzione era venuta formandosi in me che negli interrogatori essi nascondessero, per paura, questa loro qualità. Ma forse non è vero. Forse di comunisti in Russia ce ne sono veramente pochi, o altrimenti al fronte essi non sono stati mandati, poiché di tutti i soldati coi quali ho parlato, uno solo ne ho trovato iscritto al partito. (…) Questo che ho visto oggi era un bell’uomo sui 35 anni dagli occhi grigi e dai capelli biondissimi, alto, squadrato, mal vestito, ma pulito, anzi accuratissimo come igiene personale. Nonostante tre giorni di prigionia (d’altronde molto umana) aveva la barba perfettamente rasa, la divisa a posto, le unghie bianche e limate, la chioma pettinata. (…) Gli chiesi se era comunista e lui rispose con forza: ‘Sì’. Parlava sicuro e calmo. (…) Alla domanda se aveva preso parte ai bombardamenti di Helsinki rispose vivamente che l’aviazione sovietica non aveva mai bombardato Helsinki, avendo ricevuto l’ordine sin dal primo giorno di operazioni, di non colpire che obiettivi militari. Gli feci osservare che ero presente al bombardamento. Rispose: ‘Impossibile’. Insistetti che avevo visto con i miei occhi le donne e i bambini uccisi. Rispose: ‘Non è vero’. Non c’era nulla da fare. Gli domandai cosa pensava dei Finlandesi e lealmente mi disse che sono bravi soldati. Gli domandai cosa pensava dei Russi e mi rispose che sono bravi soldati. Allora ne spinsi avanti uno e gli feci palpare il cotonaccio della divisa, chiedendogli se anche l’equipaggiamento gli pareva buono. Egli rispose, impassibile, toccando il panno della propria divisa: ‘E’ buono come il mio’.”
Non sempre però la compassione di Montanelli riesce ad affiorare. Ad esempio, difronte al fanatismo di una giovane donna sembra prevalere il ribrezzo: “Oggi ho visto un personaggio di un certo interesse, una donna sovietica. E’ una ragazza di 22 anni, studentessa del terzo anno di medicina, infermiera volontaria sul fronte settentrionale dove è caduta prigioniera: una ragazza più bella che brutta; lavata e pettinata un po’ meglio, potrebbe essere bella addirittura e i Finlandesi per galanteria la trovano bellissima. Sempre per la stessa galanteria essi si sono rifiutati di internare la compagna Olga in un campo di concentramento con gli altri prigionieri, sebbene lei protestasse di voler essere trattata come un soldato qualunque. Come un soldato qualunque invece era vestita: pantaloni, stivali, ecc. Fumava come un camino e si dava arie militaresche. Si è avuta molto male perché le ho usato quei pochi elementari riguardi che ancora il sesso femminile ci impone, sesso che ella ha tenuto a farmi dimenticare ricorrendo a un gergo e a maniere piuttosto indecenti. Non ho avuto modo di interrogarla molto. Dopo le prime domande la conversazione si è risolta in un monologo, in cui riecheggiavano i luoghi comuni più tristi e più vieti della propaganda comunista. Io volevo saper qualcosa di più modesto che non la cosmogonia bolscevica, e cioè come era organizzato il servizio sanitario nell’esercito russo. (…) Posso riassumere così il contenuto di questa allocuzione: gli uomini sono nella massa stupidi. Solo una frazione di essi, quando sia ben guidata, riesce a rendersi conto dove e quale sia la felicità. Non è tutta la frazione che se ne rende conto, ma i capi di essa. Gli altri sono superiori alla stupida massa non perché hanno intelligenza bastevole a capire la verità, ma perché hanno intelligenza bastevole a capire che, non potendo capire, debbono rimettersi alla saggezza dei dirigenti. E’ il caso dell’umanità di questo secolo, che è come tutti gli altri secoli stupido anch’esso. Ma c’è stata una frazione di questa umanità che, un po’ meno stupida, si è rimessa disciplinatamente al retto giudizio di pochi illuminati. Tale frazione è la Russia. Dentro la Russia la maggioranza non è illuminata (Olga ha detto testualmente così), ma la disciplina la obbliga seguire i pochi veggenti. Diventata anche contro voglia felice, questa Russia ha il dovere di imporre la felicità a tutto il resto del genere umano. Ecco perché fa la guerra. I morti non contano perché quando si tratta del genere umano non si ha il diritto di lesinare il sangue, ma si ha il dovere di profonderlo. Era la rivoluzione universale in persona. (…) Le chiesi se ora, in mezzo alla infelice umanità di Finlandia, si sentiva infelice. E Olga, mangiando con ingordigia una patata lessa, mi rispose queste precise parole: ‘Compagno giornalista, puoi scrivere e stampare che un sovietico prigioniero dei borghesi finlandesi ha il dovere di sentirsi infelice’. Sia fatta la volontà di Olga e prendiamo atto che esiste il dovere sovietico di essere infelici. Fra i tanti sciagurati prigionieri che ho visto questo è forse il più sciagurato, perché non è riuscito nemmeno a farmi compassione.”
Se la compassione di Montanelli per i prigionieri russi è intermittente non lo è invece per le vittime innocenti della guerra. Tra le tante sceglie di soffermarsi su di un gruppo di monaci di Valamo, dando prova le sue doti di narratore: “La notte del 18 febbraio, duecentocinquanta monaci greco-ortodossi raccolsero in fretta i sacri paramenti bizantini, gli ornamenti e i gioielli della sagrestia, un favoloso tesoro di crocifissi d’oro, di antiche icone e di pergamene manoscritte in caratteri slavonici, si riunirono nella chiesa e pregarono per la salvazione dell’anima dei loro persecutori. Fuori nel chiaro di luna, ronzavano i motori sovietici, bombe cadevano in cerca di batterie finlandesi appostate intorno ai monasteri, razzi luminosi di pattuglie avanzate indicavano, a pochi chilometri di distanza sul lago, le posizioni sempre più vicine e minacciose del nemico. E i duecentocinquanta monaci continuavano a pregare, le ieratiche note del coro riempivano le navate della chiesa. Il comandante dell’artiglieria venne, rimase sulla soglia, guardò nervosamente l’orologio e non osò avanzare. L’archimandrita lo vide, gli fece un cenno con la testa sorridendo, seguitò a pregare con gli altri. Finalmente … il canto cessò, i monaci comparvero fuori, le ombre nere sul biancore riflesso della neve, chi a piedi, chi su slitte trainate da cavalli e da cani, dietro il carico dei loro sacri tesori. Essi presero il cammino della terraferma attraverso i ghiacci del lago, alle spalle lasciandosi le rovine dei loro monasteri distrutti dalle bombe sovietiche, ultimo angolo della Santa Russia sopravvissuto nel Nord. Così è finita Valamo, monte Athos di Finlandia. (…) Il 18 tutti i monaci … scamparono sulla terraferma a Lahdenpohja e poi furono smistati a qui a Kannonkoski e alloggiati nella scuola, dove li ho trovati. Sono tutti vecchi, il più giovane ha 70 anni; e hanno occhi di bambini. Pregano sempre perché Dio perdoni ai loro persecutori e padre Hariton ottuagenario sorride.”.
Montanelli gioca sapientemente sui contrasti, insiste su dettagli apparentemente insignificanti per descrivere le sfaccettature dello spirito del popolo finlandese, capace di conservare intatta la sua sensibilità umana anche in mezzo all’orrore imposto dagli imperativi della guerra. Nel febbraio 1940 osserva: “Questo popolo è indipendente da venti anni e la sua Patria se l’è sofferta per secoli. L’ama a tal punto e con tale gelosia che pur di alienarla è pronta a distruggerla. E lo fa soffrendo sotto una maschera di indifferenza che a volte ci fa dubitare se questi siano esseri umani. ‘Ma siete esseri umani?’ chiedevo proprio oggi a un amico, appunto di Vipuri, che da Vipuri giungeva con un gruppo di esuli e che, per aver vissuto molti anni in Italia, comprende i miei dubbi. Eravamo per strada, nevicava, il mio amico si stringeva nelle spalle, gli altri esuli ristavano e guardavano. A un tratto uno di essi corse verso il marciapiede, raccolse qualcosa che si agitava su di un lastrone di ghiaccio. Era un passerotto mezzo assiderato. Tutti lasciarono il loro bagaglio per accorrere a vedere. Il passerotto stava lì nella mano dell’uomo che lo serrava con strana tenerezza. A un tratto si provò a volare. Fece un piccolo volo sul ramo di un alberello. Tutti si misero a discutere. Deliberarono qualcosa, uno andò a cercare una scala in un magazzino di fronte, un altro una gabbiuzza in una casa dirimpetto. Era buffo vedere gente di sessante, settant’anni dare la caccia a un passerotto. Finalmente lo presero, lo scaldarono coi fiati, lo depositarono in gabbia e furono contenti di una contentezza gonfia di visibile commozione. Senza punta visibile commozione costoro 24 ore prima avevano appiccato il fuoco alle loro case, perché non cadessero in mano ai Sovietici.”.
Dai carnefici alle vittime, dalle comparse ai protagonisti, nessuno rimane escluso dalla cronaca montanelliana. Nella descrizione del maresciallo Mannerheim, comandante supremo dell’esercito finlandese, riecheggiano le virtù di un intero popolo. Il ritratto offertoci da Montanelli non è questa volta vivido ed immediato, assomiglia piuttosto al busto di un eroe della classicità scolpito nel marmo. Non si tratta tuttavia di una celebrazione di maniera concepita per finalità propagandistiche o per semplice piaggeria, ma di una intuizione capace di cogliere nella figura di Mannerheim l’incarnazione del popolo finlandese in guerra. Certamente siamo difronte ad una semplificazione giornalistica, ma dalla grande forza letteraria, una semplificazione che tenta di cogliere il senso degli eventi ed individuare una linea interpretativa, affidandosi all’istinto. Nella corrispondenza del 30 dicembre 1939 Montanelli scrive: “A settantadue anni suonati, il maresciallo Mannerheim si incontrava ogni mattina in tempo di pace a galoppare nel parco su un bianco cavallo. Bellissimo uomo, adusto, militaresco; coi capelli folti e lucidi, con corti baffetti neri, si teneva ancora poche settimane fa un poco in disparte dalla vita pubblica, non per alterigia o disprezzo ma per un istintivo amore di solitudine. Cordiale e indulgente, il suo sforzo era quello di far dimenticare al suo interlocutore chi egli fosse e che cosa rappresentasse nella storia della Finlandia e dei Paesi nordici. Difficilmente si riusciva a trascinarlo a parlare di se stesso e dei suoi ricordi. Unici argomenti per i quali mostrava interesse erano la caccia, i cani, i cavalli. (…) Durante la crisi che ha condotto alla guerra con la Russia alcune voci di popolo hanno attribuito a Mannerheim la parte di rappresentante dell’intransigenza. Il suo passato di ufficiale zarista e il progetto di crociata antibolscevica del 1919 rafforzavano l’opinione che il maresciallo pensasse sempre ad una vendetta contro il bolscevismo. E sebbene egli limitasse rigorosamente la sua opera al campo tecnico-militare, i settori più accesi del nazionalismo finnico guardavano a lui come al naturale interprete dei loro voti. Ma Mannerheim non ha avuto, finché la partita si è svolta al tavolo diplomatico, opinioni o per lo meno non ne ha mostrate. Ora Mannerheim non si vede più. Per sua particolare natura è sempre stato un personaggio stranamente lontano e solitario, circondato per sua stessa volontà da una zona fredda nella quale raggelavano e smorivano le espansioni dei suoi simili. Ma ora egli è più lontano che mai, al centro del misterioso quartier generale finnico di cui tutti ignorano la sede. Da una stanzetta disadorna quasi monacale, seduto ad una grande ordinatissima scrivania, Mannerheim dirige le operazioni vittoriose del suo esercito. Egli manovra sulla carta, calcola con pazienza, ascolta con attenzione, emana pochi ordini precisi. Tutto dipende da lui: esercito marina aviazione. E tutto a lui rassomiglia nell’azione: equilibrato calmo tenace.”
Lugi G. De Anna, docente di lingua e cultura italiana presso l’università di Turku, nel suo volume dedicato al rapporto tra Montanelli e la Finlandia ha ridimensionato, soprattutto in relazione ad alcuni dettagli legati alla figura del maresciallo Mannerheim, l’attendibilità di Montanelli. Ciò non toglie nulla al valore dei Cento giorni della Finlandia come reportage giornalistico di straordinaria forza e ricchezza di informazioni. Naturalmente è sempre lecito, anzi doveroso, nutrire dubbi sulla attendibilità storiografica della scrittura giornalistica. Visiti da vicino i fatti ed i personaggi possono essere distorti dai testimoni persino inconsapevolmente. Testimonianza diretta non è sinonimo di verità assoluta. Non si può tuttavia negare l’efficacia di un buon reportage per chiarire un contesto, suggerire interpretazioni e fornire un ampio ventaglio di fatti da verificare e da ridefinire alla luce dei documenti disponibili a posteriori. Qualche brandello di verità può semmai scaturire dalla pluralità delle fonti. Le cronache di Montanelli sono una di esse, una delle più preziose. Grazie Indro.
Bibliografia
I. MONTANELLI, Cronache di guerra. La lezione polacca, I cento giorni della Finlandia, La guerra nel fiordo, Milano, Editoriale nuova, 1978.
B. P. BOSCHESI, Enciclopedia della Seconda Guerra Mondiale, Milano, Mondadori, 1983.
D. FERTILIO, Montanelli, inviato ribelle nella Finlandia aggredita da Stalin, “Il Corriere delle Sera”, 15 Febbraio 1997.
L. G. DE ANNA, La memoria perduta. Montanelli e la Finlandia, Rimini, Edizioni all’insegna del Veltro, 2005.
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dal nostro inviato Riccardo Staglianò                        
Un ufficiale della difesa: “Non c’è pericolo diretto nei nostri confronti”. Ma il Paese non ha mai dimenticato la Guerra d’inverno
HELSINKI - Sul traghetto per Suomenlinna, la fortezza costruita nel 1748 su sei isolette a quindici minuti dalla capitale per proteggerla contro l'espansionismo russo, c'è una nebbia che si taglia con il coltello. L'unica cosa chiara, a queste latitudini, è un'altra: la Finlandia, lasciandosi alle spalle decenni di neutralità, sta per chiedere l'adesione alla Nato.
L'hanno annunciato ieri il presidente Sauli Niinisto e la primo ministro Sanna Marin, alla guida dei socialdemocratici, sin qui più cauti. L'ufficializzazione si attende nel fine settimana. Dopodiché, verosimilmente, potrebbe arrivare il raddoppio svedese (lì è a favore il 50% della popolazione contro il 76 di qui) in una delle più colossali eterogenesi dei fini per una carneficina che, stando alle dichiarazioni russe, era stata fatta anche per evitare un ulteriore allargamento dell'alleanza atlantica.
Una volta formalizzate le richieste, però, passerà del tempo. Il processo di ratifica da parte dei trenta Paesi membri, a cose normali, potrebbe prendere un anno. Viviamo però tempi speciali. Nei giorni scorsi il ministro degli Esteri, Pekka Haavisto, si è sbilanciato nel dire che, entro ottobre, saranno dentro. Di più ha fatto, non si capisce bene su che basi, il premier norvegese Jonas Gahr Støre che ha parlato di "due settimane".
L'interrogativo più serio è come reagirà la Russia, con cui la Finlandia condivide 1340 chilometri di confine. A dispetto delle minacce del Cremlino, il lunghissimo tratto in comune è più sguarnito del solito proprio per l'impegno bellico in Ucraina. Hauli Hautala, un ex diplomatico di stanza a Mosca e oggi al Center for a New American Security, ha previsto piuttosto campagne di disinformazione, cyberattacchi e un uso strumentale dei migranti simile a quello dell'anno scorso alla frontiera tra Bielorussia e Polonia. Ordinaria amministrazione, insomma.
In città però niente segnala l'imminente cambio geopolitico. Questo è un popolo che non ha mai dimenticato la Guerra d'inverno del 1939 contro i russi e da allora vive in una quieta ma vigile preparazione al peggio. Con un esercito attivo di 280 mila soldati e 900 mila riservisti, che si addestrano regolarmente. Ogni uomo tra i 18 e i 55 anni, se le cose dovessero mettersi davvero male, sa in quale unità e con quali funzioni prenderebbero servizio. Tuttavia regna un granitico pragmatismo: "Non c'è alcuna minaccia diretta contro di noi", dice un ufficiale della difesa civile che sovrintende a uno dei tanti rifugi in grado di ospitare tutta la popolazione della capitale: "Li manteniamo funzionali né più né meno come abbiamo fatto in questi ultimi ottant'anni".
La verità è che quello finlandese è un esercito già largamente integrato nei ranghi Nato. Dagli anni '90, insieme a quello svedese, ha partecipato a missioni nei Balcani, in Afghanistan e Iraq. Sono forze già interoperabili, nel gergo degli esperti. Ad aprile scorso, per dire, a coordinare un'esercitazione di guerriglia urbana nella vicina isola di Santahamina c'era Ari Helenius, un comandante di battaglione che ha servito accanto alle forze Nato in Kosovo. E poco prima dell'invasione dell'Ucraina, Helsinki ha finalizzato l'acquisto di 64 caccia F-35 dall'americana Lockheed Martin.
Sul tetto della stazione, come in molti altri palazzi pubblici, sventola la bandiera ucraina. Davanti al Kiasma, il museo di arte contemporanea in centro, un drappello di ragazzi avvolti in bandiere di Kiev fanno la spola per chiedere alla cittadinanza di non dimenticare che cosa succede a causa di Putin.
Alcuni alberghi hanno inaugurato composizioni floreali gialle e azzurre. Al tg della sera un inviato a Kotka, a metà strada tra la capitale e San Pietroburgo, mostra l'ultima statua di Lenin ancora in piedi e dà conto del dibattito cittadino ("E allora quella dell'imperatore Alessandro I?", obietta una storica locale). Ma i finlandesi sanno benissimo che la geografia non è facoltativa e che la Russia resterà sempre il loro temibile vicino. E, a differenza delle statue, non potrà essere rimosso. Quel che possono fare è mettersi sotto l'ombrello atlantico e, a quanto pare, non hanno alcuna intenzione di traccheggiare.
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paoloxl · 5 years ago
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Alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia segui‘ il tentativo rivoluzionario in Finlandia . La sera del 27 gennaio 1918 la Guardia Rossa occupo‘ gli edifici Statali e le banche. Il giorno dopo venne costituito il governo rivoluzionario.
27 Gennaio 1918: Finlandia una rivoluzione mancata
Dallo scritto di Eric Blanc su Jcobin
„…...Per dare il segnale dell’inizio dell’insurrezione, i dirigenti del partito accesero, nella serata del 26 gennaio, una lanterna rossa sulla torre della Casa del popolo di Helsinki. Nel corso dei giorni seguenti, i socialdemocratici e le organizzazioni dei lavoratori che avevano aderito presero il potere in modo piuttosto facile in tutte le principali città della Finlandia. Tuttavia, il nord rurale rimase nelle mani delle classi dominanti.
Gli insorti finlandesi pubblicarono un proclama storico che soetneva che la rivoluzione era necessaria dal momento che la borghesia finlandese, in collegamento con l’imperialismo straniero, aveva condotto un «colpo» controrivoluzionario contro le conquiste dei lavoratori e contro la democrazia:
«il potere rivoluzionario in Finlandia appartiene a partire da questo momento alla classe lavoratrice e alle sue organizzazioni […] La rivoluzione proletaria è nobile e severa […] severa verso i nemici insolenti del popolo, ma pronta ad offrire il proprio aiuto agli oppressi e alle persone messe ai margini».
Benché il nuovo governo rosso tentasse in un primo tempo di definire una linea politica relativamente prudente, la Finlandia precipitò tuttavia rapidamente in una guerra civile sanguinosa. Il ritardo nella presa del potere ebbe un costo elevato per la classe lavoratrice finlandese dato che, a partire dal 1918, la maggior parte delle truppe russe erano tornate in Russia. La borghesia trasse vantaggio dai tre mesi che trascorsero dopo lo sciopero generale di novembre per costituire il proprio esercito in Finlandia e in Germania. Più di 27.000 rossi finlandesi trovarono la morte durante la guerra. Dopo lo schiacciamento da parte della destra della Repubblica socialista finlandese dei lavoratori, nell’aprile 1918, altri 80.000 lavoratori e socialisti vennero gettati nei campi di concentramento.
Victor Serge scrisse: „ I vincitori massacrarono i vinti. Sin dai tempi antichi le guerre di classe sono sempre state le piu spaventose. Non ci sono vittorie piu sanguinose e atroci delle vittorie delle classi reazionarie. Dal momento che il bagno di sangue inflitto alla Comune di Parigi dalla borghesia francese, il lavoro non aveva visto nulla di paragonabile agli orrori della Filandia......“
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dccsoftair · 7 years ago
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Maschera antigas Suod 61T "nuova originale" esercito finlandese... #dccsoftair #mascheraantigas #esercito #esercitofinlandese #suod #suod61t #gasmask #militare #softair #softairitalia #molise #pizzone #isernia
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pangeanews · 4 years ago
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Enrico Vanzina, lo scrittore che ricorda “un po’ Chandler, un po’ Simenon”, anzi, no, pare Proust…
«Questo è un gran bel romanzo scritto da un vero scrittore con un tocco neochandleriano di freschissima malinconia» (Antonio D’Orrico, Sette-Corriere della Sera, 2013).
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Ebbene sì, non lo nascondiamo. Dopo esserci imbattuti in quell’enorme pagliacciata che è l’ultimo romanzo di Walter Veltroni – Assassinio a Villa Borghese, il “giallo” pretestuoso e farlocco pubblicato da Marsilio, inzeppato di tutto e tenuto insieme col niente – ci siamo chiesti cosa può aver portato l’ex-sindaco di Roma a una scelta tanto stupida, quale stimolo può averlo mosso, considerando che nella sua produzione romanzesca non ha usato quasi mai farina del suo sacco, preferendo appoggiarsi a idee e stilemi altrui: perfino il suo inefficace slogan elettorale “Si può fare” venne copiato da “Yes we can” di Barack Obama. Insomma, abbiamo cercato di capire quale fosse l’anello di congiunzione fra la sua già scadente produzione romanzesca e il deragliamento finale.
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Abbiamo dunque guardato al mondo del scinema, come si dice a Roma, in particolare a quello trash, e non è stato difficile trovare il bandolo. Mentre il Sole 24 Ore us�� il sistema ‘follow the money’ per scoprire l’identità della misteriosa Elena Ferrante, noi abbiamo usato il più semplice ‘follow the jockey’: seguire le bravate dell’indomito bj del Corriere della Sera Antonio D’Orrico – ormai divenuto un compagno di viaggio – che nel 2013 osannò Il gigante sfregiato, romanzo d’esordio del cineasta romano Enrico Vanzina, edito da Newton Compton.
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Già la copertina del libro offre le coordinate in tre fasce gialle, per facilitare i recensori: “Dalla borghesia romana ai bassifondi della capitale”; “Un po’ Chandler un po’ Simenon”; “Il giallo incontra la commedia all’italiana”. Ecco servito il metodo abile, sfacciato, distruttivo, dove bastano queste poche indicazioni per poter ottenere gli articoli quasi senza dover leggere il libro. L’editore lo sa bene, e per farsi strada ha imparato a innovare usando gli strumenti moderni del fascettismo selvaggio, che standardizzano l’offerta e appiattiscono la risposta di chi dovrebbe valutare. Peccato che, così facendo, ha anche avvelenato i pozzi, con le conseguenze che abbiamo sotto gli occhi. Poi, con un pezzo grosso come Enrico Vanzina è sufficiente che il book-jockey D’Orrico lanci su Sette il “gran bel romanzo scritto da un vero scrittore con un tocco neochandleriano di freschissima malinconia”, che tutto il resto passa in secondo piano, a cominciare dalla trama, una slegatura di trovate improbabili e abborracciate dove la coerenza è solo un’eventualità.
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Max Mariani, ex-avvocato della Roma che conta, già dotato di Porsche e casa nei quartieri alti, poi caduto in disgrazia come detective privato, si occupa dell’ex-rugbista sfregiato Sandrone che cerca di sfuggire a una donna senza scrupoli decisa a farlo fuori; ma è proprio quella bionda a offrire al protagonista un lauto compenso per ritrovare il gigante. Qui basta l’incipit per darne subito le indicazioni programmatiche: “La prima volta che incontrai Sandrone era un pomeriggio come tanti, uno di quelli in cui sarebbe potuto accadere di tutto. O invece niente”.
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Ecco la chiave che deve aver deliziato Antonio D’Orrico: come si ricorderà, quando nel 2010 pubblicò il suo unico romanzo, il risvolto di copertina lo definì autore de “la più discussa, discutibile, indiscussa e indiscutibile rubrica letteraria italiana”: una giravolta fra gli opposti quasi demenziale, che spianava la strada alla fungibilità di ogni cosa, dove fra questo e quello, fra il sopra e il sotto non c’è più differenza. Un trucco che funziona sempre, e che il romanzo di Vanzina ripropone quasi identico nel finale: “Ci fissiamo per una frazione di secondo. Un secondo nel quale c’era tutto quello che c’era stato tra noi. Molto. Ma anche nulla”.
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Non ridiamo, perché la cosa è seria. Lasciando da parte l’incompatibilità fra “ci fissiamo” e “una frazione di secondo”, concetti praticamente opposti, qui è la formula “ma anche” il sofisma principe: quello che non ha risparmiato nemmeno la politica di Walter Veltroni, offrendo lo spunto alle memorabili imitazioni televisive che lo perculavano. Non sappiamo se l’editor di questo libro sapesse quello che faceva; probabilmente le regole d’ingaggio erano di riprodurre frasi che suonassero bene, che creassero un’atmosfera sufficientemente ricalcata sui cliché, indipendentemente dalla combinazione delle parole. Al punto da ottenere veri e propri nonsense: “Malgrado i capelli incolti e lunghi, aveva comunque un viso pulito, somaticamente leale” (p. 10); “Ho amici che si contano sulle dita di una mano mozza” (p. 14); “Era un vecchio poliziotto disilluso, ma ancora in grado di distinguere i bersagli del suo cinismo stanziale” (p. 33); “Lo vidi arrivare in via Gioberti con aria dinoccolata” (p. 39); “Giuliani mi fissò con l’essenza etimologica della sorpresa stampata in faccia” (p. 135).
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Gli interrogativi s’inseguono. Cos’è la lealtà somatica? E il cinismo stanziale? L’aria può essere dinoccolata? La sorpresa può avere un’essenza etimologica? Tutte domande che andrebbero rivolte anche al bj D’Orrico, a cominciare dal suo tocco neochandleriano di freschissima malinconia: che odore ha la malinconia quando è freschissima? E quando prende il tocco neochandleriano come diventa? Queste sono le questioni più ardue, a cui si aggiungono le similitudini imbarazzanti che Enrico Vanzina sparge senza risparmio e senza pietà, un po’ come le citazioni che Veltroni semina a casaccio nei suoi libri:
“Sandrone, al contrario, sembrava avermela raccontata giusta. Dritta come la piega di un pantalone uscito da una tintoria”
“Lo fissai con un sorriso freddo come un ghiacciolo”
“La bionda mi lanciò uno sguardo gelido come avrebbe dovuto essere quella vodka”
“Entrò Giuliani, tarchiato come un boccale di birra”
“La lista di quelli che ha spedito al pronto soccorso è fitta come due pagine di versetti del Corano”
“Era visibilmente moscio, come una pianta da interni abbandonata in salone durante le vacanze”
“Li feci ingabbiare come scimpanzé allo zoo”
“Gli lanciai uno sguardo affilato come una lama”
“Combaciavano come le valve di una stessa cozza”
“La città pareva caduta già in catalessi, vuota come una bottiglia di Veuve Cliquot sul banco di un night all’ora di chiusura”
“Ronfava tranquillo, un rombo simile al motore di un vecchio battello fluviale dell’Amazzonia”
“Trovare il 439 non fu facile come mandare giù una pillola per il mal di testa”
“Era spaventata come una bambina al Luna Park, nella casa delle streghe”
“Quel nome mi rimbombò nelle tempie come un tuono”
“Nel furgone calò un gelo da inverno finlandese”
“Lugubre come un quadro espressionista tedesco”
“Uscii dalla Questura di via Genova leggero come un petalo di mandorlo”
“Vivevo dannatamente solo, in una casa lercia e solitaria come un calzino spaiato”
“Mi preparai un caffè nero come la pece”
“E mi concentrai di nuovo sul caso nudo e crudo. Era come una forma di groviera: piena di buchi”
“Mi stampò un bacio sulle labbra. Leggero come un fraseggio di Mozart”
“Lei mi lanciò uno sguardo affilato come una rasoiata”
“Fatma Sorrise. Un sorriso malinconico come un giorno di nebbia”
“Sfoderò un altro sorriso triste come un fado”.
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A questo punto, quasi rintronati dal bombardamento, ci siamo ri-domandati se l’editor abbia davvero avuto un ruolo nella sistemazione del testo, perché certi errori grossolani fanno pensare di no: “Dopo la lunga estate torrida che aveva avvolto per mesi la città, l’arrivo di quelle folate di vento freddo ti facevano già rimpiangere l’umidità afosa di agosto”; “Nuvoloni carichi di brutti presagi scorrevano come ombre cinesi sotto al coperchio del cielo”. Eppure, una chiamata in correità si legge a pagina 245: “Ringrazio Olimpia Ellero, la quale, con la sua intelligenza e la sua tenace competenza, mi ha suggerito semplificazioni narrative ed efficaci soluzioni di sintassi”.
* Efficaci soluzioni di sintassi: preferiamo non commentare. Questo romanzo, naturalmente, ha aperto una serie: l’editore Newton Compton sa battere il ferro, sa sparare le copertine, sa occupare le librerie con la sua roba. E quando il garbage viene prodotto da nomi importanti, può succedere che su Sette Antonio D’Orrico perda puerilmente la testa. Infatti, se il primo romanzo del filone “noir” di Enrico Vanzina era neochandleriano, con quello pubblicato un paio d’anni fa da Mondadori, La sera a Roma, il book-jockey va ben oltre: “Un intrigo complicato ma raccontato in maniera invidiabilmente scorrevole. La prosa di Vanzina si colora di toni quasi proustiani quando narra le tortuose faccende della nobiltà nera romana, in cui spicca un prodigioso marchese rock napoletano che rimpiange l’eleganza di un mondo perduto. I nobili di Vanzina sono un esercito di fantasmi invischiato nella melassa dei pettegolezzi mondani. E qui Proust lascia il posto a un altro grande scrittore francese: «Mi tornarono in mente il visconte di Valmont e il perfido ritratto della nobiltà francese che aveva fatto Laclos nelle Relazioni pericolose». È la seconda puntata che dedico a La sera a Roma. Lo faccio perché è un libro d’eccezione e trovo meraviglioso che questo libro fuori dall’ordinario sia stato scritto da uno degli inventori dei cinepanettoni”.
*
Vediamo dunque come inizia questo libro d’eccezione: “Avevo trascorso l’intera giornata con in testa una vecchia frasetta spiritosa di Leo Longanesi: «Vissero infelici perché costava meno»�� A circa settant’anni dalla sua prima pubblicazione, quella spigolatura raffinata ora risuonava maledettamente vera. Anch’io vivevo con sempre meno. La crisi economica stava azzannando il Paese e tutti erano più o meno infelici. Non solo per questioni di soldi. Si erano aggiunte questioni morali, il decadimento dei valori fondanti della convivenza civile, la mancanza di prospettive. Insomma, uno scenario lugubre, da basso impero”.
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Quella spigolatura raffinata, il decadimento dei valori fondanti, e – soprattutto – la citazione d’alto rango che apre tutto: siamo deliziati. E non basta. “Arrivai a piazza di Spagna, turbato da queste malinconiche riflessioni. Restai qualche attimo a fissare le vetrine di Babington’s, una tea room che coniuga il raffinato gusto inglese per quella bevanda a un arredamento elegante ma alla mano, più vicino al gusto romano. Il nome britannico del locale ricorda ai suoi sofisticati clienti che Roma fu amata non solo dal romantico Stendhal e dal tumultuoso genio di Goethe, ma anche da quel gruppo di poeti inglesi – Byron, Shelley, Keats – che di Roma apprezzavano soprattutto i colori”.
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Babington’s, Stendhal, Goethe, Byron, Shelley, Keats: siamo sul punto di svenire. Potremmo concludere senza aggiungere altro, salva la presa d’atto del chiaro tentativo di liquefare ogni canone letterario per crearne uno che assorba tutto, che affermi un campo indistinto dove ogni cosa può valere ogni altra, in cui si perdono i significati, in cui il senso della lingua passa in secondo piano e la critica viene silenziata. Si individua un parco lettori e lo si ammaestra con l’arma del d’orrichismo, con i cliché ripetuti e ricopiati, con le citazioni inconsulte e meccaniche, in un’assoluta riproducibilità tecnica senza criterio. Che il Cielo ci aiuti.
Paolo Ferrucci
*In copertina: Enrico Vanzina (la fotografia è tratta da qui)
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aneddoticamagazinestuff · 7 years ago
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MONTANELLI IN FINLANDIA
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MONTANELLI IN FINLANDIA
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Tutte le corrispondenze degli inviati di guerra sembrano assomigliarsi: mescolano i comunicati delle agenzie stampa con i pettegolezzi diffusi ad arte dalle diplomazie, fanno sfoggio di un linguaggio militare preso a prestito, esaltano il coraggio personale dei corrispondenti, anche quando le prove che esso ha sopportato sono modeste, non perdono occasione per rinunciare ad ogni umiltà di giudizio, come se il fatto di essere testimonianze oculari, o presunte tali, le esentasse da ogni fraintendimento, danno fiato alla retorica pro o contro la guerra, ricordando quanta violenza possa scaturire dall’animo umano.
Sembrano assomigliarsi, ma non è così.
A fare la differenza non sono soltanto la distanza dal fronte dei corrispondenti, la loro intelligenza politica, la loro integrità morale e professionale, la loro effettiva competenza nel decifrare le dichiarazioni e gli atti dei generali e delle cancellerie, la loro indipendenza di giudizio, ma sono soprattutto le loro qualità letterarie, come la capacità di cogliere lo stato d’animo di un popolo in guerra, di descrivere con pochi tratti, sfuggendo alla banalità del male, l’atrocità della guerra, di tratteggiare una pagina di storia resistendo alla tentazione di ridurla ad un déjà vu.
Nella nostra epoca tecnologica le qualità letterarie rischiano di apparire una inutile anticaglia, insopportabile sia per i lettori dei giornali, sia per i telespettatori. I giornalisti sono sulla notizia, nel senso che registrano e diffondono l’evento in tempo reale, ma la sintesi spesso manca, sommersa da una sovrabbondanza di informazioni e di immagini. Il paradosso è che l’immagine letteraria è più vera di una ripresa dal vero, poiché dovendo affidarsi soltanto alla parola deve distillare il senso degli avvenimenti. Certamente anche una ripresa è soggettiva ed offre ampi spazi di espressione all’intelligenza ed alla sensibilità del suo autore, ma l’apparente povertà della parola scritta è ben più imperiosa nell’imporre la sintesi, la ricerca del senso più profondo degli avvenimenti.
Anche il caso e l’intuito sono determinanti per distinguere una grande cronista da un semplice testimone.
Indro Montanelli giunse ad Helsinki per caso nell’ottobre del 1939 e vi rimase affidandosi unicamente al suo istinto. Dopo l’espulsione dall’albo dei giornalisti e la sospensione dal partito fascista a causa delle sue corrispondenze dalla Spagna per il Messaggero, giudicate troppo tiepide nei confronti della crociata franchista, la sua carriera era stata salvata in extremis dal direttore del Corriere della Sera, Aldo Borelli, che lo aveva assunto come “redattore viaggiante”, con il compito di occuparsi di temi giudiziosamente lontani dalla politica. Nel corso del suo “esilio preventivo” aveva viaggiato per l’Europa ed il caso lo aveva portato in Germania nell’agosto del 1939, offrendogli persino l’occasione di incontrare Hitler in compagnia dell’architetto Albert Speer. I suoi articoli, bollati come filopolacchi, avevano messo in imbarazzo il regime fascista che si era affrettato a chiedere l’espulsione dalla Germania dello scomodo giornalista fiorentino. Imbarcatosi a Lubecca, Montanelli, su di una rotta minata, aveva raggiunto Tallin in Estonia, proprio alla vigilia della capitolazione all’esercito sovietico, che aveva mostrato subito insofferenza per la sua lingua tagliente espellendolo. Un traghetto per la Finlandia era stato l’unica via di fuga.
La Finlandia però non si presentava come un rifugio sicuro, Stalin si preparava ad aggredire il piccolo stato scandinavo per ricostituire i confini del passato impero zarista. La logica dei numeri, 30.000 raccogliticci soldati finnici dotati di armamenti antiquati contro le sterminate schiere dell’Armata Rossa, animata, almeno nei proclami della propaganda, dalla tenace volontà di esportare il socialismo reale, avrebbe consigliato a chiunque di abbandonare alla svelta Helsinki, non soltanto per ragioni di elementare prudenza, ma anche per l’assenza di un caso giornalistico da raccontare. Tutto lasciava supporre che Helsinki, come già Kaunas, Riga, Tallin, avrebbe capitolato. Montanelli, contro il parere del suo direttore, decise di rimanere. La sua ostinazione lo ripagò fornendogli l’occasione di raccontare all’Italia ed all’Europa l’epopea della resistenza del popolo finlandese.
Nelle corrispondenze inviate dalla Finlandia al Corriere della Sera nell’inverno 1939-40 le qualità letterarie di Indro Montanelli giganteggiano. Il suo istinto di cronista si rafforza e si completa con la capacità di ricostruire con uno scorcio una atmosfera morale, con la rapida descrizione di un prigioniero di guerra la cultura politica di un regime, senza alcuna sicumera professorale, senza alcuna pretesa di aver detto l’ultima parola. L’immediatezza vince sulla tentazione di scrivere per i posteri. Il fiero anticomunismo di Montanelli rinuncia persino ad ogni argomento ideologico per affidarsi alla descrizione dei fatti e dei personaggi. La condanna del comunismo scaturisce così dalla cronaca, evitando il ricorso a stilemi ed argomenti preconfezionati dalla propaganda nazionalista e fascista.
Per il pubblico italiano di allora anestetizzato da un ventennio di rituali bellicisti e di propaganda di regime, spesso ottusa e monocorde, quelle pagine montanelliane dovettero apparire come un inaspettato ed incomprensibile spiraglio di luce sulla realtà della guerra. Il ruolo di aggressore dell’Unione Sovietica contro un piccolo paese inerme salvò I cento giorni della Finlandia dalla censura del Minculpop in cui caddero invece i reportage dello stesso autore sulla campagna polacca e su quella norvegese che furono ritirati subito dopo la pubblicazione per i tipi di Mondadori.
La cortina protettiva dell’anticomunismo, appena sfumato dalla necessità politica del momento di non intralciare il patto Ribbentrop-Molotov, rese una volta tanto arrendevoli i censori fascisti. A farli recedere dalla diffida a continuare a dare spazio alle corrispondenze dalla Finlandia bastarono le proteste del direttore Aldo Borelli che affermò: “Se ritiro Montanelli, perdo 500 mila copie. I lettori del Corriere, come tutti gli italiani, sono dalla parte dei finlandesi”. Grazie a questa coraggiosa, quanto insperata, presa di posizione, ed ancor più alle incertezze politiche del periodo della neutralità italiana, gli articoli di Montanelli continuarono ad essere pubblicati sulle colonne del Corriere e poterono persino essere raccolti in un volume, edito da Garzanti, dal titolo I cento giorni della Finlandia.
Rileggendo oggi le corrispondenze finlandesi di Montanelli risulta evidente che i censori fascisti, se avessero saputo andare oltre il loro anticomunismo, avrebbero trovato ottimi motivi per imporsi sulle proteste di Borelli.
Montanelli infatti non ha alcuna reticenza a dare conto della coraggiosa resistenza di un popolo libero, stretto attorno alle sue istituzioni, contro le mire espansioniste di una grande potenza totalitaria. La descrizione della dignità e della tenacia finlandese avrebbe potuto insegnare molto agli italiani sui rischi di una guerra di aggressione decisa senza tenere in alcun conto i sentimenti popolari. I fanti russi, mal equipaggiati e peggio condotti, incapaci di comprendere le ragioni politiche ed ideologiche della guerra, storditi da una propaganda tanto martellante quanto surreale, non ci appaiono poi molto diversi dai fanti italiani che furono inviati nell’ottobre del 1940 alla frontiera greca. Con il senno di poi Grecia e Finlandia rappresentano come due volti dello stesso mostro: lo stato totalitario che si nutre di propaganda, guerra ed oppressione.
Ma torniamo alle qualità letterarie di Montanelli.
L’accordo tra Ribbentrop e Molotov del 23 agosto 1939 attribuiva nel protocollo segreto le sfere di influenza alla Germania ed all’Unione Sovietica nell’Europa orientale. Oltre a prevedere la spartizione della Polonia lungo la linea Bug-San, tale accordo dava via libera a Stalin per l’espansione verso gli stati Baltici e la Finlandia. Il 28 settembre la Lituania passava sotto la sfera d’influenza sovietica, con la firma di un trattato di reciproca assistenza. La stessa formula veniva riservata all’Estonia qualche settimana più tardi e infine anche la Lettonia era indotta a firmare un trattato in cui la sua sovranità veniva ridotta ai minimi termini. Lo stesso approccio fu impiegato nei confronti della Finlandia, ma le proposte sovietiche, che comprendevano cessioni territoriali nel litorale artico e nell’istmo di Carelia, vennero ripetutamente respinte.
Ecco come Montanelli descrive al suo arrivo ad Helsinki l’atmosfera di un paese minacciato, ma pronto a tutto pur di non cedere un palmo di territorio alla prepotenza sovietica: “All’aeroporto di Helsinki una ragazza dagli occhi color acqua di scoglio fa con impareggiabile grazia gli onori di casa e fornisce le ultime informazioni. Cortese, oggettiva, diligente, col petto decorato del distintivo della “Lotta Svärd”, essa è venuta a occupare il posto del fratello richiamato alle armi. Helsinki mi ha fatto un’ottima impressione. La gente rarefatta dagli sgomberi di questi ultimi giorni, che ha visto l’esodo di quasi 100.000 persone, vi si muove in un’atmosfera di calma assoluta. La mobilitazione, iniziata con un senso avaro di previdenza e attuata con molto criterio, non ha causato confusione né scompiglio. Un volontarismo sereno, la capacità di sacrificio, il senso del dovere hanno secondato i provvedimenti presi dalle autorità civili e militari. Queste autorità civili e militari hanno agito con molta saggezza in previsione del peggio, quasi che la guerra fosse fatale. Con assoluta freddezza il caso d’un attacco russo è stato preventivato, mentre non è stata neppure presa in considerazione l’ipotesi di una non resistenza.”.
In poche righe, attraverso gli occhi acqua di scoglio di una hostess, si avverte distintamente tutto il dramma di una nazione che si appresta ad una prova durissima, facendo appello alle virtù del suo popolo: unità, calma, compostezza, dignità, determinazione.
Le più fosche previsioni del governo finlandese non tardarono ad avverarsi. Dopo circa un mese di sterili trattative, il 27 novembre 1939, prendendo a pretesto un presunto tiro provocatorio dell’artiglieria finlandese contro le truppe sovietiche concentrate in Carelia, l’Unione Sovietica denunciò il trattato di non aggressione del 1932 e due giorni più tardi ruppe le relazioni diplomatiche con Helsinki. Stalin si affrettò a creare una goffa copertura politica alla brutale aggressione della Finlandia. Il Comintern fu come sempre tempestivo nell’offrire il candidato ideale per la creazione di un governo fantoccio: Otto Kuusinen che costituì un sedicente governo popolare, entusiasta di invocare l’aiuto dell’Armata Rossa per innalzare nell’istmo di Carelia la bandiera del socialismo reale. 45 divisioni sovietiche per un totale di quasi 800 mila uomini con 1500 mezzi corazzati ed un migliaio di aerei si avventarono sulla Finlandia che, richiamando alle armi tutti gli uomini validi, riuscì a mettere insieme non più di 200 mila soldati distribuiti in 9 divisioni, dotate di artiglierie antiquate e di un flotta aerea di appena 150 apparecchi.
La schiacciante superiorità aerea e terrestre dei sovietici venne ben presto neutralizzata da un elemento, facilmente prevedibile, tuttavia trascurato dal Cremlino: la neve, che salvò Helsinki dalla distruzione e rallentò, sino quasi a bloccarle, le operazioni terrestri su tutti fronti.
L’agile penna di Montanelli descrive con impareggiabile efficacia il ruolo svolto dalla neve nel rimettere in gioco le sorti della Finladia. Il 4 dicembre 1939 scrive: “Bismarck diceva che un uomo di stato deve avere il coraggio ad un certo punto di dire: ‘Domani pioverà’ e poi raccomandarsi a Dio perché ciò avvenga. I giornalisti in tono minore si trovano, a volte, nella stessa condizione. Fu il caso di ieri sera quando la paura di non essere a tempo a farlo mi spinse a dire sommariamente cos’era Helsinki, lasciando intendere che forse oggi questa città non sarebbe più esistita. (…) Stamane alle dieci Helsinki, deserta ma ancora viva, era avvolta in un sudario di neve che si sbriciolava da un cielo basso a portata di mano. L’occultamento era perfetto. Un gelido vento di Nord incrostava i bioccoli in lacrime di vetro. Fregandomi le mani pensavo a quali effetti avrebbero provocato quei ghiaccioli sulle ali degli aeroplani. Fuori il termometro segnava otto sotto zero. Meglio sotto che sopra pensai. Gente era rientrata dal momentaneo confino e guardava il cielo, beata: questo bravo cielo di cotone sporco così brutto a vedersi, ma tanto, tanto caro. (…) La neve resta l’avvenimento più sensazionale della giornata. Mentre parlava distrattamente delle conversazioni a Mosca, il sig. B., del ministero degli Esteri, palpava con compiacenza un pugno di questa neve, l’appallottolava e strizzandola da finnico intenditore: ‘è farinosa’, diceva soddisfatto come se fosse alle viste non una guerra ma una gara di sci. E poi aggiungeva: ‘La neve viene dalla Carelia’, vecchio adagio finlandese tornato di grande attualità. In Carelia, infatti, la neve s’è alzata di un metro, bloccando senza scampo ogni operazione militare. Quando fui in questa zona or è un mese, mi fu facile farmi un’idea di cosa possa essere una guerra da queste parti, fra gli impenetrabili boschi di abeti e un lago incrostato di ghiaccio. Di notte qui si va a trenta sotto zero e le notti durano venti ore su ventiquattro. L’aviazione non si alza. L’artiglieria spara in un bianco vuoto. Chi avanza deve trascinarsi dietro un penoso bagaglio poiché alle spalle di chi si ritira non restano che macerie di villaggi bruciacchiati. Questo nel Sud. Nel Nord la guerra ha un aspetto addirittura fantomatico, l’impiego di grandi masse vi risulta impraticabile dopo la prima esperienza sovietica che va considerata fallita. Successo di sorpresa nei primi giorni, pronta ritirata dei Finlandesi, ritorno offensivo a piccoli gruppi, alla beduina, a tergo dell’avversario. La truppa dislocata lassù è scarsissima, nemmeno duemila uomini, e non sarà rinforzata. Niente artiglieria. Fucili, mitragliatori e pugnale. Molto pugnale.”
Con l’approssimarsi del disgelo l’eroica resistenza finlandese perse gran parte della sua forza e dovette arretrare difronte alle poderose offensive dell’Armata Rossa. All’inizio di marzo del 1940, Vipuri, l’ultimo caposaldo finlandese nell’ istmo di Carelia, cadde in mano ai sovietici. Helsinki non esitò ad attivare i canali diplomatici per porre fine ad un conflitto dall’epilogo inevitabilmente catastrofico. Il 12 marzo venne sottoscritto a Mosca il trattato di pace in base al quale la Finlandia cedeva all’U.R.S.S. l’intera zona dell’istmo, compresa Vipuri, una parte della Carelia orientale ed una parte della penisola dei Pescatori sul mare di Barents.
La ripartizione delle perdite di uomini e mezzi ci presenta la dimensione dell’eroismo finlandese. La Finlandia perse circa 25.000 uomini e 60 aerei, l’Unione Sovietica oltre 200.000 uomini, quasi 700 aerei e 1.600 carri armati.
La resistenza finlandese non fu soltanto un prodigio del “generale inverno”, anche il fattore umano ebbe un ruolo determinante. Montanelli si mostra attentissimo a tale fattore, consegnandoci rapidi bozzetti da cui scaturisce la psicologia dei combattenti. Dai dettagli che la sua prosa asciutta illumina con lampi improvvisi si intravvede la trama sottile, talvolta impalpabile, che lega indissolubilmente uomini, ideologie e fatti. Tout se tient, dal generale al particolare e viceversa. Le scarpe slabbrate di un fante russo prigioniero lasciano trasparire la disorganizzazione di uno stato totalitario che bleffa cinicamente sulla pelle di uomini storditi dalla propaganda. Le granitiche certezze di altri prigionieri russi suggeriscono la capacità del regime sovietico di conquistare il cuore e la mente di intere generazioni, plasmando un modo di pensare in cui nemmeno l’evidenza può smentire la parola del partito e del compagno Stalin.
Nella corrispondenza dell’8 dicembre 1939 Montanelli annota: “Ho visto tre prigionieri russi, internati qui e offerti alla curiosità di qualche giornalista. Siamo d’accordo che tre uomini sono un campione inadeguato per giudicare d’un popolo e di un esercito, ma certo essi non mi hanno ispirato ottimistiche opinioni sull’armata rossa. Fisicamente tutti e tre bene attrezzati, indifferenti a ciò che avveniva loro intorno, il loro equipaggiamento era pessimo. Di scadente e rude stoffa le divise, sporche e lacere. Orribili scarpe, slabbrate, le cui suole somigliavano stranamente al cartone. Buone invece le armi che portavano al momento della cattura: moschetti e pistole. (…) Ho chiesto loro a quale reparto appartenessero. Hanno risposto che appartenevano alla seconda squadra del terzo plotone. Ma a quale compagnia appartenesse questo plotone non lo sapevano e tanto meno a quale battaglione e a quale reggimento. Sapevano solo che, quando varcarono il confine, era stato loro detto che la guerra sarebbe durata una settimana e che dopo li avrebbero lasciati tornare a casa.”.
L’ indagine montanelliana sul tipo umano sovietico non si accontenta dei primi risultati, prosegue alla ricerca di veri alfieri del socialismo e finisce per trovarli, tratteggiando profili che hanno l’immediatezza della realtà, filtrata dal talento letterario, e non scadono mai nella caricatura o nella demonizzazione. Si avverte invece un fondo di umana pietà dell’autore verso le vittime di un indottrinamento che rende ciechi ed ottusi.
“Finora fra i prigionieri non avevo incontrato nessuno che fosse comunista, e la convinzione era venuta formandosi in me che negli interrogatori essi nascondessero, per paura, questa loro qualità. Ma forse non è vero. Forse di comunisti in Russia ce ne sono veramente pochi, o altrimenti al fronte essi non sono stati mandati, poiché di tutti i soldati coi quali ho parlato, uno solo ne ho trovato iscritto al partito. (…) Questo che ho visto oggi era un bell’uomo sui 35 anni dagli occhi grigi e dai capelli biondissimi, alto, squadrato, mal vestito, ma pulito, anzi accuratissimo come igiene personale. Nonostante tre giorni di prigionia (d’altronde molto umana) aveva la barba perfettamente rasa, la divisa a posto, le unghie bianche e limate, la chioma pettinata. (…) Gli chiesi se era comunista e lui rispose con forza: ‘Sì’. Parlava sicuro e calmo. (…) Alla domanda se aveva preso parte ai bombardamenti di Helsinki rispose vivamente che l’aviazione sovietica non aveva mai bombardato Helsinki, avendo ricevuto l’ordine sin dal primo giorno di operazioni, di non colpire che obiettivi militari. Gli feci osservare che ero presente al bombardamento. Rispose: ‘Impossibile’. Insistetti che avevo visto con i miei occhi le donne e i bambini uccisi. Rispose: ‘Non è vero’. Non c’era nulla da fare. Gli domandai cosa pensava dei Finlandesi e lealmente mi disse che sono bravi soldati. Gli domandai cosa pensava dei Russi e mi rispose che sono bravi soldati. Allora ne spinsi avanti uno e gli feci palpare il cotonaccio della divisa, chiedendogli se anche l’equipaggiamento gli pareva buono. Egli rispose, impassibile, toccando il panno della propria divisa: ‘E’ buono come il mio’.”
Non sempre però la compassione di Montanelli riesce ad affiorare. Ad esempio, difronte al fanatismo di una giovane donna sembra prevalere il ribrezzo: “Oggi ho visto un personaggio di un certo interesse, una donna sovietica. E’ una ragazza di 22 anni, studentessa del terzo anno di medicina, infermiera volontaria sul fronte settentrionale dove è caduta prigioniera: una ragazza più bella che brutta; lavata e pettinata un po’ meglio, potrebbe essere bella addirittura e i Finlandesi per galanteria la trovano bellissima. Sempre per la stessa galanteria essi si sono rifiutati di internare la compagna Olga in un campo di concentramento con gli altri prigionieri, sebbene lei protestasse di voler essere trattata come un soldato qualunque. Come un soldato qualunque invece era vestita: pantaloni, stivali, ecc. Fumava come un camino e si dava arie militaresche. Si è avuta molto male perché le ho usato quei pochi elementari riguardi che ancora il sesso femminile ci impone, sesso che ella ha tenuto a farmi dimenticare ricorrendo a un gergo e a maniere piuttosto indecenti. Non ho avuto modo di interrogarla molto. Dopo le prime domande la conversazione si è risolta in un monologo, in cui riecheggiavano i luoghi comuni più tristi e più vieti della propaganda comunista. Io volevo saper qualcosa di più modesto che non la cosmogonia bolscevica, e cioè come era organizzato il servizio sanitario nell’esercito russo. (…) Posso riassumere così il contenuto di questa allocuzione: gli uomini sono nella massa stupidi. Solo una frazione di essi, quando sia ben guidata, riesce a rendersi conto dove e quale sia la felicità. Non è tutta la frazione che se ne rende conto, ma i capi di essa. Gli altri sono superiori alla stupida massa non perché hanno intelligenza bastevole a capire la verità, ma perché hanno intelligenza bastevole a capire che, non potendo capire, debbono rimettersi alla saggezza dei dirigenti. E’ il caso dell’umanità di questo secolo, che è come tutti gli altri secoli stupido anch’esso. Ma c’è stata una frazione di questa umanità che, un po’ meno stupida, si è rimessa disciplinatamente al retto giudizio di pochi illuminati. Tale frazione è la Russia. Dentro la Russia la maggioranza non è illuminata (Olga ha detto testualmente così), ma la disciplina la obbliga seguire i pochi veggenti. Diventata anche contro voglia felice, questa Russia ha il dovere di imporre la felicità a tutto il resto del genere umano. Ecco perché fa la guerra. I morti non contano perché quando si tratta del genere umano non si ha il diritto di lesinare il sangue, ma si ha il dovere di profonderlo. Era la rivoluzione universale in persona. (…) Le chiesi se ora, in mezzo alla infelice umanità di Finlandia, si sentiva infelice. E Olga, mangiando con ingordigia una patata lessa, mi rispose queste precise parole: ‘Compagno giornalista, puoi scrivere e stampare che un sovietico prigioniero dei borghesi finlandesi ha il dovere di sentirsi infelice’. Sia fatta la volontà di Olga e prendiamo atto che esiste il dovere sovietico di essere infelici. Fra i tanti sciagurati prigionieri che ho visto questo è forse il più sciagurato, perché non è riuscito nemmeno a farmi compassione.”
Se la compassione di Montanelli per i prigionieri russi è intermittente non lo è invece per le vittime innocenti della guerra. Tra le tante sceglie di soffermarsi su di un gruppo di monaci di Valamo, dando prova le sue doti di narratore: “La notte del 18 febbraio, duecentocinquanta monaci greco-ortodossi raccolsero in fretta i sacri paramenti bizantini, gli ornamenti e i gioielli della sagrestia, un favoloso tesoro di crocifissi d’oro, di antiche icone e di pergamene manoscritte in caratteri slavonici, si riunirono nella chiesa e pregarono per la salvazione dell’anima dei loro persecutori. Fuori nel chiaro di luna, ronzavano i motori sovietici, bombe cadevano in cerca di batterie finlandesi appostate intorno ai monasteri, razzi luminosi di pattuglie avanzate indicavano, a pochi chilometri di distanza sul lago, le posizioni sempre più vicine e minacciose del nemico. E i duecentocinquanta monaci continuavano a pregare, le ieratiche note del coro riempivano le navate della chiesa. Il comandante dell’artiglieria venne, rimase sulla soglia, guardò nervosamente l’orologio e non osò avanzare. L’archimandrita lo vide, gli fece un cenno con la testa sorridendo, seguitò a pregare con gli altri. Finalmente … il canto cessò, i monaci comparvero fuori, le ombre nere sul biancore riflesso della neve, chi a piedi, chi su slitte trainate da cavalli e da cani, dietro il carico dei loro sacri tesori. Essi presero il cammino della terraferma attraverso i ghiacci del lago, alle spalle lasciandosi le rovine dei loro monasteri distrutti dalle bombe sovietiche, ultimo angolo della Santa Russia sopravvissuto nel Nord. Così è finita Valamo, monte Athos di Finlandia. (…) Il 18 tutti i monaci … scamparono sulla terraferma a Lahdenpohja e poi furono smistati a qui a Kannonkoski e alloggiati nella scuola, dove li ho trovati. Sono tutti vecchi, il più giovane ha 70 anni; e hanno occhi di bambini. Pregano sempre perché Dio perdoni ai loro persecutori e padre Hariton ottuagenario sorride.”.
Montanelli gioca sapientemente sui contrasti, insiste su dettagli apparentemente insignificanti per descrivere le sfaccettature dello spirito del popolo finlandese, capace di conservare intatta la sua sensibilità umana anche in mezzo all’orrore imposto dagli imperativi della guerra. Nel febbraio 1940 osserva: “Questo popolo è indipendente da venti anni e la sua Patria se l’è sofferta per secoli. L’ama a tal punto e con tale gelosia che pur di alienarla è pronta a distruggerla. E lo fa soffrendo sotto una maschera di indifferenza che a volte ci fa dubitare se questi siano esseri umani. ‘Ma siete esseri umani?’ chiedevo proprio oggi a un amico, appunto di Vipuri, che da Vipuri giungeva con un gruppo di esuli e che, per aver vissuto molti anni in Italia, comprende i miei dubbi. Eravamo per strada, nevicava, il mio amico si stringeva nelle spalle, gli altri esuli ristavano e guardavano. A un tratto uno di essi corse verso il marciapiede, raccolse qualcosa che si agitava su di un lastrone di ghiaccio. Era un passerotto mezzo assiderato. Tutti lasciarono il loro bagaglio per accorrere a vedere. Il passerotto stava lì nella mano dell’uomo che lo serrava con strana tenerezza. A un tratto si provò a volare. Fece un piccolo volo sul ramo di un alberello. Tutti si misero a discutere. Deliberarono qualcosa, uno andò a cercare una scala in un magazzino di fronte, un altro una gabbiuzza in una casa dirimpetto. Era buffo vedere gente di sessante, settant’anni dare la caccia a un passerotto. Finalmente lo presero, lo scaldarono coi fiati, lo depositarono in gabbia e furono contenti di una contentezza gonfia di visibile commozione. Senza punta visibile commozione costoro 24 ore prima avevano appiccato il fuoco alle loro case, perché non cadessero in mano ai Sovietici.”.
Dai carnefici alle vittime, dalle comparse ai protagonisti, nessuno rimane escluso dalla cronaca montanelliana. Nella descrizione del maresciallo Mannerheim, comandante supremo dell’esercito finlandese, riecheggiano le virtù di un intero popolo. Il ritratto offertoci da Montanelli non è questa volta vivido ed immediato, assomiglia piuttosto al busto di un eroe della classicità scolpito nel marmo. Non si tratta tuttavia di una celebrazione di maniera concepita per finalità propagandistiche o per semplice piaggeria, ma di una intuizione capace di cogliere nella figura di Mannerheim l’incarnazione del popolo finlandese in guerra. Certamente siamo difronte ad una semplificazione giornalistica, ma dalla grande forza letteraria, una semplificazione che tenta di cogliere il senso degli eventi ed individuare una linea interpretativa, affidandosi all’istinto. Nella corrispondenza del 30 dicembre 1939 Montanelli scrive: “A settantadue anni suonati, il maresciallo Mannerheim si incontrava ogni mattina in tempo di pace a galoppare nel parco su un bianco cavallo. Bellissimo uomo, adusto, militaresco; coi capelli folti e lucidi, con corti baffetti neri, si teneva ancora poche settimane fa un poco in disparte dalla vita pubblica, non per alterigia o disprezzo ma per un istintivo amore di solitudine. Cordiale e indulgente, il suo sforzo era quello di far dimenticare al suo interlocutore chi egli fosse e che cosa rappresentasse nella storia della Finlandia e dei Paesi nordici. Difficilmente si riusciva a trascinarlo a parlare di se stesso e dei suoi ricordi. Unici argomenti per i quali mostrava interesse erano la caccia, i cani, i cavalli. (…) Durante la crisi che ha condotto alla guerra con la Russia alcune voci di popolo hanno attribuito a Mannerheim la parte di rappresentante dell’intransigenza. Il suo passato di ufficiale zarista e il progetto di crociata antibolscevica del 1919 rafforzavano l’opinione che il maresciallo pensasse sempre ad una vendetta contro il bolscevismo. E sebbene egli limitasse rigorosamente la sua opera al campo tecnico-militare, i settori più accesi del nazionalismo finnico guardavano a lui come al naturale interprete dei loro voti. Ma Mannerheim non ha avuto, finché la partita si è svolta al tavolo diplomatico, opinioni o per lo meno non ne ha mostrate. Ora Mannerheim non si vede più. Per sua particolare natura è sempre stato un personaggio stranamente lontano e solitario, circondato per sua stessa volontà da una zona fredda nella quale raggelavano e smorivano le espansioni dei suoi simili. Ma ora egli è più lontano che mai, al centro del misterioso quartier generale finnico di cui tutti ignorano la sede. Da una stanzetta disadorna quasi monacale, seduto ad una grande ordinatissima scrivania, Mannerheim dirige le operazioni vittoriose del suo esercito. Egli manovra sulla carta, calcola con pazienza, ascolta con attenzione, emana pochi ordini precisi. Tutto dipende da lui: esercito marina aviazione. E tutto a lui rassomiglia nell’azione: equilibrato calmo tenace.”
Lugi G. De Anna, docente di lingua e cultura italiana presso l’università di Turku, nel suo volume dedicato al rapporto tra Montanelli e la Finlandia ha ridimensionato, soprattutto in relazione ad alcuni dettagli legati alla figura del maresciallo Mannerheim, l’attendibilità di Montanelli. Ciò non toglie nulla al valore dei Cento giorni della Finlandia come reportage giornalistico di straordinaria forza e ricchezza di informazioni. Naturalmente è sempre lecito, anzi doveroso, nutrire dubbi sulla attendibilità storiografica della scrittura giornalistica. Visiti da vicino i fatti ed i personaggi possono essere distorti dai testimoni persino inconsapevolmente. Testimonianza diretta non è sinonimo di verità assoluta. Non si può tuttavia negare l’efficacia di un buon reportage per chiarire un contesto, suggerire interpretazioni e fornire un ampio ventaglio di fatti da verificare e da ridefinire alla luce dei documenti disponibili a posteriori. Qualche brandello di verità può semmai scaturire dalla pluralità delle fonti. Le cronache di Montanelli sono una di esse, una delle più preziose. Grazie Indro.
Bibliografia
I. MONTANELLI, Cronache di guerra. La lezione polacca, I cento giorni della Finlandia, La guerra nel fiordo, Milano, Editoriale nuova, 1978.
B. P. BOSCHESI, Enciclopedia della Seconda Guerra Mondiale, Milano, Mondadori, 1983.
D. FERTILIO, Montanelli, inviato ribelle nella Finlandia aggredita da Stalin, “Il Corriere delle Sera”, 15 Febbraio 1997.
L. G. DE ANNA, La memoria perduta. Montanelli e la Finlandia, Rimini, Edizioni all’insegna del Veltro, 2005.
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