#Metafora del Viaggio
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"Albino" di Luigi Antonio Manfreda: Un viaggio tra avventura e introspezione
Il primo romanzo pubblicato di Luigi Antonio Manfreda, un'opera che esplora la condizione umana attraverso il viaggio, il mistero e la riflessione esistenziale.
Il primo romanzo pubblicato di Luigi Antonio Manfreda, un’opera che esplora la condizione umana attraverso il viaggio, il mistero e la riflessione esistenziale. Un’opera tra avventura e formazione “Albino” (Palombi Editori, 2024) è il nuovo libro dello scrittore e docente universitario Luigi Antonio Manfreda, professore di Filosofia teoretica presso l’Università di Roma Tor Vergata. Il romanzo…
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“Malinconia e settembre sono due sinonimi Che ti fregano sempre se sei un po’ giù Poi guardi l’orizzonte che sembra quasi muoversi Ma lui resta lì fermo, a sparire sei tu”.
― Pinguini Tattici Nucleari, “Romantico Ma Muori”.
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1927 Il ritorno in Italia
Salvatore Ferragamo e la cultura visiva del 900
a cura di Stefania Ricci e Carlo Sisi
Skira, Milano 2017, Museo Salvatore Ferragamo Firenze, 512 pagine, 24x28cm, ISBN 978-88-572-3568-4
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Palazzo Spini Feroni, Firenze 19 maggio 2017-5 maggio 2018
Nel 2017 ricorrono novant'anni dal ritorno di Salvatore Ferragamo in Italia, nel 1927, dopo dodici anni trascorsi negli Stati Uniti. In occasione di questo anniversario, il Museo Salvatore Ferragamo ha ideato un progetto espositivo che si apre a una panoramica sull’Italia degli anni Venti, decennio al quale oggi guardiamo come una vera fucina di idee e di sperimentazioni condotte con mente aperta e scevra da pregiudizi o condizionamenti ideologici. Ferragamo scelse di stabilirsi a Firenze in virtù della sua riconosciuta centralità nella geografia del gusto e dello stile nazionali in un momento storico scandito da molti ritorni: ritorno all’ordine, al mestiere, alla grande tradizione nazionale. La mostra narra proprio di questo attraversamento nella cultura del tempo, sviluppandolo per capitoli come un romanzo di formazione. Fil rouge del percorso espositivo curato da Carlo Sisi è il viaggio in transatlantico che Ferragamo compie per tornare in Italia, inteso come metafora del suo itinerario mentale attraverso la cultura visiva dell’Italia degli anni Venti, da cui estrae le tematiche e le opere che influenzarono, in maniera diretta o indiretta, la sua officina poetica; senza trascurare nessuno degli aspetti culturali e sociali che contraddistinsero la rinascita civile del primo dopoguerra, alla vigilia dell’autoritaria affermazione del regime fascista.
08/11/24
#Salvatore Ferragamo#exhibition catalogue#Palazzo Spini Feroni Firenze 2017#Italia anni venti#fashion books#fashionbooksmilano
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Ho ripreso in mano questo libro.
Le imprese di un folle idealista e del fedele scudiero, che si differenzia dal padrone per un tenace e materialistico buon senso.
Le illusioni (intrise di saggezza) di cui si nutre Don Chisciotte non sono altro che metafora di tutte le debolezze proprie dell’animo umano, che non vanno affatto derise o ripudiate, ma accettate e guardate con tenerezza.
Emblema di ogni uomo che non appartiene al proprio tempo, Don Chisciotte, si nutre di un’idea, di una convinzione, non importa se fondata o meno, e dell’amore che prova per essa.
Forse è questo a renderlo immortale.
Un libro che andrebbe riletto…per ricordarci che in fondo quei “mulini a vento” sono solo una piccola, minima parte di un viaggio più ampio e complesso…
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Storia Di Musica #356 - Lou Reed, Berlin, 1973
L'ultimo libro del 2024 è stato lo strepitoso Kairos di Jenny Erpebeck, ambientato nella Berlino Est a fine anni '80, tra gli ultimi anni della DDR e la transizione verso la riunificazione. Quel libro mi ha ispirato per la prima serie di dischi della Rubrica del 2025, che sarà dedicata a dischi che hanno a che fare con Berlino. Due tra i più famosi, Heroes di Bowie, fulcro della cosiddetta Trilogia Berlinese (insieme a Low e Lodger, in verità in primo solo in parte registrato lì, il terzo pensato a Berlino ma finito fuori dalla Germania) e Achtung Baby! degli U2 sono stati già protagonisti delle storie di musica. Ma fortunatamente la città tedesca è stata fonte ispirativa per altri grandiosi capolavori musicali.
Il disco di oggi parte da un assunto: dopo che ci aveva quasi rinunciato, e proprio grazie a Bowie era diventato di nuovo leggenda, Lou Reed è ormai un artista di successo oltre la leggenda che lo accompagnava dai tempi dei Velvet Underground. Dopo Trasformer, ha una necessità particolare di fare un disco particolare, personale, ardito. Lo spunto glielo dà il giovane produttore, che diventerà uno dei più grandi di sempre, Bob Ezrin, chiamato dalla RCA a districare le idee di Reed. Ezrin chiede a Reed: tu scrivi grandi canzoni, che però non hanno mai una fine. Che fine hanno fatto per esempio i protagonisti di Berlin (canzone del primo disco solista, Lou Reed, 1972?). Reed fa sua questa osservazione e costruisce un concept album che racconta la storia dei due protagonisti di quella canzone, Jim e Caroline, coppia di americani che vive a Berlino. Una coppia che vive una vita drammatica, oscura, terribile tra droghe, abusi, maltrattamenti, figli non accuditi. Un viaggio nelle tenebre, nella disperazione, nel caos psicologico (con molti accenni autobiografici) di uno dei maestri narratori di questi viaggi, ricordo a tutti che Reed si laureò cum laude alla Syracuse University in Letteratura Americana.
Musicalmente, Reed in Berlin, che esce nel 1973, registrato tra Londra e New York, ripesca nel suo archivio di bozze, scritte anche per i Velvet Underground, e costruisce con Erzin canzoni dai grandi arrangiamenti, con archi, fiati, accompagnato da un gruppo di musicisti eccezionale: l'ex Cream Jack Bruce, Tony Levin mago del basso, Ainsley Dunbar che fu nel gruppo di Frank Zappa, Steve Hunter e Dick Wagner chitarristi di Alice Cooper, e i fratelli Brecker ai fiati. Berlin, che apre il disco, ha perfino un Happy Birthday, sciorina poi nel suo pianoforte quella sensazione di tristezza e angoscia che, volutamente, permea la storia di Jim e Caroline. Lady Day, un omaggio a Billie Holiday, morta prematuramente per abuso di droghe e alcol, è metafora di ciò che caroline va alla ricerca. Men Of Good Fortune (Men of good fortune often wish that they could die. While men of poor beginnings want what they have and to get it they'll die) è l'amara constatazione della loro condizione materiale. How Do You Think If Feels è il brano più autobiografico di tutto l'album: c'è la drammatica paura di Reed di dormire, dovuta alle serie di elettroshock a cui i suoi genitori lo obbligarono a sottoporsi da adolescente, per curarlo da una latente omosessualità. Oh Jim, è la versione di "autoanalisi" che Jim fa a sè stesso, cosa che Reed fa fare a Caroline in due brani, Caroline Says e Caroline Says II, che partono da una canzone pensata per i Velvet, Stephanie Says: soprattutto la seconda è un pugno nello stomaco per ciò che racconta Caroline: Caroline says\as she gets up off the floor\Why is it that you beat me\it isn't any fun (...) But she's not afraid to die\all her friends call her "Alaska"\When she takes speed, they laugh and ask her (...) as she gets up from the floor\You can hit me all you want to\but I don't love you anymore. Da un lato l'umiliazione sociale (La Gelide Alaska, così la chiamiavano gli amici), dall'altro l'abuso fisico. The Kids, così straziante per il pianto dei bambini, ci descrive la squallida situazione familiare in cui vive la coppia, con i bambini che vengono portati via alla coppia. Il finale è potentissimo: The Bed parte dal suicidio di Caroline, Jim prova una struggente nostalgia per lei e la "racconta" elencando tutti i suoi oggetti rimasti: la cronaca ci dice che in quelle stesse settimane la prima moglie di Reed, Bettye Kronstad, tentò un suicidio tagliandosi le vene. Il disco si chiude con Sad Song, che è tra il dolore e l'assoluzione (I'm gonna stop wasting time, somebody else would have broken both of her arms).
Il disco all'epoca fu osteggiato dalla RCA, che si convinse a produrlo solo perchè Reed firmò un contratto per altri due dischi (che furono un live, il fantasmagorico Rock'N'Roll Animal del 1973, e il glam rock sbiadito di Sally Can't Dance nel 1974), e snobbato da pubblico e critica, che lo bollò come un disastro. Con il tempo, le continue trasformazioni di Reed e nella generale riscoperta della sua musica (che ha una data precisa, cioè quando gli U2 lo chiamano a cantare Satellite Of Love durante gli show dello Zoo Tv Tour) il disco viene riconsiderato uno dei suoi grandi capolavori, nonostante la sua dolorosa e tragica natura. Che tra l'altro fece una vittima illustre: Bob Ezrin ebbe un esaurimento nervoso dopo le registrazioni, probabilmente per aver osservato troppo tempo quella oscurità, ma avrà comunque una carriera stellare, a fine decennio produrrà un altro concept leggendario, The Wall dei Pink Floyd. E un verso di The Kids, Oh, I am the water boy, the real game's not over yet\Oh, but my heart is overflowin' each and everyday, arriva fino ad un ragazzo scozzese, Mike Scott, che chiamerà la sua band The Waterboys.
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La leggenda del Soffione 🥀
"Secondo una leggenda irlandese, la corolla del soffione è la dimora delle fate, un tempo erano libere di scorrazzare nei prati. Quando la terra era abitata solo da gnomi, elfi e fate, queste creature vivevano liberamente nella natura. L’arrivo dell’uomo li costrinse a rifugiarsi nei boschi. Ma le fate avevano dei vestiti troppo sgargianti per riuscire a mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
Per questo motivo, furono costrette a trasformarsi in denti di leone, mantenendo però la loro fierezza. Anche se calpestato dall’uomo,infatti, il soffione torna sempre in posizione eretta!
Il significato 🥀
Nel linguaggio dei fiori, il soffione simboleggia la forza, la speranza e la fiducia. È inoltre legato all’idea del distacco e del viaggio. Questo perché inizialmente i semi sono legati al pappo, la loro appendice soffice, e sembra non vogliano staccarsene; poi si lasciano trasportare dal vento, dapprima timorosi, poi sempre più impavidi, pronti a intraprendere un nuovo viaggio, a sperimentare nuove avventure. Superata la paura iniziale, si lasciano andare al flusso della vita, curiosi di nuove scoperte, pronti a generare nuova vita.
Il loro percorso rappresenta una metafora perfetta della vita: per poter fiorire, ciascuno deve staccarsi dalla propria origine, affrontando il proprio viaggio senza paura, pronto a lottare contro le intemperie e a cogliere ogni opportunità." 🥀
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CONSIGLI PER CHI VIENE IN CALABRIA
di Vito Teti
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"Chi viene in Calabria deve prepararsi a un viaggio che richiede sguardi lucidi e amorevoli.
Non è facile dire cosa è la Calabria perché tutt’ora è terra leggendaria, mitica, caricata e sovrastata da una molteplicità di immagini ostili e superficiali, di cui non sono responsabili solo gli altri.
Io, come scriveva Alvaro, non so bene perché la amo. Perché a volte vorrei fuggire, mi domando che ci faccio qui; poi mi affaccio dai balconi, giro nei vicoli, incontro le persone di sempre, dialogo con i defunti, scavo nel mio sottoterra e intuisco, sento, perché la amo.
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Non sarà facile il viaggio di chi verrà in questi luoghi, ma se è disponibile all’incontro, a capire, a mettersi in discussione, incontrerà una terra meravigliosa di cui non si libererà mai, perché la Calabria, nel bene e nel male, è una metafora del pianeta, che dovremmo sapere riguardare, amare, curare".
Foto di Federico Ferraboschi e Carlo Paone
Seguici su Instagram, @calabria_mediterranea
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#calabria#italia#italy#south italy#southern italy#mediterranean#mare#consigli#italian#europe#landscape#italian landscape#sud italia#langblr#monasterace#vito teti#sud#mezzogiorno
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L’ora di greco - di Han Kang, Adelphi
Premessa: sono tra coloro che ritengono che il Nobel per la letteratura ad Han Kang si assolutamente meritato. Inutile proseguire la lettura se si è già convinti del contrario.
Probabilmente per me questo è il romanzo più bello tra quelli fin qui tradotti in italiano (o inglese). Molto breve ma denso, esplora temi profondi come la perdita, la solitudine, e la ricerca dell’identità. È del 2011 anche se qui da noi è arrivato appena l’anno scorso. Un viaggio introspettivo in cui due persone, apparentemente molto diverse, si incontrano e si comprendono attraverso la condivisione di un dolore nascosto e silenzioso.
Lei, Hanja, dopo aver vissuto un periodo di intensa sofferenza, ha trovato il silenzio come rifugio: non parlare, più che una scelta volontaria, è una reazione istintiva e fisiologica alla sua sofferenza. Le parole per lei si sono trasformate in strumenti di dolore, tanto che la voce stessa le sembra ormai qualcosa di estraneo. Dopo in matrimonio fallito e la perdita di custodia del figlio, persa anche la madre le sembra di aver ormai perso qualsiasi contatto con la propria identità e il mondo che la circonda. Come via di fuga da questo dolore, inizia a seguire lezioni di greco antico, una lingua che per lei diventa una sorta di “nuovo inizio”, poiché le consente di esprimere e riscoprire sé stessa senza le ferite che l’uso della lingua madre le provoca.
È così che la sua vita incrocia il suo insegnante di greco, un uomo non vedente che vive anche lui un’esistenza profondamente segnata dalla perdita. Per lui la cecità ha rappresentato un graduale distacco dal mondo, ma nonostante le difficoltà quotidiane ha imparato a navigare attraverso questo vuoto grazie all’amore per le parole e per la letteratura. Egli usa il greco come strumento per mantenere un legame con il mondo esterno e per dare un senso al proprio passato.
Attraverso questo incontro tra la donna e il suo insegnante, Han Kang esplora l’intimità della comunicazione e del linguaggio come mezzo di guarigione. Entrambi i protagonisti sono segnati da ferite invisibili e trovano nella lingua greca un terreno neutrale in cui potersi esprimere senza il peso delle loro storie personali. Il greco antico diventa simbolo di un viaggio interiore, che permette loro di riconoscere il proprio dolore e, in qualche modo, di riappropriarsi delle proprie vite.
Han Kang utilizza una prosa poetica e riflessiva per approfondire i sentimenti complessi dei protagonisti. La narrazione alterna i punti di vista della donna e dell’insegnante, e attraverso le loro prospettive frammentate il lettore è invitato a riflettere sul significato dell’empatia, della perdita, e della redenzione. I dialoghi sono ridotti al minimo, quasi come se l’autrice volesse rispettare il silenzio che i due protagonisti sembrano cercare.
In sostanza, un romanzo che parla di sopravvivenza emotiva. Attraverso la storia dei protagonisti, Han Kang esplora la possibilità di trovare una via d’uscita dal dolore e dalla perdita senza negare le proprie ferite. La lingua greca diventa metafora del processo di auto-ricostruzione, una lingua che, con le sue radici antiche, permette ai personaggi di esprimere sentimenti che sembravano impossibili da comunicare.
Un delicatissimo racconto di Han Kang, che con la sua scrittura minimalista invita alla riflessione sulla complessità dell’animo umano, sul ruolo del linguaggio, e sulla possibilità di una rinascita anche nei momenti più bui. Leggetelo solo se questi temi vi appassionano. Diversamente state andando incontro a una delusione.
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Oggi sono stata al cinema con una mia amica, abbiamo visto il nuovo film di Miyazaki, "Il ragazzo e l'airone", che nella versione originale si chiama "How do you live?" e forse il titolo così è più appropriato al film. È stato strano, perché è stato lento più di quanto siano già solitamente lenti alcuni film dello studio ghibli, ma è stato anche uno dei primi film che non mi hanno commosso come invece spesso mi succede, e nonostante la trama sia una di quelle che si presterebbero molto alla commozione, dato che parla di lutto e sofferenza e rinascita. Forse è anche perché non sono più abituata a vedere film al cinema e l'atmosfera è diversa, o forse era l'abbiocco post pranzo o forse semplicemente il ritmo di questo film è tale che una seconda visione è più godibile di una prima, quando ancora non sai cosa aspettarti e pensi che sta passando un sacco di tempo e ancora non è successo niente di particolarmente strano. Mi ha ricordato in molti momenti degli altri film di Miyazaki, il viaggio onirico de La città incantata, le porte su altri mondi de Il castello errante di Owl, la malattia e la fuga/smarrimento della famiglia de Il mio vicino Totoro, la distruzione della guerra di Si alza il vento. Ci sono anche le vecchine e le creaturine e la natura che ci sono in tantissimi altri film di Miyazaki, sembrava proprio una citazione continua, ma forse è semplicemente il suo universo che è popolato di questi elementi e, una volta che li conosci, li riconosci inevitabilmente in ogni film.
Tornata a casa, dopo averne parlato un po' con la mia amica per condividere impressione e frustrazione, perché anche per lei a livello emotivo non ha avuto l'impatto che ci aspettavamo, ho cercato un po' di opinioni online e ho salvato qualche post di tumblr. A quanto pare, oltre alla lettura più immediata dell'elaborazione del lutto e della condizione di malattia, c'è una metafora generazionale e anche una estremamente personale di Miyazaki rispetto al suo mestiere e alla sua storia con il suo mentore. Alcuni la leggono anche verso l'altra direzione, con suo figlio. In ogni caso sono ancora più convinta che a una seconda visione piacerà di più anche a me. Commuovermi però non lo so, vedremo quando sarà il caso, credo sia proprio una questione di ritmi e di investimento emotivo nei personaggi, non so se questi sono riusciti ad entrarmi nel cuore con la stessa immediatezza degli altri che di solito sono raccontati nei suoi film e in generale nei film dello studio ghibli.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
CUM NAUFRAGIUM FECI, TUNC BENE NAVIGAVI
Ossimoro latino, forse risalente a Zenone, riproposto da Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536) nel suo “Adagia”, 1500, (Centuria 1878) con questa formulazione:
«Nunc bene navigavi, cum naufragium feci.» «Posso dire di aver ben navigato, solo dopo aver fatto naufragio.»
Non si tratta di riferirsi al viaggio, ma al viaggio per mare, là, dove nessuna strada è tracciata e ogni rotta è possibile e ogni istante può mutare in tempesta.
Metafora drammatica.
Temuta.
Accettata.
Subita.
Agognata.
Come per ogni domanda profonda, solo portandosi fino all’estremo confine è possibile scorgere la luce della coscienza consapevole.
Così, la pittura di Turner, agli esordi dell’800, ha già nelle corde il vibrare della crisi di un secolo impetuoso, durante il quale sarà impossibile cambiare rotta per evitare la furia degli elementi.
La metafora diviene simbolo: la tempesta è la metà del piatto spezzato - σύμβολον (symbolon) - che indica l’origine e l’identità da ritrovare.
Essenza del pensiero “romantico” agli albori: esistere, è tragedia.
Il “dipinto-simbolo” racconta il senso, necessario, del vivere: prendere il mare aperto e ogni rischio che questo comporti.
Ogni rischio, anche mortale.
Pur di ricongiungersi con l’altra metà del piatto.
Rimasto ad attendere in un placido canale.
L’ossimoro, si compie.
- Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851): “Il naufragio”, 1805, Tate Britain, Londra e “Canale di Chichester”, 1828, Tate Gallery, Londra
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Quando alla fine dell'estate dovevo rimettere i piedi nelle scarpe, era finita la libertà. Non solo per metafora, perché le libertà procedono dal basso verso l'alto, ma per evidenza: il contatto con la libertà iniziava dalla pianta scalza sul selciato dell'isola d'Ischia, sull'aspro degli scogli. Era l'inspessimento dell'epidermide che diventava buccia. Poi toccava al resto del corpo arrossarsi, far bolle sulla schiena, da bucare con l'ago. Era la mutazione estiva, caduta la pelle di carta velina della città, spuntava l'altra, compatta, colore di carruba, coi peluzzi gialli.
Da adulto ho iniziato a portare sandali per gran parte dell'anno, anche in inverno. Poi ho smesso. Dopo la domanda premurosa e centesima: "Non hai freddo ai piedi?", ho dovuto arrendermi. Quando vado in città o sono in viaggio metto le scarpe chiuse, ma sento i piedi scontenti. Sono abituati a stare all'aria, hanno una loro temperatura indipendente.
Stare sotto al sole è abituale per i mediterranei, ma non resisto a mettermi sdraiato. Cammino lungo le rive, nuoto, scalo qualche scoglio, poi mi copro. Ho dei punti bruciati della pelle sui quali spalmo una protezione, non sul resto del corpo. Mi tengo il sole addosso, pure il sale, una seconda pelle.
Nelle pagine del libro sacro Kohèlet/Ecclesiaste si ripete a cadenza di affanno: "tàhat hashèmesh", sotto il sole. Non è quello delle vacanze, ma quello che pesa sulla schiena piegata dei braccianti. È la più potente, schiacciante forza della natura.
Ho conosciuto questo sole, che sovrasta chi non può mettersi all'ombra. Per questo amo quella degli alberi e continuo a piantarli. Vedo la loro crescita, il tronco che espande il diametro, la chioma che allarga a ombrello il suo riparo in terra.
I pescatori d'Ischia non scherzavano con la forza del sole. Nicola, quello che mi ha insegnato a pescare, portava il basco a bordo, i pantaloni blu rimboccati al ginocchio e una canottiera bianca che non toglieva mai. A lui e agli altri non importava niente l'uniformità dell'abbronzatura.
Borges ha scritto un eroico elogio dell'ombra, quella della sua cecità. Io posso lodare la circonferenza protettiva dei rami di un albero. Durante le mietiture in Africa vicino all'Equatore, in mezzo ai trent'anni, ricordo il sole che calava rapido a terra alle sei di sera e rispuntava alle sei del mattino. Abituato alle oscillazioni di orario del Mediterraneo, chiamavo con la marca di un orologio svizzero quel saliscendi puntuale.
Appena tramontato uscivano in volo fitte schiere di pipistrelli. Volavano basso, sfioravano. I loro scatti vicini di alta pressione mi ricordavano le sforbiciate leggere di un barbiere. A mezzogiorno il sole era così a piombo sulla terra che i corpi non facevano ombra. Buffo camminare in piena luce e non trascinarsela dietro. Non ho dimestichezza con la parola anima, ma con la sua controfigura, l'ombra, con lei sì. Mi gira intorno, mi tiene compagnia meglio di un cane, anche di sera a lume di lampadina, di camino acceso. Non si fa accarezzare.
Quando scalo una parete al sole sento il suo fiato sul collo, sul dorso delle mani. È contatto fisico, non solamente luce. Se mi batte dritto davanti, faccio schermo con il palmo sugli occhi, non uso occhiali di protezione. Come i piedi, anche gli occhi sono fatti per stare alla luce.
" 'O sole nun è ddoro": così inizia una poesia di Rocco Galdieri. Non è d'oro, invece è geografia, per chi è del Mediterraneo. La sua irradiazione feconda la terra, e noi di questo mare mangiamo e beviamo il sole e i suoi derivati.
Erri De Luca, Il sole
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“Ultimo treno” di Giorgio Caproni: Il viaggio della vita tra amore e silenzio. Recensione di Alessandria today
Una poesia che intreccia viaggio, tempo e amore. “Ultimo treno”, di Giorgio Caproni, è un’opera che combina il tema del viaggio con una profonda riflessione esistenziale, dove l’amore emerge come unico faro nel silenzio dell’inevitabile.
Una poesia che intreccia viaggio, tempo e amore. “Ultimo treno”, di Giorgio Caproni, è un’opera che combina il tema del viaggio con una profonda riflessione esistenziale, dove l’amore emerge come unico faro nel silenzio dell’inevitabile. La poesia cattura l’attenzione con il suo ritmo musicale e immagini potenti, trasportando il lettore in un universo fatto di attesa, solitudine e…
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Vola solo chi osa farlo...
Se volete una storia a cartoni animati raccontata bene, dovete lasciar perdere la Disney. Quei presuntuosi non ne sono più capaci. Wish ne è una scintillante testimonianza. Guardatevi piuttosto Prendi il volo. In un tranquillo stagno situato non so bene dove, vive una famigliuola di cinque anatre. C'è lo zio Dan, anziano e pigro. Poi ci sono Pam e Mack e i loro due pargoli Dax e Gwen. Pam è avventurosa e ottimista, mentre Mack è un tipo pavido che vede pericoli ovunque. Fosse per lui, se ne starebbe per sempre nel suo tranquillo stagno. Lo convincono invece a migrare verso la Giamaica. Il viaggio sarà tutt'altro che agevole. Però Mack avrà l'occasione di affrontare e vincere le sue immotivate paure, rinsaldando al contempo i propri legami affettivi. Perché è restando uniti che si può superare qualsiasi ostacolo e raggiungere qualunque obiettivo. Il viaggio è ovviamente la metafora del percorso dentro se stessi, alla ricerca della propria identità. Non ce ne rendiamo conto, ma dentro ognuno di noi c'è qualcosa che risplende. Basta raccogliere un po' di coraggio. E guardare.
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Gianni Amelio
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Gianni Amelio, uno di quei cineasti che è riuscito a vedere più avanti di molti suoi colleghi, nel 1994 è il primo ad analizzare l’immigrazione in Italia come un complesso fenomeno etnico, culturale e politico. Il risultato di questa profezia è quell’intenso dramma visionario chiamato Lamerica (1994). All’inizio degli anni Ottanta è tra i pochi a comprendere che il terrorismo porta come conseguenza nefasta conflitti all’interno della famiglia, tra padri e figli (Colpire al cuore, 1982). Ed è sempre tra i primi a riflettere su quello strano paese chiamato Cina, ricco ed invadente e al contempo contradditorio a livello sociale perché ancora diviso tra ricchissimi e poverissimi (La stella che non c’è, 2006). Fondamentale è però anche comprendere l’entità dello sguardo di Gianni nei confronti di ciò che riprende, che è innocente, perché riparte da zero, rianimato dalle “cose” e dalle immagini primarie che si formano in una visione che domanda perché dona; una visione non infarcita di riproduzioni e di stereotipi della registrazione automatica. Innocenza dello sguardo non-innocente, ovvero stile e morale di un diverso vedere, e di un diverso far-vedere (non solo “mostrare”) allo spettatore. Gianni ha cercato lungo tutta la sua opera questa immediatezza che diventa stile, questa morale della forma che era energia del cinema. Innocenza non-innocente: una innocenza che mette in questione la sua difficoltà a esserlo, perfino la sua impossibilità. Di qui nasce lo stile dell’anti-spettacolo, e perfino uno sguardo che può sembrare al servizio della realtà, mentre è la realtà che suggerisce allo sguardo il suo stile. Non è un caso che Il ladro di bambini si apra proprio sullo sguardo non-innocente di un bambino forse innocente, che è anche la chiave per comprendere che tipo di sguardo il cinema può adottare oggi. Mentre gli occhi del giudice di Porte aperte (1990) sono rivolti sul niente, leggermente al di sotto dello sguardo degli altri, incluso quello della macchina da presa, per suggerire la consapevolezza non-innocente di chi ha creduto d’essere innocente. Ma il cinema di Gianni è anche una mappa di frontiere fra passato e presente generazionali: c’è un fil rouge nella filmografia del regista, e cioè lo scontro-incontro tra giovani e adulti e il viaggio come metafora se non proprio di crescita, di mutamento interiore. Lui racconta di figli che non sono figli ma è come se lo fossero, o di figli che sono figli, ma qualcuno non li riconosce. […] La famiglia “giusta” è quella inventata, trovata strada facendo, i cui componenti si scelgono, e allargata a nipoti e parenti vari che non sono considerati per i loro ruoli. […] Nei miei film, i padri reali sono padri che a volte ti abbandonano, anche quando sono presenti.
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LA FATA DEL CUCITO - RACCONTI DI VITA
LA FATA DEL.CUCITO – Racconti di vita Novità editoriale “La fata del cucito” racconti di vita di Crescenza Caradonna, conosciuta come Cresy, è un libro che mescola la delicatezza dei racconti di vita con l’intima riflessione sull’arte del cucito. In queste pagine, l’autrice ci guida in un viaggio emozionale attraverso storie di persone, sogni e ricordi, usando il cucito come metafora della…
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SAPEVI CHE IL MITO DELLA CAVERNA DI PLATONE RIVELA LA NATURA DELLA NOSTRA REALTÀ? Allegoria che sfida la nostra percezione del mondo Nel libro VII de "La Repubblica", (Platone presenta una delle allegorie più celebri e profonde della filosofia occidentale) il Mito della Caverna. Questo racconto non è solo una narrazione affascinante, ma anche uno strumento potente per comprendere la teoria della conoscenza e la percezione della realtà, concetti centrali nel pensiero platonico Immaginate una caverna oscura dove un gruppo di prigionieri è incatenato fin dalla nascita. Questi prigionieri sono immobilizzati in modo tale che possono guardare solo verso una parete di fronte a loro. Dietro i prigionieri, c'è un fuoco e, tra il fuoco e i prigionieri, c'è un sentiero rialzato. Su questo sentiero passano persone che portano oggetti e figure di varie forme, proiettando ombre sulla parete che i prigionieri possono vedere. Per questi prigionieri, quelle ombre sono l'unica realtà che conoscono Le ombre nella caverna simboleggiano l'ignoranza e la percezione limitata di coloro che non hanno raggiunto la conoscenza vera. Rappresentano una realtà distorta e superficiale, una metafora di come le apparenze e le percezioni possano ingannare la nostra comprensione della vera natura delle cose. Il mito prende una svolta significativa quando uno dei prigionieri viene liberato. All'inizio, questo prigioniero prova un dolore acuto e una confusione intensa nel venire esposto alla luce del fuoco e, infine, al sole del mondo esterno. La luce è accecante, e il prigioniero lotta per comprendere questa nuova realtà. A poco a poco, i suoi occhi si abituano, e inizia a vedere il mondo così com'è: colori, forme, la vastità del cielo e lo splendore del sole. Questo processo simboleggia il cammino verso la conoscenza e l'illuminazione intellettuale, un viaggio arduo e doloroso, ma profondamente trasformativo. Il prigioniero liberato si rende conto che le ombre nella caverna non sono la realtà, ma semplici illusioni. Nel suo desiderio di condividere questa rivelazione, torna nella caverna per liberare gli altri. Tuttavia, al suo ritorno, trova resistenza e viene frainteso da coloro che sono ancora incatenati. Per loro, le ombre restano l'unica realtà valida, e l'idea di una realtà diversa è inconcepibile e minacciosa. Questo ritorno sottolinea la difficoltà di trasmettere e accettare la verità in un mondo abituato alle illusioni, un riflesso della resistenza umana al cambiamento e all'accettazione di nuove verità. Il Mito della Caverna, quindi, non illustra solo la teoria epistemologica di Platone, ma anche la sua visione sull'educazione e il ruolo del filosofo nella società. Il filosofo, come il prigioniero liberato, ha la responsabilità di guidare gli altri verso la luce della conoscenza, anche se ciò comporta affrontare l'incomprensione e la resistenza.
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