#Metafora del Viaggio
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Tornare a Casa: Il Significato Profondo del Viaggio secondo George Bernard Shaw
Esplorare il mondo per trovare sé stessi e la forza del ritorno alle origini.
Le parole di George Bernard Shaw ci insegnano che la ricerca della felicità e della verità è un viaggio che, paradossalmente, ci riporta sempre a casa. Esplorare il mondo per trovare sé stessi e la forza del ritorno alle origini. George Bernard Shaw, celebre drammaturgo e pensatore, sintetizzò in una frase il senso profondo della ricerca umana: «Un uomo percorre tutte le strade del mondo per…
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“Malinconia e settembre sono due sinonimi Che ti fregano sempre se sei un po’ giù Poi guardi l’orizzonte che sembra quasi muoversi Ma lui resta lì fermo, a sparire sei tu”.
― Pinguini Tattici Nucleari, “Romantico Ma Muori”.
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1927 Il ritorno in Italia
Salvatore Ferragamo e la cultura visiva del 900
a cura di Stefania Ricci e Carlo Sisi
Skira, Milano 2017, Museo Salvatore Ferragamo Firenze, 512 pagine, 24x28cm, ISBN 978-88-572-3568-4
euro 35,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Palazzo Spini Feroni, Firenze 19 maggio 2017-5 maggio 2018
Nel 2017 ricorrono novant'anni dal ritorno di Salvatore Ferragamo in Italia, nel 1927, dopo dodici anni trascorsi negli Stati Uniti. In occasione di questo anniversario, il Museo Salvatore Ferragamo ha ideato un progetto espositivo che si apre a una panoramica sull’Italia degli anni Venti, decennio al quale oggi guardiamo come una vera fucina di idee e di sperimentazioni condotte con mente aperta e scevra da pregiudizi o condizionamenti ideologici. Ferragamo scelse di stabilirsi a Firenze in virtù della sua riconosciuta centralità nella geografia del gusto e dello stile nazionali in un momento storico scandito da molti ritorni: ritorno all’ordine, al mestiere, alla grande tradizione nazionale. La mostra narra proprio di questo attraversamento nella cultura del tempo, sviluppandolo per capitoli come un romanzo di formazione. Fil rouge del percorso espositivo curato da Carlo Sisi è il viaggio in transatlantico che Ferragamo compie per tornare in Italia, inteso come metafora del suo itinerario mentale attraverso la cultura visiva dell’Italia degli anni Venti, da cui estrae le tematiche e le opere che influenzarono, in maniera diretta o indiretta, la sua officina poetica; senza trascurare nessuno degli aspetti culturali e sociali che contraddistinsero la rinascita civile del primo dopoguerra, alla vigilia dell’autoritaria affermazione del regime fascista.
08/11/24
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La leggenda del Soffione 🥀
"Secondo una leggenda irlandese, la corolla del soffione è la dimora delle fate, un tempo erano libere di scorrazzare nei prati. Quando la terra era abitata solo da gnomi, elfi e fate, queste creature vivevano liberamente nella natura. L’arrivo dell’uomo li costrinse a rifugiarsi nei boschi. Ma le fate avevano dei vestiti troppo sgargianti per riuscire a mimetizzarsi con l’ambiente circostante.
Per questo motivo, furono costrette a trasformarsi in denti di leone, mantenendo però la loro fierezza. Anche se calpestato dall’uomo,infatti, il soffione torna sempre in posizione eretta!
Il significato 🥀
Nel linguaggio dei fiori, il soffione simboleggia la forza, la speranza e la fiducia. È inoltre legato all’idea del distacco e del viaggio. Questo perché inizialmente i semi sono legati al pappo, la loro appendice soffice, e sembra non vogliano staccarsene; poi si lasciano trasportare dal vento, dapprima timorosi, poi sempre più impavidi, pronti a intraprendere un nuovo viaggio, a sperimentare nuove avventure. Superata la paura iniziale, si lasciano andare al flusso della vita, curiosi di nuove scoperte, pronti a generare nuova vita.
Il loro percorso rappresenta una metafora perfetta della vita: per poter fiorire, ciascuno deve staccarsi dalla propria origine, affrontando il proprio viaggio senza paura, pronto a lottare contro le intemperie e a cogliere ogni opportunità." 🥀
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CONSIGLI PER CHI VIENE IN CALABRIA
di Vito Teti
"Chi viene in Calabria deve prepararsi a un viaggio che richiede sguardi lucidi e amorevoli.
Non è facile dire cosa è la Calabria perché tutt’ora è terra leggendaria, mitica, caricata e sovrastata da una molteplicità di immagini ostili e superficiali, di cui non sono responsabili solo gli altri.
Io, come scriveva Alvaro, non so bene perché la amo. Perché a volte vorrei fuggire, mi domando che ci faccio qui; poi mi affaccio dai balconi, giro nei vicoli, incontro le persone di sempre, dialogo con i defunti, scavo nel mio sottoterra e intuisco, sento, perché la amo.
Non sarà facile il viaggio di chi verrà in questi luoghi, ma se è disponibile all’incontro, a capire, a mettersi in discussione, incontrerà una terra meravigliosa di cui non si libererà mai, perché la Calabria, nel bene e nel male, è una metafora del pianeta, che dovremmo sapere riguardare, amare, curare".
Foto di Federico Ferraboschi e Carlo Paone
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L’ora di greco - di Han Kang, Adelphi
Premessa: sono tra coloro che ritengono che il Nobel per la letteratura ad Han Kang si assolutamente meritato. Inutile proseguire la lettura se si è già convinti del contrario.
Probabilmente per me questo è il romanzo più bello tra quelli fin qui tradotti in italiano (o inglese). Molto breve ma denso, esplora temi profondi come la perdita, la solitudine, e la ricerca dell’identità. È del 2011 anche se qui da noi è arrivato appena l’anno scorso. Un viaggio introspettivo in cui due persone, apparentemente molto diverse, si incontrano e si comprendono attraverso la condivisione di un dolore nascosto e silenzioso.
Lei, Hanja, dopo aver vissuto un periodo di intensa sofferenza, ha trovato il silenzio come rifugio: non parlare, più che una scelta volontaria, è una reazione istintiva e fisiologica alla sua sofferenza. Le parole per lei si sono trasformate in strumenti di dolore, tanto che la voce stessa le sembra ormai qualcosa di estraneo. Dopo in matrimonio fallito e la perdita di custodia del figlio, persa anche la madre le sembra di aver ormai perso qualsiasi contatto con la propria identità e il mondo che la circonda. Come via di fuga da questo dolore, inizia a seguire lezioni di greco antico, una lingua che per lei diventa una sorta di “nuovo inizio”, poiché le consente di esprimere e riscoprire sé stessa senza le ferite che l’uso della lingua madre le provoca.
È così che la sua vita incrocia il suo insegnante di greco, un uomo non vedente che vive anche lui un’esistenza profondamente segnata dalla perdita. Per lui la cecità ha rappresentato un graduale distacco dal mondo, ma nonostante le difficoltà quotidiane ha imparato a navigare attraverso questo vuoto grazie all’amore per le parole e per la letteratura. Egli usa il greco come strumento per mantenere un legame con il mondo esterno e per dare un senso al proprio passato.
Attraverso questo incontro tra la donna e il suo insegnante, Han Kang esplora l’intimità della comunicazione e del linguaggio come mezzo di guarigione. Entrambi i protagonisti sono segnati da ferite invisibili e trovano nella lingua greca un terreno neutrale in cui potersi esprimere senza il peso delle loro storie personali. Il greco antico diventa simbolo di un viaggio interiore, che permette loro di riconoscere il proprio dolore e, in qualche modo, di riappropriarsi delle proprie vite.
Han Kang utilizza una prosa poetica e riflessiva per approfondire i sentimenti complessi dei protagonisti. La narrazione alterna i punti di vista della donna e dell’insegnante, e attraverso le loro prospettive frammentate il lettore è invitato a riflettere sul significato dell’empatia, della perdita, e della redenzione. I dialoghi sono ridotti al minimo, quasi come se l’autrice volesse rispettare il silenzio che i due protagonisti sembrano cercare.
In sostanza, un romanzo che parla di sopravvivenza emotiva. Attraverso la storia dei protagonisti, Han Kang esplora la possibilità di trovare una via d’uscita dal dolore e dalla perdita senza negare le proprie ferite. La lingua greca diventa metafora del processo di auto-ricostruzione, una lingua che, con le sue radici antiche, permette ai personaggi di esprimere sentimenti che sembravano impossibili da comunicare.
Un delicatissimo racconto di Han Kang, che con la sua scrittura minimalista invita alla riflessione sulla complessità dell’animo umano, sul ruolo del linguaggio, e sulla possibilità di una rinascita anche nei momenti più bui. Leggetelo solo se questi temi vi appassionano. Diversamente state andando incontro a una delusione.
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Oggi sono stata al cinema con una mia amica, abbiamo visto il nuovo film di Miyazaki, "Il ragazzo e l'airone", che nella versione originale si chiama "How do you live?" e forse il titolo così è più appropriato al film. È stato strano, perché è stato lento più di quanto siano già solitamente lenti alcuni film dello studio ghibli, ma è stato anche uno dei primi film che non mi hanno commosso come invece spesso mi succede, e nonostante la trama sia una di quelle che si presterebbero molto alla commozione, dato che parla di lutto e sofferenza e rinascita. Forse è anche perché non sono più abituata a vedere film al cinema e l'atmosfera è diversa, o forse era l'abbiocco post pranzo o forse semplicemente il ritmo di questo film è tale che una seconda visione è più godibile di una prima, quando ancora non sai cosa aspettarti e pensi che sta passando un sacco di tempo e ancora non è successo niente di particolarmente strano. Mi ha ricordato in molti momenti degli altri film di Miyazaki, il viaggio onirico de La città incantata, le porte su altri mondi de Il castello errante di Owl, la malattia e la fuga/smarrimento della famiglia de Il mio vicino Totoro, la distruzione della guerra di Si alza il vento. Ci sono anche le vecchine e le creaturine e la natura che ci sono in tantissimi altri film di Miyazaki, sembrava proprio una citazione continua, ma forse è semplicemente il suo universo che è popolato di questi elementi e, una volta che li conosci, li riconosci inevitabilmente in ogni film.
Tornata a casa, dopo averne parlato un po' con la mia amica per condividere impressione e frustrazione, perché anche per lei a livello emotivo non ha avuto l'impatto che ci aspettavamo, ho cercato un po' di opinioni online e ho salvato qualche post di tumblr. A quanto pare, oltre alla lettura più immediata dell'elaborazione del lutto e della condizione di malattia, c'è una metafora generazionale e anche una estremamente personale di Miyazaki rispetto al suo mestiere e alla sua storia con il suo mentore. Alcuni la leggono anche verso l'altra direzione, con suo figlio. In ogni caso sono ancora più convinta che a una seconda visione piacerà di più anche a me. Commuovermi però non lo so, vedremo quando sarà il caso, credo sia proprio una questione di ritmi e di investimento emotivo nei personaggi, non so se questi sono riusciti ad entrarmi nel cuore con la stessa immediatezza degli altri che di solito sono raccontati nei suoi film e in generale nei film dello studio ghibli.
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Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO QUARTO - di Gianpiero Menniti
CUM NAUFRAGIUM FECI, TUNC BENE NAVIGAVI
Ossimoro latino, forse risalente a Zenone, riproposto da Erasmo da Rotterdam (1469 - 1536) nel suo “Adagia”, 1500, (Centuria 1878) con questa formulazione:
«Nunc bene navigavi, cum naufragium feci.» «Posso dire di aver ben navigato, solo dopo aver fatto naufragio.»
Non si tratta di riferirsi al viaggio, ma al viaggio per mare, là, dove nessuna strada è tracciata e ogni rotta è possibile e ogni istante può mutare in tempesta.
Metafora drammatica.
Temuta.
Accettata.
Subita.
Agognata.
Come per ogni domanda profonda, solo portandosi fino all’estremo confine è possibile scorgere la luce della coscienza consapevole.
Così, la pittura di Turner, agli esordi dell’800, ha già nelle corde il vibrare della crisi di un secolo impetuoso, durante il quale sarà impossibile cambiare rotta per evitare la furia degli elementi.
La metafora diviene simbolo: la tempesta è la metà del piatto spezzato - σύμβολον (symbolon) - che indica l’origine e l’identità da ritrovare.
Essenza del pensiero “romantico” agli albori: esistere, è tragedia.
Il “dipinto-simbolo” racconta il senso, necessario, del vivere: prendere il mare aperto e ogni rischio che questo comporti.
Ogni rischio, anche mortale.
Pur di ricongiungersi con l’altra metà del piatto.
Rimasto ad attendere in un placido canale.
L’ossimoro, si compie.
- Joseph Mallord William Turner (1775 - 1851): “Il naufragio”, 1805, Tate Britain, Londra e “Canale di Chichester”, 1828, Tate Gallery, Londra
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Quando alla fine dell'estate dovevo rimettere i piedi nelle scarpe, era finita la libertà. Non solo per metafora, perché le libertà procedono dal basso verso l'alto, ma per evidenza: il contatto con la libertà iniziava dalla pianta scalza sul selciato dell'isola d'Ischia, sull'aspro degli scogli. Era l'inspessimento dell'epidermide che diventava buccia. Poi toccava al resto del corpo arrossarsi, far bolle sulla schiena, da bucare con l'ago. Era la mutazione estiva, caduta la pelle di carta velina della città, spuntava l'altra, compatta, colore di carruba, coi peluzzi gialli.
Da adulto ho iniziato a portare sandali per gran parte dell'anno, anche in inverno. Poi ho smesso. Dopo la domanda premurosa e centesima: "Non hai freddo ai piedi?", ho dovuto arrendermi. Quando vado in città o sono in viaggio metto le scarpe chiuse, ma sento i piedi scontenti. Sono abituati a stare all'aria, hanno una loro temperatura indipendente.
Stare sotto al sole è abituale per i mediterranei, ma non resisto a mettermi sdraiato. Cammino lungo le rive, nuoto, scalo qualche scoglio, poi mi copro. Ho dei punti bruciati della pelle sui quali spalmo una protezione, non sul resto del corpo. Mi tengo il sole addosso, pure il sale, una seconda pelle.
Nelle pagine del libro sacro Kohèlet/Ecclesiaste si ripete a cadenza di affanno: "tàhat hashèmesh", sotto il sole. Non è quello delle vacanze, ma quello che pesa sulla schiena piegata dei braccianti. È la più potente, schiacciante forza della natura.
Ho conosciuto questo sole, che sovrasta chi non può mettersi all'ombra. Per questo amo quella degli alberi e continuo a piantarli. Vedo la loro crescita, il tronco che espande il diametro, la chioma che allarga a ombrello il suo riparo in terra.
I pescatori d'Ischia non scherzavano con la forza del sole. Nicola, quello che mi ha insegnato a pescare, portava il basco a bordo, i pantaloni blu rimboccati al ginocchio e una canottiera bianca che non toglieva mai. A lui e agli altri non importava niente l'uniformità dell'abbronzatura.
Borges ha scritto un eroico elogio dell'ombra, quella della sua cecità. Io posso lodare la circonferenza protettiva dei rami di un albero. Durante le mietiture in Africa vicino all'Equatore, in mezzo ai trent'anni, ricordo il sole che calava rapido a terra alle sei di sera e rispuntava alle sei del mattino. Abituato alle oscillazioni di orario del Mediterraneo, chiamavo con la marca di un orologio svizzero quel saliscendi puntuale.
Appena tramontato uscivano in volo fitte schiere di pipistrelli. Volavano basso, sfioravano. I loro scatti vicini di alta pressione mi ricordavano le sforbiciate leggere di un barbiere. A mezzogiorno il sole era così a piombo sulla terra che i corpi non facevano ombra. Buffo camminare in piena luce e non trascinarsela dietro. Non ho dimestichezza con la parola anima, ma con la sua controfigura, l'ombra, con lei sì. Mi gira intorno, mi tiene compagnia meglio di un cane, anche di sera a lume di lampadina, di camino acceso. Non si fa accarezzare.
Quando scalo una parete al sole sento il suo fiato sul collo, sul dorso delle mani. È contatto fisico, non solamente luce. Se mi batte dritto davanti, faccio schermo con il palmo sugli occhi, non uso occhiali di protezione. Come i piedi, anche gli occhi sono fatti per stare alla luce.
" 'O sole nun è ddoro": così inizia una poesia di Rocco Galdieri. Non è d'oro, invece è geografia, per chi è del Mediterraneo. La sua irradiazione feconda la terra, e noi di questo mare mangiamo e beviamo il sole e i suoi derivati.
Erri De Luca, Il sole
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Vola solo chi osa farlo...
Se volete una storia a cartoni animati raccontata bene, dovete lasciar perdere la Disney. Quei presuntuosi non ne sono più capaci. Wish ne è una scintillante testimonianza. Guardatevi piuttosto Prendi il volo. In un tranquillo stagno situato non so bene dove, vive una famigliuola di cinque anatre. C'è lo zio Dan, anziano e pigro. Poi ci sono Pam e Mack e i loro due pargoli Dax e Gwen. Pam è avventurosa e ottimista, mentre Mack è un tipo pavido che vede pericoli ovunque. Fosse per lui, se ne starebbe per sempre nel suo tranquillo stagno. Lo convincono invece a migrare verso la Giamaica. Il viaggio sarà tutt'altro che agevole. Però Mack avrà l'occasione di affrontare e vincere le sue immotivate paure, rinsaldando al contempo i propri legami affettivi. Perché è restando uniti che si può superare qualsiasi ostacolo e raggiungere qualunque obiettivo. Il viaggio è ovviamente la metafora del percorso dentro se stessi, alla ricerca della propria identità. Non ce ne rendiamo conto, ma dentro ognuno di noi c'è qualcosa che risplende. Basta raccogliere un po' di coraggio. E guardare.
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Allegoria che sfida la nostra percezione del mondo Nel libro VII de "La Repubblica", (Platone presenta una delle allegorie più celebri e profonde della filosofia occidentale) il Mito della Caverna. Questo racconto non è solo una narrazione affascinante, ma anche uno strumento potente per comprendere la teoria della conoscenza e la percezione della realtà, concetti centrali nel pensiero platonico Immaginate una caverna oscura dove un gruppo di prigionieri è incatenato fin dalla nascita. Questi prigionieri sono immobilizzati in modo tale che possono guardare solo verso una parete di fronte a loro. Dietro i prigionieri, c'è un fuoco e, tra il fuoco e i prigionieri, c'è un sentiero rialzato. Su questo sentiero passano persone che portano oggetti e figure di varie forme, proiettando ombre sulla parete che i prigionieri possono vedere. Per questi prigionieri, quelle ombre sono l'unica realtà che conoscono Le ombre nella caverna simboleggiano l'ignoranza e la percezione limitata di coloro che non hanno raggiunto la conoscenza vera. Rappresentano una realtà distorta e superficiale, una metafora di come le apparenze e le percezioni possano ingannare la nostra comprensione della vera natura delle cose. Il mito prende una svolta significativa quando uno dei prigionieri viene liberato. All'inizio, questo prigioniero prova un dolore acuto e una confusione intensa nel venire esposto alla luce del fuoco e, infine, al sole del mondo esterno. La luce è accecante, e il prigioniero lotta per comprendere questa nuova realtà. A poco a poco, i suoi occhi si abituano, e inizia a vedere il mondo così com'è: colori, forme, la vastità del cielo e lo splendore del sole. Questo processo simboleggia il cammino verso la conoscenza e l'illuminazione intellettuale, un viaggio arduo e doloroso, ma profondamente trasformativo. Il prigioniero liberato si rende conto che le ombre nella caverna non sono la realtà, ma semplici illusioni. Nel suo desiderio di condividere questa rivelazione, torna nella caverna per liberare gli altri. Tuttavia, al suo ritorno, trova resistenza e viene frainteso da coloro che sono ancora incatenati. Per loro, le ombre restano l'unica realtà valida, e l'idea di una realtà diversa è inconcepibile e minacciosa. Questo ritorno sottolinea la difficoltà di trasmettere e accettare la verità in un mondo abituato alle illusioni, un riflesso della resistenza umana al cambiamento e all'accettazione di nuove verità. Il Mito della Caverna, quindi, non illustra solo la teoria epistemologica di Platone, ma anche la sua visione sull'educazione e il ruolo del filosofo nella società. Il filosofo, come il prigioniero liberato, ha la responsabilità di guidare gli altri verso la luce della conoscenza, anche se ciò comporta affrontare l'incomprensione e la resistenza. Web
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"Ottobre": Un viaggio poetico nell'autunno dell'anima di Rita Frasca Odorizzi. Recensione di Alessandria today
Un intenso racconto emotivo della stagione autunnale che riflette sulle passioni e sulla vita attraverso immagini naturali e profonde sensazioni interiori.
Un intenso racconto emotivo della stagione autunnale che riflette sulle passioni e sulla vita attraverso immagini naturali e profonde sensazioni interiori. Nella poesia “Ottobre”, Rita Frasca Odorizzi ci regala una riflessione profonda e intensa sulla stagione autunnale, trasformandola in una metafora dell’anima. Le parole scelte dall’autrice ci trasportano in un mondo in cui l’autunno diventa…
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Across: "Un altro treno" è il nuovo video
Dopo l’uscita dell’album Blackout, che ha segnato un importante passo evolutivo per il sound e le tematiche della band cosentina, gli Across tornano con il videoclip del brano Un Altro Treno. Il singolo, tratto dal loro ultimo lavoro discografico, esplora il tema del viaggio, fisico e mentale, come metafora di crescita, ricerca e nostalgia. Girato nei primi giorni di settembre a Cosenza, il…
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MATT BELLINO - RACCONTI DI UN POVERO DIAVOLO Usando la metafora del viaggio, Matt Bellino, con il suo libro “Racconti di un povero diavolo”, ci conduce ad esplorare le profondità dell’animo umano, portando il lettore a confrontarsi con le proprie emozioni. La storia raccontata è quella di alcuni personaggi che incrociano le proprie vite con quella di un diavolo. Il romanzo si apre con un viaggio in treno, in cui Andrea, il protagonista, incontra Bernardo, una persona enigmatica che lo invita ad esprimere i suoi ultimi desideri. E cosi Bernardo, il diavolo dalle sembianze umane, lo guida all’interno del suo io con il suo modo di essere affabile, dando vita a dialoghi intensi e ironici, ma nello stesso tempo molto profondi ,portando Andrea ad aprirsi completamente. Marco invece è un uomo che vuole cambiare la sua vita, ma non riesce a staccarsi da ciò che gli dà la tranquillità su cui si è adagiato e aspetta che siano i fattori esterni che a compiere il passo desiderato, finchè non incontra Bernardo. Quest’ultimo rappresenta la voce interiore che ognuno sente ogni qualvolta si trova a prendere delle decisioni e qui il diavolo è bravissimo a mettere Marco di fronte a sé stesso e a ciò che è realmente, portandolo a riflettere e ad agire di conseguenza. In questo romanzo vengono affrontati temi universali che riguardano tutti indistintamente: la solitudine, il desiderio di riscatto, l’amore, il pentimento, la ricerca del significato della vita, il libero arbitrio e la spiritualità. Il tutto affrontato con una profonda sensibilità, come certi argomenti richiedono. In ogni pagina si possono trovare spunti di riflessione, in quanto le storie descritte offrono ad ognuno la possibilità di potersi rispecchiare e da cui trarre profondi spunti di riflessione, anche con varie prospettive, accompagnando il lettore nel mondo delle emozioni in maniera semplice, ma forte ed evocativa.. Il tutto scritto con un linguaggio scorrevole e semplice, ma mai banale che riesce ad arrivare alle corde più profonde dell’anima, regalando al lettore un viaggio indimenticabile. Ascolta la recensione play_arrow RACCONTI DI UN POVERO DIAVOLO SERENELLA MARIANI Ascolta l'intervista all'autore play_arrow INTERVISTSA MATT BELLINO SERENELLA MARIANI Read the full article
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Il Mito di Er è un racconto filosofico narrato da Platone alla fine del decimo libro della Repubblica. È una delle più celebri esposizioni platoniche sull'immortalità dell'anima e sulla giustizia divina. Questo mito non è da intendersi come un resoconto storico, ma come una metafora per illustrare temi morali e filosofici.
Trama del Mito di Er
Er, un guerriero di origine panfilia, muore in battaglia. Dopo dodici giorni, il suo corpo, miracolosamente preservato dalla decomposizione, viene ritrovato e portato sul rogo funebre. Poco prima della cremazione, Er si risveglia e racconta ciò che ha visto nell’aldilà.
1. Viaggio nell’aldilà
Er riferisce di essere giunto in un luogo misterioso dove le anime si radunano. Qui, due aperture conducono verso il cielo e due verso il sottosuolo.
Le anime dei giusti ascendono al cielo per essere premiate, mentre quelle dei malvagi scendono sotto terra per essere punite.
Dopo mille anni, le anime tornano per scegliere una nuova vita sulla Terra.
2. La scelta delle vite
Le anime, riunite in una grande pianura, hanno la possibilità di scegliere una nuova vita da un assortimento di destini prestabiliti, rappresentati da modelli (o "sorti").
La scelta è determinata dall’esperienza acquisita durante le vite precedenti e dalla loro saggezza. Questo processo sottolinea la libertà individuale e la responsabilità morale.
3. Il Fuso di Ananke
Er osserva il fuso della Necessità (Ananke), un'immensa struttura cosmica che governa il destino e il movimento dei cieli.
Le Moire, figlie di Ananke (Cloto, Lachesi e Atropo), regolano la vita e il destino: Cloto assiste alla scelta delle vite, Lachesi assegna i destini e Atropo rende il destino immutabile.
4. Il Ritorno alla vita
Dopo aver scelto, le anime attraversano il fiume Lete (il fiume dell’oblio), bevendo per dimenticare le loro vite precedenti. Tuttavia, alcune anime bevono più di altre e dimenticano più profondamente.
Infine, le anime si reincarnano nei corpi scelti e tornano nel mondo fisico.
Significato del Mito di Er
Il racconto simboleggia l’importanza della giustizia e della virtù. Alcuni temi centrali includono:
Immortalità dell'anima: L'anima non perisce con il corpo e affronta conseguenze in base alle sue azioni.
Responsabilità individuale: La scelta della vita futura sottolinea il libero arbitrio.
Ciclicità dell’esistenza: La reincarnazione è un processo continuo, legato alla purificazione dell'anima.
Il mito di Er serve come monito per vivere una vita giusta e virtuosa, poiché le scelte morali hanno conseguenze eterne.
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La vecchia Fiat 500 nel mondo del cinema e della moda italiana
La vecchia Fiat 500 ha saputo distinguersi non solo per le sue linee semplici ma affascinanti, diventando una protagonista in film indimenticabili e sulle passerelle più importanti.
La Fiat 500, un'auto piccola ma piena di carattere, è da sempre un simbolo di stile italiano. Nata per dare agli italiani una macchina economica e funzionale, ha rapidamente conquistato il cuore delle persone, tanto da diventare protagonista non solo nelle strade di tutti i giorni, ma anche nelle pellicole cinematografiche e sulle passerelle della moda. Il suo fascino semplice, abbinato a una straordinaria praticità, l'ha resa una scelta perfetta per rappresentare l'eleganza e lo spirito italiano. La Fiat 500 nel cinema La storia del cinema ha visto la vecchia Fiat 500 apparire in numerosi film, specialmente durante gli anni '60 e '70, quando il suo successo era al culmine. In quei decenni, il cinema italiano viveva il suo periodo d'oro, con registi del calibro di Federico Fellini e Vittorio De Sica, e la Fiat 500 era spesso sullo schermo, diventando il simbolo di una società in cambiamento. Tra le prime apparizioni significative della vecchia Fiat 500 nel cinema troviamo il film I Motorizzati (1962), diretto da Camillo Mastrocinque. In uno degli episodi, due ladri maldestri, fingendosi parcheggiatori, rubano proprio una Fiat 500, sottolineando come questa piccola auto fosse già diventata un simbolo riconoscibile dell'Italia di quel periodo.
I Motorizzati (1962) La Fiat 500 appare anche come spalla di Franco e Ciccio, celebri comici dell'epoca, contribuendo a dare un tocco di umorismo a una pellicola già ricca di ironia. Un anno dopo, nel 1963, la Fiat 500 compare in un altro classico del cinema italiano: Il Boom, diretto da Vittorio De Sica e interpretato da Alberto Sordi. Nel film, la piccola utilitaria diventa oggetto del desiderio per il protagonista, Giovanni Alberti, simbolo della ricerca di uno stile di vita all'altezza del boom economico italiano. Anche qui, la vecchia Fiat 500 rappresenta il desiderio di riscatto sociale e benessere di un'intera generazione.
Film: il Boom Non meno significativa è la presenza della Fiat 500 in Io la conoscevo bene (1965), di Antonio Pietrangeli, dove accompagna Adriana, interpretata da Stefania Sandrelli, nella sua faticosa ricerca di successo a Roma. La Fiat 500 bianca diventa il simbolo della sua ingenua speranza di realizzare i propri sogni, un'auto che la accompagna mentre attraversa le difficoltà della vita nella grande città.
Io la conoscevo bene (1965) Tra le ultime apparizioni, invece, c’è quella rosso fuoco guidata da Aldo, Giovanni e Giacomo in Il Ricco, il Povero e il Maggiordomo, uscito nel 2014 e campione di incassi con quasi 15 milioni di euro al botteghino. La vecchia Fiat 500 riesce a strappare ancora un sorriso al pubblico italiano, consolidando il suo ruolo di compagna fedele e divertente anche nel cinema contemporaneo.
Aldo, Giovanni e Giacomo e la 500 rossa Raccontando il viaggio della Fiat 500 sul grande schermo, arriviamo letteralmente fino ai giorni nostri, dove la piccola auto italiana torna in primo piano addirittura in The Laundromat di Steve Soderbergh. Il film, con un cast stellare che include Gary Oldman, Antonio Banderas e Meryl Streep, si concentra sullo scandalo dei Panama Papers ed è stato presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia. Anche qui, la Fiat 500 trova il suo spazio in una trama globale, dimostrando come il suo fascino non conosca confini né epoche.
THE LAUNDROMAT Questi film, insieme a tanti altri, hanno contribuito a consolidare la Fiat 500 come simbolo del cinema italiano, rappresentando non solo un mezzo di trasporto, ma una vera e propria metafora della vita quotidiana, dei sogni e delle ambizioni degli italiani di quell'epoca. La Fiat 500 nella moda Non è solo nel cinema che la vecchia Fiat 500 ha brillato. Anche il mondo della moda ha riconosciuto il suo fascino. Negli anni '60 e '70, era comune vedere modelli e modelle salire su una Fiat 500 dopo una sfilata, o posare accanto ad essa per servizi fotografici destinati alle riviste più prestigiose.
La sua linea semplice, ma perfettamente proporzionata, si prestava benissimo alle pubblicità di abbigliamento e accessori. Molti stilisti italiani hanno utilizzato la Fiat 500 come sfondo per le loro creazioni, celebrando il fascino unico del design italiano. Dolce & Gabbana, ad esempio, hanno inserito la Fiat 500 in diverse campagne pubblicitarie, accostandola a capi che rappresentano l’essenza del “Made in Italy”.
Un'auto che continua a ispirare Oggi, più di cinquant’anni dopo il suo debutto, la vecchia Fiat 500 continua a essere una fonte di ispirazione per stilisti, fotografi e registi. La sua capacità di evocare nostalgia, combinata con un fascino senza tempo, la rende l'accessorio perfetto per chi cerca qualcosa di più di un semplice mezzo di trasporto. Il futuro della Fiat 500 Il fascino della vecchia Fiat 500 non accenna a svanire. Anche oggi, in un mondo sempre più orientato verso la tecnologia e l'innovazione, la piccola utilitaria italiana continua a far battere il cuore degli appassionati. Le nuove generazioni, alla ricerca di un contatto con le radici del passato, trovano in questa auto un simbolo di una semplicità ormai scomparsa. La Fiat 500 rappresenta più di un semplice oggetto da collezione: è un vero e proprio pezzo di storia, un emblema di stile e buon gusto che ha saputo attraversare i decenni senza perdere il suo fascino. E tu, hai mai sognato di possedere una vecchia Fiat 500? Raccontaci nei commenti cosa ti ispira di più di questa splendida auto!
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