#letteratura sovietica degli anni '70
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“ I raggi delle torri non erano destinati ai degenerati. Agivano sul sistema nervoso di tutti gli esseri umani che abitavano su quel pianeta. Il meccanismo fisiologico non era ancora stato individuato, ma gli effetti principali dell'irradiazione si potevano riassumere così: il cervello perdeva la propria capacità di analisi critica. Ogni individuo pensante si trasformava in un individuo credente e, come se non bastasse, credente in maniera fideistica e fanatica, a dispetto dell'evidenza della realtà. A chi si trovava nel campo di irradiazione si poteva far credere qualsiasi cosa con i mezzi più elementari, e costui recepiva ciò che gli veniva inculcato come l'unica verità possibile ed era disposto, in suo nome, a vivere, soffrire e morire. E questo campo era onnipresente. Invisibile, onnipervasivo, eterno. A irradiarlo ininterrottamente era la gigantesca rete di torri che copriva il Paese. Come un enorme aspirapolvere, risucchiava da decine di migliaia di anime qualsiasi dubbio riguardo a ciò che strombazzavano giornali, radio, televisione, opuscoli, ciò che sostenevano gli insegnanti a scuola e gli ufficiali nelle caserme, ciò che splendeva sulle scritte al neon nelle strade e che predicavano dai pulpiti delle chiese. I Padri Ignoti dirigevano a loro piacimento la volontà e l'energia di milioni di persone. Potevano costringere le masse ad adorarli (e lo facevano); potevano suscitare in esse un odio imperituro nei confronti dei nemici interni ed esterni; avrebbero potuto trasformarli a milioni in carne da cannone e da mitragliatrice, e quei milioni sarebbero andati a morire senza batter ciglio; avrebbero potuto obbligarli ad ammazzarsi l'un l'altro in nome di qualsiasi cosa; avrebbero potuto scatenare un'epidemia di suicidi, se gliene fosse punta vaghezza... I Padri potevano tutto. “
Arkadij e Boris Strugackij, L'isola abitata, con una postfazione di Boris Strugackij, traduzione e saggio critico di Valentina Parisi, Carbonio editore (collana Cielo stellato n° 42), 2021¹, pp. 205-206.
[1ª Edizione originale: Обитаемый остров (versione censurata) sulla rivista letteraria sovietica Neva nel 1969, numeri 3, 4 e 5]
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Marit Ilison “Longing For Sleep”: nell’abbraccio di un cappotto, nel calore della coperta
Si può essere mai abbastanza avvezzi al grado di sorpresa che la creatività diffusa, quella che viaggia libera tra gli stimoli che la stuzzicano variegati, più o meno concreti o surreali, ma pur sempre inaspettati: ecco, insomma, si diceva, si può mai abbassare la soglia di guardia dell’effetto sorpresa nei confronti di quel che, in questo nostro squisito caso, la moda creativa può offrire?
In un eccezionale slancio bonario, lascio qui un suggerimento accorato e conciso: assolutamente no, non si può! La ragione di tale affermazione rigorosa ed entusiasta è presto detta, anzi raccolta in un nome e nel titolo della sua più nota collezione: il nome è Marit Ilison, ideatrice sognante eppur assai concreta della collezione a/i 2016-17 “Longing for Sleep”!
Conoscere la natura identitaria e professionale di Marit Ilison e con essa immergersi nel carosello di creazioni dedicate alla corrente stagione fredda è un po’ come avere tra le mani una matrioska da sciorinare in tutte le sue unità: riferimento evocativo che per un gioco delle coincidenze sfiora assai anche la realtà, perché tanto la biografia di Marit quanto quella di “Longing For Sleep” sono un racconto, con dentro un racconto, che rivela al suo interno un altro racconto, con dentro un … in un loop di grande fascino in cui è cosa buona e giusta immergersi subito.
Che s’inizi da lei, un solo nome che intreccia varie definizioni che si fondono e s’ibridano magnificamente: Marit Ilison è fashion designer, ça va sans dire, ma anche artista multidisciplinare con predilezione per il gesto concettuale che attraversa ogni sua espressione creativa, abbia essa la forma della moda o quella del design, che sia performance musicale o teatrale, che sia un’installazione o un’esperienza sensoriale.
La regola fondamentale per Marit risiede infatti nell’offrire sensazioni tangibili, quelle che vanno oltre la pelle e toccano le emozioni così da essere serbate a lungo. Nella sua origine estone tanto quanto nella sua vocazione alle sensazioni da regalare risiede l’origine della collezione “Longing For Sleep”: ovvero quelli che sì son cappotti, ma la cui materia prima calda e rara appartiene a coperte sovietiche vintage e la cui essenza è legata al sogno, mentre il nome si allaccia alla letteratura di quelle terre fredde nel clima ma ricche nella cultura, ovvero al racconto di Anton Čechov del 1888 intitolato “La voglia di dormire”.
Coperte, per l’appunto: proprio quelle in cui noi tutti desideriamo rimanere accoccolati nelle fredde mattine invernali, quelle di cui non vogliamo sciogliere l’abbraccio mentre ci cullano i sogni, quelle in cui la stessa Mariti Ilison e chi come lei abita i luoghi immersi nei “kaamos”, un termine estone e finlandese che narra i lunghi mesi da novembre a gennaio dove la luce del giorno si fa rara e lascia spazio al buio, vorrebbe restare.
Ma non coperte qualsiasi: quelle che danno forma ai cappotti e giacconi asciutti nella forma ma ricchi nella sostanza e variopinti con saggezza sulla superficie risalgono all’Unione Sovietica degli anni ’70 e ’80, quando erano un oggetto posseduto da ogni famiglia, importante nel suo materiale (prima vello di cammello, poi lana d’agnello) tanto da diventar anche dono di nozze, e per questo, intessuto di memorie e nostalgia così da legarsi anche alla poetica del sentimento che Marit Ilison inserisce con cura in ogni sua opera. E il sogno? C’è, non abbiate timore: va ricercato all’interno dei revers dei cappotti, basta seguire la scia di bagliori dei cristalli Swarovski applicati a mano, quella stessa mano che confeziona i capospalla uno ad uno.
Silvia Scorcella [published on Webelieveinstyle]
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“Stiamo scomparendo, ci hanno rubato l’immaginario, dobbiamo ritrovare lo stupore, oltre l’apocalisse”: Matteo Meschiari dialoga con Simone Cerlini
Un fantasma si aggira per l’Europa. Un’entità mutaforma millenaria che oggi ha il volto dell’Annientamento, dell’Apocalisse, dell’Estinzione, sotto alla maschera del collasso climatico. Si è chiamata Tramonto dell’Occidente, Genocidio, si è mostrata, nuda, con l’annichilimento nucleare, ma in fin dei conti la conosciamo da sempre: la Dea con la Falce, nostra compagna Morte. L’opera d’arte da sempre ha che fare con la sua signora e la letteratura non sfugge a questo destino. Matteo Meschiari è un profeta della morte. La canta nelle forme in cui l’ha vista compiersi. La morte del paesaggio, la morte dei popoli, la morte dei saperi, degli imperi, delle culture, delle lingue. Come l’Angelo della Storia di Benjamin, lo sguardo rivolto al passato, ha avuto un’intuizione del futuro. Ha deciso di dare uno sguardo, Orfeo al contrario, e di sbirciare avanti. Ha visto ciò che non si può raccontare. La sua opera mette al centro l’Abisso. Senza paura di caderci dentro, sono andato a curiosare.
Mi permetto una piccola digressione. Per aggiungere senso a Matteo Meschiari e al suo romanzo, L’ora del mondo (Hacca, 2019), è importante gettare uno sguardo alle sue origini. Matteo è un emiliano d’Appennino e delle montagne parla, come hanno fatto autori meravigliosi prima di lui: Cavani, Pederiali, Maggiani, Crovi, Ferretti, oggi mi piace citare Sandro Campani. È importante ricordarlo perché chi non conosce l’Appennino non sa che quelle lande, soprattutto nel lembo di terra Tosco Emiliano, sono la culla dell’anarchia. Non so bene per quale ragione storica o geopolitica, ma lì ancora oggi unisce le persone una fortissima avversione per i poteri costituiti, per le autorità, per le verità condivise. Ai piedi del Cimone o del Cusna ti insegnano dalla culla a non dar nulla per scontato, a pensare con la tua testa, a non affidarti a nessun maestro e nessuna guida, a mettere tutto in discussione. A guardare il mondo dritto negli occhi e a darsi da sé le regole del proprio vivere. Tenete in considerazione questo assunto, quando leggete e ascoltate un emiliano, o un toscano, che puzza di montagna.
Ciao Matteo, vorrei andare subito al punto, con te, non ci rimane molto tempo. Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. L’essere umano è disposto ad aspettare fino a quando arriva il tempo dell’annientamento e dell’apocalisse. Sembra che ci avviciniamo alla soglia.
L’abbiamo superata. Ormai è troppo tardi. Ascoltami, non ci rimane che rafforzare l’immaginario per preparare i nostri figli a sopravvivere. L’immaginario è una facoltà cognitiva che l’evoluzione ha selezionato per anticipare il futuro. Per addestrarci a seguire le tracce lasciate dalle prede, per sperimentare le tecniche e le situazioni senza mettere a rischio la vita. È una facoltà che permette di razionalizzare il sogno, pianificare il domani. Le cose andranno molto molto male, voglio essere realista. Allora dobbiamo lavorare sull’immaginario attraverso gli strumenti che gli sono propri: ad esempio la letteratura, che ci può aiutare a stimolare e ad addestrare l’immaginario, a prefigurare condizioni estreme. Potenziare l’immaginario sarà una condizione essenziale per la sopravvivenza. L’umanità è sempre stata capace di affrontare momenti durissimi attraverso l’immaginario. Un immaginario assuefatto, stereotipato, atrofizzato è quello che ci rende meno reattivi di fronte al limite e alle difficoltà. Vivere immersi nell’anestesia è la condizione che prepara alla morte del singolo e della specie. Dobbiamo ribellarci all’imperialismo dell’anestesia, con l’unico obiettivo di facilitare la sopravvivenza.
Ma voglio fingere di essere ottimista. Se anche avessimo probabilità di continuare a esistere per ciò che siamo ora, ugualmente, esercitare l’immaginario da subito su degli scenari che sembrano iperbolici e distopici, ma che sono probabili, forse riusciamo a inventare strategie per intervenire. Per ridurre il danno forse siamo in tempo. Un esempio molto semplice. Ci sono due personaggi che hanno inventato un nuovo rubinetto con nebulizzatore capace di risparmiare il novanta per cento di acqua. Se non avessero immaginato un futuro senz’acqua non avrebbero inventato il rubinetto. C’è una capacità retroattiva nell’immaginare il futuro che può avere ricadute sul presente in maniera tale da aiutarci ad affrontare ciò che ci aspetta con maggiori strumenti e capacità. È esattamente questa la funzione cognitiva, evoluzionistica, dell’immaginario.
Bene, mi sembra un programma per una letteratura impegnata. O ancora di più, per assegnare un fine necessario a ogni creazione che ha impatto sull’immaginario. La storia però insegna che laddove una qualsiasi autorità ha deciso di assegnare un obiettivo o una intenzione alla letteratura, alla costruzione di senso, non abbiamo avuto grandi risultati. Della letteratura di epoca sovietica ci ricordiamo di Šalamov e di Grossman, che esprimevano tutt’altro rispetto a ciò che chiedeva il potere. La cultura dell’epoca fascista ha creato scrittori straordinari, penso a Bilenchi, ma che hanno espresso il loro talento nonostante la propaganda di regime. Ciò che chiedeva e voleva il Miniculpop non ce lo ricordiamo più, quella parte è scomparsa, si è esaurita, era una costruzione senza fondamenta. Com’è possibile la coesistenza di una letteratura che ha una intenzione encomiabile, rafforzare e preparare l’immaginario, rispetto al rischio di una letteratura inessenziale, etero diretta, non libera?
Conosci il progetto Tina?
No.
Male. Dovresti. Per fare il verso a Volodine, devo subito citare il mio “eteronimo”, Antonio Vena, che in realtà è un individuo reale. Con lui abbiamo inventato e condiviso un progetto. Abbiamo montato un blog nel giugno di quest’anno che si chiama “La Grande Estinzione” in cui vogliamo ragionare su due aspetti fondamentali. Il primo è che cosa fare della e con la letteratura nell’età dell’“Antropocene”. Cosa significa scrivere ed essere autori in un’epoca dove tutto sta cambiando. Poi cercare di capire come trasformare la società, quale società dobbiamo fondare perché la sopravvivenza nel futuro non sia un fatto esclusivo per pochi. Abbiamo montato un esperimento, che per ora, visto che non si tratta di una situazione dove ci sono soldi in giro, è inclusivo e lascia ampi margini di libertà. Abbiamo chiamato questo progetto Tina, che è l’acronimo di There is no alternative, lo slogan degli anni Ottanta di Margaret Tatcher con il quale sosteneva che non c’era alternativa al liberismo. Noi vogliamo ribaltare questo assunto per dire che non c’è alternativa se rimaniamo nello spazio di senso aperto dal liberismo. Abbiamo chiamato il progetto Tina per evocare un passato che vogliamo rovesciare, ma anche come tributo a una ragazzina indigena del Canada uccisa nel 2014, Tina Fontaine. Nel Canada ogni anno scompaiono donne, bambini e bambine nativi, rapiti e ammazzati: un vero e proprio genocidio etnicamente connotato. Una ragazzina che è esistita, che ha vissuto ed è morta a quindici anni e non ha più una voce. In punta di piedi ci piaceva pensare che vogliamo ridare voce a chi non ce l’ha. La prospettiva ce l’ha indicata Walter Benjamin quando diceva in Angelus Novus che l’angelo della storia guarda all’indietro le rovine del passato voltando le spalle al futuro. L’Apocalisse non dobbiamo necessariamente immaginarla come qualcosa che ci sta davanti. Ci sono tante retro-apocalissi che l’umanità ha vissuto nel suo passato. Con un esercizio di reminescenza nell’immaginario, vogliamo recuperare tutto ciò che nel passato dell’umanità ci può far capire meglio il presente. Quindi più che fare giochi di proiezione sul futuro vogliamo guardare dove l’umanità ha vissuto reali apocalissi e ha rischiato o vissuto l’estinzione. Se non l’intera umanità certamente gruppi umani, popolazioni, culture e individui, in una qualche parte della terra, che avevano corpo occhi pelle sogni, scomparsi perché è accaduto qualcosa di catastrofico che non sono stati capaci di prevenire o affrontare. Abbiamo stilato una lista di 100 eventi che costellano la storia delle estinzioni biologiche e umane e abbiamo chiesto agli utenti della rete di re-immaginare queste situazioni, dando corpo e sostanza alle persone e alle storie, per costruire dei microromanzi tra le 1000 e le 3000 battute. Abbiamo avuto una risposta stupefacente. In due giorni i temi sono stati subito coperti, non da scrittori, necessariamente, ma da persone che avevano voglia di dare il loro contributo, di mettere in gioco il loro immaginario. Il 15 ottobre scorso abbiamo chiuso la raccolta e oggi abbiamo i testi. Li stiamo guardando e studiando, siamo stupiti dal livello, sì, se vogliamo, anche letterario. È un progetto che espressamente mantiene una dimensione collettiva, hanno partecipato più di 70 “scriventi”. Abbiamo lasciato la massima libertà e quello che abbiamo raccolto è secondo noi un modo per restaurare l’immaginario e al tempo stesso fondarne uno nuovo, lasciando completa libertà di proposta e contributo. Tina ci ha permesso di sviluppare una riflessione che ci porta a ripensare la letteratura partendo dalla base.
Bell’esperimento, concordo, ma cosa c’entra con il rischio di imprigionare la creazione con la scusa dell’impegno? Che legame c’è tra Tina e il rischio di una letteratura schiava e superflua? D’altra parte anche il progetto di cui parli impone un contenuto alla creazione.
Noi oggi pensiamo la letteratura partendo dalle biblioteche, dal mondo del libro, dall’editoria, dal canone, dal rispetto di un insieme di regole. Il mercato editoriale, l’industria culturale condiziona il modo di concepire la funzione stessa della letteratura. Se però noi iniziamo ad ascoltare anche le persone che non hanno la possibilità e neppure la volontà di imporsi in quel mercato, le persone che non hanno voce all’interno del sistema dell’industria culturale, è possibile lavorare sull’immaginario dalla base. Con il progetto Tina stiamo cercando di fare proprio questo. Ritrovare lo stupore davanti a idee, scenari, rivelazioni che possono venire dal buio che sta oltre o al di qua del nostro sguardo. Si tratta di riaprire i cancelli, estremamente chiusi. Siamo dentro a una bolla e non ce ne accorgiamo. Siamo sì e no tremila in tutta Italia che facciamo gli stessi discorsi e ci parliamo addosso. Ci guardiamo, ci spiamo su Facebook, guardiamo le uscite editoriali, siamo inseriti all’interno di un micromondo chiuso e autoreferenziale. Là fuori invece c’è un grande mondo che immagina. Fatto da persone che premono ai cancelli. Sono loro che possono portare energia nuova e trovare piste nuove per andare in direzioni diverse.
A parlar male del liberismo con me cadi male. Parli di aprire i cancelli alla libertà di espressione in uno spazio pubblico, poi però ci vogliono anche quelli che quelle espressioni le fruiscano, le leggano. Magari talmente tanto attratte da quelle voci che sono addirittura disposte a pagare per ascoltarle. L’immaginario si sostanzia in scelte di quella che tu hai chiamato gente, che sono i lettori, i consumatori di prodotti culturali. Ciò che il pubblico sceglie è comunque una indicazione precisa, una certa tipologia di prodotto e di storie. Saranno anche decadenti epigoni del romanzo borghese, ma che qualche bisogno o desiderio devono pur soddisfare se hanno quel seguito. In realtà la cartina di tornasole che io ho rispetto all’immaginario è un’ altra rispetto a quello che presumi tu.
Sì, bisogna vedere che cosa intendiamo come immaginario. Anche tu devi convenire che c’è stata l’imposizione di un canone, soprattutto da parte dell’editoria italiana, e dai tecnici dell’editoria, che ti dicono non solo che devi scrivere in un certo modo, ma anche che devi scrivere certe cose. Quando questo accade siamo di fronte a un immaginario artefatto, pilotato. Però non esiste solo questo. Quando parlo di immaginario parlo anche di altre possibilità di creazione, dalle serie tv ai fumetti, ai graphic novel, ai murales, ai blog, alle fan fiction, e quello che pensa la gente nel proprio quotidiano anche quando non lo esprime. Persone che non leggono, disinteressati a Scurati, Missiroli o Fabio Volo, lontanissimi dai libri e dai prodotti culturali. Quella produzione non è interessante né per loro né per noi. Esiste una costruzione collettiva molto più profonda e se andiamo a verificarla senza giudicare, con sguardo veramente antropologico, troviamo delle sorprese, un mondo vivo, molto meno piatto e noioso di quanto pensiamo.
Penso che tutto sommato la letteratura, anche la letteratura essenziale, sia ciò che i lettori considerano essere letteratura essenziale, senza avere una definizione a priori che cala dall’alto per dare forma al suo oggetto. La proposta che tu fai può essere una letteratura incrociata all’antropologia e forse anche alla storia, come la intendeva Carlo Ginzburg. Può essere una proposta tra le altre. Poi, se quell’offerta è convincente le persone si sposteranno autonomamente, per scelta libera, senza bisogno di crociate, imposizioni o pogrom della cattiva letteratura.
Quello che vedo, che sta succedendo negli ultimi mesi, è che io prima mi trovavo in un mondo dove l’individualismo neoliberista narcisistico dello scrittore medio…
E dai con questo giudizio surrettizio, per te neoliberista è un sinonimo di malvagio e negativo.
Sì, lo è. Comunque, riformulo. Lo scrittore medio si occupava solo di pubblicare il proprio romanzo, di dialogare con una casa editrice, di arrivare alla visibilità personale, di conservare il privilegio, di procurarsi il proprio spazio, come se fosse un posto di lavoro fisso all’interno del mondo del libro. Quest’atteggiamento si sta lentamente incrinando. Ultimamente inizio a vedere piccole comunità estemporanee che stanche di questo modello stanno costruendo qualcosa di diverso. Uno spazio di condivisione e confronto non solo di idee ma anche di immagini, di storie, di visioni. Stiamo solo cercando i contenitori, perché come hai visto con Tina, le scatole si riempiono da sole, sono la risposta a un bisogno sentito. Perché siamo stanchi da tempo, anche se non abbiamo il coraggio di costruire una specie di sindacato di lettori e scrittori per reagire a questo stato di cose. Un senso di stanchezza nei confronti di un modo di fare letteratura, del modello dell’autore vanaglorioso che se ne va a collezionare premi. Poi l’altro elemento è la scelta dei contenuti, perché se continuiamo a fare romanzi di corna e vecchi o preti che toccano il culo alle ragazze o ai bambini, non andiamo molto lontano, anche se magari questi libri continuano a vendere. Ma sempre meno, sempre meno. C’è anche un altro tipo di lettori e ascoltatori, non per forza ipercolti, che però hanno una forte volontà di reagire. Percepisco una microcomunità temporanea che si è creata con queste istanze condivise.
Mi sembra che tu confonda per fenomeno culturale, forse anzi esistenziale o peggio ontologico, quello che a me sembra una strategia commerciale.
Massì c’è sicuramente anche questo, la capacità dell’industria di mercificare ogni esperienza nuova. Una soluzione è sterilizzare la portata narcisistica dell’esprimersi. Anche su Facebook mi faccio bello con i contenuti che posto. Trovo lettori e un pubblico. Ho i miei minuti di celebrità. Benissimo. Ma non sto parlando di questo. È possibile accedere a un immaginario profondo. Ecco, consideriamo l’esperienza di Tina come un esperimento. Rispetto al rischio che dici il progetto è blindato. Le condizioni sperimentali sono l’anonimato, l’azzeramento del rischio narcisistico. Tutti coloro che collaborano sanno che il loro contributo non sarà etichettato con il loro nome e cognome. Tina produce un’opera collettiva. Avremo semplicemente una lista di chi ha contribuito in ordine alfabetico alla fine del libro. Significa che si sono già autoselezionate persone non interessate ad apparire e ad esprimersi, o almeno, non voglio sembrare ingenuo, non interessate esclusivamente o principalmente a esprimere sé stessi o a esistere in uno spazio pubblico. Persone che si chiamano fuori rispetto al narcisismo e all’arrivismo che esiste in questo ambiente, dell’autore monade. Non è una cosa nuova, la narrazione come contributo di una comunità ha radici lontanissime, pensiamo ai grandi libri dell’epoca antica, dalla Bibbia all’Iliade e all’Odissea, al Enûma Elish. Andiamo verso l’ignoto, dando le spalle al futuro, guardando al passato e allontanandoci da esso. O anche, è dal passato più lontano che possiamo trovare gli strumenti cognitivi e letterari per affrontare il futuro.
E dall’immaginario che prefigura il futuro.
E dall’immaginario.
Sì va bene, allora guardiamo al passato, ma senza andare troppo in là, al passato recente. In tutta onestà mi sembra retorico parlare di questa novità nell’immaginario che prefigura l’apocalisse perché penso che non sia affatto un fenomeno nuovo. Non serve scomodare il millenarismo o i movimenti chiliastici di tutte le epoche e di molte culture. Penso agli anni Sessanta e Settanta e all’apocalisse atomica. Che ha prodotto eccome impatto sull’immaginario. In un modo del tutto simile a quanto sta accadendo oggi. Fenomeni di massa, giovani in piazza, accuse di furto del futuro, avvicinamento a una spiritualità di maniera, scenari apocalittici da Mad Max o The day after. Scenari di sopravvivenza dopo la catastrofe nucleare. Anche il guardare alla cultura di altri popoli non è un fatto nuovo. In quell’epoca era la ricerca di una alternativa non liberista e non sovietica, lontana cioè da quei corni del dilemma che conducevano entrambi all’annientamento. Mi viene in mente quell’opera geniale e decadente, che credo sia molto vicina a quello che immagini diventi l’ossessione dell’apocalisse nella cultura pop che è Watchman, la graphic Novel di Alan Moore.
Stai facendo un torto alla tua intelligenza se non vedi la differenza. Sono cambiate le premesse in modo radicale. Quel tipo di immaginario era una risposta alla guerra fredda, alla catastrofe atomica. Ma stai attento: quel rischio era generato da un manipolo di pazzi che come nel Dott. Stranamore se ne stavano in un bunker antiatomico a decidere i destini del mondo con il dito sopra al bottone fatale e che in una follia momentanea potevano fare fuori l’umanità. Fuor di metafora a una élite di potere, all’establishment politico e militare. Il rischio non ci coinvolgeva. C’era una completa deresponsabilizzazione della gente. I cattivi erano “loro”. Quello che accade oggi, invece, e che scatena così tanto i contrasti, il dibattito, le polemiche e le prese di posizione, in definitiva, la vitalità nuova di questa consapevolezza, è che siamo tutti noi i primi colpevoli di questa situazione. Magari ci può essere come reazione una negazione, una difesa inconscia di chi non si vuole sentire responsabile o vuole scongiurare la paura di un futuro fosco. Ma quel che accade è che c’è un’idea di responsabilità diffusa che può essere un terreno fertile per riscoprire alternative soprattutto attraverso soluzioni comunitarie.
Quindi non è vero che ci stanno rubando il futuro, ce lo stiamo rubando da soli.
Sì sono d’accordo. Un lavoro da portare a termine sull’immaginario è proprio l’interiorizzazione della responsabilità. Certamente c’è ancora molto da fare.
Responsabilità è una parola che, da padri, amiamo molto. Non vorrei metterti in bocca parole e pensieri non tuoi, ma mi sembra che anche tu condividi una posizione critica nei confronti della retorica sulla decrescita felice. Mi sembra di intuire, costante, nella tua opera, in particolare in Artico Nero, una presa di posizione forte dietro ad alternative al neoliberismo che sono a tutti gli effetti figlie di una cultura classista e neocolonialista. Per mascherare un disagio che ha altre cause ed altre ragioni ci si schiera contro a un modello di sviluppo, proponendo soluzioni che costringono intere parti di mondo a dire addio alla speranza di un miglioramento, alla possibilità di accedere alla società del benessere.
Sì, hai interpretato correttamente il mio pensiero, nel senso che Serge Latouche mi sembra una persona intelligente e mi sta anche umanamente simpatico, tuttavia credo che il suo discorso sia impraticabile, tanto quanto un’altra soluzione che si riassume in una parola in voga che è sostenibilità. Si tratta di una prospettiva non solo evidentemente antropocentrica, ma di classe, che riguarda quello che può essere un tipo di intervento dell’europeo bianco che si confronta in una dinamica di lavaggio o meglio di doccia della coscienza e non con proposte politiche davvero efficaci. Il fatto che il re sia nudo lo ha già detto Zizek quando ci ricorda che andare in bicicletta e fare la differenziata non salverà il pianeta.
Non solo, credo anche che fermare la crescita significhi impedire alle comunità che hanno più difficoltà di accedere a ciò che riteniamo tra gli elementi basilari per la sopravvivenza e la dignità dell’uomo. La mobilità, l’energia elettrica, la disponibilità di acqua.
Non solo, ma queste nuove mitologie, non sto parlando di Latouche, ma soprattutto della variante americana, sono molto californiane nella prospettiva: è l’idea che si salverà solo una classe molto limitata. Non è un caso che a questo tipo di progetto, di ingegneria sociale, si stia dando un sostrato nell’immaginario collettivo attraverso la narrativa zombie. Lo Zombie è il proletario, il povero che posso ammazzare, sterminare a mitraglia, che posso infischiarmene se muore. Invece i sopravviventi, coloro che ce la fanno, si chiudono in una ecofortezza che lascia fuori l’agonia e la miseria degli altri.
Mi sembra il progetto politico di una celebre società di comunicazione di Milano…
Questo tipo di retorica viene recepita, e passa nell’immaginario di tutti attraverso letteratura, cinema e videogame. È in atto una guerra per accaparrarsi il controllo dell’immaginario, che per ora è combattuta da una parte sola. Stanno vincendo visioni non inclusive, è sotto gli occhi di tutti: l’idea che se ne salveranno soltanto alcuni. La vera sfida è riflettere e lavorare per individuare una strategia utile per salvarci tutti.
Lavorare sull’immaginario, poi, possiamo essere d’accordo o meno su come farlo, può portare a soluzioni. In questo discorso c’è un disegno di lavoro, di sforzo, di impegno, per far qualcosa di proattivo. Non tirarsi indietro e protestare, ma agire sul mondo.
È un discorso delicato. Provo una spontanea simpatia in effetti per i movimenti di strada che comunque hanno un effetto moltiplicatore: stanno sollevando il problema e creando un volano nella percezione pubblica del fenomeno, al netto dei paternalismi che vorrebbero cucire la bocca alla generazione dei più giovani. Però c’è anche da dire che in questo tipo di movimento c’è la necessità di costruire un immaginario delle soluzioni, non soltanto un immaginario della denuncia.
E L’ora del mondo può contribuire a costruire qualcosa di nuovo.
L’ora del mondo è un libro strano perché all’inizio è stato preso come il tentativo di costruire una mitologia appeninica, una nuova mitologia dell’Appennino o qualcosa di fiabesco e bucolico. In realtà L’ora del mondo funziona come una fotografia di Luigi Ghirri. Guardi una sua fotografia e quella ti rimanda una sensazione malinconica, tranquilla, crepuscolare, non aggressiva. Ma Ghirri stava preparando visioni apocalittiche. Pensa a queste spiagge fuori stagione, con le giostre colorate, le altalene nell’atmosfera invernale della riviera romagnola. Non ci sono bambini, non c’è nessuno. Vediamo i resti di una civiltà scomparsa. Pensa ai Campanili e alle Chiese. Alla linea brumosa della pianura. Si tratta della realtà senza l’uomo. Una realtà post-umana. Volevo cercare di intercettare questa sensazione. In ossequio anche all’Appennino. Ghirri mi ha dato lo sguardo per interpretare la nostra terra, come Gino Covili. La sua forza è questa: costruisce una sottile lastra di ghiaccio che sembra innocua, ma sotto c’è l’abisso. L’ora del mondo è un libro apocalittico. Parla della fine del mondo. L’ora del titolo è quella in cui saremo chiamati a rendere conto di tutto quello che abbiamo fatto, non come singoli ma come specie. Se vogliamo comunicare il rischio dell’annientamento nel romanzo non dobbiamo per forza costruire libri con catastrofi dentro. Si può concepire una rappresentazione dell’Apocalisse che attraverso una ricostruzione del cosmo faccia intendere che siamo vicini al punto di non ritorno.
Simone Cerlini
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Il ranocchio antisistema
Tutto ciò che crea una mitologia mi affascina. E perciò sono anche un amante dei cartoni animati.
Veri gioielli di "educazione sentimentale" (quella che era ritenuta l'essenza del romanzo) condensati in poco più di un'ora, anche i cartoni sono oggetto di una loro letteratura critico-filosofica su cui si potrebbe discettare per giorni.
C'è chi sostiene, per esempio, che l'impianto del cartone "classico" alla Walt Disney si basi su facoltà eminentemente adulte e poco sviluppate nei bambini, quali il gusto per l'intreccio e il senso morale, e che i migliori cartoni siano invece quelli che ci immergono in un mondo di associazioni simboliche, senza badare troppo alla logica razionale, come nel caso di "Alice" o di "Fantasia". C'è chi apprezza l'affievolirsi del confine tra il bene e il male nell'opera di Miyazaki, e chi ammira i sentimenti puri e viscerali che trasmetteva l'animazione sovietica.
Restando nel perimetro dei cartoni "classici", però, mi incuriosisce che venga sempre trascurato un titolo dei tardi anni 2000: La principessa e il ranocchio. Pochi lo conoscono e ancora meno ne parlano. Il che ha le sue ragioni, ma è anche un vero peccato.
La principessa e il ranocchio non ha avuto grande fortuna perché sconta una certa mancanza di epos. L'atmosfera è sempre leggera e spensierata, l'ambientazione è un sobborgo afroamericano di New Orleans, e la colonna sonora, consacrata al blues, concede poco al sinfonismo tardoromantico che dilaga in molti altri cartoni.
A mio parere, però, c'è anche un problema ideologico per cui questo sventurato ranocchio è stato nascosto alla svelta sotto il tappeto. E cioè che questo ranocchio dà a grandi e piccini l'insegnamento più sovversivo, più controcorrente, più imbarazzante e più politicamente scorretto che si possa immaginare.
Insegnamento riassumibile in una frase: "Non conta quello che vuoi, ma quello di cui hai bisogno".
Un gracidìo che in 11 parole fa tremare uno dei pilastri della pedagogia consumista e del delirio di onnipotenza in cui ci ha cresciuti l'Occidente postbellico.
Disgiungere "ciò che vuoi" da "ciò di cui hai bisogno" è un'operazione eretica, in una cultura dominata da una vera dittatura della voglia. Una cultura dove (complici 70 anni di bombardamento pubblicitario) la regola è: "Ciò che voglio è giusto e mi è dovuto, sempre e comunque".
Tra l'altro, quelle 11 parole suonano ancora più scandalose nel contesto del cartone. Tiana, la protagonista, è una povera orfana di guerra, che fin da ragazzina si sta massacrando di lavoro e sta mettendo da parte i risparmi per aprire il ristorante che sognava suo padre.
Per metà del cartone Tiana procede spedita come un carrarmato verso quest'unico obiettivo. Poi però incontra il ranocchio guastafeste, e le viene un dubbio atroce: ma non è che la cosa davvero importante, nella vita, sono gli affetti?
A quel punto la trama, com'è ovvio, fa in modo di metterla di fronte a una scelta fra le due dimensioni: in sostanza, fra il successo e l'amore.
Ce n'è abbastanza per far rizzare i capelli in testa alle femministe di ogni contrada. "Ma come!" gridano, "Per una volta che un cartone era partito bene, con una ragazza sola e indipendente che se ne infischiava degli uomini e si dedicava anima e corpo alla sua PMI...la fate ritornare al focolare domestico???" "Ma che è 'sta porcheria?" "Walt Disney fallocrate nazista!"
In realtà, soprattutto per un bambino, è scontato che l'affetto sia la cosa più indispensabile, di cui si sente più la mancanza quando non c'è.
L'eroina del cartone, poi, non è propriamente un'assetata di profitto: il suo impegno lavorativo, in fondo, è un modo per sentire ancora vicino il padre che non c'è più.
Sarebbe paradossale se la sua voglia di successo diventasse una colata d'intonaco che copre il suo bisogno d'affetto, visto che è anche da quel bisogno d'affetto che è nata la sua voglia di successo.
(Non dimentichiamo, peraltro, che la stessa sete di profitto può scaturire da bisogni affettivi, come l'autostima o la sicurezza).
Tutto quindi ci lascia pensare che personaggi dal carattere diverso avrebbero dovuto riscoprire bisogni diversi, e anzi questo è proprio il caso del principe-ranocchio, che prima di incontrare Tiana era quel che l'Accademia della Crusca definisce "un cazzone".
Ma la distinzione tra voglia e bisogno non ci torna utile solo in occasione delle grandi scelte esistenziali, come quella di Tiana. Ci capita fra i piedi di continuo. Per citare due esempi di scuola:
1) quando devi scegliere se rimproverare un amico,
2) quando devi scegliere se cominciare un flirt.
Prendiamo il primo caso. Quanta voglia hai di litigare col tuo amico, e quanta voglia ha lui di litigare con te? Zero, presumibilmente. Eppure lui ha bisogno che tu lo faccia. Perciò ti tocca inghiottire, e tenere ben distinte le vostre voglie dai vostri bisogni.
Eppure, nella nostra cultura, il bisogno fa paura. Ci sembra, in qualche modo, illiberale e antidemocratico, poiché prescinde dal parere del diretto interessato.
La voglia si percepisce con immediatezza, la si può isolare, la si può esprimere, in termini heideggeriani è più sotto-mano e quindi la sentiamo "più nostra" rispetto al bisogno. Il bisogno invece è qualcosa di più nascosto e sfuggente, difficile da cogliere, che spesso emerge solo col tempo, di cui a volte non ci rendiamo conto per mesi, per anni, per una vita intera. Non vogliamo ammettere che abbiamo un bisogno, non vogliamo scoprirlo, non vogliamo vederlo. E la conseguenza inevitabile è che a capire quali siano i nostri bisogni sono quasi sempre gli altri.
Delle mie voglie io sono il principale conoscitore e l'unico controllore, mentre dei miei bisogni spesso non sono nemmeno consapevole. Le mie voglie mi danno l'impressione di essere indipendente e padrone di me stesso, mentre i miei bisogni rivelano che senza altri al di fuori di me non sono nessuno e non posso nulla.
Ciò nonostante, se anche soddisfacessimo tutte le voglie possibili, ma non trovassimo una risposta ai nostri bisogni, sarebbe fatica sprecata.
Il gracidìo del ranocchio, per quanto irritante, dovrebbe entrare prima o poi nelle nostre orecchie tecno-individualiste. O continueremo ad accanirci sulla superficie dell'essere umano, abbandonando la sua parte più profonda.
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«Vede, a me non piace né comandare né essere comandato. A me piace lavorare da solo, così è come se sotto al lavoro finito ci mettessi la mia firma; ma lei capisce bene che un lavoro come quello non era per un uomo solo. Così ci siamo dati da fare: dopo quella gran tormenta che le ho raccontato era tornata un po' di calma e non si andava tanto male, ma a colpi veniva giù la nebbia. Per capire ognuno che tipo era ci ho messo un po' di tempo, perché non siamo mica fatti tutti uguali: specie poi coi forestieri. L'ortodosso era forte come un toro. Aveva la barba fin sotto gli occhi e i capelli lunghi fin qui, però lavorava preciso e si vedeva subito che era del mestiere. Solo che non bisognava interromperlo, se no perdeva il filo, cascava dalle nuvole e doveva ricominciare tutto dal principio. Di Staso è venuto fuori che era figlio di un barese e di una tedesca, e difatti si vedeva che era un po' incrociato; quando parlava facevo più fatica a capirlo che se fosse stato un americano d'America, ma per fortuna parlava poco. Era uno di quelli che dicono sempre di sì e poi fanno alla sua maniera: insomma bisognava starci attenti, e il suo guaio era che pativa il freddo, così tutti i momenti si fermava, si metteva a ballare magari anche in cima al traliccio, che mi faceva venire la pelle di gallina, e si metteva le mani sotto le ascelle. Il pellerossa era una sagoma: l'ingegnere mi ha raccontato che era di una tribù di cacciatori, e che invece di stare nella loro riserva a fare tutti quei gesti per i turisti, avevano accettato in blocco di trasferirsi nelle città per fare la pulizia delle facciate dei grattacieli; lui aveva ventidue anni, ma quel mestiere lo facevano già suo padre e suo nonno. Non è che sia la stessa cosa, per fare il montatore ci va un po' più di cervello, ma lui cervello ne aveva.
Però aveva delle abitudini strane, non guardava mai negli occhi, non muoveva mai la faccia e sembrava tutto d'un pezzo, anche se poi sul montaggio era svelto come un gatto. Anche lui parlava poco: era grazioso come il mal di pancia, e a fargli osservazione rispondeva; dava anche dei nomi ma per fortuna solo nel dialetto della sua tribù, così si poteva far finta di non capire e non nascevano questioni. Mi resta da dire del regolare, ma quello ho da capirlo ancora adesso. Era proprio un po' intiero, ci metteva tempo a capire le cose, ma aveva volontà e stava attento: perché lo sapeva, che non era tanto furbo, e cercava di farsi forza e di non sbagliare, e difatti in proporzione sbagliava abbastanza poco, appunto, non capivo come facesse a sbagliare così poco. Mi faceva pena perché gli altri gli ridevano dietro, e mi faceva tenerezza come un bambino, anche se aveva quasi quarant'anni e non era tanto bello da vedere. Sa, il vantaggio del nostro lavoro è che c'è posto anche per gente come quella, e che sul lavoro imparano quelle cose che non hanno imparato a scuola; solo che con loro ci va un po' più di pazienza.»
Primo Levi, La chiave a stella, Einaudi (Supercoralli Nuova serie); prima edizione 1978.
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“ «Chi sono i Padri Ignoti e che cosa vogliono?» attaccò Maksim. Ci fu un brusio generale, evidentemente non se l'aspettavano. «I Padri Ignoti» rispose il Dottore «sono un gruppo anonimo di abilissimi intriganti, quel che resta del partito dei golpisti dopo una lotta ventennale per il potere che ha visto sfidarsi militari, politici e finanzieri. Hanno due scopi, uno principale, l'altro fondamentale. Quello principale è mantenere il potere. Quello fondamentale è trarre dal potere la massima soddisfazione. Tra di loro ci sono anche persone non cattive a cui piace credersi benefattori del popolo, ma la maggioranza è composta da arraffoni, sibariti, sadici, tutti egualmente avidi di potere... Le basta?». «No» disse Maksim. «Lei mi ha spiegato semplicemente che si tratta di tiranni. Questo lo sospettavo anch'io... Ma il loro programma economico? La loro ideologia? La base su cui poggiano?». Tutti tornarono a scambiarsi un'occhiata. Tagliaboschi fissava Maksim a bocca aperta. «Il programma economico...» rispose il Dottore. «Lei pretende troppo da noi. Noi siamo più per la pratica che per la teoria... Ma quello su cui poggiano glielo posso dire. Sulle baionette. Sull'ignoranza. Sulla stanchezza del Paese. Una società più giusta non la costruiranno, non ci pensano nemmeno... E non hanno alcun programma economico, non hanno niente, a parte le baionette, e non vogliono nulla, eccetto il potere... Per noi conta soltanto che ci vogliano annientare. In realtà, lottiamo per la nostra vita...». E si mise a caricare la pipa, irritato. «Non volevo offendere nessuno» disse Maksim. «Volevo semplicemente capire. La tirannia, l'avidità di potere... di per sé significano poco». Avrebbe illustrato volentieri al Dottore i fondamenti della teoria della consequenzialità storica, ma non gli bastavano le parole. “
Arkadij e Boris Strugackij, L'isola abitata, con una postfazione di Boris Strugackij, traduzione e saggio critico di Valentina Parisi, Carbonio editore (collana Cielo stellato n° 42), 2021¹; pp. 140-141.
[1ª Edizione originale: Обитаемый остров, versione censurata sulla rivista letteraria sovietica Neva nel 1969, numeri 3, 4 e 5]
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Io e Senzanome andammo a bere il caffè al «Kosmos», dove incontrammo Vadim, un conoscente di Senzanome. Quando Vadim se ne andò, Senzanome mi raccontò la sua storia. Senzanome lavorava già all'Istituto e teneva un seminario per gli studenti del secondo anno. Tra di loro c'era anche questo Vadim. Un ragazzo, pareva, abbastanza dotato. Interessato. Vadim divenne un estimatore di Senzanome (che aveva già successo quand'era ancora aspirante) ed entrò a far parte della sua cerchia. Un bel giorno Vadim disse a Senzanome di essere stato convocato al KGB (allora MGB), dove gli avevano proposto di diventare loro informatore. E adesso era venuto a chiedergli consiglio su cosa fare. Senzanome capì subito che Vadim aveva già acconsentito, e si era confidato con lui o in un accesso di sentimento, o per qualche ordine segreto, e gli consigliò di accettare. Tanto più, pensava, che in tal modo avrebbe avuto un suo uomo tra gli agenti. Passarono gli anni. Vadim non manifestò doti particolari. Ma un po' di carriera la fece: sostenne la tesi, ebbe dei titoli. Si recava regolarmente all'estero. Da poco Senzanome per caso aveva scoperto che controllava tutta la sua attività per conto del KGB. Vadim era diventato membro permanente di varie organizzazioni internazionali, aveva pubblicato una serie di libri modestissimi ma all'apparenza moderni. Insomma, era diventato una figura di rispetto e influente. Chi era? Un collaboratore del KGB? Non del tutto. Era considerato un eminente scienziato. All'estero lo conoscevano. E lo accoglievano. Scienziato? Assolutamente no. Aveva imparato le lingue. Sapeva compilare e gettare polvere negli occhi. È un fenomeno abbastanza tipico per la nostra società. Un funzionario di partito, dello stato, del KGB, ecc. (il che di solito è la stessa cosa) si spaccia per scienziato, scrittore, pittore, compositore, ecc. E come scienziato, scrittore, ecc., viene formato e a volte ottiene addirittura un notevole successo in questi campi. E tuttavia non è uno scienziato, scrittore, ecc., ma un funzionario di partito, dello stato, ecc. E questo fatto ha le sue conseguenze. Uno solo di loro è capace di distruggere lo spirito creativo in un intero campo della cultura, perché egli tocca i più sottili e i più intimi fili della creazione. Senzanome aveva analizzato e tirato le somme dell'attività di Vadim nel corso di molti anni ed era rimasto terrorizzato dalle dimensioni della sua funesta influenza. E soprattutto non lo si può accusare di nulla. Formalmente è puro come una verginella. Senzanome aveva comunicato a tutti i colleghi stranieri che Vadim era un collaboratore del KGB. Nessun effetto. Per loro laggiù pareva fosse un fatto senza alcuna importanza.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 387-88.
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“«Non t'hanno insegnato a ricordare il nome dei tuoi sette antenati?» chiese il bambino. «No. A che mi servirebbe? Non li so, e basta. Vivo bene lo stesso». «Nonno dice che se gli uomini non ricorderanno gli avi, si rovineranno». «Chi? Gli uomini?». «Sì». «E perché?». «Nonno dice che allora nessuno si vergognerà di fare del male, perché né i figli, né i figli dei figli si ricorderanno di lui. E nessuno farà niente di buono perché egualmente i figli non verranno a saperlo». «Un bel tipo, tuo nonno! — esclamò il militare sinceramente stupito. — Un nonno interessante. Soltanto, non fa che metterti in capo un mucchio di sciocchezze. E tu hai un capoccione... e certe orecchie che sembrano i nostri radar, al poligono. Tu però non dargli ascolto. Noi marciamo verso il comunismo, voliamo nel cosmo, e lui cosa t'insegna? Dovrebbe venir da noi al corso d'istruzione politica; lì sì che gl'insegneremmo, in un batter d'occhio. Quando sarai grande, e avrai finito le scuole, vientene via, lascia tuo nonno. È un uomo ignorante, senza cultura». «No, io non lascerò mai il nonno ribatté il bambino. — Lui è buono». «Dici così adesso. Poi capirai».“
Čyngiz Ajtmatov, Il battello bianco, a cura di Gigliola Venturi, Pordenone, Edizioni Studio Tesi (collana Il flauto magico, n° 21), 1991; p. 108.
[ 1ª ed. originale sovietica: Белый пароход, 1970 ]
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È necessario qualcuno su cui usare la violenza, capisce?! È necessario ad ogni costo. E tutti gli anni passati sono trascorsi alla tormentosa ricerca di qualcuno su cui usare la violenza. Un continuo fallimento. Un po' di fortuna ci fu con l'Ungheria, la Polonia, la Cecoslovacchia. Poi con i bonzi che si bruciavano, i terroristi, i dissidenti, i pittori, i georgiani, gli ucraini nazionalisti ecc. Ma era una goccia nel mare. Non c'erano le dimensioni, la portata dell'intero stato. Non c'è un principio unificante. Ma qualcuno su cui usare la violenza è necessario come un minaccioso nemico interno. Perché? È semplice: rivolgergli contro la rabbia della popolazione, venutasi accumulando in grandi quantità (giri un po' per Mosca, vedrà di quanta rabbia è carico il popolo), giustificare la propria posizione e le proprie azioni, rovesciargli addosso le conseguenze della propria stupidità, minaccia per tutti gli altri, ebbrezza del potere per una massa di persone (si dà realizzazione all'istinto del potere) , ecc. Le conclusioni? Anche le conclusioni sono evidenti: c'è un unico mezzo contro la violenza, la resistenza, la fermezza degli uomini nell'opporsi. Ma anche questo è un fenomeno individuale.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 264-65
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На уборке капусты. 1984. Бурин Л.Н.
At cabbage harvesting. 1984. By L. Burin.
“-Sono corse voci che da voi laggiù c’è stato uno sciopero. -Ah, sciocchezze. Dove siamo noi non è Mosca. Chi ci conosce? L'hanno soffocato in un batter d'occhio. E nessuna traccia. Solo voci. E le voci girano, girano, e poi si disperdono. Ma anche per le voci mettiamo dentro. Calunnie, fratello mio! Così è la vita! -Com'è possibile che ammetti che gli scioperi sono necessari, e poi prendi provvedimenti perché non ce ne siano? -Chiedimi qualcosa di più difficile. Da noi anche quelli che scioperano capiscono che bisogna soffocarli. Altrimenti non ci sarà proprio più niente da mangiare.“
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; p. 397
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- In un dopolavoro fu organizzata una conferenza -disse- sul tema «Il partito e il popolo». Non ci andò nessuno. Cosa si fa? Lo chiesero ad Abramovič. Ah, disse Abramovič, è una sciocchezza. Mettete fuori questo annuncio: si terrà una conferenza sul tema «I tre aspetti dell'amore». E così fecero. La gente gremiva la sala. Esistono tre tipi di amore, cominciò la conferenza Abramovič. Il primo aspetto è l'amore omosessuale. E ciò non è bene. E non vale la pena parlarne. Il secondo aspetto è l'amore tra due rappresentanti dei diversi sessi, che voi conoscete bene. Così che nemmeno di questo vale la pena parlare. Resta il terzo aspetto dell'amore: l'amore del popolo verso il partito. Ed è appunto di questo terzo aspetto dell'amore che oggi tratteremo. Tutti si misero a ridere, persino la mia suocera superortodossa. Ma io mi sentii male.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 188-89
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Il modo comunista di vita è comodo per un'enorme parte della popolazione del paese. Conta quanti ministri e viceministri ci sono, quanti direttori di centri direttivi e di organizzazioni, responsabili, segretari di comitati regionali e provinciali, accademici, scrittori, pittori, ufficiali e generali, ecc. ecc., fino ai poliziotti, ai dirigenti di settore, delle cattedre, delle amministrazioni dei condomini, dei depositi, dei negozi, ecc. ecc. Questo sistema è il loro sistema. Un lavoro relativamente facile, le esigenze minime sono soddisfatte quasi per tutti, e una massa notevole di popolazione addirittura vive molto bene. Per il momento questo sistema soddisfa la stragrande maggioranza della popolazione. Non in tutto, naturalmente. Ma nell'insieme e nelle cose principali. - Allora è un buon sistema - disse Saška. - Né buono, né cattivo - disse Anton. - Non c'è bisogno di valutazioni, esse sono relative e soggettive. È così com'è. Ed essendo come ho detto, significa anche dominio della mediocrità, del carrierismo, della avidità, della corruzione, del menefreghismo, ecc. A cominciare da un certo momento tutte le qualità positive del comunismo si rivolgono contro coloro che lo proteggono e lo difendono. E allora si scopre che l'abbondanza è illusoria, inizia la carenza dei generi di consumo, si abbassa il livello creativo, le forme spirituali dell'arte sono sostituite da forme puramente materiali, fisiche, la letteratura muore, dominano ovunque la menzogna e la demagogia, l'esibizionismo dei burocrati diventa il fenomeno centrale della vita mondana, ecc., inevitabilmente si accentua il sistema di violenza, di divieti, di asservimenti, ecc. Rabbia e irritazione diventano lo sfondo normale dell'esistenza. La gente si aspetta il peggio. Bisogna studiare in maniera approfondita tutti i meccanismi oggettivi della nostra società, per acquistare una certa sicurezza e trovare un programma di comportamento ragionevole avente lo scopo di paralizzare in parte le conseguenze negative delle qualità positive della società comunista.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 279-80
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La gente le passava davanti, senza nemmeno vederla. Semplicemente per loro non esisteva. Né loro per lei. Eccovi la coesistenza di due mondi distinti, tra i quali non vi può essere alcuna comprensione. Perché andare su altri pianeti, quando per le strade si aggira questa vecchia Ubriaca con la quale, ugualmente, non possiamo stabilire contatto. Né d'altro canto vogliamo farlo.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; p. 168
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Sulla piazza dei Cosmonauti, all'imbocco della prospettiva del Marxismo-Leninismo, era stata innalzata la scritta «Viva il comunismo - radioso avvenire di tutta l'umanità!». La Scritta era stata voluta dai lavoratori. La sua costruzione era durata a lungo, e s'era lavorato soprattutto d'inverno, quando i costi sono più alti. E nell'impresa erano stati investiti denari a palate. Secondo voci correnti non meno di quanto era stato investito in tutta l'agricoltura durante il primo piano quinquennale. Ma adesso siamo molto ricchi e spese di questo tipo sono per noi bazzecole. Per gli Arabi s'era buttato via ancor di più, e non ne abbiamo risentito. Per gli Arabi i soldi li abbiamo proprio buttati via, qui almeno un vantaggio c'è, e indubbio. La Scritta, com'era da aspettarsi, era stata costruita coi piedi. Il colore s'era scrostato ancor prima dell'inaugurazione. Sistematicamente le lettere si coprivano d'una patina grigia, di sporco e cadevano a pezzi. Così la scritta si doveva restaurare integralmente almeno tre volte l'anno: per il Primo Maggio, per il Sette Novembre e ogniqualvolta Mosca veniva inclusa nella competizione per la città comunista modello di tutta l'unione, e un esercito formato da molti milioni di impiegati veniva mobilitato nelle strade a spazzar via le immondizie. In tal modo la manutenzione della Scritta venne a costare allo Stato molto più della sua costruzione. E a giudicare dalle frasi poco ortodosse apparse sui basamenti delle lettere, il suo effetto educativo non aveva raggiunto nemmeno metà della prevista efficacia. Per il venticinquesimo congresso del PCUS fu deciso di porre fine a tale sconcio. Le lettere formanti la Scritta vennero rifatte i acciaio inossidabile nella fabbrica di birra intitolata Ventunesimo Congresso del PCUS (ex «Maresciallo Budënnyj»). A fonderla furono i lavoratori modello nelle ore di straordinario. Le fecero con la me..., chiedo scusa, col metallo economizzato in onore dell'imminente congresso. Le lettere furono installate su un poderoso supporto di cemento. Cemento anch'esso economizzato dagli edili moscoviti in onore dell'imminente congresso. In tal modo questa volta per la Scritta non soltanto non ci fu alcuna spesa, ma se ne ricavò addirittura un utile, in quanto i costruttori della Scritta economizzarono in onore dell'imminente congresso oltre dieci milioni di rubli. Fu deciso di impiegare i mezzi economizzati nella costruzione di basamenti in cemento armato, perennemente disponibili ad ospitare i ritratti dei membri del Politburò, completando in tal modo (così scrissero i giornali) il meraviglioso complesso architettonico della piazza dei Cosmonauti e dell'area edificata ad essa adiacente. L'architetto capo della città, che al Comitato Centrale (CC) aveva difeso a spada tratta la sua idea dei ritratti, disse apertamente che così si sarebbe celata la vista vergognosa dello spiazzo abbandonato agli occhi degli stranieri. In fin dei conti, di loro, per il momento, non possiamo proprio farne a meno!
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; pp. 24-25
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Quasi un terzo del libro di Anton è dedicato alle prospettive del comunismo. Su questo tema abbiamo parlato poco, di solito in tono scherzoso o minaccioso. Io «facevo dello spirito» a livello della rivista «Krokodil»: aspettate, arriverà il comunismo, e allora vi mostreremo le nostre capacità di consumo. Anton in casi simili diceva che il comunismo da questo punto di vista si edifica in modo relativamente rapido e facile, ed era questa la sua grande attrattiva per le grandi masse che vivono male, oppresse, sottosviluppate, ecc. Ma tra due o tre generazioni, quando la popolazione sarà tutta ad un buon livello di istruzione, avrà dimenticato la fame e il duro lavoro, sarà passabilmente ben vestita, avrà insomma acquistato una qualità di vita migliore rispetto al recente passato, cominceranno i problemi specificamente comunisti. La gente ormai se ne frega di quel che era prima della rivoluzione. Le loro valutazioni le fanno sulla base dei confronti attuali. Il confronto col passato diventa contraddittorio.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; p.321
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-È uno sciocco questo vostro Solženitsyn -disse Tamurka. -Insegna a tutti laggiù come vivere bene in Occidente. Come se non potessero arrivarci senza di lui-. Poi parlammo di Stalin, delle circostanze della sua morte, del rapporto di Chruščëv. Stupak disse che Berija l'aveva preparato per sé, e che Nikita se n'era impossessato. E si mise a raccontare con ricchezza di particolari del comportamento dei dirigenti di quel tempo. Come faceva a sapere tutte queste cose? Diceva che molte le aveva sapute dalla stampa occidentale, molte dalla nostra, molte altre da conversazioni non ufficiali, il resto in base al metodo dell'interpolazione e dell'estrapolazione storica. E brillantemente lo dimostrò con degli esempi. Un ragazzo molto in gamba. Ma sfortunatamente è troppo incline ai fatti, è troppo pedante e pignolo. Non so proprio come lo si possa utilizzare per il nostro libro. mi ha proposto di occuparsi di tutta la parte fattuale della faccenda. Dio ce ne scampi! È proprio quello che non ci serve assolutamente. Noi siamo dei teorici.
Aleksandr Zinov'ev, Il radioso avvenire, (traduzione di Isabella Leone), Spirali Edizioni, 1985 [1ª pubblicazione: Francia, 1978]; p. 76
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