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Litkovskaya pre p/e 21: sembrano sbagli, invece sono trasformazioni
La moda come fosse un diario del tempo vissuto, una sorta di taccuino con pagine in stoffa in cui gli eventi esteriori e le emozioni interiori, le sfumature variegate delle culture e le intemperanze degli stili di vita vengono annotati con l’acutezza della creatività e poi trascritti con gli strumenti della sartoria: così accadeva fino al termine del secolo scorso, quando l’evoluzione sociale e del gusto componeva capitoli di stile ben scanditi dalle decadi estetiche, fintanto che il racconto non è esploso nel contemporaneo caleidoscopio affollato di storie e trend stilosi.
Così torna a succedere ora, in quest’esordio così intenso, di certo provante e al contempo stimolante, della seconda decade del nuovo millennio: l’imponente accadimento della pandemia ha risvegliato l’urgenza spontanea ad annotare nel taccuino della moda quel che dall’immersione nel flusso di esistenza e coscienza imposto dal lock-down è affiorato nella consapevolezza.
Ogni fashion designer ha collezionato le proprie suggestioni, ha ricomposto il proprio insegnamento e l’ha plasmato in un messaggio attraverso il proprio linguaggio creativo: e anche Lilia Litkovskaya non si è sottratta al richiamo positivo della sensibilità. Lei che dal 2006 guida l’allestimento della sua ricerca stilosa attraverso le creazioni del brand che porta il suo cognome e che, allo stesso tempo, porta anche la sua determinazione all’individualità d’espressione, ha ascoltato con cura le riflessioni e le suggestioni che l’immobilità improvvisa le ha suggerito: e le ha trascritte nel carosello di abiti della pre p/e 2021 che proprio in tempi di pandemia è stata concepita.
Ricerca, ripensamento, rinascita. E, ça va sans dire, riciclo. Son queste le parole-chiave che guidano l’ispirazione alla collezione, nata per l’appunto come reazione costruttiva all’esperienza distruttiva della pandemia: non c’è un titolo ad indirizzare il racconto, ma bastano le creazioni e i segni distintivi che portano indosso per diffonderne il messaggio. Tutto, infatti, è frutto di una dichiarazione d’intenti che inizia dalla decostruzione delle forme e delle silhouette riconoscibili: Litkovskaya smonta la superficie conosciuta degli abiti così come la pandemia ha smontato la nostra percezione della quotidianità, sfalda gli elementi che partecipano alla conformazione di giacche, camicie, abiti, bomber, gonne, così come il lock-down ha sfaldato i nostri gesti, comportamenti e pensieri che costruivano la nostra routine.
Tutto nella collezione crolla, come se d’improvviso la sicurezza sartoriale si fosse inceppata, così come son crollate le nostre certezze materiali: eppure, il bello di sfaldare l’apparenza è scoprire le virtù della sostanza nascosta sotto, per questo quelli che sembrano sbagli da modellista sono in verità la dimostrazione del nuovo che può nascere dalla trasformazione.
Sono infinite le possibilità di ripensamento e ricostruzione della nostra esistenza che ci sono offerte: è questo che dichiarano i resti delle maxi camicie scomposte, i colletti appesi alle spalle come decorazione, le maniche ricomposte in modo che possono essere infilate o avvolte alla vita come un abbraccio che si stringe in un fiocco, con lo stesso approccio componibile si comportano le maniche dell’ampio bomber in seta, mentre il classico tessuto a righe da camiceria maschile ripiegato fino a plasmare un minidress senza spalline.
Intanto un taglio netti fende la superficie maglia e disegna un motivo delicato sul petto, così come la tecnica della scoloritura viene usata a mo’ di metafora per aggredire la superficie colorata della stoffa e grattarne via la patina artificiale per rivelare la verità di sfumatura cromatica originale: gesti di purificazione esteriore per incoraggiare il rinnovamento interiore.
A proposito di rinnovamento, Litkovskaya prosegue il percorso di sostenibilità che aveva già intrapreso: anche in questa collezione compaiono capi nati dal riciclo di tessuti di giacenza, capi vintage e campioni inutilizzati, intessuti in una tela nuova da cui son nate la giacca cropped e la mini-gonna.
È l’occasione giusta per approfittare della leggendaria tabula rasa su cui scrivere nuovi valori: una sorta di tela bianca, come quella del completo in lino tinta a metà del color azzurro carta da zucchero, un invito sincero a ritrovare e indossare la serenità.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
#Litkovskaya#modasostenibile#nuovitalenti#modaindipendente#modaresponsabile#sostenibilità#nuovacreatività#storiedaindossare#fashion writing#webelieinstyle
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A Company a/i 2020: creare nuove forme con i brandelli dei classici
“Ogni nuova moda è rifiuto di ereditare, è sovvertimento control’oppressione della vecchia moda: la moda si vive come un diritto, il diritto naturale del presente sul passato” così scriveva Roland Barthes nelle sue sempiterne pagine di riflessioni critiche sulla moda: quest’intro dal gusto intellettuale non vuole essere affatto un vezzo, bensì è un invito a spalancare la mente, a riscaldare le connessioni, a spolverare il piacere di andare oltre la superficie fashion delle cose per immergerci nelle profondità della caccia ai significati concettuali che la moda porta intessuta nelle sue forme. E posa sui nostri corpi che di quelle forme si vestono.
Roland Barthes è il pensatore favorito di Sara Lopez, che di A--Company è la giovane fondatrice: tanto ci basti a farci da guida in questo che non è solo un’approfondimento dell’aggiornamento sull’ultima collezione, ma è anche un itinerario sorprendente alla scoperta della sua dimensione affascinante di pensatrice che guida la sua attività di creatrice di moda.
In breve, ripercorrendo le parole di Roland Barthes: Sara Lopez impugna il diritto naturale di vivere la moda del presente creandola da quella del passato, trasformando l’oppressione in riflessione concettuale e il sovvertimento in smantellamento sartoriale dei pezzi essenziali che compongono l’eredità del guardaroba classico. Suona complesso, in realtà è assai intrigante, perfettamente contemporaneo … e felicemente sostenibile!
Or dunque, andiam per tappe e sistemiamo i dettagli, perché è lì che si conserva il valore rivelatore. A—Company, sì con il trattino, ché anche i segni grafici hanno la responsabilità del messaggio, nasce ufficialmente nel 2018, ma la sua origine vera ha inizio ben prima, ovvero nella matassa di pensieri e quesiti concettuali che la sua giovane fondatrice, Sara Lopez per l’appunto, stratifica nel suo rapporto con la moda: a lei non basta la coolness, l’appeal fashion, Sara è attratta dalla dimensione fluida dello spazio surreale in cui accadono le relazioni tra il corpo e l’abito che indossa.
Come fosse una danza post-moderna, altra sua passione, Sara indugia con piacere ad osservare, studiare, immaginare i modi in cui sono gli abiti ad accompagnarci nelle esperienze della vita, e ne trae la conclusione che è anche il punto di partenza per il suo brand. Ovvero: gli abiti sono innanzitutto oggetti che mediano il nostro modo di stare e agire nel mondo, ci mettono in relazione con la vita vissuta, e con chi questi abiti li crea per noi, sono lo strumento delle nostre performance sul palcoscenico dell’esistenza e per questo meritano di essere sottoposti ad indagine critica per essere esplorati in ogni minimo meandro estetico e funzionale. Come? Partendo dagli archetipi: cioè dai pezzi essenziali del guardaroba, smantellandoli, e usando quei brandelli per costruire nuove forme da indossare e nuovi pensieri da percepire.
Ecco, A—Company è una sorta di pensatoio, oltre ad essere un giovane brand di successo: qui non esistono barriere di gender, perché anche se l’intenzione è femminile l’attuazione è senza sesso in quanto i capi son approcciabili da tutti; qui non ci sono diktat di tendenza, bensì suggerimenti da completare con l’esperienza personale di chi li indossa.
Qui non c’è produzione massificata: ma c’è la consapevolezza verso la sostenibilità, che inizia dalla scelta di materiali eccellenti e di fornitori che garantiscono tanto la tracciabilità quanto l’ecologia delle prassi di realizzazione. E sublima nella produzione limitata di pezzi: 144 per ogni modello, numero che racchiude la cifra favorita di Sara, il 4, ma che è soprattutto un’invito al consumo coscienzioso dei vestiti, che non vanno accumulati e poi buttati, bensì vanno scelti e mantenuti con desiderio intatto nel tempo. Infine, non ci sono le collezioni, bensì le stagioni: distinte nel nome col numero romano progressivo, e nella sostanza dal singolo capo d’abbigliamento che ne è il punto di partenza intellettuale e materiale.
Quella di nostro interesse, che per gli addetti ai lavori è la collezione a/ 2020, in realtà si chiama Season IV: e ha al suo cuore l’archetipo per eccellenza dei vestiti e del rapporto che tramite il vestito avviene tra noi e la femminilità, ovvero il tubino. È questa la forma elementare, e tutto il bagaglio storico e sociologico della sua valenza da guardaroba, che Sara prende: e la smantella negli elementi che lo costituiscono, lo decostruisce e con i pezzi che trae compone l’arsenale di forme e significati con cui assembla i pezzi in collezione, che del tubino classico sono una profonda revisione.
Et voilà: il tubino smette di essere un abito e diventa una gonna, il design alla base della sua modellistica diventa l’ispirazione per pattern grafici, o anche per cut-out texturizzati su altri pezzi. Dal concetto di tubino smontato nascono nuovi tubini asimmetrici, derivano completi pantalone e persino i soprabiti variegati, con la parte superiore d’alta sartoria e le variazioni libere delle tasche applicate e gli orli a vivo, che del brand sono i pezzi forti: lì, dove la cultura sartoriale di Sara Lopez conferma la sua preparazione couture sviluppata con la guida delle maestranze provenienti da maison come Mme. Grès, Yves Saint Laurent e Nina Ricci, ai tempi deigli studi a Parigi.
La pratica concettuale s’esprime anche tramite i materiali: ci sono quelli che la tradizione affibbia alla femminilità, come i pizzi, la seta e i broccati, che Sara compone insieme a quelli tipicamente maschili come il popeline, la lana, il denim, i tessuti da completo e da cappotto. Anche la presentazione non è affatto tradizionale, ça va sans dire! Niente sfilata o installazione, bensì una video performance con la famosa regista Eva Evans: il titolo è “A Failed Attempt at Understanding Time”, la sostanza è un video di 30 minuti che indaga la nostra esperienza del tempo attraverso la ripetizione di tre azioni quotidiane. Una lente d’ingrandimento che tramite l’arte performativa prosegue la ricerca felice ed infaticabile di A—Company del senso che allaccia il corpo, lo spazio e gli abiti nel mezzo.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
#A Company#Sara Lopez#modaindipendente#genderless#nogender#modasostenibile#nuovacreatività#fashion writing#webelieveinstyle
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Plan C a/i 20-21: sembra stravaganza, invece è sofisticatezza giocosa
Potremmo iniziare a deliziarci con il gioco delle ipotesi divertite già dal nome: Plan C, come Carolina? Uhm, può darsi. Allora Plan C, come Castiglioni? Ehm, potrebbe essere. Oppure Plan C, come piano c, quello che giunge dopo aver attraversato il piano a e b? Fuochino! Ebbene, la risposta più assennata risiede in un giusto mix delle tre: dopotutto, ottenere ottimi risultati inaspettati mixando e stratificando ingredienti che per natura, lì per lì, appaiono incompatibili è un’arte che la famiglia Castiglioni padroneggia con profondo talento naturale.
Plan C, infatti, è il marchio che porta la firma di stile e di filosofia personalissima di Carolina Castiglioni: che a sua volta, in qualità di terza generazione, raccoglie in sé l’eredità pregiata iniziata nella metà del secolo scorso dai nonni con un atelier di pellicceria, ovvero il piano a, a sua volta proseguito nel celebre piano b di Marni, che dal 1994 per oltre vent’anni ha indossato l’inconfondibile firma estetica della sua altrettanto celebre madre, Consuelo Castiglioni. Voilà!
Un chiarimento va fatto subito, però: Plan C non è Marni. Bensì, è il mondo di Carolina Castiglioni: che da quell’universo caleidoscopico, in cui è nata e cresciuta, ha acquisito per natura e amore la gioia della spregiudicatezza estetica, la fiducia lucida e generosa nel seguire l’istinto abbracciato al gusto, la libertà di sperimentare con tutti gli ingredienti che la moda le offre, di stratificare le forme alle lavorazioni e ai tessuti, combinare le fantasie, creare ossimori con i volumi e i colori come fossero versi di poesie futuriste, di smontare i rigorismi estetici per inventare nuovi giochi di stile spontaneamente personali. Eppur perfettamente indossabili: perché nonostante l’apparenza eccentrica, ogni collezione custodisce un senso piacevolissimo di sensibilità elegante.
Così accade anche per l’a/i 2020-21: che conferma e rinnova la coerenza appassionata del gusto di Carolina, mentre la infonde di una sorta di rilassatezza ritrovata. Una quiete aggraziata costituita da tanti piccoli gesti di raffinatezza sartoriale che orchestrano quei suoi tipici guizzi creativi nati come contrasti, poi armonizzati in capi e accessori di fresca sofisticatezza: come le sfumature di stile da “tomboy”, ovvero i capi con quel fascino acerbo e giocoso da ragazzino che indossa calzoni al ginocchio o completi sartoriali che sì sono un po’ oversize, ma proprio per questo gli stanno a pennello, che in un crescendo s’intensificano in veri richiami di stile al maschile, come nei cappotti che piombano a terra, bilanciati con accortezza dal contro-canto femminile degli abiti fioriti custoditi al loro interno.
Stratificazioni d’idee e di forme che creano una sinfonia amabilissima di contrappunti: la collezione a/i 20-21 di Plan C sfoggia le amate asimmetrie in particolare delle gonne dritte, le combinazioni dei pannelli plissé che si appaiano ai pantaloni asciutti, elementi piuttosto geometrici da sovrapporre alle camicie che nell’insieme richiamano le uniformi da lavoro, e ne hanno anche le stesse soluzioni pratiche.
Ci sono interi completi di scacchi scozzesi, ci sono le righe e i pois, c’è il piumino che dichiara un’intenzione sportiva, ma c’è anche la cappa nera e affilata. E poi c’è il colore, anzi, la tavolozza dei colori: dalle tonalità scure e intense, alle tinte vive e vibranti, come il giallo solare sul blu elettrico, il rosso sensuale, il verde prezioso come la sua pietra.
Infine c’è il gioco, quello sincero, gustoso, salvifico, che Carolina prende in prestito direttamente dai suoi bambini: il gioco delle tasche colorate che spuntano sui cappotti, il gioco dei disegnini del personaggio Bianca, tracciato dalla figlia ad una manciata d’anni ed ora campeggiante con tutto il suo carico di divertimento sulle borse e su piccoli patch che spuntano curiosi dai capi.
Ma c’è anche la piccola Margherita, colta in una foto fatta da Carolina al cinema con indosso gli occhiali 3D e diventata ora una versione grafica che come una stampa naif e messa a decoro di T-shirt, felpe, borse e sul retro di impermeabili sartoriali. Dopotutto, Plan C è comunque un affezionato e pregevole affare di famiglia.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
#Plan C#Carolina Castiglioni#nuovitalenti#nuovoMadeinItaly#nuovacreatività#fashion writing#webelieveinstyle
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Sulvam f/w 2018-19: lui, lei, e il nuovo sartoriale
C’è della grinta eversiva punk che si sfoga su tutto ciò che decora e definisce le cose con supposto rigore, c’è della nonchalance stilosa che fa subito pensare allo streetwear ma che altrettanto subito viene confutata perché non è la sola strada ad essere presa ad ispirazione, c’è del sartoriale esatto e sciolto allo stesso tempo come solo in Giappone san fare: e questo non è messo in dubbio, assolutamente.
{Photo backstage © Redmilk Mag}
C’è una visione che resta il minimo indispensabile sospesa nel limbo della progettazione, perché ha fretta di diventare subito realtà concreta: è la visione innovatrice, squisitamente autonoma, e platealmente applaudita di Sulvam. O meglio: di Teppei Fujita, che del brand nipponico è mente pensante, corpo creativo e cuore pulsante.
Ed è anche la collezione a/i 2018-19: che di questa visione è un nuovo capitolo che prosegue una storia nata poco fa, ma saldamente incamminata nella direzione di evolvere molto del fashion world. Almeno per quel che riguarda il suo elegante versante sartoriale.
E che tale storia la prosegue sulla passerella milanese dell’appena trascorsa settimana della moda dedicata allo stile maschile: ma che nell’universo Sulvam può essere altrettanto intesa come femminile, dato che non c’è barriera di genere a cui attenersi, bensì la barriera va abbattuta in nome della libertà.
“Gender-free”, appunto! Ma andiam con ordine e riallacciamo tutti i passaggi prima di giungere a tale dichiarazione di libertà.
Il curriculum di Teppei Fujita è il ritratto di una carriera rapida e formidabile, perché intrisa da sempre di sana determinazione: presenta infatti le tappe fondamentali, come il diploma alla scuola Bunka Fashion, la collaborazione lunga e fruttuosa alla Maison Yohji Yamamoto, che della sartorialità concettuale ed esatta eppur rivoluzionaria alla celebre maniera giapponese è uno dei simboli indiscussi, e c’è la fondazione del proprio brand nel 2014 per mettere in pratica i preziosi insegnamenti appresi alla corte del gran maestro e nel frattempo mettere in dubbio l’eleganza rigorosa maschile così come siam soliti conoscerla.
Al contempo presenta anche i traguardi fondamentali: la conquista del il "Tokyo Fashion Award” nel 2014, la vittoria del premio VOGUE "Who is on Next? Dubai" nel 2015, l’ambitissima selezione per il premio LVMH Fashion 2017, le passerelle italiane di Pitti Immagine Uomo prima e quella della città di Milano poi.
Alla base di ogni visione e passo compiuto nel fashion world sta, come fosse inciso sulla pietra, il motto-guida di Teppei Fujita: “Nego i trend del momento. Penso che la moda sia indossare abiti in maniera libera e individuale. Attacco ciò che sento di dover attaccare. Proteggo ciò che devo proteggere. E continuo sempre a mettere in discussione il mondo di oggi dalla prospettiva di un semplice creatore di abiti.”
“Gender-free”, appunto! Questo è il titolo della collezione a/i 2018-19, ed al contempo la riconferma che la visione liberatoria e indagatrice di Sulvam è più salda che mai: in passerella scorrono abiti indossati sia da modelli che da modelle, perché lo stile è personale ed il maschile indossato da un corpo femminile acquisisce sensualità senza intaccare la libertà. Libertà di cosa? Di rompere le regole, sfrangiare gli orli dei completi gessati, sfilacciare i confini dei pantaloni sartoriali, strappare via le tasche e riattaccarle in un secondo momento, e solo a patto che facciano fuoriuscire la fodera interna. Trattamento, questo, che viene riservato a qualsiasi rivestimento o imbottitura, che spunta dai tagli consapevoli sui pantaloni ampi, che sbuffa dalle lunghe vesti come fosse un sottogonna: un’aria eversiva che è ribadita dalle forme over, persino del bomber indossato sulla camicia e la cravatta. Troppo laissez-fare? Affatto! C’è anche il lurex dorato del maglioncino che porta luce, i bottoni decorativi sulla cravatta che sono un vezzo, le maxi borse in pelouche che son un gesto dolce.
E su tutto, l’aria di che qualcosa sta davvero cambiando: dalla passerella alla vita vera è un attimo!
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
#Sulvam#Japan fashion#genderfree fashion#nuovi talenti#modaindipendente#Teppei Fujita#nuovacreatività#fashionwriting#webelieveinstyle
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Fery di Sara Capoferri: non solo gioielli, ma creazioni uniche d’ ”artigianista”
“Ceci n’est pas … un’interview”: ovvero, “questa non è un’intervista”, ma neanche un articolo dal mero intento promozionale, né tantomeno solo un ritratto d’artista. Piuttosto, per chi riconoscesse in quelle parole la celeberrima citazione di natura magrittiana rivisitata qui per l’occasione, ecco: sappiate invece che con esse si è già varcata la soglia di un mondo in cui tale leggerezza surrealista si materializza nella concretezza preziosa di una scritta, che a sua volta si fa gioiello con cui adornarsi il collo, e con lui anche l’animo stesso.
Dopotutto, lei stessa si definisce “artisigner, o artigianista”: lei è Sara Capoferri e il mondo in cui dà vita alle sue creazioni in argento, uniche per natura artigiana tanto quanto per la devozione appassionata, s’intitola Fery. Benvenuti!
Dal momento che, come l’introduzione suggerisce, questa è una conversazione nata sì da un intento d’intervista, ma che ben presto ha fatto scivolare i confini oltre le formalità e i rischi di ovvietà, per rivelare riflessioni fatte di lucida sincerità: or dunque, la mera biografia di Sara Capoferri, quel suo percorso tanto professionale quanto interiore che l’ha condotta dall’essere copywriter a plasmare l’argento lo troverete illustrato fin nei dettagli in altri lidi esaustivi.
Qui invece si ha l’occasione di accedere nel backstage di quella che gli addetti al settore chiamano nuova creatività: quel limbo in cui il talento, la passione, i percorsi e le aspirazioni, l’età giovane e le competenze, e con esse le definizioni, si ibridano dando vita a nuove realtà.
A partire dalle definizioni, appunto. “Sono forse un'intellettuale dell'accessorio in argento, con un approccio decisamente rock”: racconta Sara, perché essere artigiana non esaurisce la completezza dell’orafo, definirsi artista è cosa assai perigliosa così come designer, quindi “oscillo tra diversi mondi, quello dell'arte, quello dell'artigianato, quello dell'accessorio. A seconda dei progetti, sto meglio in una realtà piuttosto che un'altra, ma coesistono tutti questi aspetti, dove nessuno prevale e nessuno eccelle.”
E, sempre a dirla attraverso le sue parole, quel percorso di transizione di cui sopra è sintetizzabile così: “Non basta avere sogni, bisogna avere mezzi interiori e contingenze esogene favorevoli.” Essenziale resta comunque quella passione interiore che compie nel tempo il ruolo di bussola: il luccichio dei gioielli attrae Sara sin da bambina al punto da renderla una fiera e felice pasticciatrice di ornamenti in perle di plastica, la guida fino al maestro orafo da cui deciderà di apprendere l’arte della lavorazione manuale dell’argento per crearne opere che sono sì decori, ma anche veri racconti, e la conduce infine a fondare il suo brand Fery.
Assieme al fascino, la concretezza. Sara sa bene che manualità non è sinonimo di creatività, che la determinazione può essere più caparbia del talento, che viviamo nell’epoca delle menti iper-conesse, delle informazioni super-acessibili, delle ispirazioni assai contaminabili: quindi lei ha scelto se stessa, mantenendo “un mondo interiore ricco, un'autocritica feroce, un’umiltà che non si confonde mai con la finta modestia”.
Questo mondo, per l’appunto, s’intitola Fery: un gioco di parole che racchiude creazioni rigorosamente in argento e squisitamente uniche, riproducibili ma non ripetibili.
Dal punto di vista tecnico Sara le realizza con la lavorazione diretta su metallo, senza l’uso di stampi, laser o modelli in cera persa: la creazione di ciondoli, collier, orecchini, anelli e bracciali per lei, gemelli e papillon per lui, ma anche accessori d’artista, prende avvio da un abbozzo iniziale, si nutre poi di ricerca profonda, trova la forma assecondando il desiderio estetico e infine prende vita in una imperfezione eccellente. Quella che rende ogni gioiello Fery unico nel suo genere.
Dal punto di vista umano, intanto, l’ispirazione si tuffa nel bagaglio di vita e ricordi, di gente e di viaggi, di arte e curiosità: oppure assorbe con saggezza ed empatia le storie personali che gli altri le affidano affinché le tramuti in un decoro “custom made” da serbare per sempre: tra le collaborazioni compaiono anche artisti superbi come Asia Argento, Marilyn Manson, Andy dei Bluvertigo, ma altrettanto eccellenti sono gli incontri che di volta in volta, e step-by-step, amplificano e accrescono la sua arte.
In fin dei conti, lo dichiara anche lei: “personalmente credo poco alle corse da conigli, ma più ai percorsi da tartaruga”. E la tartaruga si sa: va piano, va sano e va lontano!
Silvia Scorcella
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#fery#saracapoferri#artisticjewelry#madeinitaly#artigianatoitaliano#gioielleria#rivoluzioneartigiana#intervista#nuovoartigianato#craftsrevolution#nuovacreatività#modaindipendente#independentfashion#designindipendente#brandindipendente#storytelling#fashionstorytelling#fashionwriting#fashionwriter#webelieveinstyle#interview#fashionwithastory#storiedaindossare#fashionculture#gioielleriaindipendente#vestirsidistorie
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Marit Ilison “Longing For Sleep”: nell’abbraccio di un cappotto, nel calore della coperta
Si può essere mai abbastanza avvezzi al grado di sorpresa che la creatività diffusa, quella che viaggia libera tra gli stimoli che la stuzzicano variegati, più o meno concreti o surreali, ma pur sempre inaspettati: ecco, insomma, si diceva, si può mai abbassare la soglia di guardia dell’effetto sorpresa nei confronti di quel che, in questo nostro squisito caso, la moda creativa può offrire?
In un eccezionale slancio bonario, lascio qui un suggerimento accorato e conciso: assolutamente no, non si può! La ragione di tale affermazione rigorosa ed entusiasta è presto detta, anzi raccolta in un nome e nel titolo della sua più nota collezione: il nome è Marit Ilison, ideatrice sognante eppur assai concreta della collezione a/i 2016-17 “Longing for Sleep”!
Conoscere la natura identitaria e professionale di Marit Ilison e con essa immergersi nel carosello di creazioni dedicate alla corrente stagione fredda è un po’ come avere tra le mani una matrioska da sciorinare in tutte le sue unità: riferimento evocativo che per un gioco delle coincidenze sfiora assai anche la realtà, perché tanto la biografia di Marit quanto quella di “Longing For Sleep” sono un racconto, con dentro un racconto, che rivela al suo interno un altro racconto, con dentro un … in un loop di grande fascino in cui è cosa buona e giusta immergersi subito.
Che s’inizi da lei, un solo nome che intreccia varie definizioni che si fondono e s’ibridano magnificamente: Marit Ilison è fashion designer, ça va sans dire, ma anche artista multidisciplinare con predilezione per il gesto concettuale che attraversa ogni sua espressione creativa, abbia essa la forma della moda o quella del design, che sia performance musicale o teatrale, che sia un’installazione o un’esperienza sensoriale.
La regola fondamentale per Marit risiede infatti nell’offrire sensazioni tangibili, quelle che vanno oltre la pelle e toccano le emozioni così da essere serbate a lungo. Nella sua origine estone tanto quanto nella sua vocazione alle sensazioni da regalare risiede l’origine della collezione “Longing For Sleep”: ovvero quelli che sì son cappotti, ma la cui materia prima calda e rara appartiene a coperte sovietiche vintage e la cui essenza è legata al sogno, mentre il nome si allaccia alla letteratura di quelle terre fredde nel clima ma ricche nella cultura, ovvero al racconto di Anton Čechov del 1888 intitolato “La voglia di dormire”.
Coperte, per l’appunto: proprio quelle in cui noi tutti desideriamo rimanere accoccolati nelle fredde mattine invernali, quelle di cui non vogliamo sciogliere l’abbraccio mentre ci cullano i sogni, quelle in cui la stessa Mariti Ilison e chi come lei abita i luoghi immersi nei “kaamos”, un termine estone e finlandese che narra i lunghi mesi da novembre a gennaio dove la luce del giorno si fa rara e lascia spazio al buio, vorrebbe restare.
Ma non coperte qualsiasi: quelle che danno forma ai cappotti e giacconi asciutti nella forma ma ricchi nella sostanza e variopinti con saggezza sulla superficie risalgono all’Unione Sovietica degli anni ’70 e ’80, quando erano un oggetto posseduto da ogni famiglia, importante nel suo materiale (prima vello di cammello, poi lana d’agnello) tanto da diventar anche dono di nozze, e per questo, intessuto di memorie e nostalgia così da legarsi anche alla poetica del sentimento che Marit Ilison inserisce con cura in ogni sua opera. E il sogno? C’è, non abbiate timore: va ricercato all’interno dei revers dei cappotti, basta seguire la scia di bagliori dei cristalli Swarovski applicati a mano, quella stessa mano che confeziona i capospalla uno ad uno.
Silvia Scorcella [published on Webelieveinstyle]
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