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Caterina Gatta p/e 2020: nell’archivio c’è la fonte della bellezza futura
“Di una cosa ero sicura, non volevo fare la fashion designer”: suona curiosamente paradossale pronunciato da Caterina Gatta, che con la sua moda di giovane e talentuosa stilista, è sempre felicemente riconoscibile perché non è mai stata imitatrice né debitrice di estetiche standardizzate e massificate, vero? Difatti, l’unicità è una dote che accade raramente: ovvero, quando le creazioni sono una combinazione non solo di grande passione e bravura sartoriale, ma anche di una dedizione profonda per la ricerca agganciata ad un senso del tutto personale della bellezza, e di un istinto rispettoso che va oltre il mero fascino dell’estetica, per andare a conquistare e condividere il valore prezioso della cultura che tramite l’estetica si esprime.
Ecco, Caterina Gatta nel mondo del suo brand, che con lei condivide anche il nome e cognome come fosse uno specchio che ne riflette tutto il ventaglio di bellezza, esercita proprio questa combinazione pregiata. L’ha fatto sin dall’inizio del suo percorso di giovane promessa del fashion italiano, e lo riconferma tutt’ora nella collezione s/s 2020, che del suo percorso è anche una rinfrescante sublimazione.
A ben vedere, forse il segreto di Caterina Gatta e della sua moda potrebbe essere raccolto proprio nell’essenza di quell’affermazione: che, badate bene, non ha nulla di perentorio né altezzoso, tutt’altro! Anzi, è per l’appunto l’incipit spontaneo del suo itinerario poliedrico e generosamente curioso nella moda: che al fashion design approda come fosse il contenitore professionale perfetto dove raccogliere e esprimere le illuminazioni scoperte durante il percorso. Che inizia con lo studio in Scienze della moda e del costume, mescolato ad esperienze lavorative assai eterogenee, cioè l’esperienza in un negozio vintage, lo studio dei diamanti presso un azienda import export, lo stage in America come associate new business per un agenzia di PR, l’assistente di una giornalista durante le fashion week di Milano e Parigi. Esperienze diversissime, ma che già custodivano il fil-rouge che da lei, e del suo brand, è tanto amato: l’amore scoccato per i tessuti vintage appartenuti alle grandi griffe che del made in Italy son state pietre miliari per eccellenza di qualità manifatturiera e per meraviglia di creazione estetica.
Una scintilla scoccata con l’incontro casuale di un tessuto vintage firmato Irene Galitzine, da cui Caterina Gatta aveva avviato una collezione personale: oltre un centinaio di stoffe splendide, provenienti principalmente dai favolosi anni Ottanta e Novanta appartenute, tra gli altri, a Gianni Versace, Mila Schön, Valentino, Ungaro, Yves Saint Laurent , Givenchy, Fausto Sarli, Lancetti e molti altri. Una collezione presto divenuta ispirazione per il suo progetto di moda.
È il 2011 quando il progetto di Caterina Gatta riceve la benedizione di Franca Sozzani e Sara Maino per la partecipazione al ‘Vogue Talents corner’: aveva ragione Caterina, a voler creare abiti dall’appeal contemporaneo a partire da quelle stoffe testimoni di una bellezza unica e irripetibile, profondamente italiana e straordinariamente creativa.
Da quel momento il brand è cresciuto e maturato, naturalmente: si è anche ampliato a collezioni dove i tessuti sono ideati e progettati da lei, con un’evoluzione naturale della ricercatezza divertita dei motivi stampati a dar forma a silhouette squisitamente attuali.
Ora, per la p/e 2020, Caterina Gatta torna alle origini con consapevolezza entusiasta: torna al suo archivio prezioso di tessuti vintage, materia prima il cui valore è anche nel gesto, a suo modo ribelle e salvifico, di riportarli nel nostro presente e plasmarli in creazioni sartoriali perfettamente contemporanee, perfettamente coerenti con il gusto di Caterina Gatta, fatto principalmente di appiombi netti e linee asciutte come base solida su cui costruire volant plastici, gonne a corolla che sbocciano con brio pop, tagli fendenti che aprono geometrie affacciate sulla pelle, silhouette anch’esse felicemente caratteristiche del brand come la tuta pantalone con i volant appoggiati sulla vita e gli abiti imbottiti con la tundra di seta e organza tripla, dove per fare un mini abito servono più di dodici metri di seta pura.
Restano intatti i giochi di accostamenti e sovrapposizioni di colori vividi e stampe che sembrano sottratte a opere d’arte: resta intatta la creatività libera, assieme alla passione per l’arte in connubio con la moda.
Forse Caterina Gatta ha ragione: se avesse voluto fare la fashion designer, non avrebbe tracciato un viaggio così personale e intenso!
Silvia Scorcella
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#Caterina Gatta#nuovoartigianato#nuovomadeinitaly#modaindipendente#modasostenibile#sostenibilità#nuovitalenti#fashion writing#webelieveinstyle
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Antoine Peters, “Space Garments”: abiti e spazio sono senza confini, come l’ottimismo
Accadono cose sorprendenti nell’universo creativo di Antoine Peters! Ne varchi la soglia e non ne vorresti uscire più, perché qui, insieme a lui si possono indossare giochi divertentissimi per affrontare temi e riflessioni serissime: e non c’è mai un solo vincitore, ma vinciamo tutti. Tutti insieme, sempre. Che cosa si vince? Un premio importantissimo: il sorriso per affrontare con ottimismo granitico la negatività dilagante.
L’universo creativo di Antoine Peters, infatti, sembra fatto della stessa sostanza del mistero buffo.
Dentro, nel cuore, c’è la sua ricerca spasmodica, entusiasta, instancabile, su concetti così complessi che sfiorano l’inaccessibilità del mistero, che iniziano nella moda, si moltiplicano nei capi d’abbigliamento e negli oggetti di design, fluiscono nelle stampe e nelle stoffe, attraversano il corpo e si espandono nello spazio, si allacciano alla musica, si mostrano nel video, discutono con l’arte, si mettono in relazione tra loro, rivolgono domande a noi, sconvolgono gerarchie, ribaltano preconcetti, abbattono pregiudizi, sconquassano confini mentali, disciplinari, sociali.
Fuori, c’è il divertimento buffo delle sue creazioni, collezioni, installazioni: fatte di forme bizzarre, colori vibranti, trovate irriverenti, intenzioni scherzose, provocazioni giocose, approcci accoglienti, invenzioni sorprendenti, sperimentazioni stupefacenti. Architetture allestite col principio della semplicità per far passare con immediatezza e leggerezza i messaggi di positività.
Fuori ci siamo anche noi tutti che veniamo invitati dentro, con gentilezza, a prendere parte al grande gioco serissimo di Antoine Peters: e il suo invito è proprio come un abbraccio di cui ci si può fidare. E a cui ci si può affidare.
L’invito più recente ad immergerci - letteralmente! - nel suo mondo è un progetto che s’intitola “Space Garments”: già il nome è premessa, e promessa, di un’intensa riflessione sugli abiti, lo spazio, il corpo a cui capita ci starci nel mezzo, le loro relazioni e le nostre percezioni. Ma prima di inoltrarci in quest’alchimia, concediamoci un percorso breve ma intenso, nella sua biografia personale e creativa: al fine di cogliere e goderci al meglio quello che il progetto ha da comunicarci.
L’origine biografica di Antoine Peters ha le radici in Olanda, nato e cresciuto nella campagna di Vorden, vive e lavora ad Amsterdam. L’origine creativa inizia nella formazione all’Accademia d’Arte di Arnhem, prosegue al Fashion Institute, si plasma con l’esperienza da Viktor & Rolf come fosse un’inevitabile affinità elettiva, e matura ben presto nella consapevolezza di un mestiere in cui la moda è un mondo felice di partenza su cui innestare il dialogo euforico con altri mondi creativi. Viene accolto presto e con successo all’Amsterdam Fashion Week: ma la passerella non è il posto del trionfo, piuttosto è un ponte per collegare le numerosi direzioni e visioni anticonvenzionali della sua creatività che si rivolgono alla collettività.
Antoine Peters, infatti, ha un solo scopo chiarissimo: darsi la possibilità di innescare il cambiamento positivo nel mondo, a proposito di tematiche molto serie come i rischi dell’idealismo, i danni del consumismo, le ingiustizie dei preconcetti sociali, il vizio dell’impazienza di produrre opinioni e scagliare giudizi, la necessità di riscoprire l’intimità con con noi stessi e l’accoglienza con gli altri. L’arma che usa ha come grilletto la diffusione di un piccolo sorriso: in pratica, uno strumento di distrazione di massa dai meccanismi negativi della realtà.
Antoine Peters ci sposta i punti di vista da davanti agli occhi: ci trattiene a riflettere, ci guida a riconsiderare i pensieri generati dalla frenesia, ci sorprende per migliorarci mentre ci divertiamo. Per questo il suo immaginario non ha niente a che fare con intellettualismi elitari: con lui tutto è pop, la cultura popolare è la sua fonte d’osservazione, il casualwear è la sua fonte di progettazione, l’ironia lieta è la sua lingua d’espressione, anche quando si spinge avanti nella sperimentazione.
Racconta che qualsiasi cosa, in qualsiasi momento nutre la sua immaginazione: tutto finisce dentro a delle scatole dedicate all’ispirazione, ma che si chiamano ‘scatole della traspirazione’ perché il lavoro da fare poi è questione di fatica e dedizione. Per raggiungere ogni volta un effetto straordinario attraverso l’immediatezza dell’ordinario. Come quella prima volta che è diventato famoso col progetto “A sweater for the world!’: una felpa enorme fatta per accogliere due persone, portata in giro per accogliere più individui possibili, per accoppiare più differenze possibili e dimostrare che la tolleranza è possibile. O come quando con “One Man Show”, Antoine Peters ha deciso che avrebbe saltato il giro sulla giostra semestrale della fashion week perché aveva bisogno di impiegare il tempo per sistemare il suo brand, e usare il tempo extra per imparare a fare la maglia, tra cui la stessa maglia con cui ha gironzolato per i party fashion.
Come quando fa collezioni dai titoli surrealisti come gli abiti: in “Turn Your Frown Upside Down” invita tutti a capovolgere il broncio, mette alle modelle un nasone da clown ma in paillettes rosa nude e diffonde gli smile sugli abiti; in “To Make An Elephant Out Of A Mosquito” gioca con gli estremi, dimostra che è tutta questione di percezioni, e che se ingigantisci una zanzara si trasforma in un elefante, e viceversa un elefante può essere rimpicciolito nella metamorfosi della fantasia fino a diventare una stampa minima come un insetto; in “The World is Flat” celebra il primato di essere il primo fashion designer a presentare una collezione col video pop con una vera canzone pop, per mostrare una collezione dove tutto è davvero pop e tutto passa dalla tridimensionalità alle due dimensioni piatte come le stampe, persino gli abiti, gli accessori, le modelle; in “Fat Poeple are harder to kidnap” scompone la camicia di forza, sperimenta con quel che ne resta comprese maniche di 5 metri, tappa la bocca alle modelle con scotch a forma di sorriso, crea stampe come fossero lettere di riscatto con lettere prese da brand fashion e multinazionali del food, gioca con gli estremi delle dimensioni per affrontare l’annosa questione del grosso contro snello non per dare una risposta, ma per spalancare la domanda.
O ancora, come quando fa installazioni che sembrano minimali in apparenza, ma nell’essenza sono ricche di sperimentazione: ad esempio il primo “Lenticular Dress” con cui realizza il desiderio di trasferire la tecnica lenticolare dalla carta alla stoffa, e ci riesce con le pieghe creando l’illusione ottica di molteplici pattern che sfumano l’uno nell’altro a seconda del movimento, mentre riesce anche nell’intenzione di incoraggiarci a sospendere il giudizio perché niente è come appare a prima vista, ma tutto può cambiare a seconda del punto di vista. Un concetto ribadito e sviluppato in “Hey, Wait a Minute!” dove c’è una versione 2.0 del Lenticular Dress che è un piccolo capolavoro di origami giapponese dipinto a mano, con l’importante missione di racchiudere due facce, una tutta nera e l’altra multicolore, l’una che muta nell’altra col movimento, e così facendo ci invita, noi spettatori, a rallentare i pensieri che sganciano giudizi frettolosi, e ad accertarci nel frattempo che la negatività può essere allacciata alla positività, e viceversa.
Torniamo dunque all’invito più recente che, come accennato, ha come titolo “Space Garments”: un progetto che ci accoglie in una dimensione che non c’è. O meglio, che non è tangibile ma perfettamente intelligibile, non la possiamo abitare ma la possiamo visualizzare, grazie alla tecnologia virtuale che ha tradotto quello che l’ingegno di Antoine Peters continua ad allestire nella sua mente da almeno vent’anni, per l’occasione della Dutch Design Week riassunto in dieci affascinanti proposte.
L’attributo non è affatto casuale: si tratta di mesh-up tra l’abbigliamento e lo spazio che nascono proprio dal fascino potente che i capi, gli oggetti, il corpo, lo spazio, le relazioni che intessono, le riflessioni filosofiche che stimolano, i punti di vista che sbloccano, i suggerimenti sociali che forniscono, esercitano con vigore e passione su Antoine Peters.
Se proprio dovesse esserci una gerarchia, ecco: per Antoine Peters lo spazio intorno ad un abito è importante tanto quanto l’abito, perciò non è detto che sia importante che l’abito sia indossabile, è più importante, almeno secondo lui, esplorare le interazioni tra tutti gli elementi, compreso il corpo che ci si trova in mezzo, dentro l’abito e nello spazio.
Sembrano esercizi visionari: gli abiti vengono stirati, distorti, deformati, tagliati, avviluppati, espansi, riconfigurati, le nostre percezioni vengono sfidate ad abbandonare le concezioni tradizionali per abbracciare nuove possibilità, per considerare nuovi significati dei vestiti, dello spazio, del fatto che il nostro corpo potrebbe non essere così necessario a definire i confini, tanto che potremmo ritrovarci ad indossare un intero pavimento o ad assistere ai nostri pantaloni che si estendono a occupare tutta la stanza. Realismo e astrazione si fondono per confonderci: che è il modo migliore per rinfrescare gli occhi, rigenerarci i pensieri, ricollocare i confini sempre un po’ più salvificamente in là.
All’ingresso dell’universo creativo di Antoine Peters potrebbe esserci una grande insegna, ovviamente coloratissima: con su una scritta ispirata al celebre motto latino “Omnia vincit amor”, ma mettendo “ottimismo” al posto della parola amore, che tanto ci starebbe già felicemente compresa dentro.
Silvia Scorcella
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#Antoine Peters#culturadimoda#storiedaindossare#contaminazioni#modaindipendente#modaearte#fashion writing#webelieveinstyle
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Litkovskaya pre p/e 21: sembrano sbagli, invece sono trasformazioni
La moda come fosse un diario del tempo vissuto, una sorta di taccuino con pagine in stoffa in cui gli eventi esteriori e le emozioni interiori, le sfumature variegate delle culture e le intemperanze degli stili di vita vengono annotati con l’acutezza della creatività e poi trascritti con gli strumenti della sartoria: così accadeva fino al termine del secolo scorso, quando l’evoluzione sociale e del gusto componeva capitoli di stile ben scanditi dalle decadi estetiche, fintanto che il racconto non è esploso nel contemporaneo caleidoscopio affollato di storie e trend stilosi.
Così torna a succedere ora, in quest’esordio così intenso, di certo provante e al contempo stimolante, della seconda decade del nuovo millennio: l’imponente accadimento della pandemia ha risvegliato l’urgenza spontanea ad annotare nel taccuino della moda quel che dall’immersione nel flusso di esistenza e coscienza imposto dal lock-down è affiorato nella consapevolezza.
Ogni fashion designer ha collezionato le proprie suggestioni, ha ricomposto il proprio insegnamento e l’ha plasmato in un messaggio attraverso il proprio linguaggio creativo: e anche Lilia Litkovskaya non si è sottratta al richiamo positivo della sensibilità. Lei che dal 2006 guida l’allestimento della sua ricerca stilosa attraverso le creazioni del brand che porta il suo cognome e che, allo stesso tempo, porta anche la sua determinazione all’individualità d’espressione, ha ascoltato con cura le riflessioni e le suggestioni che l’immobilità improvvisa le ha suggerito: e le ha trascritte nel carosello di abiti della pre p/e 2021 che proprio in tempi di pandemia è stata concepita.
Ricerca, ripensamento, rinascita. E, ça va sans dire, riciclo. Son queste le parole-chiave che guidano l’ispirazione alla collezione, nata per l’appunto come reazione costruttiva all’esperienza distruttiva della pandemia: non c’è un titolo ad indirizzare il racconto, ma bastano le creazioni e i segni distintivi che portano indosso per diffonderne il messaggio. Tutto, infatti, è frutto di una dichiarazione d’intenti che inizia dalla decostruzione delle forme e delle silhouette riconoscibili: Litkovskaya smonta la superficie conosciuta degli abiti così come la pandemia ha smontato la nostra percezione della quotidianità, sfalda gli elementi che partecipano alla conformazione di giacche, camicie, abiti, bomber, gonne, così come il lock-down ha sfaldato i nostri gesti, comportamenti e pensieri che costruivano la nostra routine.
Tutto nella collezione crolla, come se d’improvviso la sicurezza sartoriale si fosse inceppata, così come son crollate le nostre certezze materiali: eppure, il bello di sfaldare l’apparenza è scoprire le virtù della sostanza nascosta sotto, per questo quelli che sembrano sbagli da modellista sono in verità la dimostrazione del nuovo che può nascere dalla trasformazione.
Sono infinite le possibilità di ripensamento e ricostruzione della nostra esistenza che ci sono offerte: è questo che dichiarano i resti delle maxi camicie scomposte, i colletti appesi alle spalle come decorazione, le maniche ricomposte in modo che possono essere infilate o avvolte alla vita come un abbraccio che si stringe in un fiocco, con lo stesso approccio componibile si comportano le maniche dell’ampio bomber in seta, mentre il classico tessuto a righe da camiceria maschile ripiegato fino a plasmare un minidress senza spalline.
Intanto un taglio netti fende la superficie maglia e disegna un motivo delicato sul petto, così come la tecnica della scoloritura viene usata a mo’ di metafora per aggredire la superficie colorata della stoffa e grattarne via la patina artificiale per rivelare la verità di sfumatura cromatica originale: gesti di purificazione esteriore per incoraggiare il rinnovamento interiore.
A proposito di rinnovamento, Litkovskaya prosegue il percorso di sostenibilità che aveva già intrapreso: anche in questa collezione compaiono capi nati dal riciclo di tessuti di giacenza, capi vintage e campioni inutilizzati, intessuti in una tela nuova da cui son nate la giacca cropped e la mini-gonna.
È l’occasione giusta per approfittare della leggendaria tabula rasa su cui scrivere nuovi valori: una sorta di tela bianca, come quella del completo in lino tinta a metà del color azzurro carta da zucchero, un invito sincero a ritrovare e indossare la serenità.
Silvia Scorcella
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#Litkovskaya#modasostenibile#nuovitalenti#modaindipendente#modaresponsabile#sostenibilità#nuovacreatività#storiedaindossare#fashion writing#webelieinstyle
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Cettina Bucca a/i 20-21,“Fiabe”: narrate dagli abiti, narratrici di emozioni
"Io credo questo: le fiabe sono vere.
Ora il viaggio tra le fiabe è finito, il libro è fatto, scrivo questa prefazione e ne son fuori: riuscirò a rimettere i piedi sulla terra? Per due anni ho vissuto in mezzo ai boschi e palazzi incantati […] E per questi due anni a poco a poco il mondo intorno a me veniva atteggiandosi a quel clima, a quella logica, ogni fatto si prestava a essere interpretato e risolto in termini di metamorfosi e incantesimo […] Ogni poco mi pareva che dalla scatola magica che avevo aperto, la perduta logica che governa il mondo delle fiabe si fosse scatenata, ritornando a dominare sulla terra. Ora che il libro è finito, posso dire che questa non è stata un'allucinazione, una sorta di malattia professionale. È stata piuttosto una conferma di qualcosa che già sapevo in partenza, quel qualcosa cui prima accennavo, quell'unica convinzione mia che mi spingeva al viaggio tra le fiabe; ed è che io credo questo: le fiabe sono vere. Le fiabe sono nella loro sempre ripetuta e sempre varia casistica di vicende umane, una spiegazione generale della vita, nata in tempi remoti e serbata nel lento ruminio delle coscienze contadine fino a noi; sono il catalogo dei destini che possono darsi a un uomo e a una donna, soprattutto per la parte della vita che appunto è il farsi di un destino”.
Così testimoniava la scrittura gentile di Italo Calvino ad introduzione di quella sua sorprendente avventura letteraria che compì con “Fiabe Italiane”, la raccolta pubblicata nel 1956: e questa lunga introduzione non è affatto una mera citazione intellettuale. Bensì una benevola dimostrazione felice di come quella certezza meravigliata che di Calvino sigillava il termine del viaggio interiore, oggi sia il punto d’avvio meraviglioso di un viaggio esteriore che prosegue in modo simile ma squisitamente personale, e per questo speciale, nelle creazioni che Cettina Bucca ha raccolto per l’a/i 2020-21: e ha intitolato “Fiabe”.
“Siamo partiti dalle fiabe e dalla loro grande importanza dal punto di vista esoterico, spirituale e simbolico: leggendo tra le righe si trovano in esse soluzioni alternative per il proprio percorso di vita”. Così narra, infatti, la voce gentile di Cettina Bucca ad introduzione della collezione: per chi ha già avuto la gioia di imbattersi in lei e nel suo itinerario biografico caleidoscopico, che da biologa l’ha riallacciata al sogno realizzato di stilista di couture emozionale in cui ogni capo nasce come via d’espressione sincera e sartoriale per la femminilità, ecco non c’è stupore che la cura profonda che Cettina ripone in ogni scelta d’ispirazione, in ogni gesto di creazione e in ogni selezione di materiale e decorazione sia approdata al valore prezioso e senza tempo che le fiabe ci riservano, sempre.
Bensì c’è la fiducia confermata nella generosità entusiasta di Cettina e nella sua conoscenza stratificata dell’animo umano, grazie anche all’antroposofia che ha saldato in lei la dote d’interprete saggia e delicata di desideri e necessità che nascosti dentro l’animo giungono fuori a vestire il corpo. Or dunque, Cettina Bucca, come Italo Calvino, è giunta alla certezza che sì, le fiabe sono vere: sono l’occasione pregiata per scoprire la nostra identità, decifrare gli indizi che i mondi di fantasia ci offrono per superare le prove che il mondo reale ci presenta, e così per abbracciare il nostro destino con consapevolezza. E bellezza: sempre.
La collezione “Fiabe”, dunque, offre la possibilità di vestirci di questa stessa certezza e di gustarne i benefici dalla pelle alle emozioni: iniziando dal sollazzo delle illustrazioni, nate da disegni e pitture originali perché ideati nel mondo di Cettina Bucca, divenute stampe che ritraggono animali ed oggetti fiabeschi, scarpette cenerentolesche, il grillo parlante e l’oca, specchi magici e piante fatate, e li distribuiscono su abiti morbidi che scendono fin quasi alla caviglia. Il Bianconiglio si tramuta nel pattern protagonista sull’abito chemisier, stesso destino spetta alla volpe ritratta come miniatura giocosa, mentre l’happy ending d’amore del principe che salva la principessa cavalcando il bianco destriero si svolge sul nero velluto elegante.
Sempre loro, i grandi protagonisti delle fiabe e innanzitutto delle nostre vicende interiori, tornano sui pullover realizzati a mano: la principessa, specchio delle emozioni bramose che prendono il sopravvento e conducono nei guai, e lil principe, ovvero l’io che si ricongiunge alle emozioni per salvare l’armonia.
È una storia di armonia anche la scelta della palette: che per la prima volta accoglie il nero a simbolo del buio malefico e il bianco segno di luce benefica, messi a contrasto reciproco e orchestrati col rosso luminoso della gioia di vivere, il verde brillante e il turchese del cielo, il rosa e il violetto genziana che son i gusti tocchi fatati.
Le stoffe continuano a raccontare una storia di naturalezza sostenibile: velluti lisci e a coste, viscose, sete, lane mohair e alpaca, cotoni invernali, insieme alle palette luccicanti come bagliori di magia. Le silhouette continuano a narrare una storia di sincerità verso la ricca complessità della personalità femminile: abiti dagli ampi volumi, dalle strutture consistenti o arricchite di tulle e balze per chi ama sentirsi principessa, capi più asciutti e brevi per chi desidera un’altra fiaba, e per tutte la sveltezza dei pantaloni dritti, e la morbida avvolgenza nei capispalla esatti ma col piccolo vezzo delle tasche staccabili.
Tra le Fiabe narrate nella collezione a/i 20-21 compaiono due nuove, bellissime storie: i foulard in pura seta che raccontano fiabe uniche attraverso stampe originali e ricche di colori brillanti, e le calzature realizzate in armonia bellissima con Sergio Amaranti, anch’esso marchio d’eccellenza e mondo di stile generoso verso la femminilità. Una sinergia da cui han preso vita stivaletti e décolleté dal tacco ricurvo, slip on e ballerine, in pelle e nello stesso velluto stampato degli abiti, con lo stesso stupore fantastico dei particolari unici e mai uguali.
Se il viaggio di Calvino nelle fiabe era terminato con la compiutezza del libro, il nostro grazie alle Fiabe di Cettina Bucca è appena iniziato: buon viaggio fiabesco a tutte!
Silvia Scorcella
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Caterina Moro, “Wood”: dal bosco al decoro, il legno è il nuovo passo sostenibile
C’è una grazia che incanta in Caterina Moro: è il riverbero della sua determinazione, così gentile eppur così grintosa, ad invitarci a proseguire con lei sul percorso saldo che da appena due intensi anni traccia con le intenzioni di giovane donna che progetta la bellezza attraverso la moda. E a cui dà forma con le creazioni di giovane stilista consapevole che la bellezza ha a che fare innanzitutto con la naturalezza. Del corpo e dell’animo, ma anche e molto con quella che abitiamo: sì la natura, che da sempre ci solleva dagli affanni e ci rasserena le emozioni con la meraviglia dei suoi elementi, e che oggi più che mai ci richiede indietro il rispetto attraverso la sostenibilità.
Ecco, Caterina Moro risponde all’appello della natura con pienezza: con l’allegrezza di continuare a portare con sé il valore prezioso dell’accoglienza suggestiva e salvifica che la frequentazione della natura le riserva da sempre, ma anche con la saggezza di portare avanti il suo percorso creativo nell’eco-sostenibilità. Un passo concreto alla volta, una collezione innovativa alla volta: diretta alla totalità dell’impresa.
Ecco che così si rinnova anche l’intenzione racchiusa nell’etichetta che definisce l’indole della moda di Caterina Moro: quel “daily luxury” che significa la nobilitazione dell’abbigliarsi quotidiano, perché l’eleganza e la naturalezza devono essere gesti da compiersi e abiti da godersi appieno in ogni occasione della nostra vita.
La nuova collezione a/i 2020-21, che è dunque il nuovo passo di Caterina Moro nella sostenibilità, s’intitola “Wood”: ovvero legno, proprio inteso come la materia prima e la scoperta della sua lavorazione rispettosa dell’ambiente che ha dato il via all’ispirazione per ogni creazione, e allo stesso tempo inteso come la suggestione carezzevole dell’impressione di una passeggiata nel bosco in autunno, tra il fruscio croccante del foliage e l’aria scaldata dalle luci morbide.
Grazie alla collaborazione con l’azienda italiana Blue Italy, Caterina ha scoperto il legno che da frammenti scartati dall’industria automobilistica diventa quasi un tessuto, e laserato diventa un decoro: legni riciclati certificati per lavorazioni dedicate e delicate, questa è la sostanza di cui son fatte le frange che danzano dagli orli, i top e la gonna corta da cui son volate via le foglie, e i ricami che le posano, le foglie lignee, su tessuti impalpabili come l’organza.
A proposito di tessuti, anch’essi son sostenibili: grazie alla collaborazione con la piattaforma Wastemark, quelli che diventano bellissimi abiti in origine sono scarti di magazzino di grandi aziende, rielaborati, e stampati con tinture completamente biologiche.
E, a proposito, di stampe: ogni dettaglio che la natura disegna Caterina lo ritrae nelle creazioni e ne fa texture, motivi, decori: come le immagini che ricordano i profili delle fonde guardate a naso in su e gli occhi pieni di luce, sono immagini che appartengono a Caterina, e che l’azienda di Como le ha tradotto sulla seta. O come le venature che percorrono il completo blusa e pantalone, il trench raffinato e le ariose gonne plissé, e che rievocano le storie scritte sulle cortecce degli alberi: anche questa, come quelle che si stanno qui narrando, è frutto di un’altra sinergia eccellente italiana, con l’azienda Omniapiega, che consente a Caterina di continuare a plasmare immaginari con la sua amata plissettatura, lavorazione che che respiro vitale e leggerezza al tessuto spalmato e con effetto pelle.
Tutto quindi nasce ed è fatto in Italia, e tutto nella collezione “Wood” narra la bellezza confortevole della natura autunnale: anche la maglieria in mohair, altro punto d’orgoglio che con uno speciale punto goffrato ricrea l’effetto tridimensionale, soffice come una nuvola da infilare.
E ancora, c’è il velluto floccato color lime che con i riccioli somiglia all’astrakan, c’è anche la sinergia altrettanto giovane e creativa con Virginia Severini, designer di borse in legno e compagna di partecipazioni ad AltaRoma, che per effetto delle affinità elettive ora è autrice delle borse in legno, personalizzate per Caterina a partire da alcuni suoi modelli iconici, presenti in collezione.Ci sono i colori morbidi, luminosi e caldi come il senape e le varietà di marrone fino al cioccolato, ma ci sono anche i neutri delicatissimi fino al candore del bianco.
C’è persino il cielo che si specchia nei suoi occhi e va a colorare i tessuti: è l’amato pervinca, sfumatura iconica del marchio, della memoria interiore della sua fondatrice, dell’armonia di stile dall’eleganza lieve e generosa che collezione dopo collezione compone la sinfonia della femminilità firmata da Caterina Moro.
Silvia Scorcella
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Andrea Lambiase: gli abiti sono arte della sperimentazione indossabile
Andrea Lambiase crea performing couture: lievi strutture d’architettura sartoriale che vestono il corpo, che nascono dalla seduzione dell’innovazione nei campi più inaspettati a chi si aspetta solo la moda, e dalle mani che dove non arrivano a costruire chiamano in sinergia la tecnologia. Quello che ci apprestiamo a fare dentro il suo giovane mondo creativo è dunque un viaggio immaginifico, a tratti visionario, ricco di suggestione, come quando ci si inoltra tra le pagine o nelle pellicole di racconti che imbrigliano la fantasia in scenari futuristici, abitati da personaggi che mantengono il vivo fascino carnale dentro gusci di creature macchinose e artificiali.
Il tutto decantato dall’umiltà gentile e appassionata lo caratterizzano, mischiati alla caparbietà di tracciarsi una strada che col coraggio della coerenza rifiuta la tentazione al facile consumismo, per prediligere una visione che ad oggi può suonare tanto rischiosa quanto ribelle: credere profondamente nel valore dell’arte che allacciata alla moda si rivela uno strumento d’espressione sincero, una fonte di scoperte d’avanguardia, una via di rivoluzione della visione e fruizione della moda stessa.
Avanguardia da indossare, o da contemplare: non ci sono regole né intellettualismi nella sua moda, c’è solo l’invito a comprendere con rispetto il valore delle creazioni, e a godersele come e quando si vuole, senza diktat o restrizioni di stagionalità e styling. Andrea Lambiase è una bella mischia esplosiva nelle idee, che sublimano nelle creazioni. Sin dall’infanzia in un paesino in provincia di Avellino, in Irpinia, quando dentro la sartoria industriale dei genitori se la prendeva con le macchine da cucire e le smontava, per capire i meccanismi e indagare i funzionamenti, poi le rimontava. La sua è una curiosità sempre affamata di nuove lavorazioni, nuovi meccanismi, nuovi materiali, nuove costruzioni: per saziarla frequenta l’istituto per geometri, dove mentre salda la passione per l’architettura assorbe la formazione tecnica che lo supporta quando poi, all’Accademia Italiana di Roma, la mancanza di un background di tecniche di disegno e modellistica della moda lui la risolve con i teoremi delle costruzioni geometriche degli angoli e delle forme. E con la determinazione fortissima a migliorarsi: obiettivo che raggiunge appieno.
A proposito, perché la moda? “Ho deciso di studiare moda perché mi piaceva l’idea che potevo partire da una visione astratta per farla indossare: mi piace intendere la moda come arte indossabile, quello che realizzo non è uno strumento commerciale privo di contenuto, ma quando vesti una mia creazione ti stai mettendo addosso una visione, un modo di pensare, un’idea”. Per effetto delle affinità elettive, la formazione prosegue con la realizzazione di un sogno, l’esperienza da Iris Van Herpen, che incarna e potenzia le sue ispirazioni e aspirazioni: “ero all’interno di un’atmosfera surreale, in atelier a lavorare con lei, e ho imparato tantissimo. Soprattutto a intendere la moda in un modo diverso, come ragionare per trovare nuove soluzioni e nuove tecniche e arrivare a realizzare una collezione: che non c’è sempre uno schema da seguire, cioè partendo dal disegno, facendo i cartamodelli e poi realizzando l’abito, ma si può iniziare anche da un punto intermedio. Io già lo facevo prima e lo faccio anche ora: l’ispirazione mi viene da una lavorazione, un tessuto o un materiale, ed è inutile cominciare dal disegno perché quello che ho in mente lo vedo soltanto facendo la creazione e mettendola sul manichino, solo così riesco a passare direttamente da un modo di pensare ad una cosa concreta e materiale”.
Come farebbe un artista: “che non per forza fa prima il disegno, perché la cosa artistica non ha schemi, è d’impatto. Appena hai l’ispirazione trovi subito il canale più veloce e più preciso che può rendere meglio la tua idea.” Andrea Lambiase nel 2018 fonda il brand che porta il suo nome, perché è la realizzazione della sua natura nutrita dalla passione, agganciata ad un’ampia visione: “mi piace utilizzare la tecnologia nella moda, dove il braccio umano ha dei limiti e non riesce ad arrivare: amo applicare fisica, chimica, architettura, ingegneria meccanica, mixare campi scientifici da cui sono molto attratto per ottenere risultati interessanti. Per realizzare le mie collezioni studio e collaboro con ingegneri e professionisti: sono sempre alla ricerca di nuove forme e materiali” perciò, laddove già non esistono è lui stesso a crearseli, sperimentando con taglio laser, stampa e modellazione 3d, per ottenere texture inedite ed effetti sorprendenti.
La sua moda è frutto di un approccio da inventore e di una pratica da alchimista, esercitata con l’aspirazione alla perfezione fin nel minuscolo dettaglio, per arrivare a smuovere non solo la mente ma anche le emozioni: “per le prossime presentazioni mi piacerebbe fare qualcosa che non dovrà essere chiamata sfilata, ma vorrei che il pubblico si trovasse all’interno di uno spettacolo e interagisse con gli abiti, con le modelle, con delle installazioni fatte in collaborazione con artisti. Vorrei creare connessioni: una performance di moda, un’esplosione di emozioni. Potrebbe essere in un museo, in una galleria d’arte, in un contesto dove le interazioni possano accadere”. Non a caso nel suo immaginario convivono Iris Van Herpen e Alexander McQueen, Marina Abramović maestra del far interagire le persone con il corpo e con l’opera d’arte, il Duchamp dei Ready Made.
La collezione “Parametric Power” è dimostrazione tangibile ed emozionante della couture performante di Andrea Lambiase: vere sculture di femminilità e tecnologia nate da un’ispirazione assai originale, ça va sans dire: “ho immaginato di trovarmi in un mondo con assenza di gravità dove tutti i materiali avessero perso le proprietà, rigidità, flessibilità, elasticità, e sarei stato io a ridistribuirle ma non in modo naturale, bensì secondo una mia visione, in modo calcolato”. Nasce così l’abito plasmato da un lurex su una base di organza che è un finto plissé, un materiale a cui Andrea ha ricreato il movimento a pieghe rimpiazzando il movimento naturale con degli angoli calcolati da lui con appositi strumenti di misurazione. Allo stesso modo, l’abito che sembra cosparso di squame bianche nasce da un tessuto mesh a cui Andrea ha dato le proprietà del plissé costruendo il movimento in un modo da lui calcolato, grazie ad un software di modellazione 3d, il taglio laser e la pressa industriale, montando poi le tessere di vinile così da dare una graduale rigidità al materiale.
Non c’è palette colorata. Ci sono solo il bianco assoluto che è luce, il nero che è il pozzo profondo in cui si raccolgono gli altri colori: “ricordano anche il mio carattere, che quando ho in mente una cosa deve essere o al 100% o niente, o bianco o nero”. Però c’è anche la loro unione, la conciliazione degli opposti, come quando la sua precisione si scontra col caos: “ma credo anche che il caos, a volte, scontrandosi con la precisione crei qualcosa di molto interessante: un risultato a sorpresa che non immaginavi di ottenere”. E noi, di certo, continueremo a sorprenderci con le sue sperimentazioni indossabili!
Silvia Scorcella
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Zerobarracento: solo capispalla no gender, tutta sostenibilità made in Italy
A pronunciare la parola “sostenibilità” nella moda ci vuole giusto il tempo di un afflato veloce di voce: a sbandierarla nei canali fashion per raccogliere consensi facili ci vuol solo una rapida dose d’incoscienza. A prendere la parola sostenibilità, ripulirla dalla superficialità della conversazione trendy per arrivare al nocciolo concreto della questione pratica, farla diventare prima materia di studio accurato e lungimirante, poi una realtà imprenditoriale che insieme ai capi d’abbigliamento allaccia una visione per costruire soluzioni virtuose ai problemi del settore tessile, all’ecosistema globale e alla filiera produttiva nazionale: ecco, per questo ci vogliono il giusto tempo per maturare competenze consapevoli, sperimentare le esperienze pratiche e allestire una rete di collaborazioni fondamentali.
Insieme alla passione che sprona a proseguire su un percorso che si sta costruendo con la fatica e il coraggio propositivo della giovinezza, e alla fiducia nella solidità dei risultati. Questo, infatti, è il percorso che sta costruendo, con determinazione forte e generosa voglia di condivisione, il giovane brand italiano Zerobarracento: o meglio, le persone che innanzitutto il marchio lo vivono e lo muovono, ovvero la fondatrice e designer Camilla Carrara, insieme al suo team.
Prima di conoscere la storia di Zerobarracento, breve perché giovane ma densa di sostanza, è giusto conoscere il significato del nome, che a decodificarlo rivela già gli ingredienti della dichiarazione d’intenti sostenibili: “zero” sono gli sprechi, ridotti all’osso sin dalla produzione fino alla percezione, quindi dai metodi di lavorazione dei materiali alle scelte legate al prodotto e al cliente finale; “cento” è la totalità, quella della sostenibilità che guida l’intera filosofia, quella dell’italianità della filiera produttiva, quella della circolarità del ciclo di vita dei capi che orienta ogni dettaglio delle scelte di progettazione e promozione.
La storia di Zerobarracento inizia da zero, letteralmente, da quando Camilla Carrara durante la tesi in fashion design al Politecnico di Milano inizia ad esplorare la sostenibilità come conseguenza del suo brillante spirito d’osservazione: “perché mi è sempre piaciuto visitare le aziende tessili, e mi ero resa conto che effettivamente anche le aziende più avanzate, quelle premium, avevano una grande quantità di scarti nella produzione, quindi mi è venuta l’idea di ottimizzare tutto il processo di produzione, sia a livello tessile che di abbigliamento”.
Perciò prosegue la formazione a Berlino, con un master annuale dedicato alla sostenibilità della moda, ed è qui che scopre il metodo che diventerà il pilastro di Zerobarracento: ovvero, lo Zero Waste, una tecnica di confezione poco usata ma molto virtuosa, che permette di creare una sorta di puzzle con i pezzi che vanno a comporre il capo posizionandoli sul cartamodello in un incastro che copre tutta l’altezza del tessuto, così da non avere sprechi, e risparmiare dal 15% di materia in su. Berlino è la città dove nasce il brand con la prima collezione, supportata proprio da una grande azienda tedesca che opera nell’abbigliamento sostenibile con la tecnica dello zero waste: gli ottimi risultati motivano Camilla a proseguire con le sue forze, e con le forze della filiera italiana, quindi in sinergia con le aziende dei distretti dell’eccellenza tessile, dove la grande qualità e la trasparenza sono valori fondamentali e solidi. E dove grazie a lei oggi entra, spesso per la prima volta, l’innovazione sostenibile del metodo “Zero Waste”: con tutto l’impegno necessario a farne attecchire la portata rivoluzionaria, che mentre aggiorna la tradizione storica fornisce un ampio ventaglio di benefici per il presente e il futuro.
La nascita di Zerobarracento accadeva nel 2016: oggi nella collezione a/i 2020 c’è condensato tutto il bello e il buono che Camilla ha continuato a costruire e a progettare con la sostenibilità, crescendo con le sinergie, conoscendo con la sperimentazione, approfondendo con la ricerca. Ovvero, concretizzando sempre più nel dettaglio la filosofia dello zero e del cento. Zero sprechi di intenzioni, è per questo che il core business di Zerobarracento è incentrato solo sui capispalla, perché così nel tempo è stato confermato dall’approvazione entusiasta dei clienti, gli stessi che hanno ispirato anche la scelta di non avere gender, inaugurata con questa collezione, dal momento che giacche e cappotti già nati lineari e oversize per donne sono amati e voluti anche dagli uomini, e l’assenza di qualsiasi accessorio -bottoni, cerniere, ganci- fa sì che basti qualche piccola modifica strategica alle chiusure per rendere ogni capo ideale per chiunque.
Cento per cento italianità, sostenibilità e circolarità: come sempre, anche in questa collezione i capi sono mono-materiali, perché evitare le mischie permette un riciclo più semplice alla fine del ciclo di vita, i tessuti provengono dalla filiera nazionale e sfoggiano tutte le certificazioni necessarie.
Nel dettaglio, due sono i materiali per l’esterno: uno è la lana Re.Verso che viene dal distretto di Prato, dove cinque aziende concorrono a svilupparla, dalla raccolta dei ritagli pre-consumo della sala taglio al sorting ancora effettuato a mano, al processo meccanico che trasforma il tutto in nuova fibra, con la certificazione l.c.a. che riporta nel dettaglio le quantità in termini di risparmio di risorse; l’altro è una lana organica, certificata g.o.t.s., del Lanificio Zignone, del distretto di Biella; infine c’è la fodera, sempre dello stesso punto di blu per essere riconoscibile, sempre realizzata in cupro, fibra proveniente dai linter di cotone, ovvero la peluria che circonda il seme del cotone, delicata come la seta, ma vegana e naturalmente certificata.
Infine c’è l’ispirazione artistica, che s’incastona dentro tanta virtuosa razionalità a portare la suggestione di nomi come Burri e Fontana, maestri dell’alchimia tra la profondità del pensiero e la ricerca vigorosa degli effetti sorprendenti che la manipolazione della materia può riservare al tatto, e da lì all’occhio e al desiderio: sono loro a supportare la ricerca costante ed essenziale dei tessuti. La materia prima: da cui tutto inizia e a cui tutto torna, mentre nel mezzo si trasforma, e, si spera, trasformi anche il pensiero dei produttori e dei consumatori che oggi più che mai sono invitati a riflettere sulle proprie scelte, e su quelle che si riveleranno le migliori da compiere. Silvia Scorcella
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Loredana Roccasalva p/e 20: tutte le donne son “Santuzze” da celebrare
C’è qualcosa che brilla immediato nelle creazioni di Loredana Roccasalva: e tal bagliore arriva prima del suo talento sartoriale custodito sin dalla giovane età, nutrito dalla formazione eccellente, e maturato nel tempo con la cura profonda della costanza artigiana e della passione sempre vigorosa verso la manualità sartoriale allacciata alla ricerca del nuovo. Arriva ancor prima anche della sua abilità di conciliare gli amati contrasti con la stessa leggiadria sapiente di un gesto di giocoleria: come quando fa decantare l’amore sconfinato per la sua terra siciliana per distillarlo nel gusto della contemporaneità, o ancora come quando sa far risplendere tesori di tradizioni e decori dal passato incastonandoli perfettamente nel nostro presente più minimale.
Ecco, quel che più brilla immediato dai suoi abiti è il dono di Loredana Roccasalva per la sensibilità. Ogni nuova collezione, infatti, è una nuova occasione felice di ricevere una storia tra cultura antica e attualità narrata in ogni dettaglio delle creazioni, ma non solo: perché intessuto nelle trame aggraziate della stoffa, Loredana aggiunge sempre un messaggio di grande forza rivolto a migliorare con grinta realista la nostra quotidianità.
Quella di Loredana Roccasalva è un’ispirazione creativa che diventa l’intenzione concreta di restituire bellezza autentica laddove rischia di venir deturpata.
La p/e 2020 rinnova quest’attitudine nobile, non in senso d’opulenza naturalmente, bensì di nobiltà di cuore, proprio come fosse un rito: e a ben vedere tale definizione rituale si rivelerebbe ideale, dato che il tema fondamentale della collezione aggancia le radici nelle figure iconiche delle tre “Santuzze” siciliane, e da lì sboccia e fiorisce in una dedica alle donne tutte.
S’intitola proprio così, “Santuzze”, prendendo in prestito l’appellativo affettuoso con cui il popolo siciliano onora da secoli le sue tre icone protettrici: Sant’Agata, patrona di Catania, Santa Lucia patrona di Siracusa, e Santa Rosalia patrona di Palermo. Ma attenzione, please, perché è qui che il rischio di un’appiattita celebrazione folkloristica si scioglie, invece, nell’intuizione accogliente: oltre la santità gloriosa che le ammanta, le tre icone custodiscono anche l’identità umana di tre giovanissime donne che hanno subìto e affrontato le asperità di un terra storicamente non propensa ad esaltare la figura femminile, una terra verso la quale hanno comunque riversato la loro bontà miracolosa.
Ebbene, la femminilità tutta è fatta di quella stessa sostanza delle “Santuzze”: donne che quotidianamente affrontano la matassa di difficoltà e sacrifici per compiere il miracolo di essere se stesse, nella veste sociale di professioniste, di figlie, di madri e di sorelle, ma anche e soprattutto nella veste personale della propria unicità. Ecco, dunque, che la celebrazione di Loredana Roccasalva inizia proprio dalle Santuzze: delle quali riporta l’effigie sulle magliette, ma a modo squisitamente suo, naturalmente! Ovvero, grazie alla collaborazione pregiata con Rosa Cerruto, illustratrice e architetto, che le ha ritratte nel suo stile distintivo deliziosamente pop: nella loro nuova versione, i ritratti delle Santuzze son stati riportati sulle T-shirt in cotone biologico.
La celebrazione, naturalmente, prosegue e abbraccia tutte le donne, vestendole di capi che son una versione rinnovata dei capisaldi classici prét à couture firmati Loredana Roccasalva: le gonne ampie che racchiudono la figura come fosse raccolta in una corolla; i giochi di volumi che se nel minidress e nei pantaloni son asciutti e netti, nelle spalle si compongono in strutture geometriche e poetiche come origami; l’abito fluente e fiorito fatto di un tessuto innovativo realizzato in tulle e fiori sagomati con taglio laser e cuciti a mano; le stolkap, l’ibrido di stola e cappa, che sono un capolavoro di combinazione tra la geometria giapponese, l’indossabilità multipla e la ricchezza materica, i colletti che son veri gioielli, i guanti senza dita ricamati e i cerchietti arricchiti dai bottoni antichi.
Il racconto della storia siciliana scorre anche attraverso i materiali splendidi: il cotone biologico, genuino come l’artigianalità isolana, le tele di cotone corposo, la seta pregiata, il tulle ricamato che sembra provenire dalle velette di donne le cui storie di vita ed eleganza quotidiana son state racchiuse per lungo tempo dentro ad un baule, finché la loro bellezza non è stata nuovamente indossata. Anche la palette colori partecipa al racconto: pochi cenni vividi di giallo lime, dell’arancio caldo del sole al tramonto e del turchese delle acque brillano sulla coppia del bianco e nero, fatta del bianco delle spiagge assolate, e del nero grafico delle tappezzerie di antichi divani decadenti, delle geometrie dei pavimenti in pietra pece, della materia lavica.
Ad onor di cronaca, la sensibilità di Loredana Roccasalva non si chiude nella poesia della collezione, ma in questo momento storico di grave difficoltà sociale collettiva, ha confermato la sua forza solidale: e quelle mani, assieme alle macchine, che han realizzato abiti e accessori, hanno subito convertito la produzione per sopperire alla mancanza di mascherine d’uso quotidiano, e per supportare la lotta al coronavirus dell’Ospedale Centrale di Modica, città d’appartenenza dell’atelier e della sua amorevole titolare.
Voilà: il bello e il buono della creatività!
Silvia Scorcella
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A Company a/i 2020: creare nuove forme con i brandelli dei classici
“Ogni nuova moda è rifiuto di ereditare, è sovvertimento control’oppressione della vecchia moda: la moda si vive come un diritto, il diritto naturale del presente sul passato” così scriveva Roland Barthes nelle sue sempiterne pagine di riflessioni critiche sulla moda: quest’intro dal gusto intellettuale non vuole essere affatto un vezzo, bensì è un invito a spalancare la mente, a riscaldare le connessioni, a spolverare il piacere di andare oltre la superficie fashion delle cose per immergerci nelle profondità della caccia ai significati concettuali che la moda porta intessuta nelle sue forme. E posa sui nostri corpi che di quelle forme si vestono.
Roland Barthes è il pensatore favorito di Sara Lopez, che di A--Company è la giovane fondatrice: tanto ci basti a farci da guida in questo che non è solo un’approfondimento dell’aggiornamento sull’ultima collezione, ma è anche un itinerario sorprendente alla scoperta della sua dimensione affascinante di pensatrice che guida la sua attività di creatrice di moda.
In breve, ripercorrendo le parole di Roland Barthes: Sara Lopez impugna il diritto naturale di vivere la moda del presente creandola da quella del passato, trasformando l’oppressione in riflessione concettuale e il sovvertimento in smantellamento sartoriale dei pezzi essenziali che compongono l’eredità del guardaroba classico. Suona complesso, in realtà è assai intrigante, perfettamente contemporaneo … e felicemente sostenibile!
Or dunque, andiam per tappe e sistemiamo i dettagli, perché è lì che si conserva il valore rivelatore. A—Company, sì con il trattino, ché anche i segni grafici hanno la responsabilità del messaggio, nasce ufficialmente nel 2018, ma la sua origine vera ha inizio ben prima, ovvero nella matassa di pensieri e quesiti concettuali che la sua giovane fondatrice, Sara Lopez per l’appunto, stratifica nel suo rapporto con la moda: a lei non basta la coolness, l’appeal fashion, Sara è attratta dalla dimensione fluida dello spazio surreale in cui accadono le relazioni tra il corpo e l’abito che indossa.
Come fosse una danza post-moderna, altra sua passione, Sara indugia con piacere ad osservare, studiare, immaginare i modi in cui sono gli abiti ad accompagnarci nelle esperienze della vita, e ne trae la conclusione che è anche il punto di partenza per il suo brand. Ovvero: gli abiti sono innanzitutto oggetti che mediano il nostro modo di stare e agire nel mondo, ci mettono in relazione con la vita vissuta, e con chi questi abiti li crea per noi, sono lo strumento delle nostre performance sul palcoscenico dell’esistenza e per questo meritano di essere sottoposti ad indagine critica per essere esplorati in ogni minimo meandro estetico e funzionale. Come? Partendo dagli archetipi: cioè dai pezzi essenziali del guardaroba, smantellandoli, e usando quei brandelli per costruire nuove forme da indossare e nuovi pensieri da percepire.
Ecco, A—Company è una sorta di pensatoio, oltre ad essere un giovane brand di successo: qui non esistono barriere di gender, perché anche se l’intenzione è femminile l’attuazione è senza sesso in quanto i capi son approcciabili da tutti; qui non ci sono diktat di tendenza, bensì suggerimenti da completare con l’esperienza personale di chi li indossa.
Qui non c’è produzione massificata: ma c’è la consapevolezza verso la sostenibilità, che inizia dalla scelta di materiali eccellenti e di fornitori che garantiscono tanto la tracciabilità quanto l’ecologia delle prassi di realizzazione. E sublima nella produzione limitata di pezzi: 144 per ogni modello, numero che racchiude la cifra favorita di Sara, il 4, ma che è soprattutto un’invito al consumo coscienzioso dei vestiti, che non vanno accumulati e poi buttati, bensì vanno scelti e mantenuti con desiderio intatto nel tempo. Infine, non ci sono le collezioni, bensì le stagioni: distinte nel nome col numero romano progressivo, e nella sostanza dal singolo capo d’abbigliamento che ne è il punto di partenza intellettuale e materiale.
Quella di nostro interesse, che per gli addetti ai lavori è la collezione a/ 2020, in realtà si chiama Season IV: e ha al suo cuore l’archetipo per eccellenza dei vestiti e del rapporto che tramite il vestito avviene tra noi e la femminilità, ovvero il tubino. È questa la forma elementare, e tutto il bagaglio storico e sociologico della sua valenza da guardaroba, che Sara prende: e la smantella negli elementi che lo costituiscono, lo decostruisce e con i pezzi che trae compone l’arsenale di forme e significati con cui assembla i pezzi in collezione, che del tubino classico sono una profonda revisione.
Et voilà: il tubino smette di essere un abito e diventa una gonna, il design alla base della sua modellistica diventa l’ispirazione per pattern grafici, o anche per cut-out texturizzati su altri pezzi. Dal concetto di tubino smontato nascono nuovi tubini asimmetrici, derivano completi pantalone e persino i soprabiti variegati, con la parte superiore d’alta sartoria e le variazioni libere delle tasche applicate e gli orli a vivo, che del brand sono i pezzi forti: lì, dove la cultura sartoriale di Sara Lopez conferma la sua preparazione couture sviluppata con la guida delle maestranze provenienti da maison come Mme. Grès, Yves Saint Laurent e Nina Ricci, ai tempi deigli studi a Parigi.
La pratica concettuale s’esprime anche tramite i materiali: ci sono quelli che la tradizione affibbia alla femminilità, come i pizzi, la seta e i broccati, che Sara compone insieme a quelli tipicamente maschili come il popeline, la lana, il denim, i tessuti da completo e da cappotto. Anche la presentazione non è affatto tradizionale, ça va sans dire! Niente sfilata o installazione, bensì una video performance con la famosa regista Eva Evans: il titolo è “A Failed Attempt at Understanding Time”, la sostanza è un video di 30 minuti che indaga la nostra esperienza del tempo attraverso la ripetizione di tre azioni quotidiane. Una lente d’ingrandimento che tramite l’arte performativa prosegue la ricerca felice ed infaticabile di A—Company del senso che allaccia il corpo, lo spazio e gli abiti nel mezzo.
Silvia Scorcella
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#A Company#Sara Lopez#modaindipendente#genderless#nogender#modasostenibile#nuovacreatività#fashion writing#webelieveinstyle
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MRZ a/i 2020: creare l’armonia sartoriale col caos esistenziale
C’è una dote misteriosa e intrigante che serba la moda da sempre, e con essa chi la moda la plasma non solo con le stoffe ma anche con la consapevolezza creativa generosa: è l’abilità di poggiare lo sguardo critico e asciutto sul mondo esterno e di sintonizzare l’orecchio in ascolto delicato del proprio mondo interno, per carpire quel che nel tempo attuale sta accadendo fuori e dentro di noi.
E per poi tradurre tali intuizioni in abiti e accessori che mentre li indossiamo risuonano come un racconto al tempo stesso squisitamente personale e sapientemente collettivo. Ecco, Simona Marziali, con l’a/i 2020-21 del suo brand MRZ fa brillare questa dote in modo pressoché sorprendente: una collezione che nell’intenzione dell’ispirazione è dedicata al caos che fa vorticare le emozioni che abitano dentro l’animo umano, a sua volta specchio del caos che fa traballare le dinamiche sociali che abitano fuori, nel mondo contemporaneo. Ed è dedicata all’arte gentile di non imporre al disordine dinamico il recinto statico di un ordine prestabilito, bensì di saperlo assecondare per poterlo valorizzare, creando un’armonia sartoriale inedita, una nuova bellezza fatta della stessa sostanza variegata di quella materia caotica.
Prima d’immergerci nella natura profonda e materica della collezione, per coloro che non conoscessero il brand è cosa buona e giusta godere di una breve presentazione: MRZ, come darà ragione l’orecchio, è il marchio che dal 2012 nella brevità delle tre consonanti racchiude l’intensa esperienza appassionata di Simona Marziali, giovane fashion designer che alla moda ha dedicato l’educazione accademica, la formazione con le migliori aziende e il coraggio di costruire una propria realtà in cui concretizzare con la stoffa, ma anche e soprattutto con la maglia, materia prediletta, la sua visione estetica. MRZ racchiude anche la lunga esperienza quarantennale del maglificio di famiglia, che alle creazioni di Simona da vita materica eccellente e supporto prezioso: ma raccoglie anche i successi meritatissimi, come la vittoria di Who Is On Next? 2018 nella categoria prêt-à-porter, e la passerella milanese che lo scorso febbraio ha calcato con orgoglio per la seconda volta.
La collezione a/i 2020-21, come accennato, è un sorprendente capolavoro di coincidenze: mai come oggi la complessità del vivere annoda in una matassa assai stretta le nostre emozioni con gli accadimenti sociali, quindi mai come oggi la bellezza delle creazioni di Simona Marziali e del messaggio che portano intrecciato ci regala un invito alla riflessione e uno spunto alla soluzione.
La guida dell’ispirazione per la collezione è altrettanto attuale, sorprendente, sofisticata eppur contemporanea: le opere del prodigioso giovane artista polacco Robert Proch, che nei suoi dipinti fa esplodere le scene della vita quotidiana e le emozioni che ci sono allacciate in una sorta di caos calmo, come se la realtà la smontasse per poi riassemblarla nelle schegge in cui si è frantumata, nei piani giustapposti alle visioni oniriche di quel che prima era composito e solo apparentemente ordinato.
La collezione a/i 2020-21 di MRZ celebra questo disordine esistenziale con l’equilibrio dell’armonia sartoriale. Simona Marziali raccoglie il caos, lo interpreta attraverso il suo filtro già appassionato alle composizioni inedite che rivelano gli accostamenti dei contrasti e lo ridefinisce in creazioni dove tutto è spesso sovrapposto, eppure tutto risulta perfettamente a posto: i check di sfumature e misure diverse si distribuiscono tra le stratificazioni di giacchino, completo, gonna e pantalone, lo stesso fanno le varianti dei gessati sui completi di memoria e appeal maschile, mentre le righe seguono lo stesso principio di libertà e compaiono con spessori e colori diversi sulla maglieria in cachemire avvolgente e sui completi morbidi ma così grafici da sembrare i tasti sottratti ai pianoforti.
C’è la praticità sportiva nei pantaloni in stile bermuda, c’è l’eleganza rilassata nelle maglie che s’allungano come abiti insieme alle maniche, c’è il gusto per le asimmetrie ricercate nei tagli che fendono le maniche, che orchestrano le altezze degli orli e creano pannelli ariosi. C’è il gusto divertito nei colpi di colore brillante come il fucsia, che insieme al turchese e al giallo ocra, danzano allegri sulla base della coppia per eccellenza, il bianco e il nero. Sembra quasi di sentir annuire Nietzsche che insieme a Zarathustra conferma: “Io vi dico: bisogna avere in sé il caos per poter partorire una stella danzante“.
Silvia Scorcella
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Calcaterra a/i 20: ascolta il silenzio del superfluo, scopri il bello nell’essenziale
C’è la poesia della purezza leggera eppur concreta nella moda di Daniele Calcaterra. Il suo è un linguaggio di stile sartoriale squisitamente personale e allo stesso tempo generoso: il suo è il gesto di un couturier italiano che opera con la morbidezza rigorosa della rinuncia agli orpelli per far brillare il bello riposto nell’essenziale delle forme e delle idee. Ogni collezione regala una visione piacevolissima, una conferma confortante e allo stesso tempo coraggiosa: sin dagli esordi professionali, accaduti vari anni or sono di esperienza preziosa, la sua devozione alla moda è infatti sempre una dichiarazione d’intenti virtuosa che ha che fare con la sostanza del mestiere, anziché con la volatilità vanitosa dell’apparenza.
Con la sua moda, Daniele Calcaterra dichiara la fiducia nell’eccellenza tipicamente italiana di ogni azione che compone la creazione, dalla qualità altissima dei materiali che guidano la concezione dei capi a quella altrettanto perfetta della sapienza che ne rende possibile la realizzazione. Dall’amore per la cultura che suggerisce l’ispirazione, alla convinzione entusiasta riposta nel valore della bellezza che non sfida il tempo: ma lo accompagna nel suo scorrere senza sfiorire mai, perché frutto di quell’autenticità che la rende davvero timeless, ma sempre perfettamente calata nella contemporaneità. E quest’alchimia accade nuovamente e felicemente con la collezione a/i 2020-21. Il titolo che la battezza è già a suo modo preludio di ricercatezza: “What inspires you?”
Prima di fornire la risposta attraverso il carosello di capi e accessori affascinanti, Daniele Calcaterra ci fornisce l’indizio su cui si è inerpicata la sua ispirazione per compiere il percorso di creazione: spiazzante e salvifico, come il messaggio stesso della collezione. Il riferimento ha infatti la stessa sofisticatezza di sostanza della sua moda: l’opera 4’33’’con cui il genio sperimentale di John Cage rivoluzionò il concetto di musica facendo suonare il suo opposto, il silenzio. Era il 1948 quando Cage parlò solo di un ipotesi, un’ispirazione “di comporre un brano di ininterrotto silenzio. Sarà lungo tre minuti o quattro minuti e mezzo, dato che queste sono le durate standard della musica preregistrata, e s’intitolerà Silent Prayer. Inizierà con una singola idea che cercherò di rendere tanto seducente quanto il colore e la forma o la fragranza di un fiore”.
Era il 1952 quando l’opera fu performata per la prima volta da David Tudor a New York davanti ad un pubblico che da un musicista e il suo pianoforte si aspettava di ascoltare una sinfonia di note, e invece si trovò immerso in un silenzio in tre atti. Ed è proprio John Cage ad illustrare il grande inganno del silenzio musicale e la rivelazione della verità in “Silenzio”, il suo libro cult del 1961: “la musica è in primo luogo nel mondo che ci circonda, in una macchina per scrivere, o nel battito del cuore, e soprattutto nei silenzi. Dovunque ci troviamo, quello che sentiamo è sempre rumore. Quando lo vogliamo ignorare ci disturba, quando lo ascoltiamo ci rendiamo conto che ci affascina”. Or dunque, è ascoltando il silenzio che si scopre la presenza, la bellezza peculiare, dell’essenziale. Ecco, Daniele Calcaterra con la collezione a/i 2020-21 fa sua l’intenzione che a suo tempo solleticò l’intuizione di John Cage: ha iniziato con una singola idea, ovvero la rinuncia alla seduzione degli orpelli inutili in favore della semplificazione, e l’ha resa seducente
“Basico irrazionale”, così Daniele Calcaterra definisce la sua opera, come fosse un percorso di meditazione concreta: l’esercizio sartoriale va dritto a plasmare i volumi e le forme, a scolpire le spalle volitive dei capispalla come nei ‘90s, ad amplificare l’ampiezza dei cappotti che si allargano come mantelle o ad asciugarla come fossero vestaglie, ad equilibrare l’oversize casual con l’appiombo elegante, ad appaiare con i jeans ampi e sdruciti ad arte il cappotto cammello con i baveri affilati o la giacca che sfoggia uno dei rari decori consentiti assieme alle piume, cioè le frange, a disegnare la fluidità dei completi dove la lavorazione delle bordature cieche rendono gonne e pantaloni leggerissimi come coperte, tanto agili da poter essere infilati negli stivali.
Basico irrazionale perché il minimalismo, quando non è esasperato, ma esercitato con consapevolezza, dimostra che ci si può avvolgere in un ampio cappotto dai bellissimi intarsi geometrici anni ’20, e nel frattempo ci si può infilare nel rigore affascinante di un abito nero che pare appoggiato per caso sul corpo, invece è un piccolo capolavoro di dote di sintesi sartoriale come la palette. Naturalissima, e per questo conferma di ricercatezza purificata.
Or dunque, niente ostentazione di ascetismi frutto di complessi percorsi concettuali, bensì una risposta moderna alla necessità di lasciar andare il superfluo per ritrovare il godimento di vestirsi della sofisticatezza che proviene dalla sostanza sartoriale maneggiata con cura e passione, con la competenza affinata delle tecniche sartoriali allacciata alla sperimentazione curiosa di materiali pregiati e al rispetto profondo della bellezza femminile. Bravò Daniele Calcaterra!
Silvia Scorcella
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MUNÈ: la camicia non è maschile se ha origami di dettagli
“Sono un fantasista e anche un avventuriero: sono sempre stato uno che mette subito in atto un’idea, e direi che lo sono ancora oggi. Nel mio caso la curiosità vince la paura: credo che tutti gli incontri, le lotte e il sentimento di solitudine che avrai durante la sfida ti daranno più profondità come persona, e ti porteranno anche delle belle sorprese nella vita. Infatti, mai mi sarei aspettato che sarei diventato un fashion designer prima di venire in Italia”.
La voce narrante appartiene a Munenori Uemuro, le sue parole gentili e consapevoli, assieme al nome che risuona di oriente, son già preludio del caleidoscopio pregiato che compone il mondo di stile che ha fondato, a cui ha dato una forma squisitamente personale e felicemente nuova. E a cui ha dato il nome MUNÈ.
Pare quasi la meta di un viaggio autentico e spontaneo, lungo nello spazio perché iniziato dal Giappone, terra e cultura d’origine di Munenori, e sorprendente nelle rivelazioni: perché lì la moda non era ancora nella sua vita.
Al suo posto c’erano l’università di economia, il lavoro nel settore edile, e il richiamo dell’Italia iniziato dal gusto per la nostra lingua studiata nel tempo libero: “poi un giorno mi è venuta la voglia di sentire la vera lingua italiana parlata dagli italiani e ho deciso di lasciare la mia carriera per venire in Italia.
Sono arrivato in questo paese senza niente di deciso, e in una rivista di moda ho trovato un concorso di borsa di studio per lo IED, per curiosità ho participato e da li è iniziata la mia nuova vita.” Vita nuova che prosegue con 10 Corso Como durante gli studi e un ingresso importante nel fashion world, prima da Costume National, poi da Jil Sander by Raf Simons: “tutta questa esperienza ha costruito la persona che sono oggi, e sopratutto mi ha dato gli occhi per vedere la vera qualità”.
Occhi spalancati sulla bellezza che nasce nell’essenziale, quelli di Munenori Uemuro, che al contempo sono costantemente affacciati sulla finestra dell’ispirazione, per coglierne ogni suggerimento che può tradursi in dettagli, l’anima delle creazioni: “sono sempre acceso, 24 ore su 360 giorni. Le ispirazioni si trovano ovunque in ogni momento, perciò devo sempre avere una penna e un foglio, anche mentre dormo. Il mio progetto moda si sviluppa attorno alla camicia: un capo semplice e basico ma difficile da disegnare, che richiede creatività ma anche precisione e conoscenza tecnica. Oltre alle forme do molta importanza ai dettagli: nella mia testa faccio sempre origami per creare nuovi dettagli interessanti.”
Ecco svelata l’essenza della bellezza in MUNÈ: la camicia, un capo senza tempo né allacci alle volubilità dei trend, bensì sublimazione indiscussa di quella metamorfosi intrigante che dal minimalismo funzionale dell’aspetto maschile sfuma nella sofisticatezza sussurrata dei dettagli di femminilità.
Colei che la indossa è la donna che Munenori Uemuro non può essere, ma può vestire col suo womenswear: “sono un uomo, ma sono sempre geloso delle donne perché hanno una scelta più ampia per vestirsi. Ovviamente non riesco a vestirmi nel modo in cui vestono le donne, ma penso sempre ‘se fossi io, mi metterei…’ Sono un uomo e mi sono anche sposato, ma questi pensieri mi vengono molto naturalmente ancora oggi, perciò creare abiti per le donne è stata una decisione naturale per me: credo che esista la moda che può essere vista solo da occhi gelosi, e quella moda può essere creata solo da chi non la indossa nella realtà. Da questo nasce il mio approccio ‘real but not real’: penso alla vestibilità e alla funzionalità, ma non avrà mai lo stesso effetto che propone una designer donna”.
Costei, per la collezione a/i 2019-20 si rivela nella sua identità di stile elegante, minimale, intrigante: è la “Lady in Munè”, vestita della camicia, certo, e della sua essenza che evolve in abiti e capispalla, dimostra la funzionalità del workwear, racconta i volumi plasmati dal background giapponese, rivela la raffinatezza femminile di arricciature e nastri.
E conferma che quegli occhi avvezzi alla qualità lo sono più che mai: questa è la prima collezione interamente made in Italy, eccellente già nei tessuti, dal prediletto cotone, così versatile, alla lana dall’appiombo elegante, ai dettagli in pelle o viscosa che giocano con i contrasti. E questo è solo l’inizio di un viaggio che profuma di unicità.
Silvia Scorcella
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STMA a/i 19-20: “Fem With Care”, la fragilità va sfoggiata con cura
“La noia mi uccide. Ho bisogno di cambiare.” Una tale ouverture per questo racconto di stile potrebbe suonare un pizzico spiazzante, è vero. Eppure il bello di questa citazione è che il senso che diffonde s’incastona perfettamente alla forza appassionata che plasma le creazioni, al mood che ne permea la bellezza, al messaggio che veste chi le indossa, anche se la fonte celeberrima non venisse riconosciuta. Eventualità che rasenta quasi l’irrealtà, ne son certa: l’avete riconosciuta, nevvero? Oh yes, la voce che pronuncia questa sentenza è quella di un personaggio divenuto icona tanto quanto l’attrice che le da vita, tanto quanto la pellicola che abita, e infine, tanto quanto il suo regista e l’inconfondibile universo estetico che si è cucito addosso.
Ebbene: la dichiarazione appartiene all’indimenticabile Margot Tennenbaum, ma nulla nella collezione a/i 19-20 di STMA a che fare con l’immobilità delle emozioni che l’affliggeva, bensì ha molto più a che fare con la determinazione di Stefania Marra, che del brand è la stilista e fondatrice, a non appoggiarsi mai sulla superficie piatta delle cose, per infilarsi a scoprire quel che si nasconde più in profondità. E da lì, tirare fuori dei tesori.
Nel caso della collezione in questione, il tesoro è allacciato ad un tema assai caro a Stefania Marra: la femminilità, e la fragilità che porta cucita spesso addosso, come fosse la sutura di una cicatrice. Come già sottolineato, però, non c’è accenno di malinconia, o di carezze all’apatia: piuttosto, c’è la consapevolezza salda, abbracciata al guizzo vitalistico un pizzico ribelle che Stefania Marra porta con sé intrecciato alla sua biografia.
Lei, giovane ancora ora che con il brand che porta le sue iniziali sta percorrendo una strada di meritato successo, ancora più giovane nelle sue esperienze di formazione fonde l’educazione sartoriale minuziosa e disciplinata dell’eccellenza made in Italy, e il fascino di libertà espressiva carica di energia riottosa alle regole della scena underground londinese. Due facce di una medaglia unica, quella del mondo stilistico STMA: qui, dove la femminilità sa mostrare allo stesso tempo la squisitezza dell’eleganza bon ton e l’appeal sfacciato di dettagli inaspettati, sperimentazioni aperte, citazioni nient’affatto scontate.
Eccolo spiegato, dunque, il motivo della citazione d’ouverture: la figura di Margot Tennenbaum fa da fil rouge stiloso, assieme alla palette cromatica inconfondibile delle atmosfere firmate Wes Anderson, e quel che va cambiato per non uccidere è l’approccio rivolto alle proprie fragilità, che non vanno nascoste, bensì vissute in pienezza e libertà.
La collezione a/i 2019-20 infatti s’intitola “Fem With Care” : l’ispirazione di Stefania si è immersa nelle atmosfere Seventies che ha in comune col visionario regista citato, ma le ha fatte completamente sue, scegliendo dettagli che accalappiano mente e occhio per ricercatezza alternativa: il packaging vintage delle sigarette belga Tigra che campeggia e decora abiti e maglie assai chic; la carta delle caramelle Fallani che profila pantaloni e le felpe in velluto, i fasci di scotch con su la scritta “Fragile” diventano un ornamento d’ammonimento, mentre i capispalla e le minigonne son decorati da patch lucidi con dentro i claim “Don’t crush” e “Fem with care.
Grinta e grazia son gli ingredinti essenziali della collezione: i tessuti amplificano il fascino vintage, come il velluto, il vinile e il panno di lana, ma non eccedono nella compostezza quando i motivi a quadri scozzesi che compongono l’abito in realtà son due diversi. Però cedono alla brillantezza: grazie al lurex che scintilla delicato a confermare il valore prezioso della femminilità.
Silvia Scorcella
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Gentile Catone a/i 19-20: “Aconito”, un’antica storia di femminilità moderna
L’incontro con Gentile Catone accarezza la tentazione di allacciare un’espressione che s’arrampica fin nell’antichità latina, ma la cui verità saggia si conferma perfettamente incastonata alla sostanza preziosa che la scoperta del brand dischiude: ovvero, “nomen omen”, che tradotto in semplicità rivela come il destino sia già inscritto nel nome. Gentile Catone, infatti, nel titolo del brand racchiude innanzitutto la giovane coppia, nella vita e nell’arte stilistica, che gli dà vita: ovvero Francesco Gentile e Chiara Catone.
Ma, ci racchiude dentro anche l’essenza pregiata del loro destino creativo: una moda che è un atto di gentilezza autentica verso la femminilità da vestire e celebrare, un universo di stile che è un gesto di libertà contro la facilità perigliosa dei trend veloci e vuoti, tanto nella materia quanto nella sostanza. Per amore, invece, di una moda che, tra il cuore e le mani di Chiara e Francesco, diventa arte della narrazione attraverso la sartorialità rigorosamente italiana e sostenibile. Forse chissà, proprio come quel Catone che il nostro Dante mise a custode del Purgatorio in virtù della sua mischia di fermezza e senso di giustizia, che lo rese simbolo di libertà morale per amore del bene collettivo.
Pay attention, please: i riferimenti letterari che fioriscono man mano che la conoscenza di Gentile Catone si fa più profonda e intrigante, non han nulla a che vedere con meri intellettualismi, bensì, son frutto anch’essi di una dichiarazione d’amore squisitamente spontanea. Chiara e Francesco serbano infatti una passione pregiata ed entusiasta verso lo scrigno caleidoscopico della cultura preferibilmente classica, che guida l’ispirazione in percorsi inediti, dove la suggestione densa di nostalgia romantica verso il passato s’intreccia ad un’estetica brillantemente contemporanea.
Pregio anche della gioventù: all’anagrafe, dato che Chiara e Francesco sfiorano i trent’anni, dell’ingresso nel fashion world, dato che il brand Gentile Catone è stato inaugurato solo nel 2017. Ma soprattutto gioventù dello spirito: quella forza in cui l’istinto si fonde all’azzardo per agguantare con decisione la propria missione, che nel loro caso è la determinazione a concretizzare il sogno stilistico non solo sulle passerelle più importanti, ma anche mantenendone la realizzazione sartoriale made in Italy nel loro distretto abruzzese, in cui insieme all’artigianalità difendono la consapevolezza della sostenibilità, con l’utilizzo di tessuti e filati naturali pregiati, atossici ed ecosostenibili, e collaborando solo con aziende a basso impatto ambientale in possesso delle le più importanti certificazioni.
La collezione a/i 2019-20 è un condensato felicemente rinnovato delle virtù di Gentile Catone: “Aconito” ne è il titolo, ma anche il fil rouge estetico e simbolico, una sorta d’indizio intrigante che ci accompagna a compiere un itinerario affascinante dentro la femminilità, sospeso tra antichità mistica e attualità sofisticata.
“Aconito”, infatti, si narra che fosse il fiore più caro alla dea Ecate, che lo lasciava prosperare con i suoi grappoli violacei bellissimi e letali nel suo giardino: lei, la dea che nella sua figura femminile ne raccoglie tre, la giovane fanciulla, l’anziana depositaria di saperi ancestrali e la donna nel pieno del suo potere volitivo.
Lei è anche la donna di oggi, immersa in una società intrisa d’inquietudini materiali che la disincantano e la scardinano nelle identità, ed al contempo l’arricchiscono della determinazione a cercare quel meraviglioso che possa innalzarla oltre la superficie, verso la bellezza.
Così, il fiore e i colori dell’aconito sbocciano sugli abiti di varie lunghezze, nelle camicette e sulle rouche che decorano le gonne, le trame delle storie prendono vita sulle stampe grafiche, le forme variano dalla delizia delle proporzioni bon ton all’audacia sempre elegante dei volumi over che riguardano anche i capispalla. La ricercatezza è questione di dettagli, ma anche di materiali: raso di seta, twill e jersey di viscosa, mohair, velluto e piume leggiadre danno sostanza pregiata ad un percorso sognante tra la moda da indossare e il mito della femminilità da celebrare. Silvia Scorcella
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Gilberto Calzolari p/e 20: “Dune”, inno elegante alla lotta sostenibile
Il bello della qualità di frivolezza, spesso controversa, eppur felicemente inconfutabile, che è connaturata alla moda si rivela in occasioni preziose come questa: quando la moda stessa concede a chi la progetta con profonda cognizione di diventare uno strumento potentissimo per diffondere messaggi importantissimi, persino catastrofici, pur mantenendo intatto, e anzi rafforzato, il valore altrettanto indiscutibile del dritto alla bellezza.
L’occasione preziosa in questione è la collezione p/e 2020 ideata, progettata, costruita e firmata con saggezza appassionata da Gilberto Calzolari, andata in scena alla settimana della moda milanese: s’intitola “Dune”, e il messaggio intessuto nelle creazioni va ben oltre l’evocazione suggestiva di romanticherie esotiche immerse in paesaggi desertici da cartolina. Bensì, va dritta al cuore della questione ambientale in cui è invischiata la moda, per chiamare tutti a scendere in campo e prendere parte alla doverosa lotta per la sostenibilità.
Or dunque, è anzitutto necessario sfumare qualsivoglia dubbio sull’autenticità di intenzioni relative a questa parola che oggi corre sulla bocca di tutti: sostenibilità. Ebbene, Gilberto Calzolari ne ha fatto il vessillo coerente e fondamentale del suo stile di moda, allacciato stretto al suo stile di vita, sin dagli esordi con il suo marchio omonimo di demi-couture, giunto dopo una lunga carriera all’interno degli uffici stile tra i più prestigiosi per storia e maestria (ovvero Marni, Alberta Ferretti, Valentino, Miu Miu, Giorgio Armani).
La sua dedizione all’eco-sostenibilità è infatti completa e militante: inizia nell’osservazione disincantata della realtà consumistica in cui siamo immersi, attraversa l’analisi della realtà deteriorante del fast fashion da cui siamo accalappiati, e si costruisce nell’ecosistema virtuoso del suo marchio. Qui la ricerca è votata a trovare materiali e lavorazioni del tutto ecosostenibili, dai metodi di riciclo e upcycling alla progettazione di materie innovative ma pur sempre eco-compatibili, coinvolge aziende che condividono la stessa fede e la certificano, percorre una filiera eccellente completamente made in Italy.
E apporta il suo contributo prezioso a cambiare l’industria della moda nel profondo attraverso la bellezza lussuosa: un impegno che gli è valso il prestigioso Franca Sozzani GCC Award for Best Emerging designer al Green Carpet Fashion Award Italia 2018, e il premio come Best Emerging Designer della Monte Carlo Fashion Week.
Nella collezione p/e 2020 il messaggio è dunque già incapsulato nel titolo: le “Dune” sono quelle della desertificazione del nostro pianeta a cui siamo già condannati. Un grido d’allarme a spalancare occhi e coscienza sulla realtà in corso: un inno attraverso creazioni d’eleganza a lottare per un futuro sostenibile. Un appello che si traduce in un gusto tribale, con echi di primitivismo e semplificazioni da minimalismo: la divisa per la battaglia deve essere funzionale, deve portare scolpiti addosso gli intenti militanti, i nemici da combattere ma anche gli strumenti per farlo, pur mantenendo salda la raffinatezza.
A proposito di intreccio tra estetica, confortevolezza e materiali inediti: l’appeal tribale connota l’abito iconico in “tessuto di sughero” ecologico, ricavato da sottilissimi fogli di sughero naturale accoppiato al cotone organico GOTS certificato, e impreziosito da frange con su cristalli Swarovski privi di piombo; mentre l’appeal techno pervade i capi ultra high-tech realizzati con l’upcycling di airbag scoppiati, nati grazie dalla partnership con Volvo Car Italia, realizzati con il materiale sintetico degli airbag già dispiegati che così è nobilitato in chiave couture, come succede anche per le cinture di sicurezza divenute fusciacche.
Il piglio militaresco è nei capi safari e nelle uniformi con tasche decorate con mostrine svolazzanti di cotone grezzo; mentre la linearità quasi monastica si alterna alle stratificazioni asimmetriche di gonne strutturate sotto abiti in organza nude.
La narrazione è affidata non solo alle forme, ma anche ai materiali: tra cui il raso derivato da poliestere riciclato, il nuovissimo canvas di cotone biodegradabile che si decompone in un anno, il pizzo macramè optical il cui disegno ricorda i copertoni e richiama la più grande discarica di pneumatici al mondo nel deserto del Kuwait.
E ai colori: con una palette che sui toni pallidi della natura desertica si accende di rossi e gialli allarmanti del grido di protesta, fino ad essere cosparsa del nero lucido e del verde cupo dell’inquinamento industriale che contamina le preziose falde acquifere, come fossero pesanti macchie di petrolio che contaminano la leggerezza dell’organza increspata.
Le “Dune” di Gilberto Calzolari sono anche quelle del suo amato archivio di riferimenti cinematografici: in questo caso, l’omonimo film cult del visionario David Lynch, e le dune dello scenario post-atomico dell’altrettanto visionario “Mad Max”, dove il fascino steampunk risuona come un monito a non divenire vittime del nostro progresso, bensì a padroneggiarlo virtuosamente. Bravò Gilberto Calzolari!
Silvia Scorcella
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Julian Zigerli a/i19: boschi svizzeri psichedelici
Come dite? Una modella indossa un’acconciatura composta di pigne del bosco? Uh sì, esatto, avete visto benissimo! E quelle allacciate ai piedi a mo’ di strambe calzature vi appaiono in realtà ciuffi di pini raccolti direttamente da un fresco sottobosco? Ancora una volta: esatto, è la realtà, son verdi rametti di pini! Ah sì, quei motivi decorativi che ricordano i disegni del legno liquidi, tinti di colori sgargianti, assai vividi come quelli che accendono i decori fioriti: sono davvero visioni botaniche narrate in technicolor.
E se per caso quei grandi oggetti in metallo da cui spunta il batacchio, dotati di fasce decorate con gusto folk e con esse poggiati su spalle nerborute, imbracciati a mo’ di sac à main o graziosamente appese al collo vi fan pensare alle campane: ancora risposta esatta! E anzi, vi dirò di più: non sono semplici campane, bensì i campanacci sfoggiati dalle mucche che allietano e riempiono l’aria fresca dei pascoli svizzeri con la loro inconfondibile melodia rurale.
Benvenute e Benvenuti in un nuovo intrigante racconto tratto dal sorprendente mondo di stile firmato Julian Zigerli!
Fashion designer svizzero doc, sin dai suoi esordi sfoggia il talento pregiato della giocoleria saggia con la competenza sartoriale mescolata al divertimento creativo: Julian Zigerli è un intenso sognatore con i piedi ben piantati a terra che pratica il gioco serissimo del fashion design. E che si diverte con consapevolezza a sorprenderci ad ogni nuova collezione!
Quella dedicata all’imminente stagione fredda 2019 è un felice rinnovamento della sua dichiarazione d’intenti, riassumibile in una breve manciata di principi salvifici: confortevolezza innovativa dei capi, positività d’animo e di messaggio, ironia intelligente. Ovvero quell’abilità a narrare con distacco divertito e interessante qualsivoglia tema affrontato in collezione, in questo caso la sua Svizzera in cui è nato e cresciuto sia personalmente che professionalmente. Ma c’è anche un altro principio essenziale che nutre e distingue l’arte stilosa di Julian Zigerli: la collaborazione artistica con creativi a lui affini per passione e immaginazione sbrigliata.
La collezione a/i 2019 è infatti frutto dell’alchimia con Christoph Hefti, artista e designer tessile poliedrico, altrettanto svizzero, e altrettanto autore eclettico di universi immaginifici sorprendenti, frutto anche di lunghe esperienze al fianco di nomi come Jean-Paul Gaultier, Dries Van Noten, Lanvin, Acne Studios: dalla commistione dei due son nate le stampe incantevoli, a tratti ipnotiche, assolutamente inedite, che hanno percorso la passerella immersa nell’evocazione di un bosco di betulle su sfondo sonoro di melodie dei suddetti campanacci.
La collezione infatti s’intitola “Ring My Bell” e, a dirla con le parole stesse di Julian Zigerli, regala la sensazione fantasiosa di fare una passeggiata nel bosco sotto effetto di allucinogeni: le stampe e gli intarsi provengono proprio da un tour in quei boschi, senza l’ausilio di allucinogeni naturalmente, ma con l’intento di raccogliere tutta l’ispirazione e le materie prime con cui comporre quei tableaux botanici psichedelici e quelle facce strambe da spiritelli della foresta che percorrono i capi, e ci si intarsiano sopra attraverso magistrali composizioni tessili, le stesse che accadono nei famosi tappeti che sono opera distintiva di Christoph Hefti.
Una narrazione dal gusto dark, un design dei capi essenziale nell’apparenza ma sempre innovativo nella sostanza perché base fondamentale per valorizzare un mash-up brillante che mixa tradizioni rurali, antiche fiabe tratte dai Grimm e toni da atmosfera disco come se la passerella fosse la consolle di un dj assai cool: ancora una volta, evviva la spontaneità creativa di Julian Zigerli!
Silvia Scorcella
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{ Photo Backstage via © FuckingYoung }
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