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[Trincerate nella carne][Lucía Egaña Rojas]
Nel cuore pulsante di Barcellona, un movimento sta prendendo forma. Un movimento che sfida le convenzioni, che rompe le barriere, che si fa strada attraverso le crepe del patriarcato. Questo è il postporno, una rivoluzione sessuale che sta cambiando il vo
Postporno: corpi, pratiche e politiche radicali tra femminismo e attivismo Titolo: Trincerate nella carne. Letture intorno alle pratiche della postpornografiaScritto da: Lucía Egaña RojasTitolo originale: Atrincheradas en la carneTradotto da: Helena Falabino e Gruppo IppolitaEdito da: MeltemiAnno: 2024Pagine: 358ISBN: 9788855199988 La sinossi di Trincerate nella carne di Lucía Egaña Rojas Il…
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Cecilia Vicuña
La donna di oggi è Cecilia Vicuña, artista visiva, poeta e attivista cilena, nota per le sue performance poetiche che rivendicano la sua identità femminile provando a riscrivere la storia della cultura indigena.
È creatrice di una poetica speciale che interseca arte e coscienza ecologica.
Il suo lavoro porta avanti conoscenze millenarie attualizzate con performance, film, installazioni, sculture, libri e gesti della vita quotidiana.
Ha scritto 25 libri di arte e di poesia, tradotti in sette lingue e anticipato i più recenti dibattiti su ecologia e femminismo decoloniale, immaginando nuove mitologie personali e collettive. Molte delle sue installazioni sono realizzate con materiali trovati e detriti abbandonati che intesse in delicate composizioni, nelle quali il microscopico e il monumentale trovano un fragile equilibrio, la sua arte è precaria, intima e, insieme, potente.
I suoi dipinti si ribellano alla forma, mettendo al centro l’immaginazione di una donna indigena.
Oggi le sue opere fanno parte delle collezioni di importanti musei tra cui il Guggheneim, il MoMa, la Tate, il Museo d’Arte Latinoamericana di Buenos Aires e il Museo Nazionale delle Belle Arti di Santiago del Cile.
È nata a Santiago del Cile il 27 luglio 1948 in una famiglia di artisti e intellettuali. Dal 1966, dopo aver iniziato con tele astratte, ha iniziato a lavorare a un progetto che ancora oggi porta avanti, le precarios, sculture assemblate con materiali da recupero, esposte agli agenti atmosferici e alle maree.
Nel 1967 ha fondato il suo primo gruppo, Tribu No, che realizzava azioni artistiche collettive nella città di Santiago.
Nel 1968 ha pubblicato il suo primo poema sul periodico messicano El Corno Emplumado.
Dagli anni ’70, il suo lavoro si è confrontato visivamente e poeticamente con i rituali dell’America latina, delle popolazioni aborigene australiane, del Sudafrica e dell’Europa paleolitica. Le sue esibizioni, installazioni site-specific, quipu, sculture, dipinti, disegni e testi legano il filo rosso al sangue mestruale e alla continuità della vita.
Dopo aver esposto per la prima volta al Museo Nazionale delle Belle Arti di Santiago ed essersi laureata in Belle Arti, nel 1972 è partita per Londra per specializzarsi alla Slade School of Fine Art.
Si trovava in Gran Bretagna quando, l’11 settembre 1973, c’è stato il violento colpo di stato militare contro Salvador Allende guidato da Pinochet e ha chiesto asilo politico.
L’anno seguente ha fondato il gruppo Artists for Democracy per raccogliere fondi per la Resistenza cilena e organizzato il Festival of Arts for Democracy in Chile che ha visto partecipare 320 artisti e artiste internazionali tra cui Julio Cortázar, Christo e Sol LeWitt. Durante il Festival erano stati denunciati i soprusi commessi dalla dittatura militare di Pinochet e dalle altre dittature dell’America Latina e la violazione dei diritti umani.
Nel 1975 si è trasferita a insegnare storia dell’arte e poesia latinoamericana all’università di Bogotà, ha lavorato in ambito teatrale e condotto laboratori artistici con la comunità guambiana della Valle del Cauca, esperienza che l’ha portata ad approfondire il suo legame con la cultura indigena.
Quando al Concorso nazionale di poesia Eduardo Coté Lamus le è stato negato il premio a causa del tono erotico e irriverente della sua opera, è partita una serie di azioni artistiche di protesta che le hanno dato grande fama.
A questo periodo risalgono le Palabrarmas, neologismo che unisce le parole (palabra) con le armi (armas), concretizzate attraverso varie tecniche artistiche che spaziano dal disegno alla performance, dalla scrittura ai film, come risposta poetica alla distorsione del linguaggio e alla violenza delle menzogne.
Nel 1980 ha realizzato il suo primo documentario, ¿Qué es para usted la poesía? (Cos’è per voi la poesia?), oggi nella collezione del MoMA.
A New York ha collaborato con il periodico Heresies: A Feminist Publication on Art and Politics, leggendario gruppo di artiste e intellettuali femministe.
Nel 1981 ha esposto per la prima volta al MoMA, nella collettiva Latin American Video.
Tra i viaggi in giro per l’America Latina e gli Stati Uniti, producendo reading, performance poetiche e esposizioni, non ha mai smesso di scrivere libri.
Nel 1995 ha tenuto il primo seminario con la comunità rurale di Caleu, in Cile, per promuovere la riscoperta delle conoscenze ancestrali dando origine a un metodo di educazione decolonizzatrice che ha chiamato Oysi, titolo che ha dato alla sua organizzazione senza scopo di lucro.
Nel 1997 è stata pubblicata la biografia The Precarious. The Art and Poetry of Cecilia Vicuña. L’anno successivo ha realizzato la prima mostra multimediale Cloud-net, dedicata al riscaldamento globale e all’estinzione delle specie e delle civiltà, temi che denuncia e porta avanti, instancabile, in ogni suo lavoro.
Numerose sono state le esposizioni e retrospettive tenute in giro per il mondo e le conseguenti acquisizioni da parte dei più importanti enti museali internazionali.
Nel 2015 è stata nominata Messenger Lecturer per il Dipartimento di Antropologia della Cornell University per contribuire all’«evoluzione della civiltà con lo scopo specifico di elevare lo standard morale della nostra vita politica, commerciale e sociale».
Nel 2017 ha partecipato a documenta 14, una delle più importanti esposizioni d’arte contemporanea nel mondo.
Nel 2018 ha ricevuto il premio Achievement Award assegnato da Cisneros Fontanals Art Foundation ed è stata nominata Sherry Memorial Poet in Residence 2018 per il Programma di poesia e poetica dell’Università di Chicago.
Nel 2019 ha ricevuto il Premio Velázquez di arti plastiche assegnato dal Ministero della cultura e dello sport della Spagna.
Al Centro Cultural España di Santiago del Cile, ha presentato Minga del Cielo Oscuro, convocando personalità del mondo dell’arte, astronomia, archeologia, musica ed etnomusicologia per riflettere sull’oscurità del cielo notturno e sulle molteplici conseguenze ecologiche, neurologiche e sociali della sua scomparsa.
Il 23 aprile 2022 è stata la prima artista cilena a ricevere il Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia. Per l’occasione ha realizzato l’installazione site specific NAUfraga, dedicata alla fragilità (fraga) della laguna.
Il 3 maggio 2023 ha ricevuto la Laurea honoris causa dall’Università del Cile.
Per i suoi meriti, la poetica, l’instancabile ricerca e il fervente attivismo, si può considerare tra le più interessanti protagoniste dell’arte contemporanea.
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Lunedì 27 Maggio 2024 alle ore 20.30 il GdL "Chiave di Lettura", presso i locali della Biblioteca San Valentino, si incontrerà per discutere insieme del libro di Marcela Serrano “Dieci Donne”.
Nove donne più una. Nove donne radunate nello studio della loro psicoterapeuta raccontano la propria storia e le ragioni per le quali sono andate in terapia. Lupe, adolescente lesbica, alla ricerca della propria identità tra feste, sesso, droghe e passioni non proprio convenzionali; Luisa, vedova di un desaparecido, che per trent'anni aspetta il ritorno del suo unico amore; Andrea, giornalista di successo che si rifugia nella solitudine di Atacama, il deserto più arido del pianeta, sono alcune delle protagoniste di questo vivace romanzo che parla di donne e di sentimenti. Seppur profondamente diverse per età, estrazione sociale e ideologia politica, scopriamo che le loro esperienze si richiamano e che la vera protagonista del romanzo è la femminilità.
Marcela Serrano (1951) è una scrittrice cilena, figlia della romanziera Elisa Pérez Walker e del saggista Horacio Serrano, ed è la quarta di cinque sorelle, con due delle quali trascorre un anno a Parigi per studiare alla "Maison des Amériques". Nel 1973, a causa del golpe militare, lascia il Cile e si trasferisce in Italia a Roma. Nel 1977 rientra definitivamente in Cile. Si iscrive alla facoltà di Belle Arti della Pontificia Università Cattolica del Cile, ottenendo il diploma in incisione nel 1983. In seguito lavora in diversi ambiti delle arti visive, vincendo anche un premio del Museo delle Belle Arti per un lavoro sulle donne del sud del Cile, ma presto abbandona queste attività. Sebbene cominci a scrivere molto presto, pubblica il suo primo romanzo, “Noi che ci vogliamo così bene”, nel 1991. Il romanzo è la rivelazione dell'anno e vince nel 1994 il Premio Sor Juana Inés de la Cruz, il Premio Feria del Libro de Guadalajara e nel 1996 il premio della casa editrice francese Coté des Femmes, come miglior romanzo ispanoamericano scritto da una donna. Nel 1993 pubblica “Para que no me olvides”, che ottiene il Premio Municipal de Literatura , a Santiago del Cile. Nel 1995 scrive in Guatemala “Antigua, Vita Mia” e nel 1997 “L'albergo delle donne tristi”. Marcela Serrano è una delle figure più rinomate e significative della nuova narrativa del suo paese e dell'America Latina. Ha vissuto in Messico col marito, Luis Maira Aguirre, e le loro due figlie, Elisa e Margarita, poiché il marito è stato ambasciatore del Cile in Messico e Belize fino al 2003 e dal 2004 al 2010 ambasciatore in Argentina.
Se volete partecipare, contattateci all'indirizzo mail: [email protected] oppure all'indirizzo, sempre mail, [email protected] e riceverete, in prossimità dell’incontro, il link di riferimento.
Vi aspettiamo per confrontarci insieme su questa autrice e scoprire il suo romanzo, non mancate!!!
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NON LASCIATE CHE I BAMBINI VADANO A LORO
Federico Tulli, giornalista e redattore di “Left”, racconta di come la chiesa sia da sempre impegnata a coprire il fenomeno, numericamente mostruoso, delle violenze sessuali su minori commesse dai sacerdoti. Per la chiesa, e per il suo capo Jorge Mario Bergoglio, l’abuso di un bambino è un peccato di lussuria indotto dal diavolo. Non una violenza contro un essere umano. E della responsabilità individuale dei sacerdoti (e di quella collettiva della chiesa) non c’è traccia.
Carlotta – Sei stato il primo e unico giornalista ad aver condotto un’inchiesta completa sui casi italiani di pedofilia nella chiesa. Su quest’inchiesta è uscito il libro Chiesa e pedofilia. Il caso italiano(L’asino d’oro edizioni, 2014). Ora hai firmato un nuovo libro-inchiesta che racconta cosa succede agli uomini e alle donne di chiesa che il Vaticano considera “in difficoltà”, ossia pedofili, stalker, assassini. Cosa rivela il tuo ultimo lavoro?
Federico – Questo libro, scritto con Emanuela Provera, s’intitola Giustizia divina (Chiarelettere, 2018). Si tratta di un’inchiesta sul modo in cui la chiesa esercita l’azione penale nei confronti dei sacerdoti che compiono reati, ma in realtà si tratta anche di un’inchiesta su come lo stato italiano esercita l’azione penale nei confronti dei sacerdoti.
Siamo partiti da due domande: quanti sono i sacerdoti in carcere in questo momento in Italia e che tipo di reati hanno compiuto? Queste domande ce le siamo poste nel 2015 e l’inchiesta è durata praticamente quasi tre anni. Le domande le abbiamo rivolte al DAP (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che è l’organo del ministero di giustizia che si occupa di monitorare, anche a livello statistico, la popolazione carceraria. Ma la cosa interessante è che il DAP non ci rispondeva, nonostante avesse l’obbligo di farlo.
Alla fine, dopo due mesi dalla nostra richiesta, la risposta è arrivata e diceva che il dipartimento non aveva quel tipo di informazione. Come se il DAP non conoscesse la professione che svolgevano i detenuti prima di entrare in prigione. Abbiamo insistito per un anno e mezzo, perché sapevamo che il dato c’era. A un certo punto abbiamo ricevuto l’autorizzazione a rivolgerci direttamente ai 190 istituti di pena da noi individuati in Italia, e in un anno e mezzo siamo riusciti a ottenere una risposta da 125 amministrazioni carcerarie. In 70 non ci hanno mai risposto sebbene fossero obbligati a fornirci questo dato, richiesto in osservanza della privacy. Avremmo potuto insistere con una diffida ma abbiamo preferito non andare oltre.
Cosa emergeva dai dati?
I dati che avevamo raccolto dicevano che in carcere in Italia, tra il 2016 e il 2017, c’erano cinque sacerdoti e solo uno era rinchiuso per pedofilia. Un solo sacerdote in carcere in Italia per pedofilia ci sembrava un numero assolutamente esiguo e non rispondente alla realtà. Da fonti certe, infatti, sapevamo che ce n’erano almeno otto ed era possibile che si trovassero negli istituti che avevano preferito non risponderci. Comunque abbiamo confrontato questo dato con un altro; sapevamo che negli ultimi quindici anni in Italia sono stati denunciati per pedofilia circa trecento sacerdoti, e di questi almeno centoquaranta sono stati condannati dalla magistratura civile in via definitiva per abusi su minori. La fonte di questo dato è la Rete L’Abuso. A questo punto la domanda che ci siamo fatti è stata: dove sono tutte queste persone condannate per abusi su minori, visto che non sono in carcere? Da questo interrogativo è partita la seconda parte dell’inchiesta.
Lo stimolo ci è venuto da un film di Pablo Larrain, Il club, che si svolge interamente in una casa molto isolata dove all’interno ci sono cinque sacerdoti, uno di questi è un pedofilo, uno ha collaborato con la dittatura di Pinochet, uno ha il vizio delle scommesse, uno è cleptomane e un altro è omosessuale. Questa struttura era utilizzata dalla chiesa cilena per far espiare le pene ai sacerdoti peccatori; questi rimanevano all’interno della struttura per un tempo non definito, lontano da occhi indiscreti, non denunciati alla magistratura civile.
Vedendo quel film ci siamo chiesti: ma non sarà che quel tipo di struttura si trova anche in Italia ed è lì che vengono sistemati i sacerdoti che non abbiamo trovato in carcere? In estrema sintesi, la risposta è sì.
Quindi cosa avete fatto? Vi siete messi alla ricerca delle strutture?
Sì, con Emanuela ci siamo messi alla ricerca per tutto il paese e abbiamo realizzato il reportage che costituisce la spina dorsale del nostro libro. Anche questa, come l’inchiesta nelle carceri, è un’indagine giornalistica inedita. Abbiamo trovato diciotto strutture, ma sappiamo che ce ne sono almeno venti o ventuno. Nelle sole città di Milano e Roma ce ne sono molte.
In questi luoghi, come nel film di Larrain, la chiesa italiana sistema quelli che il Vaticano chiama “sacerdoti in difficoltà”, è questa la dizione ufficiale.
Si tratta di case di cura, spirituale e psicologica, in cui vengono sistemati anche i sacerdoti che hanno compiuto abusi sessuali su minori. Per quanto riguarda la pedofilia, abbiamo scoperto che in queste strutture transitano tre tipologie di sacerdoti che hanno compiuto abusi: quelli per cui la magistratura italiana autorizza misure alternative al carcere; quelli che sono lì perché la giustizia ecclesiastica li ha condannati per abusi e utilizza queste strutture per assisterli e curarli dal punto di vista spirituale – perché per la chiesa l’abuso è un peccato, un delitto contro la morale, un’offesa a dio e non un crimine violentissimo contro persone inermi – e poi dal punto di vista psichiatrico – perché la chiesa ha colto che un adulto che violenta un bambino è affetto da una grave patologia mentale; e poi ci sono quei sacerdoti che hanno compiuto abusi ma non sono stati denunciati né alla magistratura ecclesiastica né a quella italiana, perché magari hanno confessato o chiesto aiuto a un altro parroco e per questo sono stati mandati in quelle strutture, il tutto in gran segreto.
Si tratta di veri e propri casi di insabbiamento, una pratica piuttosto diffusa in Italia; per questo una parte dell’inchiesta l’abbiamo dedicata alla ricostruzione di queste dinamiche nascoste.
La chiesa mantiene tutto segreto perché considera l’abuso di minore un’offesa a dio e non una violenza a un essere umano, quindi ritiene di giudicarlo secondo la giustizia divina e non secondo quella terrena. Per la chiesa, la giustizia terrena viene molto dopo. Nel caso italiano non viene mai. I vescovi italiani non hanno mai collaborato e al momento continuano a non collaborare.
Come si spiega, secondo te, l’altissima incidenza di casi di pedofilia nella chiesa, un’incidenza che sappiamo essere maggiore rispetto alla pedofilia nella società civile? È possibile che sia legata anche al modo in cui la chiesa cattolica concepisce i bambini e la violenza su di loro, ossia – come hai detto prima – un peccato commesso nei confronti di dio e non un atto violento contro degli esseri umani?
La pedofilia ovviamente è un tipo di violenza che esiste anche nella società civile e spesso avviene in ambito famigliare. Consiste nell’annullamento della realtà umana del bambino e si fonda sull’idea che il bambino abbia una sessualità.
I pedofili credono che l’abbraccio o l’effusione di un bambino sia un’espressione di desiderio o una richiesta di atto sessuale. Ma noi sappiamo bene che nel periodo prepubere, in cui gli organi genitali non sono ancora completamente formati, anche l’identità sessuale non è completamente formata; per questo motivo, fino a quando questo non avviene, l’adulto che si avvicina a un bambino in un certo modo, compie una violenza di carattere psicologico e fisico.
Nel primo libro Chiesa e pedofilia (L’asino d’oro edizioni, 2010) ho parlato delle conseguenze sulla vittima di abusi sessuali, e per farlo mi sono rivolto a degli psichiatri. Quello che mi ha colpito maggiormente è stata la spiegazione che ha dato uno di loro: ciò che subisce un bambino vittima di violenza sessuale è un omicidio psichico, perché il pedofilo attacca la possibilità di realizzare la propria identità sessuale durante la pubertà e gliela distrugge. E siccome l’identità sessuale è una delle caratteristiche dell’essere umano, quando una persona se la sente distrutta, può anche arrivare al suicidio. Quindi la pedofilia, oltre ad essere omicidio psichico, può diventare anche omicidio in tutti i sensi. È come se il bambino non esistesse La pedofilia di matrice ecclesiastica ha delle sue peculiarità. Per la chiesa, infatti, l’abuso è un peccato. È un delitto contro la morale, è un’offesa a dio, è la violazione del sesto comandamento “Non commettere atti impuri”. Per cui, in sostanza, la vera vittima in un caso di abuso di minore è dio, non la persona violentata; se la violenza avviene durante la confessione, come spesso succede, è il sacramento ad essere stato violato, non l’essere umano, non il bambino. Molte violenze avvengono durante la confessione proprio perché c’è il vincolo di segretezza e tutto quello che avviene durante la confessione è sottoposto al segreto pontificio, e anche le violenze, anche gli stupri, non possono essere rivelati se non al vescovo che poi parlerà col papa. Nelle leggi vaticane e nella mentalità della chiesa è come se il bambino non esistesse. Voi l’avete scritto in uno degli scorsi numeri di “A”, che in Italia la violenza sessuale contro la donna e contro un bambino è stata considerata un delitto contro la morale fino al 1996, e quella era chiaramente una legge che veniva dal codice Rocco, che era fascista e grondava di mentalità cattolica.
Questa mentalità la riscontriamo ancora nei tribunali, dove in caso di violenza sulla donna c’è sempre l’idea che sia la donna ad aver istigato in qualche modo la violenza dell’uomo che non ha potuto trattenersi, e questo succede anche con i bambini.
Questa cosa però viene detta troppo poco. In ambito clericale, nei casi di stupro di minori, c’è l’idea che sia il bambino ad aver istigato il sant’uomo; c’è l’idea che in quell’atto sia subentrata l’azione del diavolo, una cosa che ha detto anche Bergoglio durante il sinodo sulla pedofilia.
Questo famoso papa progressista è convinto, come lo era Paolo VI, che il diavolo sia una persona che agisce per distruggere la chiesa, e che la pedofilia sia uno dei modi in cui la chiesa viene attaccata.
In questo modo di ragionare scompare completamente la lesione subita dalla vittima. Ma soprattutto c’è la giustificazione di chi ha violentato, perché ha agito spinto dall’influenza del diavolo, da una forza esterna. Così si nega ogni responsabilità personale.
Una deresponsabilizzazione che ritroviamo in varie dichiarazioni di Bergoglio. Ad esempio, in seguito al summit sulla pedofilia, tenutosi in Vaticano dal 21 al 24 febbraio 2019, il papa ha dichiarato che è giusto approfondire i casi di pedofilia, ma al contempo ha sottolineato che la pedofilia non appartiene soltanto alla chiesa. Per il momento in cui è stata fatta e per il contenuto, la dichiarazione è suonata come un tentativo della chiesa di non farsi carico di un fatto oggettivo, cioè che l’incidenza della pedofilia nella chiesa è maggiore rispetto alla pedofilia nella società civile.
È assolutamente così. Ad agosto scorso, Hans Zollner, psicologo membro della Pontificia commissione per la tutela dei minori che esiste dal 2014, ha rilasciato un’intervista all’agenzia dei vescovi (SIR) in cui dichiarava che negli Stati Uniti, dal 1950 al 2002, tra il 4 e il 6% della popolazione ecclesiastica ha compiuto almeno un abuso su minori.
E si è rivolto poi alla chiesa italiana dicendo di non pensare che da noi la situazione sia diversa, quindi è bene correre ai ripari. Questo significa che nella santa sede, a certi livelli, si ha un’idea di quale sia la diffusione del fenomeno in Italia.
Il 4-6% è una percentuale mostruosa. Nel libro abbiamo fatto un confronto e siamo andati a contare le persone che sono in carcere per reati di natura sessuale contro minori; si tratta di circa 1200 persone; 1200 su una popolazione adulta di circa 47 milioni significa circa lo 0,025%. Dallo 0,025% della società civile al 4-6% della chiesa cattolica significa circa 200 volte in più, uno scarto gigantesco. Comunque in Italia non esistono dati ufficiali sulla diffusione del fenomeno della pedofilia, anche nella società civile, e quindi ci si chiede come si possa fare prevenzione se non si ha nemmeno la percezione corretta del fenomeno. E questo vale per la società laica e per quella ecclesiastica. Quello che ha dichiarato Zollner mi è sembrato d’importanza fondamentale.
Prima hai accennato alla questione del diavolo. Hai detto che con Bergoglio c’è stato un ritorno al passato, un ritorno all’antropomorfizzazione della figura del diavolo, che si incarna per rovinare la chiesa. Voi come avete affrontato la questione del ritorno del diavolo, un argomento che sembra essere utile alla chiesa per risolvere e spiegare tutta una serie di problemi?
Il capo dell’Associazione internazionale esorcisti, ad un certo punto, ha dichiarato che mai nessuno come papa Francesco ha nominato il diavolo nel corso del suo magistero. E in effetti, andando a rivedere i documenti ufficiali, già dalla prima settimana, Bergoglio ha cominciato a riportare, nel linguaggio comune delle sue omelie, allusioni continue all’esistenza del diavolo come persona. L’ha nominato decine e decine di volte. Quello che ci ha colpito, lo raccontiamo nel terzo capitolo del libro-inchiesta – e anche questa è un’indagine mai fatta prima da qualcuno e che abbiamo svolto sul “campo” a viso aperto, senza cioè nascondere la nostra identità e le nostre intenzioni – è che lui non l’ha fatto solo in quanto capo della chiesa cattolica; ad Assisi, davanti a una platea di cinquecento capi di stato e di presidenti del consiglio di tutto il mondo, ha parlato del diavolo come responsabile di guerre e carestie. In quell’occasione parlava nella veste di capo di stato, quindi anche da capo politico Bergoglio ha introdotto questo tipo di discorso. Questo è il modo in cui lui decifra certe questioni, che all’interno della chiesa sono molto critiche.
È stato sempre Bergoglio a riconoscere e dare un bollino di qualità all’Associazione internazionale degli esorcisti, e questo è un altro segnale molto interessante.
Nel 2014 l’ha riconosciuta come organo ufficiale all’interno della chiesa. Quest’associazione, a livello mondiale, si compone di circa 300-400 esorcisti, di cui 240 si trovano in Italia. In Spagna ce ne sono circa 12, in Lombardia circa 20. E in Lombardia c’è anche un numero verde per posseduti, con un call center che risponde dal lunedì al venerdì.
Per scrivere la terza parte della nostra inchiesta, dedicata appunto al diavolo, siamo andati a frequentare un master di esorcismo che si tiene a Roma ogni primavera. Nel frattempo, da quando è uscito il libro, il MIUR ha proposto agli insegnanti un corso di esorcismo dal costo di 400 euro, per individuare e distinguere eventuali ragazzini problematici dai ragazzini posseduti.
Qual è il senso, secondo te, di far frequentare un corso di esorcismo agli insegnanti?
La partecipazione degli insegnanti al corso di esorcismo fa il paio con un’altra cosa inquietante che riguarda i cosiddetti bambini iperattivi. Se un bambino è particolarmente vivace, adesso si tende ad inquadrarlo all’interno di una fantomatica sindrome di iperattività che può anche comportare una cura a livello farmacologico. Il corso di esorcismo vuole mettere l’insegnante in condizione di distinguere quando c’è un sintomo di disagio psichico e quando c’è la presenza del demonio. La chiesa infatti, molto abilmente, fa una distinzione. Non parla sempre di possessione demoniaca. Fino a un certo punto parla di disagio psichico, poi se la persona presenta determinate caratteristiche, allora parla di possessione demoniaca.
Le caratteristiche della possessione demoniaca secondo la chiesa sono proprio quelle dei film: il posseduto parla una lingua a lui sconosciuta, è in possesso di una forza sovrumana e riesce a fare cose, a livello fisico, che normalmente non potrebbe fare.
“I bambini abusati sono strumento del demonio”
Perché avete seguito il master di esorcismo?
Perché tra i docenti di quel corso ci sono magistrati, docenti universitari, avvocati, anche una poliziotta della squadra anti-sette sataniche. Siamo andati a quel corso proprio per capire come mai tra i docenti ci fossero magistrati, avvocati e poliziotti, e più di tutti ci hanno colpito due persone. Uno è un magistrato, che un paio di mesi fa è stato arrestato per corruzione, e che al corso ha esordito dicendo di sentirsi uno strumento della giustizia nelle mani di dio. La sua presenza al master, ha dichiarato, aveva lo scopo di aiutare i futuri esorcisti a evitare denunce da parte delle persone esorcizzate. Lo stesso faceva un’avvocatessa che aveva preparato una manleva per gli esorcisti da far firmare alla persona posseduta prima dell’esorcismo, praticamente per sollevare da qualunque responsabilità l’esorcista e i suoi aiutanti in caso di denunce per violenze e costrizioni fisiche.
Nella nostra inchiesta ci siamo occupati di esorcismo anche per un altro motivo, per l’idea e la mentalità della chiesa di ritenere il bambino abusato come strumento del demonio; quindi, se il sacerdote compie quello che per la chiesa è un atto sessuale e non una violenza, quella violenza viene considerata un peccato di lussuria determinato dall’azione del demonio attraverso il bambino.
Frequentando il master di esorcismo abbiamo anche scoperto che la stragrande maggioranza delle persone esorcizzate sono donne. Un dato scontato se si considera che tipo di società sia quella ecclesiastica.
La ripresa del diavolo serve chiaramente a sollevare i sacerdoti da ogni responsabilità. Inoltre, da quello che racconti – cioè dal fatto che siano le donne ad essere maggiormente vittime di esorcismi e dal fatto che, per la chiesa, i bambini necessitino di essere controllati perché è possibile che siano posseduti – si capisce come il diavolo venga utilizzato anche come mezzo di repressione e punizione.
Nel documentario Liberami c’è una scena in cui due genitori portano il figlio dall’esorcista perché a scuola fa casino, è troppo agitato e non è bravo. Il sacerdote mette la mano sulla testa del bambino, poi si gira di scatto verso la madre e dice: è colpa tua, non sei una donna di fede e in chiesa non ci vai. In un secondo il sacerdote ha distrutto al bambino l’immagine della madre e ha detto alla donna che il diavolo è dentro di lei. E questa è proprio l’idea che la chiesa ha della donna.
La stampa e lo stato sono complici
Alla luce di tutto questo, com’è possibile che Bergoglio riesca comunque a essere considerato un papa progressista?
La stampa italiana riporta in maniera assolutamente acritica quello che esce dai bollettini Vaticani.
Non c’è mai una verifica di quello che dice il papa. E così non si scoprirà mai che Bergoglio parla di “tolleranza zero” per i pedofili, ma in realtà ritiene che il sacerdote pedofilo abbia solo compiuto un peccato; che se il peccato è grave e non c’è possibilità di espiazione, allora quel sacerdote viene espulso dalla chiesa, ma siccome tutto avviene in gran segreto, la chiesa espelle dal proprio organismo una metastasi che viene immessa nella società civile senza che si sappia che quel signore lì è un pedofilo. La chiesa lo sa, ma non lo dice a nessuno. E quel signore lì, che ora non è più sacerdote, rimane comunque pedofilo anche dopo essere uscito dalla chiesa e ora si aggira per la società.
In questo c’è proprio la complicità dello stato, perché il Concordato tutela tutto questo, questa modalità di agire. L’articolo 4 del Concordato dice che l’autorità ecclesiastica non è tenuta a informare quella civile quando viene a sapere di eventuali reati compiuti da sacerdoti.
Quindi lo stato è complice della chiesa. Idem la stampa italiana, che si accontenta di sentir dire da Bergoglio “tolleranza zero” senza farsi domande e presentandolo come paladino della lotta contro la pedofilia. Ma per essere paladini, si deve anche fare qualcosa e Bergoglio non lo sta facendo.
Federico Tulli è redattore del settimanale “Left”. Già condirettore di “Cronache laiche”, collabora con “MicroMega”, per cui firma anche un blog, con “Critica liberale” e con “Globalist”. Con L’Asino d’oro edizioni ha pubblicato i libri: Chiesa e pedofilia (2010), Chiesa e pedofilia, il caso italiano (2014) e Figli rubati. L’Italia, la Chiesa e i desaparecidos (2015). Nel 2018 per Chiarelettere, insieme a Emanuela Provera, ha pubblicato Giustizia divina.
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LA MUSICA ARGENTINA DIVENTA PATRIMONIO DELL’UMANITÀ
A distanza di due anni dalla presentazione della sua candidatura, il Chamamé argentino è stato riconosciuto dall’organizzazione delle Nazioni Unite per l’Educazione, la Scienza e la Cultura (UNESCO), come patrimonio immateriale dell’umanità.
Il Chamamé è uno stile di musica tipico della regione di Corrientes e del nordest argentino, ma diffuso anche in Paraguay, Uruguay, Brasile e nella Patagonia cilena, nato nel XVI secolo dalla fusione della cultura guaranì (la popolazione indigena maggioritaria di quest’area) con gli insegnamenti portati dai gesuiti. L’UNESCO ha riconosciuto a questo genere le caratteristiche tipiche di un patrimonio immateriale: “trasmette alle comunità un sentimento di identità e di continuità: favorisce la creatività e il benessere sociale, contribuisce a conservare il contesto naturale e sociale e genera un guadagno economico”.
Gabriel Romero, presidente dell’Istituto Provinciale di Cultura, ha affermato: “il Chamamé è molto più di una musica allegra ascoltata nelle balere e ballata dalla classe operaia, come si credeva all’inizio. È una manifestazione culturale comune a tutte le classi sociali e che ha delle feste uniche: la Festa Nazionale del Chamamé e la Festa del Mercosur che si tiene nel mese di gennaio nella provincia di Corrientes e serve come vetrina mondiale per un genere musicale che continua ad acquisire sostenitori”.
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Fonte: Unesco - 16 dicembre 2020
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Bernardi, l'italiano a Tenerife conquista la stella
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Bernardi, l'italiano a Tenerife conquista la stella
C’è anche un italiano, Andrea Bernardi, tra i nuovi chef stellati spagnoli, resi noti poche ore fa. Classe 1977, originario di Marino, zona dei Castelli Romani, a parte la “scuola” di sua zia paterna Rita, è cuoco quasi completamente autodidatta; dopo alcune esperienze tricolori – compresi alcuni mesi con Heinz Beck – ha lavorato in Germania e Austria, prima di trasferirsi in Spagna, a Valencia. Dal 2005 si trovava invece a Tenerife, prima al Nómada, a El Sauzal, splendido affaccio sull’oceano e intelligente bistronomia d’alta qualità originale; da un paio d’anni al Nub di La Laguna (calle Antonio Zerolo 2. Tel. + 34 922 077606), al primo piano di un edificio in stile coloniale, del XIX secolo, che ospita anche la storica pasticceria La Princesa, fondata nel 1927.
Il luogo è spesso interessato dalle nubi e dall’umidità tipica di San Cristóbal de La Laguna (Patrimonio dell’Umanità dal 1999): da qui l’insegna “Nub”, appunto, che ha mantenuto mobili e finestre della casa originale del 1870, arricchita d’elementi di arte e di design, grazie all’apporto di artisti locali e non solo; sedie, tavoli e lampade sono di un designer italiano, e le stoviglie (composte perlopiù da pezzi unici) sono opera dell’artista-artigiano locale Gonzalo Martín, che ha il suo laboratorio a La Orotava.
Noi avevamo conosciuto Bernardi (inserendolo anche nella Guida Identità Golose) ai tempi del Nómada, e la sua mano felice ci aveva davvero impressionato, anche se al tempo nessuna guida – neanche quelle spagnole! – la (e lo) consideravano. Scrivemmo all’epoca: “La cucina di Bernardi è tecnica, elegante. Raramente ci è capitato di incontrare uno stile tanto evoluto in un indirizzo sconosciuto alle guide. Colpa, certo, della perifericità isolana, Tenerife non sta dietro l’angolo. E poi, se pochi sono profeti in patria, è vera anche un’altra cosa: risulta difficile riuscire a emergere da italiano all’estero che non vuole saperne di pummarola, limoncello e mandolino, rifugge insomma gli stereotipi ma punta tutto sulla contemporaneità – possiede tre roner differenti, per dire. (…) Lui ha talento, passione… e non solo, quelle sono promesse e premesse per il futuro, mentre noi abbiamo gustato piatti già consolidati, in pieno equilibrio” (leggi: Quell’italiano a Tenerife).
Nub è un indirizzo gourmet davvero particolare: una stanza con cinque tavoli e la capacità di 16 commensali, dove la cucina (“nomade”, la definiva Bernardi anni fa) è l’incontro e fusione tra culture gastronomiche diverse; quella italiana di Andrea; quella spagnola-canaria del luogo; quella sudamericana della compagna di lavoro e di vita dello chef, Fernanda Fuentes Cárdenas, ragazza cilena che cura la parte dolce del menu, ma mette lo zampino anche tra i piatti salati. Torniamo a citarci, ci perdonerete: “(Le proposte della cucina) risultano sintesi perfetta e coraggiosa della stessa essenza del luogo in cui vengono concepiti: le Canarie, ponte tra culture, enclave europea su zolla africana, ma protesa verso il Nuovo Mondo. Frequenti sono, ad esempio, le incursioni latinoamericane, che tradiscono la felice influenza di Fernanda: come nell’uso del piure, un invertebrato cileno color corallo che è ospite d’onore di una crema di cavolfiore, aglio bianco e olio di melissa”.
Oltre a Italia e Cile, nei piatti del Nub si incontra appunto l’essenza stessa della terra di Tenerife con proposte come Infusión de legumbres, bacalao, judión y papa trufa Canaria, ispirato dal popolo Mapuche – del Sud del Cile – il cui rispetto profondo per la natura lo porta a cucinare solo con quello che questa regala loro. Per ottenere la patata-tartufo canaria – ha sottolineato ad esempio restauracionnews.com – Bernardi e Fuentes Cárdenas mescolano tecniche contemporanee col metodo ancestrale di disidratazione del chuño, la farina di patate nere andine, che consiste nell’esporre il tubero a processi continui di congelamento ed essicazione, fino a ottenere una liofilizzazione naturale.
Complimenti vivissimi allora a Bernardi e compagna, così come giù il cappello di fronte ai due nuovi tristellati spagnoli, l’Abac di Barcelona, chef Jordi Cruz, e l’Aponiente di El Puerto de Santa María, due passi da Cadice, chef Ángel León, ospite della scorsa edizione di Identità Milano (leggi anche: Ángel León, lo chef che cucina la luce). Tra i nuovi sue stelle, anche il Disfrutar di Barcellona, chef Oriol Castro, Eduard Xatruch e Mateu Casañas, che vi abbiamo raccontato recentemente (Meraviglia Disfrutar) e del quale torneremo a occuparci a breve.
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Eh sì, è da tanto che non scrivo, lo so. Ma sono tornata, con la recensione di un film visto da poco che mi è piaciuto moltissimo. Davanti a "Neruda", da Ottobre 2016 nelle sale cinematografiche, ci troviamo al cospetto dell'ultimo lavoro, per la precisione al sesto lungometraggio, del regista cileno Pablo Larraín. Quest'ultimo, noto per i temi politici presenti nei suoi film (si veda il film del 2012 "No: i giorni dell'arcobaleno", nel quale racconta la nascita e lo sviluppo della campagna pubblicitaria dell'opposizione al governo di Pinochet nel suo Cile), in "Neruda" ritorna a parlare "indirettamente" di politica. Dico "indirettamente" perché questa volta decide di farlo attraverso il rapporto che il grande poeta ebbe in prima persona con essa. La scelta di Larraín è, in questo caso, di raccontare una parte della vita del poeta, ovvero quegli anni in cui viene perseguitato e costretto all'esilio dal governo cileno, in combutta con il governo statunitense, per il suo essere comunista. La storia è narrata in prima persona da Óscar Peluchonneau (interpretato da uno straordinario Gael García Bernal, già visto ne "I diari della motocicletta" di Salles, o "Babel" e "Amores Perros" di Iñárritu) l'ispettore che per tutta la durata del film dà la caccia al poeta, senza successo. Come effettivamente verrà detto in una scena, tutto il film ruota attorno al ruolo di protagonista di Neruda: gli altri personaggi (gli amici che lo proteggono, la moglie Delia) sono semplicemente "contorni" a un racconto che avrebbe anche aver potuto scrivere il poeta stesso. Colui che soffre di più di questa condizione è proprio l'ispettore Peluchonneau e ne soffre talmente tanto che il pubblico non riesce a comprendere se si tratti effettivamente di una persona reale o di un personaggio creato dalla mente del poeta. Il poliziotto, in una sorta di paradosso, se lo chiede nelle ultime scene, mettendo in discussione la sua intera vita, la falsa immagine di sé che si era costruito: figlio di una prostituta, non ha mai conosciuto suo padre e fantastica sull'identità di quest'ultimo, associandolo con Olivier Peluchonneau, il fondatore della polizia cilena, volendogli conferire una gloria in realtà inesistente. "Avrei potuto essere figlio di un Peluchonneau, ma in questo momento potrei anche essere un Neruda", parafrasando una battuta dell'ispettore, orfano di padre ed orfano della sua stessa identità, si impegna per a dare la caccia al poeta ma, in fondo, soprattutto a sé stesso. Il film è una testimonianza degli anni, successivi alla Seconda Guerra Mondiale, del governo di Gonzalez Videla, della persecuzione nei confronti dei comunisti in Cile e a come il poeta reagisce a tale momento della sua vita, con una sottile punta di ironia che sarà possibile percepire per tutti i 107 minuti. In conclusione, possiamo affermare che davanti a "Neruda" ci troviamo di fronte ad una perla rara, un film audace che, magari proprio per questo motivo, non sarà pubblicizzato ed esposto al pubblico come meriterebbe, ma che vale sicuramente tutto il prezzo del biglietto.
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