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La profonda riflessione sul dolore umano in "Spesso il male di vivere ho incontrato" di Eugenio Montale. Recensione a cura di Alessandria today
Una poesia emblematica di Eugenio Montale sul confronto con il male e l’indifferenza della natura.
Una poesia emblematica di Eugenio Montale sul confronto con il male e l’indifferenza della natura. Recensione dettagliata e completa: Spesso il male di vivere ho incontrato è uno dei componimenti più intensi e significativi di Eugenio Montale, tratto dalla raccolta Ossi di seppia, pubblicata nel 1925. La poesia è un ritratto della condizione umana che Montale osserva con una lucida e spietata…
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Il CUORE è:
- Il Centro vitale dell'essere umano.
- Il nucleo essenziale della trasformazione interiore.
- Il simbolo del Fuoco Interiore che risveglia e purifica l'anima.
- L'Atanor in cui avviene la trasmutazione spirituale.
- Amore e Saggezza. Un cuore puro e saggio è capace di comprendere i Misteri dell'universo.
- Il Punto di Unione tra Cielo e Terra (4° chakra), tra il Divino e il terreno.
- La dimensione attraverso la quale l'alchimista, purificando sé stesso, riesce a connettersi alle Forze Cosmiche e Divine.
- Il simbolo dell'«Oro Filosofico», ovvero lo stato di perfezione e illuminazione che l'alchimista cerca di raggiungere.
In sintesi, quando qui si parla di «Cuore», non ci si riferisce a nulla che riguardi il sentimentalismo o le altezze morali, quanto piuttosto a una DIMENSIONE DELL'ESSERE attraverso cui accedere alla Verità.
Lavora per condurre il «senso dell'IO» dalla mente al Cuore! 🔥
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Meta-coscienza di sé II
“Se sono già sat chit ananda, perché l’ananda, la pace, non la sento quasi mai?”
Abbiamo già introdotto il tema della coscienza/consapevolezza fenomenale e della meta-consapevolezza o meta-coscienza. È un concetto che spiega forse meglio di altri il passaggio dal sub-conscio al conscio e, successivamente, al pienamente conscio. Quello che intendo con questi termini, e che spiegherò di seguito come iter e scopo stesso del conosci te stesso, è preso dalla comprensione e spiegazione di tali termini come intesi da Bernardo Kastrup, ecco il link della sua lezione a riguardo. C’è un passaggio intermedio che io sottolineo di più perché serve a noi praticanti.
Coscienza fenomenale: ciò che è sub-conscio passa inosservato, perché non gli volgiamo la nostra attenzione, è conscio ad un livello fenomenale, ossia sappiamo in qualche modo che è lì, che esiste, ma non gli prestiamo attenzione.
Passaggio al conscio: Quando l’attenzione viene finalmente puntata al fenomeno sub-conscio c’è un momento molto chiaro, preciso e distinto in cui quel fenomeno diviene finalmente conscio. Quando parliamo di questo momento, stiamo parlando delle piccole o grandi percezioni o illuminazioni che possiamo avere durante il cammino di conoscenza di noi. Possono avvenire anche per fenomeni esterni se abbiamo un grande interesse scientifico, filosofico o artistico ed è ciò che rende possibile la genialità. Nella conoscenza di noi stessi, soprattutto quando si comincia a conoscere la mente, queste percezioni diventano piuttosto frequenti. Ce n’è una fondamentale che, come vedremo, cambia le carte in gioco e ci introduce al livello di pratica più alto. Sebbene il termine illuminazione sia in alcune tradizioni troppo esaltato e in altre volutamente sottovalutato, questo passaggio dall’inconscio al conscio è parte integrante del cammino evolutivo interiore dunque non può essere totalmente ignorato, va solo considerato nella giusta prospettiva, sapendo che ce n’è più di una. Il linguaggio semplice e neutro offerto dagli studi sulla coscienza può aiutarci a capirlo meglio che mai.
Meta-coscienza: Tale momento non è la fine del percorso, poiché ciò che è salito al conscio per diventare meta-conscio ed avere un effetto permanente e naturale su di noi, dev’essere sottoposto ripetutamente alla luce della consapevolezza. È molto facile capire l’intero iter se parliamo di eventi osservabili. Facciamo un esempio: nel conoscere la mia mente, ho una profonda percezione diretta degli effetti del desiderio sulla salute mentale. Questo momento sarà molto speciale, sentiremo che qualcosa è cambiato per sempre. Non basta però a far sparire gli effetti del desiderio, non chiude il cerchio, non trascende il fenomeno a livello basilare. Dovrà allora essere osservato e osservato ancora, fino ad arrivare ad un nuovo livello di distacco. Un esempio ancor più banale è la differenza tra sapere una cosa superficialmente, capirla profondamente e comprenderla talmente bene da saperla spiegare nel dettaglio. Il momento di comprensione apre una porta fino ad allora chiusa, è come un passaggio dall’ignoranza alla conoscenza, ma solo se l’attenzione torna ripetutamente a studiare il fenomeno in diretta, si diventa maestri nell’esporlo. Quest’ultima fase è dovuta alla meta-coscienza o meta-consapevolezza.
La pratica del conosci te stesso mira alla meta-coscienza di sé.
Nella pratica, quando l’attenzione si volge alla mente e alle emozioni, i contenuti salgono al conscio. Questa osservazione distaccata crea automaticamente saggezza sui fenomeni esposti e trascendenza. Si crea ciclicamente sempre maggiore distacco. La tappa più importante, la lezione fondamentale del conosci te stesso è ovviamente capire chi siamo. Il momento in cui si capisce è il passaggio dall’inconscio al conscio. C’è chi lo chiama satori, chi illuminazione, chi risveglio, chi battesimo nello spirito. Questa non è la fine ma il passaggio allo spirito, alla coscienza vacua e nuda. Si è aperto un nuovo varco di conoscenza, quello che ne scaturisce è la contemplazione o il samadhi o il famoso silenzio che chiunque medita sa che, prima o poi, arriverà. Qui si è chiamati a praticare ripetutamente questa conoscenza della coscienza stessa, così che si diventi meta-consci della nostra vera natura. Solo attraverso questa pratica, ripetuta il più possibile, la mente diverrà completamente pulita ed illuminata sulla verità. ‘La meta-coscienza va a braccetto con l’attenzione’, sottolinea Bernardo, ed infatti l’atma-vichara è la pratica di porre l’attenzione a se stessa o alla ‘sua fonte’. È un processo di auto attenzione che diventa un dimorare nella fonte stessa dell’attenzione/consapevolezza: la coscienza.
Cosa c’entra tutto questo con la domanda? Sat è esistenza. Tutti, a livello esistenziale ed essenziale, siamo attaccati alla fonte, altrimenti non esisteremmo, come dice San Giovanni della Croce. Chit è coscienza/consapevolezza. Nella forma più umana e comune è chiamata attenzione. Questo è il nostro campo di azione e di pratica. Qui è dove siamo evolutivamente mediocri e dobbiamo lavorare. Non ci manca l’attenzione ma non ne facciamo buon uso poiché la disperdiamo tra infiniti oggetti e questo genera l’insoddisfazione derivante dal desiderio (il desiderio materiale ci allontana da ananda). Quando finalmente volgiamo l’attenzione all’interno comincia il processo di auto-conoscenza che, per il praticante, è sentito come un intensificarsi del chit. Per questo molti parlano di diversi livelli di coscienza o di consapevolezza. Anche se, di per sé, sat chit ananda è immutevole, i ‘gradi’ con cui noi ne siamo consci e lo manifestiamo sono relativi. Al praticante esperto, sotto l’aspetto fenomenologico, risulta di aver raggiunto un ‘maggior grado di contatto con chit’, oppure ‘un livello di contatto più profondo’ con chit. Questo è essenziale per rispondere alla domanda, in modo pratico, perché solo quando riusciamo a restare ancorati, anche temporaneamente, a chit, alla coscienza pura o allo Spirito Santo, scopriamo la profonda pace che sorpassa ogni intelligenza, l’ananda. Per arrivare a questo prima deve salire al conscio la realizzazione della nostra vera natura. La meditazione è il percorso verso di essa. Una volta resa conscia la nostra natura, risulta possibile dimorarvi. Piano piano, quando il dimorare si farà sempre più naturale per noi, ci stabiliremo anche nell’ananda, che è l’ultima a stabilirsi permanentemente. Fino a quando non avremo perfetta meta-coscienza della nostra reale natura sarà inevitabile avere a che fare sia con il conscio che con l’inconscio. Avere delle fasi un po’ piatte ed altre molto intense in cui ‘perdiamo la pace’. Le ultime due fasi in cui ci si purifica dall’inconscio sono talmente intense da essere chiamate ‘notti’.
Ammiro la rigorosità nell’esposizione filosofica ma devo dire che l’accetto in pieno solo quando ad esporla è qualcuno che veramente dimora nel sat chit ananda in modo spontaneo e naturale, perché, in quel caso, è una vera e propria ‘istruzione sacra’ che può cambiarci nel profondo. Per chi, come noi, è ancora in viaggio, meglio essere pratici e capire che, sotto il punto di vista relativo, a parte il sat, che è in tutti perfettamente uguale, la conoscenza (chit) del sat varia tantissimo e che la maggioranza ne è conscia solo a livello fenomenale. Per farmi capire meglio riformulo: tutti sappiamo di esistere ma nessuno di noi sa davvero chi è. La conoscenza deve rivolgersi a se stessa per scoprirlo. Si deve conoscere se stessi fino a rendere conscia la nostra vera natura e poi, restarci quanto più possibile, per renderla meta-conscia. Questo si intende per ‘stabilità nella saggezza’ e questa solo è la manifestazione completa del sat-chit-ananda, sia sentita dal praticante che manifesta al mondo.
L’evoluzione non ci chiede altro che questo. Non ci chiede di cambiare i nostri destini con la volontà dell’ego, piuttosto ci dà una missione attraverso la quale evolvere interiormente la capacità di auto-attenzione fino a manifestare l’infinito potenziale, che è l’unico in grado di cambiare le sorti dell’umanità. Ritiriamo l’attenzione fino alla sua fonte e il resto accadrà da sé.
#metaconsapevolezza#Conosci Te Stesso#bernardo kastrup#sat cit ananda#ananda#inconscio#conscio#pace#evoluzione
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L'Enciclopedia. Enciclopedia
L'Enciclopedia
Enciclopedia
Enciclopedia
Diderot considera questo articolo con un certo distacco critico, che non esclude una profonda partecipazione. Snoda e riannoda tutte le fila della propria esperienza: rivendica l'autonomia politica e ideologica del gruppo degli enciclopedisti, libera iniziativa rispetto ai pubblici poteri; rievoca e circostanze della lotta quotidiana, esprime la consapevolezza di aver dato alla luce un organismo vitale, destinato a <<cambiare il modo di pensare comune, a riflettere tutto intero il <<secolo filosofico>>. Diderot non ne nasconde le lacune e sproporzioni: al tono del resoconto alterna il tono dell'esame di coscienza; l'indicazione dei limiti, il suggerimento dei rimedi. Uno dei modi di leggere quest'articolo consiste nel tener presenti i due piani del discorso: lo scarto che sussiste tra l'Enciclopedia così com'è. e come dovrebbe e dovrà essere; Diderot realizza una serie di notevoli considerazioni circa la storicità del sapere e la funzione propulsiva, ma anche provvisoria e retrospettiva dell'Enciclopedia, filia temporis. Si riconoscono i nessi molteplici che lo ricollegano ai precedenti articoli che lo ricollegano ai precedenti e seguenti scritti diderotiani, in particolare al Prospectus, all'Interprétation de la nature, a la Reve de d'Alembert, e al Discours préliminaire di d'Alembert: all'ottimismo che i due enciclopedisti avevano mostrato in un primo tempo riguardo alla classificazione delle scienze di Bacone e di Chambers subentra ora, una consapevolezza dei suoi limiti. L'appartizione lineare <<scienze, arti liberali, arti meccaniche>>, e la sessa praticità dell'ordine alfabetico, sono entrate in crisi: di qui le considerazioni sui rinvii interni tra articolo e articolo, vere e proprie strutture destinate a rimediare fratture e lacune. Diderot ha rinunciato a ogni illusione sistematica, sviluppa quelle perplessità: all'immagine ancor ottimistica di un <<mappamondo che deve mostrare i principali paesi...>> sostituisce l'immagine d'un paesaggio presente e reale, <<una campagna immensa, cosparsa di montagne, pianure, rocce, acque, foreste, animali...>> volendo sottolineare lo scarto tra teoria e pratica, progetto e realizzazione.
Due prospettive gnoseologiche, sia la connessione che sussiste tra questo testo e gli altri scritti filosofici diderotiani. D'Alembert, aveva posto l'accento sulle <<isole>> o <<punte di roccia>> emergenti dalla grande catena dell'essere: i dati empirici che interessano le scienze. Diderot, riprende e approfondisce il concetto della scala naturae, sottolinea il carattere arbitrario di ogni classificazione del sapere, sempre frammentaria rispetto all'ideale-limite della totalità della natura; ma aggiunge che l'ipotesi suggerita dall'astronomia giova a costruire un illusorio sistema deduttivo del sapere. Unico criterio valido per fondare filosoficamente il sistema delle conoscenze resta quello che sta al di là di tutti gli arbitrii, quello elastico che ospita tutto lo scibile a partire dal punto di vista di chi lo crea: <<soltanto la presenza dell'uomo rende interessante l'esistenza degli esseri; se si elimina l'uomo <<lo spettacolo sublime e poetico della natura non è più che una scena triste e muta; il centro comune cui occorre riferire scienze e arti. Qui, si coglie il senso di un umanesimo combattivo, strenuamente impegnato nella trasformazione pratica della natura e nella riforma della convivenza civile. Qui, si coglie il senso di un umanesimo combattivo, strenuamente impegnato nella trasformazione pratica della natura e nella riforma della convivenza civile Diderot conduce un discorso culturale e politico coerente, il tono rapsodico non esclude una profonda connessione dialettica tra cose dette e sottaciute. Questo brano di autobiografia intellettuale dà un suggestivo scorcio dell'intero movimento illuministico, di un'età, di una concezione della ragione.
#Annalisa Lanci#enciclopedia#illuminismo#storia#cultura#buio e luce#buio e luce tra cielo e terra#settcento#tra cielo e terra
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Quando Mr Bennet arrivò, aveva il solito atteggiamento di filosofico distacco. Non parlò più del solito; non accennò alla vicenda che lo aveva costretto ad allontanarsi da casa, e passò del tempo prima che le figlie osassero affrontare l'argomento. Solo nel pomeriggio, quando le raggiunse per il té, Elizabeth osò accennare alla faccenda; e dopo che egli ebbe brevemente manifestato il proprio dolore per ciò che aveva dovuto sopportare, egli rispose: "Non ne parliamo. Chi, se non io dovrebbe soffrirne? E' stata colpa mia, ed è giusto che paghi." "Non siate troppo severo con voi stesso," rispose Elizabeth. "Fai bene a mettermi in guardia contro questo pericolo. La natura umana è così pronta a cadervi! No, Lizzy, lascia che per una volta nella mia vita capisca di aver sbagliato. Non ho paura di essere travolto dall'emozione. Passerà in fretta."
Orgoglio e pregiudizio, Jane Austen
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Sulla Contemporaneità
Stonare nel proprio tempo
Quella che propongo è una breve e modesta riflessione sul concetto di contemporaneità, a partire dalla lettura di un intervento di Giorgio Agamben all’università IUAV di Venezia nel 2006.
“Che cos’è il contemporaneo e di chi e di che cosa siamo contemporanei?”
Questo è l’interrogativo, o forse anche la provocazione, da cui inizia l’intervento in questione. Tutt’altro che semplice è pensare ad una possibile risposta. Cosa significa il termine contemporaneo, o meglio, cosa significa tale parola a livello pratico-filosofico? È chiaro che l’utilizzo di tale aggettivo allude a qualcosa che ha in comune con un’altra il medesimo periodo storico: due politici del ‘900; alcuni artisti del ‘400. Oppure ci si può riferire a due eventi che accadono simultaneamente, contemporaneamente appunto. Ma al di là delle comuni definizioni, come ci rapportiamo a tale concetto? Cosa ha chiesto Agamben agli studenti che aveva di fronte?
Egli cita Nietzsche, e le sue Considerazioni intempestive, dalle quali, dice, si denota l’atto con cui l’autore tedesco si distacca dal suo tempo, criticando il male di cui la sua epoca va orgogliosa, ossia la cultura storica a cui è legata. Si tratta di una posizione di inattualità che si sfasa rispetto al tempo a cui appartiene, ed è questo che fa, sottolinea Agamben, il contemporaneo:
“Egli è capace più degli altri a percepire e afferrare il suo tempo”
Una nuova domanda a questo punto sorge spontanea: siamo tutti capaci di essere contemporanei? Il concetto così interpretato si fonda su una relazione del tutto singolare con il proprio tempo storico: una relazione anacronistica o sfasata.
Voglio continuare riagganciandomi a Nietzsche, citando però stavolta un passo di un’altra sua celebre opera, che è Al di là del bene e del male:
“Sono sempre più indotto a credere che il filosofo come uomo necessario del domani o del dopodomani si sia trovato in ogni tempo in contraddizione con il suo oggi”
Ecco forse uno spunto per un’interpretazione più contestualizzabile della contemporaneità, quale entità in rapporto idiosincratico con l’uomo-filosofo, che appartiene al domani e al dopodomani, ma stona con il suo tempo. È necessario un presupposto di terzietà, per accedere e comprendere la contemporaneità: un soggetto che si stacca dal suo tempo per diventare giudice di esso.
Non è però il mio intento addentrarmi in una riflessione puramente filosofica dell’argomento in questione. Ciò non toglie lo spazio ad un ulteriore è più specifico quesito: cosa vuol dire essere contemporanei nel 2022? Sorge consequenzialmente un’altra domanda: cosa comporta essere contemporanei nel 2022?
Oggi tale termine assume un’accezione sicuramente più coercitiva: diciamocelo chiaramente, se non sei al passo coi tempi sei fuori dai giochi. Ancora, se non disponi di un profilo social non sei connesso, e quindi vieni automaticamente tagliato fuori dalla grande piazza del sociale, meglio detta community; se non prendi parte di un movimento dal nome preceduto da un asterisco, non sei politicamente attivo; se avvalori e difendi una tradizione potresti essere accusato di conservatorismo, o addirittura di colonialismo o fascismo, perché ultimamente i paroloni decontestualizzati riempiono d’orgoglio chi ne fa un’arma. Ovviamente non si può nemmeno fare di tutta l’erba un fascio, ma è chiaro che in questo specifico momento storico, non servirsi degli strumenti che la contemporaneità ti offre o che spesso ti impone comporta un bello svantaggio. Per riprendere Agamben, essere contemporanei significa assumere una posizione di distacco critico rispetto all’epoca a cui si appartiene. Ciò implica assumersi però il rischio di rimanere tagliati fuori, ed è lecito a questo punto chiedersi se ne valga davvero la pena.
Emergono da questo sviluppo due concezioni di uomo contemporaneo, e chiedo venia per l’ennesima ripetizione: una più frivola e quotidiana, dettata dalla società attuale, che associa il contemporaneo a colui che è al passo in quanto assiduo fruitore dei mezzi che l’oggi ci mette a disposizione; l’altra, più sottile e meno immediata, figlia di una maggiore consapevolezza della capacità critica dell’uomo in quanto filosofo, ad oggi purtroppo un po’ demodé.
Fonti:
Giorgio Agamben - Che cos’è il contemporaneo?
Friedrich Nietzsche - Al di là del bene e del male
Tommaso Mosole
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Nota a "Canto del vuoto cavo" di Francesca Innocenzi
Nota a “Canto del vuoto cavo” di Francesca Innocenzi
Il vuoto: per alcuni un concetto filosofico-spirituale, totale negazione dell’idea di assoluto che apre a una sorta di ascetismo ateo, non mediato da divinità o da santi: una “mistica del vuoto” che, meditando sulla transitorietà e relatività di ogni fenomeno, permette di raggiungere uno stato di distacco non solo dai beni materiali ma addirittura dalla stessa ascesi, dall’ego o dal bisogno di…
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Modernità e Postmodernità. Le sorelle decrepite | 2021 © Lapo Lani
La modernità è l’epoca in cui viene portato a termine il distacco con il pensiero della tradizione filosofica, il quale, durante questo periodo, viene definitivamente emarginato e rimosso. In termini più generali, la modernità [1] è la condizione antropologica, la cultura e l'esperienza estetica della società industriale fondata su quella particolare forma di produzione capitalistica capace di imporre la propria "razionalità strumentale" [2] a tutti i livelli della vita sociale.
Secondo la tradizione filosofica, per vivere in armonia con il Mondo - la Natura della terra, del mare e dei cieli [3] - bisognava essere virtuosi, e la virtù era imprescindibilmente legata alla dimensione metafisica: gli dèi, Dio, il Destino [4], la Provvidenza [5], la Verità [6]. Le virtù [7] stabilite dalle culture storiche originarie della civiltà dell'Occidente (giudaica, greca, romana, cristiana) possedevano un'essenza metafisica.
In antichità l'uomo aveva fede nel mito [8], unico strumento per sconfiggere la sofferenza, il dolore e la morte; ma quando questo rimedio non fu più sufficiente a placare la massima paura, l'uomo iniziò, prima, a confidare nella Verità incontrovertibile indicata dalla filosofia, poi, quando il concetto di epistème fu messo in crisi dal sapere controvertibile della scienza moderna, ad avere fiducia sulla propria potenza di trasformare il mondo. La modernità libera radicalmente e definitivamente il divenire da qualsiasi dimensione trascendentale, aprendo uno scenario in cui, non essendo più presenti le supremazie del passato - gli dèi, Dio, il Destino, la Provvidenza, la Verità -, capaci di anticipare e finalizzare ogni evento, l'uomo può diventare massimamente potente per dominare il mondo. Tuttavia, affinché possa esserci la massima libertà di azione, è necessario che il pensiero filosofico abiti un adeguato contesto: deve poter "credere" - e questa è la ragione per la quale i filosofi parlano di “fede” - che le cose del mondo siano liberamente trasformabili e dominabili. La cultura moderna rappresenta l'apice di questo assetto intellettuale, chiamato anche "nichilismo", ossia quella fede secondo la quale le cose nascono dal Nulla per poi ritornarvi. Tutto ciò che viene considerato determinante dalla cultura moderna riguarda il modo di "fare" per poter "modificare" le cose e gli eventi, mentre questi oscillano tra il Nulla da cui derivano, e il Nulla a cui sono promessi. L'uomo vuole essere "potente" quanto più possibile; quel tanto necessario a dominare quanto più radicalmente possibile il mondo delle cose temporaneamente sfuggito al Nulla. Questa è l'unica condizione per poter sconfiggere la sofferenza, il dolore e la morte. E così la modernità si è liberata di tutte quelle forze che avrebbero limitato la potenza di trasformazione, rendendo il mondo un luogo aperto e sterminato, senza ostacoli, in cui la storia è niente di più che un cimitero: «L'uomo si aggira come un turista nel giardino della storia, considerandolo un deposito di maschere teatrali che può liberamente indossare e abbandonare» [9]. Si apre così una prateria sconfinata che può essere cavalcata in groppa alla scienza e alla tecnica, gli strumenti più potenti che l’uomo abbia mai posseduto per modificare e dominare le cose e gli eventi. Con la smobilitazione radicale dell’intera dimensione metafisica, le vecchie virtù, ossia le qualità che l'uomo doveva possedere per bene interpretare il mondo e le potenze che lo presiedevano e governavano, vengono sostituite con altre [10], le quali, avendo perso la relazione con la dimensione eterna, immutabile e incontrovertibile, non possono che avere un’essenza provvisoria, mutabile e controvertibile. La conoscenza moderna, quindi, ha un carattere ipotetico, problematico, transitorio, perfettibile, revisionabile, falsificabile. (Dietro questo pensiero si potrebbero intravedere le scintillanti intuizioni del Romanticismo (movimento culturale nato alla fine del XVIII secolo e sviluppato nel XIX secolo) [11], scaturite dal contrasto intellettuale con l'Illuminismo (sviluppato nel XVIII secolo).) La scienza, dopo Galileo, è diventata una conoscenza ipotetica-deduttiva, per la quale dati certi postulati, per mezzo di certe regole di trasformazione, si deducono certe conseguenze; la scienza è quel sapere che riconosce il proprio carattere falsificabile, provvisorio, probabilistico, fondato su strumenti logici incoerenti o irrisolvibili [12]; quel sapere che cerca la validità, non la verità (epistème). «La scienza è fede?! Sì. Per avere potenza sul mondo, la scienza ha rinunciato da tempo a essere "verità", nel senso attribuito a questa parola dalla tradizione filosofica. La scienza è divenuta sapere ipotetico. Sa di non essere sapere assoluto ("verità", appunto) - e in questo senso non è fede ma dubbio -; tuttavia, per avere potenza nel mondo deve aver fede nella propria capacità di trasformarlo; ed è all'interno di questa fede che essa elabora, risolve e conferma i propri dubbi» [13]. Anche la tecnica [14], basata sulla scienza moderna, è uno strumento di potenza sul mondo. Ambedue - scienza e tecnica -, per essere potenti, hanno dovuto abbandonare la verità, e questo processo annuncia, come evidenzia una parte della filosofia moderna e contemporanea, il loro inevitabile futuro tramonto. Così la modernità si risolve in un'esperienza estetica discontinua e disgregante, abitatrice di un tempo fuggevole e provvisorio, di uno spazio fugace e illimitato, costretta a tracciare traiettorie fortuite e arbitrarie. L'esperienza nel mondo in cui viviamo possiede, oramai, solo una dimensione transitoria e casuale. Il sentimento di un destino preordinato, di un già compiuto, si realizza non più in un unico luminoso epilogo, così come volevano il destino o la provvidenza della tradizione filosofica, ma in ogni singolo momento, o in nodi relativi e trascurabili. Tuona nuovamente la voce di Friedrich Nietzsche: «Dammi un maschera, ti prego, un’altra maschera ancora» [15].
Il sistema di pensiero nichilistico che sta alla base della modernità - il cui unico scopo è il dominio dell'uomo sul mondo attraverso la massima libertà di trasformare le cose e gli eventi - comporta inevitabilmente una precisa forma politica, la Democrazia procedurale [16], e un preciso sistema economico, il Capitalismo [17] liberista [18]. A sua volta, il capitalismo implica la forma del consumismo come mezzo più potente per poter raggiungere il proprio scopo, ovvero il massimo incremento del profitto privato. È in questo clima che avviene la metamorfosi della modernità in postmodernità [19]. Le dimensioni planetarie dell'economia capitalistica liberista e dei mercati finanziari comporta l'invadenza dei mezzi di comunicazione di massa, l'ingombrante e aggressiva presenza dei messaggi pubblicitari, il continuo e invadente flusso delle informazioni commerciali sulle reti telematiche e sulle piattaforme informatiche. E così, come la modernità si era liberata della tradizione filosofica, troncando la relazione con la Natura madre e con le potenze metafisiche, adesso la postmodernità si libera dei grandi progetti dalla modernità, elaborati a partire dall'Illuminismo: il mito chimerico della "massima potenza" fa cadere anche gli ultimi impicci ideologici. La condizione antropologica e culturale della postmodernità è caratterizzata da una dimensione intellettuale ed estetica chiusa nella più algida artificialità, quella dimensione che non ha più alcuna relazione con la Natura intesa come Creato trascendentale, e modello eterno e immutabile di virtù. In questo scenario culturale - detto anche cultura di massa o pop - viene abolita ogni residua distinzione tra i prodotti "alti" e i prodotti di massa. In quest'ottica, scompare anche qualsiasi distanza tra la creazione naturale - misteriosa e incontrollabile forza ciclica distruttrice e creatrice - e la produzione artificiale [20].
Il passaggio che segna la metamorfosi della cultura moderna in postmoderna si può riassumere nella frase «tanto più l'uomo è alienato, tanto più è libero», in cui il concetto di alienazione [21] corrisponde a un processo imprescindibilmente legato a una logica razionale, basata su un'implicita immagine geometrica: dal soggetto si stacca una parte che, una volta divisa dal corpo originario, diventa più forte, fino a dominarlo. I pensatori moderni [22] considerarono l'alienazione, così come descritta, una grave minaccia alla libertà collettiva e individuale. Ma l’uomo postmoderno diventerà libero se egli stesso sarà nella sua interezza oggetto di alienazione, ovvero se sarà integralmente alienato (non possiederà parti con qualità migliori di altre, le quali, se scisse e proiettate in un’altra dimensione, prenderebbero il sopravvento; potremmo chiamare questa impostazione "feticismo del soggetto"). Così viene evitato il “feticismo delle merci” definito da Karl Marx, per il semplice motivo che adesso l’uomo si aliena totalmente, diventando feticcio, cioè feticista di se stesso; diventando una "cosa", caratterizzata da una specifica essenza: essere uscita dal Nulla e destinata a ritornarci. Gli individui, essendo integralmente alienati, diventano “reificati”, cioè cose tra le cose. Così agisce la postmodernità: l’uomo non è alienato dalla televisione o da un dispositivo mobile, semplicemente perché sta dalla loro stessa parte: non c’è più un soggetto che osserva e un oggetto-feticcio che viene osservato; ci sono due feticci, uno di fronte all'altro. Il dispositivo mobile non viene utilizzato per osservare qualcosa di esterno a sé che possiede virtù eterne e immutabili - come era la Natura per la tradizione filosofica -, ma è uno strumento che crea, produce virtù (estetiche); l'utente non è più un osservatore esterno al dispositivo-strumento, ma ne fa parte, ed egli è, al tempo stesso, produttore e prodotto. La natura non è più un modello che possiede qualità metafisiche e trascendentali, ma è una cosa liberamente trasformabile e dominabile - questa è la sua nuova virtù -, e la tecnica, guidata dalla scienza moderna, indica il modo più efficace per farlo. Se l'uomo è un feticcio, la contemporaneità non può che essere caratterizzata da una spinta all'individualismo esibizionista. L'esibizione sottintende la massima possibilità di trasformare se stessi in quanto cosa; significa relazionarsi con le cose stando all'interno dello stesso palcoscenico. (In questo clima filosofico e culturale, gli individui sono inclini a comportamenti sadici e masochistici, capaci di esaltare la libertà di "produrre" una trasformazione dell'individuo-oggetto-feticcio. La violenza imposta a se stessi o agli altri è una forma di dominio.)
Solo se l’alienazione è massima, la libertà è massima; e la massima libertà corrisponde alla massima potenza, quindi al massimo dominio: ��Muovetevi anche stando fermi! Non cessate di muovervi! Fate rizoma e non radice, non piantate mai! Non seminate, iniettate! Non siate né uno né molteplici, siate delle molteplicità! Fate la linea e mai il punto! Siate rapidi anche stando sul posto!» [23].
Ma la cultura postmoderna va ancora oltre: la storia e il futuro, definitivamente sottratti a ogni finalismo, appaiono in maniera del tutto disincantata; uno scenario in cui personaggi senza racconto si muovono con traiettorie casuali e incontrollabili, calpestando un suolo metallico sgombero delle stigmate della modernità - i concetti di "valore", "senso" e "coscienza" -, ultimi barbagli della tradizione filosofica. Gli individui postmoderni restano alienati da tutto tranne che dalle particolari ossessioni che hanno sviluppato per rendere più sopportabile l'alienazione [24].
La natura non è più la grande Madre, il ciclo sacro che tutto distrugge e tutto crea. La realtà è l'immagine di una "cosa", e non può essere interpretata perché non possediamo più un modello originario - eterno, immutabile, vero - capace di decifrarla.
C'è abbondanza di quelle cose che aiutano a vivere, ma non trasformano la vita in destino; sempre sospese tra esaurimento e ricchezza, tra morte e felicità.
Lapo Lani Milano, dicembre 2021
Note:
[1] - L’inizio della Modernità può essere identificato con la seconda rivoluzione industriale e la nascita del positivismo, corrente di pensiero che interpreta i fenomeni della realtà con un atteggiamento scientifico e tecnico.
[2] - Il concetto di "razionalità strumentale" viene introdotto da Max Weber (1864-1920), e definito come l'impiego della logica razionale per esercitare un controllo sull’uomo, e per conoscere e dominare la natura; è una razionalità che, nata per potenziare l’apparato produttivo, diventa totalizzante, andando a modificare la struttura dell'intelletto collettivo, e a invadere gli apparati della società - le strutture familiari, gli ordinamenti giuridici, politici ed economici, la scienza e le attività creative e artistiche.
[3] - I primi filosofi greci, i presocratici, usano il termine Natura (in greco “φύσις”, “phýsis”) con il significato di principio generativo di tutte le cose, soggette a nascita, accrescimento, degenerazione e morte. La Natura ha un andamento ciclico senza fine, in cui tutte le cose e gli eventi appartengono a un ininterrotto andamento circolare di produzione e distruzione, composto di punti eterogenei. Questo movimento viene eseguito “secondo necessità” (come dicono Eraclito, Anassimandro e Parmenide). Il punto privilegiato del circolo si chiama arché (in greco “ἀρχή”, che significa “principio”, “origine”), il principio di tutte le cose che compongono la natura. L’arché è il modello rispetto al quale tutto si genera e tutto si annulla. Quindi il principio delle cose è la dimensione in cui esse esistono all’origine. Solo la specificità delle cose, la singolarità, non la loro essenza, proviene dal nulla e nel nulla ritorna. La conoscenza dell’arché consente di comprendere le cose indipendentemente dalla loro manifestazione reale.
[4] - Il Destino è quella forza immutabile, incontrastabile e imperscrutabile nei confronti della quale nulla possono gli dèi e Dio; è la forza che definisce il fine ultimo di tutti gli eventi.
[5] - La Provvidenza è il destino se governato dagli dèi o da Dio. Questo concetto, posteriore a quello di destino, è stato pensato dallo stoicismo, scuola filosofica fondata nel III-II secolo a.C.
[6] - I greci antichi chiamavano la verità "epistème", parola che deriva dal greco (ἐπιστήμη) ed è composta dalla preposizione epì- (“su”) e dal verbo histemi (“stare”); quindi “stare sopra”. L'epistème designa la conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che intende porsi “al di sopra” di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti. Platone contrapponeva l'epistème a "dòxa" (opinione soggettiva).
[7] - Il termine virtù, di origine latina, ha derivazione greca, “areté”, termine con la stessa radice di “àriston” (il migliore) e “àristos” (l’ottimo). Le virtù nella cultura della Grecia antica erano "kalòs kai agathòs" ("bello" e il "buono"; la bellezza era concepita come una virtù eterna e immutabile, donata dagli dèi agli uomini; per Platone il bello era la causa dell'azione morale, quindi strettamente legata al buono. Plotino scrive nelle "Enneadi": «Al bene bisogna risalire, a quel bene cui ogni anima agogna […], e sa in che modo sia bello»), “kalokagathìa” (concetto derivato da "kalòs kai agathòs", identificava l'ideale di perfezione fisica e morale dell'uomo, virtù dell'uomo ottimo), “eusébeia” (la devozione, la riverenza, il profondo rispetto verso il Destino, gli dèi, gli antenati e la famiglia), “areté” (forza d'animo, vigore morale e fisico; il concetto di areté esprimeva un modo perfetto, "giusto mezzo" di essere; possedere l'areté significava riuscire a esprimere il proprio talento; areté ha la stessa radice del termine latino "ars", ovvero capacità di costruire, di fabbricare, di creare), “epistème” (la conoscenza della verità incontrovertibile [4]). Le virtù nella cultura della Roma antica, molte delle quali furono ereditate dal pensiero greco, erano "fides" (fedeltà e lealtà del cittadino verso il suolo patrio di Roma e il suo assetto gerarchico e legislativo), "pietas" (il concetto corrisponde al concetto greco di eusébeia), "majestas" (dignità e appartenenza alla civiltà romana), "virtus" (lealtà nel dimostrare il proprio valore attraverso le proprie azioni), "gravitas" (dignità, serietà e autorevolezza). Le virtù nella cultura cristiana erano il rispetto e l'amore verso Dio, la "compassione" (la predisposizione a condividere la sofferenza e il dolore di un'altra persona, o di un gruppo di persone; la pietà cristiana è un concetto radicalmente diverso rispetto alla pietas romana e a eusébeia greca), la "misericordia" (il patto di carità; la predisposizione a condividere la miseria altrui), la "carità" (l'amore che, attraverso Dio, unisce gli uomini tra loro e con Dio), l'"umiltà" (consapevolezza della propria dipendenza nei confronti di Dio e del prossimo).
[8] - Alleanza tra l'uomo e le forze più potenti di lui: la Natura, gli dèi, Dio, il Destino, la Provvidenza.
[9] - Friedrich Nietzsche (1844-1900), "Considerazioni inattuali", raccolta di saggi scritti tra il 1873 e il 1876. (Rusconi Libri, 2020.)
[10] - Le nuove virtù sono le qualità che caratterizzano le forze in grado di trasformare il mondo. Quindi, non più bello, buono, santo, sacro, giusto, pietoso, compassionevole, misericordioso..., ma efficace, efficiente, produttivo, affidabile, durevole...
[11] - Il movimento culturale del Romanticismo considera il mondo delle cose (la realtà) - a fronte della cognizione di pluralità, di inesauribilità, del carattere imperfetto di tutte le risposte e ordinamenti umani; della cognizione che, nella vita come nell'arte, nessuna risposta che si pretenda vera e perfetta può, per motivi di principio, essere vera e perfetta - un mito, in quanto solo il mito riesce a esprimere l'inesprimibile. La virtù per la cultura Romantica non è l'accesso alle qualità metafisiche e trascendentali, ma la capacità di creare, produrre virtù. A differenza del pensiero illuminista, l'arte si crea senza modelli, e dal nulla. Si creano virtù come gli artisti creano le opere d'arte. Il nostro mondo non è quello che è, o quello che appare alla scienza, ma quello che noi creiamo, che produciamo. Il Romanticismo fu una svolta verso il sentimento e l'emotività, e accese un improvviso interesse per il primitivo, il mistero (tutto ciò che non è possibile penetrare con la logica razionale) e il remoto - remoto nel tempo e remoto nello spazio -; accese un’incontrollata passione nei confronti dell’infinito e dell’inafferrabile.
[12] - I due teoremi di incompletezza di Kurt Gödel (1906-1978), pubblicati nel 1931, dimostrano che ogni teoria formale basata su un sistema di assiomi, come per esempio l’aritmetica, è incompleta (cioè contiene proposizioni indecidibili) o non coerente (cioè la coerenza non è dimostrabile nell’ambito di quel sistema di assiomi).
[13] - Emanuele Severino (1929-2020), "Le fedi e la lotta per il potere", Corriere della Sera, 24 maggio 2007.
[14] - La tecnica è una forma di organizzazione di mezzi per produrre un unico scopo, cioè l’incremento indefinito della produzione degli scopi. Gli scopi della tecnica non coincidono necessariamente con quelli dell’uomo, né, tantomeno, con il bene di questo.
[15] - Friedrich Nietzsche (1844-1900), “Al di là del Bene e del male”. (Adelphi, 1977.)
[16] - Hans Kelsen (1881-1973) definisce così la democrazia procedurale in "I fondamenti della democrazia": «Esercizio di un governo poggiante su decisioni prese a maggioranza da un'assemblea popolare o da uno o più gruppi di individui, designati attraverso un'elezione basata sul suffragio universale, libero e segreto». (Il Mulino, 1981.)
[17] - Sistema economico in cui il capitale - denaro, mezzi intellettuali e strumenti di produzione - è di proprietà privata, e il cui unico scopo è creare profitto privato.
[18] - Sistema economico basato sulla libertà di mercato, in cui lo stato si limita a garantire la libertà economica con un ordinamento giuridico, provvedendo esclusivamente ai bisogni della collettività che non possono essere soddisfatti per iniziativa privata; questo sistema, a differenza del protezionismo, garantisce la libertà del commercio internazionale.
[19] - Metamorfosi della condizione antropologica e culturale avvenuta a partire dagli anni 1960 circa, conseguente alla crisi della modernità.
[20] - La produzione industriale matura, con il suo alto livello di artificialità, ha portato la cultura moderna ad accantonare il modo di vedere la Natura della tradizione filosofica, paradigma della dimensione metafisica, sopprimendo l'idea di "Legge naturale" e di "Diritto naturale". I prodotti industriali non hanno più alcuna relazione con la Natura intesa come creato degli dèi o di Dio. L'arte moderna e postmoderna hanno un solo scopo: distruggere e sbarazzarsi definitivamente dell'immagine tradizionale della Natura.
[21] - Processo per cui ciò che originariamente appartiene all’uomo ed è opera sua gli diviene alieno ed estraneo, finendo, da ultimo, col dominarlo e asservirlo.
[22] - Secondo Ludwing Feuerbach (1804-1872), la religione è un processo di alienazione in quanto l'uomo viene sottomesso dalle proprie qualità, una volta sottratte alla propria caducità e trasferite nella dimensione eterna di Dio. Secondo Karl Marx un'altra forma di alienazione riguarda i prodotti industriali, i quali possiedono delle qualità che non traducono l'attività affettiva di chi li ha creati (operaio, proletario, salariato).
[23] - Gilles Deleuze (1925-1995) e Félix Guattari (1930-1992), “Mille Piani. Capitalismo e schizofrenia”. (Orthotes, 2017.)
[24] - Pensiero moderno avrebbe capovolto i termini: la loro integrale alienazione è una conseguenza delle loro ossessioni.
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Copertina: "Autoritratto”, disegno di Lapo Lani. Fotomontaggio ripreso con acrilici e successivamente elaborato con processi digitali. Anno: dicembre 2021. Collezione privata.
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Egregi Signori degli Stati e dei governi della Chiesa. Che cosa volete di più, di cos' altro avete bisogno per ammettere ciò che sapete benissimo ma che per paura, ipocrisia, o convenienza non volete ammettere, vale a dire che siamo in guerra: una guerra che ci è stata dichiarata da loro. Non da noi.
Che continua in tutte le possibili forme cioè col sangue, gli assassinii, gli incendi delle ambasciate (a quando quelli delle chiese) e con le minacce e con le parole e con le persecuzioni come quelle che ad esempio subisco io, con le decapitazioni reali o rappresentate.
Che cosa volete di più? Di cos' altro avete bisogno per svegliarvi e capire che bisogna difenderci? Che cosa volete di più, di cos' altro avete bisogno per capire che la nostra libertà è in pericolo, che la nostra civiltà è in pericolo, che la Democrazia è inerme è imbelle è suicida. Che cosa volete di più, di cos' altro avete bisogno per uscire dall' inerzia anzi dalla servitù nella quale vi siete arroccati per proteggere i vostri stessi assalitori, i vostri stessi invasori, i vostri stessi nemici.
Don Andrea della diocesi di Roma, anni sessanta, ucciso a colpi di pistola da un ragazzino dentro la chiesa mentre era in preghiera in una città che si chiama Trebisonda. È andato cinque anni fa in Turchia a fare il missionario.
Cosa altro volete? Nelle strade di Damasco a orde cantano: «Allah è grande». A orde giurano che difenderanno il profeta col sangue. A orde ripetono che vogliono la guerra santa. Generalizzata. E non sono due o tre kamikaze, sono centinaia e centinaia di manifestanti che voi chiamate «Islam moderato». Non sono una minuscola minoranza, una contenuta setta di assassini da «non-vanno-confusi-coi-terroristi-di-Al-Qaida-perché-il-popolo-mussulmano-è-buono-e-pacifico».
Sono coloro che poi sbarcano sulle nostre coste e a poco a poco secondo una strategia ben pensata, ben concepita e ben condotta ci invadono. Si sostituiscono a noi. E voi non dite una parola contro di loro. Cianciate le solite ambigue e vili condannucce. Condannate gli autori di tre o quattro legittime e note vignette.
In Pakistan quella plebaglia sta montando. A Islamabad gli ambasciatori di Francia, Germania, Spagna, Olanda, Italia, Svizzera, Norvegia, Ungheria, Repubblica Ceca, sono stati convocati per essere messi sotto accusa dalle vignette «blasfeme». Il direttore del settimanale Shinan è stato arrestato ad Amman per aver pubblicato quelle vignette. A Parigi (a Parigi!!) il direttore di France Soir è stato licenziato (licenziato!!!) per la stessa ragione...
A Beirut hanno bruciato l' ambasciata danese bruciando le bandiere e dopo nel quartiere maronita dove hanno preso a sassate la chiesa e saccheggiato i negozi. In Internet si incita a sterminare i danesi.
Ma avete tutti perduto la testa? E con la testa avete tutti perduto non soltanto la dignità ma il senso stesso della sopravvivenza. Non è più lecito neanche difendersi, cercar di sopravvivere.
Ma non lo capite che ora bruciano le ambasciate e domani bruceranno le chiese e dopodomani bruceranno le nostre case. Proprio perché con la vostra inerzia e i vostri compromessi, la vostra paura, e in nome di un amore che non si capisce cosa sia questo amore, prendete le loro parti, giustificate la loro violenza fisica e intellettuale e morale? Non abbiamo dunque neanche la libertà di pubblicare una innocua vignetta che li giudica con l' arma innocua dell' ironia? Non abbiamo dunque più il diritto di ridere e di sorridere?
Che cosa significa Libertà quando la libertà si deve fermare a non offendere una certa categoria, in questo caso la categoria degli araldi di una religione?
È dunque lecito consentire l' istigazione all' omicidio di un cittadino (come nel mio caso) raffigurando questo cittadino decapitato ma non è lecito rappresentare il Signor Profeta con un disegnino dove appare per quello che è cioè ridicolo? Dov' è la vostra Democrazia?
Dov' è il vostro rispetto della Libertà?
Dov' è la vostra Ragione? Dov' è la vostra Intelligenza? Siete Uomini, siete Donne o siete Cose? Cioè servi, schiavi, cani fedeli voi che li proteggete, voi che non li condannate, voi che guardate con presunto distacco e obiettività le ambasciate che oggi bruciano, e che domani guarderete nel medesimo modo le chiese che bruciano, le nostre case che bruciano, siete i primi colpevoli.
Perché loro combattono e voi no. Loro si battono per una idea infame per il nuovo nazismo e voi non vi battete per nulla. Siete degli esseri vuoti senza anima e senza cervello che pur di sopravvivere siete pronti a sacrificare il futuro, anzi la vita dei vostri figli, dei vostri Paesi, della vostra civiltà.
Io non vi seguirò su questa strada. Finché io avrò fiato io continuerò ad avversare voi quanto avverso loro. Sono molto ferita, molto delusa, molto straziata dalle condanne ambigue o larvate che sono state espresse dai Numi, da coloro che dovrebbero essere i guardiani della nostra Libertà e della nostra Civiltà. Tutti hanno condannato quelle vignette. Tutti.
Dal dipartimento di Stato americano alle più alte autorità del Vaticano.
Dai capi di Stato e di governo occidentali come Blair e Chirac e... e...e... al vescovo luterano della stessa città dove ora bruciano le ambasciate: Copenaghen. Da esponenti della sinistra a esponenti della destra come il signor Gianfranco Fini che travolto dall' audacia ha dichiarato: «Siamo su una polveriera». (Signor Fini a Torino quando i soldati francesi invasero la Cittadella, Pietro Micca la fece saltare in aria quella polveriera ed ebbe le palle di morire con loro).
Ma da una indagine frettolosamente fatta dal quotidiano Repubblica risulta che in Italia soltanto il 24 per cento degli interrogati si è schierata con loro. Il 76 per cento la pensa come me. Quel 76 per cento è tutto composto di cretini, di rozzi, di illiberali, di scriteriati? Dov' è la Democrazia alla quale vi appellate tanto se non tenete conto della stragrande maggioranza della popolazione che la pensa come me e che non vi rispetta? Vale soltanto per i voti che riuscite a carpire nelle bugiarde elezioni della vostra bugiarda Democrazia il potere della maggioranza?
In questo momento, in questi giorni, nelle case italiane e francesi e inglesi e tedesche e spagnole, nelle case (europee, nelle case occidentali la gente sta pensando quello che penso io. Sta dicendo quello che dico io.
Aggiunta a margine dell' Autrice, N.d.R.) dove si ascoltano le notizie, dove ci si sente dire che la satira non può toccare le religioni, che è proibito perfino ritrarre il muso del «Profeta», un «Profeta» che nonostante le guerre, le stragi e gli omicidi di ogni tipo ungete con la qualifica di Sant' uomo, un cammelliere barbaro e assassino che voleva soltanto la distruzione di tutti coloro che non accettavano di essere sottomessi dalla sua soldataglia. L' autore di un libro che sembra scritto da Satana e che voi osate trattare con lo stesso rispetto con cui vanno trattati i Dieci Comandamenti e gli Evangeli.
Voi siete un' offesa alla logica. Voi siete un' offesa alla Ragione. Voi siete un' offesa alla Verità. Voi siete un' offesa alla Vita. Voi siete i veri sostenitori del culto della morte. Voi chiedete scusa per il Medioevo, chiedete scusa per le Crociate. Il Medioevo fu un' epoca luminosa, un' epoca che sostenne e sviluppò la nostra civiltà.
Sia in campo culturale, artistico, filosofico, religioso le Crociate furono la risposta ai loro 11 settembre e alle loro invasioni. Voi siete anche dei falsari. Falsari della Storia.
Mi riesce difficile credere che una Chiesa dove Papa Wojtya parlò nell' enciclica Evangelium Vitae di «cultura della morte» inviti a non esercitare neanche un po' di satira su coloro che della cultura della morte sono i portatori.
Che addirittura definisca «fede religiosa» e «culto religioso» quella cultura della morte cioè l' opposto della sua cultura che è «cultura della vita». Mi riesce difficile credere che una Chiesa che in nome della Vita si batte contro la strage degli embrioni e contro l' aborto, ponga sullo stesso piano gli Evangeli e il Corano vale a dire un libro, un Mein Kampf, che non solo autorizza ma invita i suoi fedeli a sterminare anche fisicamente chi non è mussulmano. Un libro, un Mein Kampf, che proibisce di pensare in un modo diverso del cammelliere.
Mi riesce difficile capire perché una Chiesa la quale non ha mai protestato con tanto clamore contro le vignette che con frequenza appaiono su Cristo crocefisso, sui preti, sui papi, sui cardinali, sui vescovi, ponga limiti alla libertà della satira (una forma di espressione che è sempre esistita nella storia dell' umanità civilizzata) e non a tutta la satira ma esclusivamente alla satira su una religione.
Mi riesce difficile capire perché una Chiesa che a suo tempo non protestò per le vignette contro gli ebrei oggi protesti per innocue e divertenti vignette sui mussulmani e che trovi incivile ritrarre il Profeta e gli Imam per quello che sono.
#italia#europa#civiltà occidentale#occidente#islam#islamismo#religione islamica#islam in italia#islam in europa
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Prossimo Passo la Sorveglianza Mobile: Come Si Cammina, il Battito del Tuo cuore – Perché Bitcoin Questioni per Combattere il Governo Privacy Invasione
Può suonare come qualcosa da un distopico cyberpunk film, ma fornitori di servizi di pagamento potrebbe essere presto convalidare le transazioni, il modo in cui gli utenti piedi, il loro battito del cuore, vene, e di più. Mastercard ha recentemente rivelato di essere stati “test del battito cardiaco, vena tecnologia, e il modo in cui la gente cammina per autenticare le persone.” L'alta tecnologia proposta, progettati per combattere gli hacker e aumentare la convenienza, potrebbe essere un serio problema per gli utenti che visualizzano tali misure inutili e invasivi, in cui Bitcoin risolve molte delle sfide della finanza online già. Leggi anche: Wikileaks Raccoglie $37M in BTC a partire Dal 2010, Più di $400K Inviato Dopo l'Arresto di Julian Assange
Mastercard Mappa i Tuoi Piedi
Mega pagamenti fornitore Mastercard recentemente rivelato al financial news outlet Marketwatch che “stiamo lavorando con organizzazioni di trasporto in cui il tuo volto o andatura sarà l'autenticazione.” Mentre il software di riconoscimento facciale è sempre più ampiamente utilizzato in sicurezza, e il campo della biometria in continua evoluzione, la maggior parte la gente comune ancora non hanno considerato che qualcosa di simile a loro andatura, il modo di camminare, potrebbe essere un mezzo di identificazione. Il tech apparentemente essere in grado di utilizzare CCTV, tra gli altri mezzi, per consentire a servizi come l'imbarco di mezzi di trasporto pubblico.
Il presidente della cyber intelligence e soluzioni per Mastercard, Ajay Bhalla, ha detto che la presa di notizie: Il modo in cui si mantiene il vostro telefono, orecchio che si utilizza, e come le dita, toccare i pulsanti sono tutti unici per voi. Abbiamo testato il battito cardiaco, la vena tecnologia, e il modo in cui la gente cammina per autenticare le persone. Per coloro che pensano che essi saranno in grado di superare in astuzia questo tipo di tecnologia, se cade nelle mani sbagliate o di abuso, si consiglia di pensare di nuovo. Come coronavirus paura attanaglia la Cina e i residenti sono tenuti a indossare le maschere per la protezione, Cinese AI startup Sensetime ha già annunciato il lancio di una nuova tecnologia in grado di leggere i 240 punti chiave del viso, che consente l'identificazione di individui anche se ho indossato una maschera.
Fonte: Reuters
Demonizzare e Ignorando Bitcoin
La Mastercard exec anche detto Marketwatch che “Il mondo sta cambiando ad un ritmo veloce. Gli hacker stanno cercando di capire come attaccare persone a ottenere le proprie credenziali.” Questo racconto di pagamenti diventando sempre più elettronico e la necessità di una maggiore sicurezza online non è una novità. Infatti, la Riserva Federale degli Stati Uniti annunciato la scorsa estate sono lo sviluppo di un nuovo, veloce e sicuro sistema di pagamento denominato Fednow. Federal Reserve Board Governatore Lael Brainard dichiarato al momento, “Tutti meritano la stessa capacità di effettuare e ricevere pagamenti, immediatamente e in modo sicuro, e ogni banca che merita la stessa possibilità di offrire il servizio alla sua comunità.” MasterCard: la tua personale stalker “Il modo in cui si mantiene il vostro telefono, orecchio che si utilizza, e come le dita, toccare i pulsanti sono tutti unici per voi.Abbiamo testato il battito cardiaco, la vena tecnologia,e il modo in cui la gente cammina per autenticare le persone”#PrivacyFirst https://t.co/ZrZzF7vIHh — Olga Ukolova (@OlUkolova) 14 febbraio 2020 Il fatto è che abbiamo già ottenuto che. Si chiama bitcoin. Non in grado di essere violato se conservato non custodially, e non soggetta ad centralizzata censura a livello di protocollo, Satoshi creazione è una delle più sicure le reti di pagamento c'è. Inoltre, le transazioni possono essere offuscato , per una maggiore privacy. Il vero problema a portata di mano diventa evidente quando un critico filo comune tra narrazioni dalla Cina, la Fed, e aziende come Mastercard emerge: la promozione culturale e imbiancature di attenuati, altamente invasiva di sorveglianza.
Spesso, quando le soluzioni come bitcoin sono presentati come possibili opzioni per l'autoritario di classe, la risposta è la stessa: gli utenti di bitcoin sono criminali, perché chi altro vorrebbe utilizzare il denaro che non è controllata a livello centrale? Il Segretario al Tesoro degli stati UNITI, Steven Mnuchin ha persino osato fare la pretesa assurda che dollari sono non utilizzato per attività criminali, affermando: Io non credo che sia stato fatto con successo in contanti. Ti spingo indietro su questo. Stiamo andando per assicurarsi che bitcoin non diventare l'equivalente di Swiss-numerati conti in banca. Anti-riciclaggio di denaro racconti sono diventati il fulcro della finanziaria globale, autorità di regolamentazione, e stanno mettendo sempre più utenti di crypto di business e di ricchezza. Tutto questo quando l' ultimo rapporto dello stato, collegato blockchain forensics gruppo Chainalysis mostra che meno dell ' 1% di crypto utilizzo di centri darknet attività di mercato. In contrasto con i governi' brutto track record di riciclaggio di denaro, la droga e la tratta di esseri umani, svalutazione delle valute, e il vero e proprio omicidio euphemized come ‘danni collaterali' in guerra — finanziati principalmente dalla fiat shitcoin noto come USD — bitcoin sembra essere di circa, come una minaccia, come un barboncino toy. È importante ricordare, però, che non hanno denti. Per quanto riguarda crypto minaccia di impianti centralizzati come Fednow, ex deputato del Texas, Ron Paul, ha dichiarato nel mese di agosto: “Questo sarà un male per i consumatori e in tempo reale imprenditori, ma buono per il potere affamato di Riserva Federale burocrati che senza dubbio utilizzare Fednow per aiutare a ‘proteggere' la Federal Reserve fiat valuta il sistema di concorrenza crypto valute.”
Perché Bitcoin Materia di Lotta di Sorveglianza
La biometria fornisce una grande opportunità per la sicurezza e la convenienza, offrendo libero mercato attori soluzioni all'avanguardia per le loro attività e la vita quotidiana. Quando si arriva al sodo, tuttavia, meno invasiva, soluzioni di pagamento come il bitcoin non sono favorito dal legislatore, come l'hanno detto esplicitamente che la decentrato e immutabile natura di crypto minaccia l'stabilità dell'economia globale stesso. Secondo una ricerca opportunità distacco dal U.S. Ufficio del Direttore della National Intelligence: “Molti cryptocurrency gli appassionati di prevedere che sia globale cryptocurrency o nazionale della valuta digitale potrebbe minare il dollaro degli stati UNITI ... Gli stati UNITI dovrebbero preparare per gli scenari che rischiano di compromettere il dollaro STATUNITENSE come valuta di riserva mondiale e determinare in che modo questi scenari potrebbero essere superate, la protezione dello stato nell'economia globale.”
La vera questione su tutte la sorveglianza scendendo il luccio è facile. Cioè, se queste misure saranno volontariamente accettate, o se saranno costretti a persone. Per esempio, qualcuno può ancora essere in grado di aprire un conto in banca o a bordo di un treno se non vogliono che il loro tessuto vascolare analizzato? E ' una scomoda realtà la maggior parte non vuole guardare, ma alla fine, quando si tratta di assicurare la conformità dello stato ha, ma uno strumento, e non è motivato verbale della persuasione. Bitcoin è molto diverso da qualsiasi Fednow servizio digitale di Yuan, o Mastercard sistema di pagamento in quanto l'utente e non da terzi, — i controlli. Questo è ciò che veramente sembra avere la capra di legislatori. Quanto la gente andrà a combattere per questa finanziaria privacy bitcoin offre loro resta da vedere, ma speriamo che il cambiamento è più filosofico che è brutale. Quali sono i tuoi pensieri su di Mastercard proposta di sistemi di verifica? Fateci sapere nella sezione commenti qui sotto. Op-ed disclaimer: Questo è un Op-ed articolo. Le opinioni espresse in questo articolo sono dell'autore. Bitcoin.com non è responsabile o responsabile per qualsiasi contenuto, l'accuratezza o la qualità all'interno di un Op-ed articolo. I lettori dovrebbero fare la loro due diligence prima di prendere qualsiasi azioni relative al contenuto. Bitcoin.com non è responsabile, direttamente o indirettamente, per eventuali danni o perdite causate o presumibilmente causate da o in connessione con l'uso o affidamento su qualsiasi informazione in questo Op-ed articolo. Immagini per gentile concessione di Shutterstock, Reuters, il fair use. Vuoi creare il proprio sicura di stoccaggio a freddo di carta portafoglio? Controlla il nostro strumenti di sezione. È inoltre possibile godere il modo più semplice per comprare Bitcoin online con noi. Scarica il free Bitcoin wallet e la testa per il nostro Acquisto di Bitcoin pagina dove si può comprare BCH e BTC in modo sicuro. Il post Successivo Passaggio di Sorveglianza Mobile: Come Si Cammina, il Battito del Tuo cuore – Perché Bitcoin Questioni per Combattere il Governo Privacy Invasione apparso prima su Bitcoin Notizie. Read the full article
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Stoici ad ottobre
Non tutti sanno che la prima settimana di ottobre è da qualche anno dedicata alla diffusione dello Stoicismo, la corrente filosofica greco-romana, che oserei definire ‘la via occidentale al distacco materialistico’.
Gli Orientali hanno lo yoga, la meditazione, il buddhismo, noi lo Stoicismo.
Per millenni appannato, lo Stoicismo rivive attualmente una florida stagione di recupero pedagogico, psico-sociale, convegnistico ed accademico.
Lo Stoicismo (dal greco stoà, portico, di cui era fornita la scuola dove insegnava Zenone, uno dei principali esponenti di questo movimento filosofico-spirituale) è una mano santa nel ridurre le angosce della psiche, regalandoci uno stato di benessere che si potrebbe quasi definire felicità.
Il tutto parte dal presupposto secondo cui noi non abbiamo controllo alcuno sulle vicende che accadono, ma abbiamo invece il controllo su ciò che accade nella nostra mente. Possiamo, cioè, modificare l’approccio cognitivo nei confronti della realtà e trasformare ciò che è un angoscia, in un’indifferenza, ovvero anche in una risorsa energetica per prendere meglio la vita.
Abbiamo la possibilità di ridimensionare le nostre ansie rapportandoci continuamente all’immensità senza fine dell’universo e considerare come il cosmo non sa che farsene di noi. È un esercizio salutare che consiglio specialmente a coloro che si prendono maledettamente sul serio.
Personalmente, mi ci dedico più volte al giorno, in quanto - come Marc’Aurelio premise nei suoi Pensieri - anche io incontro quotidianamente gente ipocrita, bugiarda, mariuola, ignorante. Ovvero gente che tiene in troppa rilevante importanza il suo mondo, i propri averi, la propria immagine, dimenticando che tutto ciò che abbiamo, i panni che vestiamo, il successo che c’illudiamo di aver raggiunto è solo ed unicamente una questione di caso, di congiunture fortuite, di occasioni stocastiche. Anche l’amicizia è una condizione random.
Indubbiamente, fa male vedere gente tronfia, spocchiosa, che sbatte in faccia ricchezze e posizioni. Mia madre ripeteva che ‘nascere è un caso’. D’accordo, io l’ho capito, ma gli altri che ritengono di aver meritato ciò che posseggono?
Nietzsche affermò che nessun vincitore crede al caso. Pure il Genio ha bisogno dell’occasione per dimostrarsi tale.
Tutt’al più possiamo corteggiarlo, il Caso, magari studiando Filosofia.
Anyway.
Così, gente di tutto il mondo si riunisce sul sito di Modern Stoicism e segue lezioni e si applica a test, per misurare ed accrescere il tasso di stoicismo nella propria vita. Ad ottobre.
Ottobre perché è l’anticamera del triste e lungo inverno? Probabilmente. (Come al solito, mai un’attenzione alle popolazioni australi.) D’altronde, ad ottobre si celebra anche la birra in Germania (tradizione esportatissima, comunque e dovunque), un modo per tardare la cupezza buia dell’inverno teutonico, il che sarebbe una forma di epicureismo, ma questa è un’altra storia.
© Orticaland
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Intervista al cantante e compositore Eliamo, a cura di Marla Lombardo.
Stefano Eliamo, in Arte Eliamo, è un artista eclettico e dalle sfumature ombrose. Definito come "un cantautore filosofo", nei suoi lavori Eliamo affronta temi come il distacco, la nostalgia, la solitudine, la nevrosi, la follia e molto spesso il tema del viaggio. Il disagio esistenziale e la ricerca della propria identità sono concetti alla base delle sue canzoni. Dopo un’esperienza significativa a Londra e Dublino, è negli States che la sua musica si arricchisce in modo significativo, subendo le influenze dell’elettronica e della dance. Al suo rientro in Italia, escono, autoprodotti, gli album in inglese "Intermittent Lights” e “Hello World!”. Attualmente è alle prese con un nuovo progetto musicale dal gusto squisitamente italiano che segna un ritorno in grande stile sulla scena musicale del cantautore. E' già presente in tutti i digital stores con il suo singolo "Brucia"che anticipa l’uscita del nuovo album di inediti dal titolo "Universi Alternativi" con sonorità pop rock e testi in italiano.
Noi di Untitled Magazine lo abbiamo intervistato in esclusiva per voi.
Stefano, come hai iniziato ad appassionarti a tutto ciò che è musica? Se adesso sto facendo musica, sto scrivendo canzoni e sto proponendo le mie performance in giro, è solo per quel momento nella mia infanzia che non potrò mai dimenticare. Il momento in cui nell’anno 1987, alla tenera età di quattro anni, presi in mano una audio cassetta rossa regalatami da mio padre e la lasciai suonare nello stereo dell’automobile. Era l’album degli U2, The Joshua Tree. Mi bastarono pochi attimi, e poche reazioni elettrochimiche dentro me, ma subito intuii, per la prima volta, quale sarebbe stata la direzione che avrei scelto negli anni a seguire.
Cosa è per te “fare musica”? È un ottimo modo di tenere un diario. Scarico nelle mie canzoni molte tensioni psicofisiche e le converto in suoni e versi. Direi che si tratta di una qualche forma di alchimia. Scrivere una canzone, richiede molto lavoro soprattutto per quegli artisti che come me, non si limitano a scrivere la canzone, ma la producono strumento per strumento. A volte ragiono come un architetto, cercando di miscelare lo stile e la struttura. Scrivo il basso, poi le chitarre, poi la batteria, la voce, i cori e così via. Una volta avuta l’idea, ho bisogno immediatamente di arrangiarla in tutte le sue parti. Certamente è un lavoro molto impegnativo ma, quando lo faccio, il tempo si ferma ed è la cosa più bella e più gratificante. Credo sia come un parto ed ho la consapevolezza che la canzone, una volta nata, appartenga al mondo e non più solo a me, poiché, da quel momento in poi, il brano potrà comunicare emozioni diverse in base a chi lo ascolterà.
Come nascono le tue composizioni ed i tuoi testi? Da cosa trai ispirazione? Da qualunque cosa possa incuriosirmi. È ovvio che la musica leggera attinge più o meno sempre dalle stesse idee. Sentimenti, politica, società ed il rapporto con il divino. Tuttavia, pochi si interessano all’aspetto psicologico o addirittura filosofico che invece sono gli aspetti che più mi interessano. Viviamo in un’epoca in cui è difficilissimo creare, o meglio, scoprire qualcosa di nuovo. Siamo bombardati continuamente da stimoli sia dal campo dell’immagine che da quello sonoro, soprattutto attraverso i social network. Questo produce una over produzione di opere di qualunque genere, pertanto, oggi è sempre più difficile essere originali. Quello che si può fare, invece, è cercare di studiare nuove prospettive dalle quali osservare la vita e, di conseguenza, l’essere umano.
CONTINUA A LEGGERE L’INTERVISTA... https://untitledmarlalombardo.blogspot.it/2017/07/intervista-al-cantante-e-compositore.html
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Un esame di coscienza
“Che ruolo ha la maturità personale nel cammino spirituale?”
Secondo me non può esserci spiritualità senza un percorso di maturazione e, nelle prime fasi, una genuina maturazione interiore è l’unica ‘pratica’ che abbia senso attuare. Potremmo non considerare questa fase prettamente ‘spirituale’ ma, col senno di poi, se esaminiamo il processo interiore nella sua interezza, dovremo ricrederci. D’altronde ve lo immaginate un saggio immaturo? Non ha senso. La saggezza include la maturità e semmai la trascende. Un ricercatore spirituale onesto, sta solo cercando un insegnamento per maturare più in fretta possibile, per mettersi in questione meglio, per superare i suoi limiti, il suo egoismo e le sue falle prima possibile. D’altro canto, chi inizia un serio percorso di umiltà e auto-critica, senza essere minimamente attratto dalla ‘spiritualità’, dà involontariamente inizio al percorso spirituale e, con la perseveranza, attira un insegnamento filosofico o spirituale ad hoc per lui, che lo accompagnerà e catalizzerà la sua maturazione.
Quando siete di fronte ad una persona immatura, egoista, che dà tutta la colpa dei suoi guai agli altri, cosa vi viene spontaneo pensare? ...‘Ma un esame di coscienza se lo fa mai???’
Non vi chiedete se pratica pranayama o se recita mantra, se preferisce Lao Tsu o Confucio. Vi ponete la domanda retorica: perché non esamina la sua coscienza con sincerità ed umiltà? Poiché, essendo più maturi, ci siete già passati e sapete che basterebbe questo a farlo maturare naturalmente.
Ora, pensarlo riguardo agli altri è facilissimo, mentre farlo personalmente, seriamente, come pratica costante è tutt’altra cosa. E qui veniamo agli insegnamenti del mio amato maestro J.Krishnamurti. Chiunque lo abbia studiato con profondità e abbia applicato i suoi consigli, sa che ciò che suggerisce è praticamente un esame di coscienza perpetuo, che permette una maturazione reale e un reale distacco da dinamiche mentali insensate e distruttive, una vera purificazione mentale. Questo ‘prepara le fondamenta’ senza le quali non si può costruire nulla di spirituale. Nessun’altra pratica o tecnica ha senso senza preparare la base. Come spesso ricordo, K non ce l’aveva con la meditazione e con lo yoga, ce l’aveva con coloro che “meditano per poi ricominciare a fare i birbanti”. Ce l’aveva con chi si costruisce una falsa identificazione ‘spirituale’, senza le basi di maturità che, ricordiamo, sono presenti nello stesso Raja yoga di Patanjali (yama e nyama) ma che vengono ignorate spesso e volentieri. K non faceva che ricominciare dalle basi ogni santa volta, perché sbagliare all’inizio vuol dire deviare il nostro percorso per chissà quanto tempo, danneggiando noi e, purtroppo, a volte, anche gli altri.
Se vogliamo essere tecnici ciò che, nella saggezza popolare, chiamiamo ‘esame di coscienza’ è, in realtà, un esame dei contenuti della coscienza, ossia della mente: pensieri, intenzioni nascoste, emozioni. Come farlo senza cadere nella tentazione di giustificare e condannare è stato sottolineato più volte da K, come anche il fatto che non funziona se lo facciamo solo per dieci minuti al giorno. Dev’essere, per quanto ci è possibile, una costante. Questo naturale modo di maturare è già una meditazione ed è stata consigliata da innumerevoli saggi, incluso il Buddha. È una via sicura, poiché non può che scalfire l’ego che, superando e scartando i suoi contenuti più distruttivi, comincia a dimagrire e, di conseguenza, a maturare. Se questa introspezione umile viene affiancata alla lettura di saggi insegnamenti, con l’atteggiamento di ponderarli per applicarli a se stessi, la maturazione sarà più veloce. Com’è vero che l’insegnamento spinge a velocizzare la purificazione, così è anche vero che l’introspezione richiama spontaneamente l’insegnamento più adatto a noi. Essere attratti e seguire un maestro che ci fa lavorare duramente a questa purificazione non è un caso, è già segno di maturità.
Facciamo un paragone tra l’intero percorso di maturazione dell’uomo e il ritiro dell’attenzione indicato in ogni insegnamento spirituale introspettivo che si rispetti. Il ritiro dell’attenzione diviene tanto più naturale quanto più genuino è il non attaccamento verso oggetti esterni, ciò vuol dire che la meditazione è tanto naturale ed efficace quanto più siamo effettivamente maturi.
Iniziamo dall’esterno:
1. L’essere più immaturo è condizionato da una serie di concetti errati che prende dall’esterno senza mettere in discussione. Non se ne distacca anzi, li nutre e li difende. Questi concetti errati lo portano a comportarsi in modo egoistico e superficiale, dipendente e incline alle dipendenze. La sua identificazione non includerà solo corpo e mente ma sarà estesa a cose esterne: possedimenti, appartenenze e condizionamenti. Ego fuori dall’ego. Tra le appartenenze può anche esserci l’appartenenza religiosa ma se l’immaturità è grave, non ci sarà neanche inclinazione a seguire gli insegnamenti, se non solo quando serve per salvare le apparenze. La sua morale, se e quando c’è, è dunque eteronoma. La sua attenzione è costantemente fuori e non avviene alcun genuino esame di coscienza. Qui nulla può funzionare, né religione, né filosofia, né psicologia. Egli resiste alle critiche con suscettibilità e risentimento. La sua principale maestra dovrà essere quindi esterna ed esperienziale. Dovrà imparare dalla vita, dalle esperienze e dalle vicissitudini negative. ‘Sbatterà la testa’ finché non avrà i primi bagliori che forse c’è qualcosa che non va in lui, in ciò che crede, nel suo modo di pensare e funzionare, e nelle dipendenze. Comincerà a ritirare l’attenzione, liberandosi dei condizionamenti più esterni e distruttivi.
2. Se continua metterà in discussione tutto, all’esterno. La solitudine può avere un grande ruolo nella fase successiva che porta all’indipendenza emotiva e alla vera libertà di pensiero. Si comincia ad attrarre e ad essere attratti dalla filosofia e dalla saggezza. C’è un ridimensionamento dell’identificazione al solo corpo/mente. Il ritiro vissuto in solitudine è nel corpo. Si diventa più sani, si cominciano a gestire meglio le emozioni e a rispettare la vita. La morale diventa spontanea e autonoma. Non si ha più attaccamento a valori malsani e materiali inculcati dalla società. Il ciclo di dolore auto-indotto, che deriva dalle dipendenze e dalla cocciutaggine del dover ‘sbatterci la testa’ a livello esperienziale, si allenta.
3. Da qui in poi l’attenzione può cominciare a ritirarsi di più: nella mente. Tutte le vie introspettive descrivono, in un modo o in un altro, questi ritiri dell’attenzione. Nel corpo: nel respiro, nel dolore o un vero e proprio scan del corpo. Nella mente: l’’esame di coscienza’ è la meditazione che, se diviene un’abitudine seria e costante, porta alla purificazione di cui abbiamo già parlato. Così ci si libera sempre più da concetti e idee falsate, da attaccamenti e dipendenze più sottili e nascosti. A questo livello si è davvero ‘praticanti’. La saggezza non è più solo un’ispirazione, ma viene vissuta sulla pelle. I benefici sono enormi e sperimentabili da subito, il che rende più facile trasformare il ritiro dell’attenzione in un modo di vivere. Un altro grande vantaggio di questa meditazione è che si discerne sempre meglio, per conoscenza diretta, la differenza tra il soggetto e gli oggetti mentali, che hanno sempre meno presa su di noi. L’illusione dell’ego comincia a vacillare.
4. Quando il discernimento e il distacco dagli oggetti mentali sono ad un buon livello è possibile e naturale ritirarci in noi, nella coscienza stessa. Il motto popolare ‘esame di coscienza’ non è preciso neanche qui, perché, in realtà, non c’è nulla da esaminare nella coscienza. Ritirarci nella coscienza pura vuol dire solo essere, “conoscere se stessi vuol dire solo essere se stessi” (Bhagavan Ramana Maharshi). La vera spiritualità comincia qui: coscienza è spirito. Questa è la pratica ultima. È il silenzio di cui parlano i grandi saggi, è la vacuità del Buddha, è il samadhi di Patanjali, è l’atma vichara di Bhagavan, il nididhyasana di Shankara. Qui cade la triade: conoscitore, conoscenza, conosciuto. Il silenzio, o la vacuità, è quindi indifferenziato. Se, quando si arriva qui, l’illusione dell’identificazione col corpo/mente (ciò che chiamiamo ego) ha ancora capacità di rispuntare è perché la purificazione non è ancora perfetta. Ossia il nostro non-attaccamento per cose o pensieri esterni non è ancora perfetto. Ma abbiamo il più potente antidoto, ritirarci nell’atma è tutto ciò che serve.
Dopo questa piccola analisi è forse più chiaro che una persona totalmente immatura, scaltra, attaccata alla materia e all’ambizione sebbene non abbia alcuna impossibilità a ritirare la sua attenzione nella coscienza, non ha l’intento e la maturità di farlo. Se ha interessi altrove, lontano da sé, tornerà naturalmente fuori. Se ha attaccamenti e dipendenze fuori, lontano da sé, tornerà lì. Se non è neanche disposto seriamente a farsi un esame di coscienza, come può andare oltre la mente e scoprire lo spirito (la coscienza)? Che senso può avere per lui ‘praticare’ la meditazione? Se la praticherà lo farà con l’intento sbagliato. Se pregherà, pregherà senza resa. Se è attaccato all’esterno, a cose e relazioni, pregherà o mediterà per acquisire cose o relazioni. Non ha senso, non è meditazione, è solo chiamata ‘meditazione’. Non ci sono impedimenti effettivi, sia chiaro, solo immaturità. L’ostacolo è la mancanza di discernimento e di maturità.
Anche se è vero che, a livello assoluto, siamo già liberi, se non lo scopriamo a cosa serve? Anche se è vero che l’ego è solo un’identificazione erronea e non è un’entità e che non esiste né se lo sapete, né se non lo sapete, ricordate che solo saperlo bene e saperlo sempre, con ‘saggezza ferma’, comporta la liberazione dal dolore impartito a sé e agli altri.
Ora veniamo a chiarire l’importanza della mappa prima esposta e come usarla. Se incappate in chi non consiglia l’esame di coscienza di cui abbiamo parlato, sicuramente siete di fronte a qualcuno che non ne ha avuto bisogno. Se una persona a vent’anni si trova con un santo, sotto a una montagna sacra, che gli insegna l’atma vichara e riesce a praticarla, non ha bisogno del ritiro nella mente, come pratica. Gli capiterà, ma per lui sarà una caduta indietro. Non la considera una pratica perché non ne ha mai avuto bisogno nella sua vita e lo distoglierebbe dalla pratica al suo livello. Vogliamo fargli vedere che combinavamo noi a vent’anni? Meglio di no. Il punto è che tutto dipende dalla propria maturità. Non è questione di tecnica. Se non c’è maturità i contenuti mentali riappariranno, qualsiasi sia la pratica attuata. Se siete perdutamente innamorati nessuna tecnica funzionerà, perché c’è un attaccamento, un interesse altrove. Fate fare all’attenzione, esponete quell’attaccamento alla luce della consapevolezza, poiché la nostra maturazione dipende dalla consapevolezza che ricade sugli attaccamenti e porta discernimento.
Se capite bene la mappa del conosci te stesso non vi perderete tra le dispute altrui sulle varie tecniche e i vari insegnamenti. Hanno ragione tutti, ma solo uno è il consiglio per voi, gli altri non sono per voi!!! Non procedete al contrario, piuttosto conoscete voi stessi e il consiglio adatto e necessario in quel momento arriverà puntuale. Le mappe servono proprio a darci indipendenza e a farci capire dove siamo e dove dirigerci, devono essere usate a questo scopo.
La regola generale per maturare e, infine, per trascendere anche la maturità è semplicissima: ovunque sia la vostra attenzione, cominciate a ritirarla e perseverate. Poi introiettatela di più e perseverate. Fino ad arrivare dove non potete fare più nulla, nel silenzio.
Restate lì. Tutti i vostri dubbi si scioglieranno lì.
#conosci te stesso#maturità#Spiritualità#j. krishnamurti#krishnamurti#meditazione#coscienza#esame di coscienza#atma vichara
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“Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita”. Kierkegaard, il pensatore necessario
Alla grande domanda “come si può essere umani in questo mondo?” implicita in tutte le opere di Søren Kierkegaard, si può cadere nella tentazione di rispondere: “bisogna non essere Søren Kierkegaard”. Il grado di ricerca della sofferenza da parte del filosofo danese rasenta i confini del masochismo. Infatti, se qualcuno gli avesse mai chiesto cosa significava per lui essere cristiano, Kierkegaard gli avrà probabilmente risposto: soffrire incommensurabilmente. Poco prima della sua morte, nel 1855, all’età di soli 42 anni, scrisse che “essere cristiani è la più abominevole delle agonie; è – e così dev’essere – come avere il proprio inferno qui sulla terra”. I titoli dei suoi libri – Timore e tremore, La malattia mortale, Il concetto dell’angoscia – certamente veicolano questa affermazione, così come la sua vita scandita dalla sofferenza praticamente dall’inizio alla fine.
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Nato nel 1813, Søren è stato uno dei soli due fratelli su sette ad aver vissuto oltre i 33 anni di età. Nel 1840, chiese la mano di Regine Olsen, ma dopo un anno ruppe il fidanzamento; una scelta necessaria, secondo Kierkegaard, per compiere il suo destino di autore. Per i successivi 14 anni visse in solitudine, producendo una quantità di scritti abnorme tanto che il suo cagionevole corpo faticava a sostenere. Inoltre, veniva spesso coinvolto in numerose controversie dai giornali o dalla chiesa danese e ciò lo rese un esiliato nella sua stessa patria, almeno secondo il suo biografo Joakim Garff.
Ciononostante, Kierkegaard era convinto – in modo non dissimile da Gesù – che la sua sofferenza avrebbe salvato il genere umano. “Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita,” scrisse nel 1847. Ne La malattia mortale (1849) dichiarò che smarrire sé stessi “può passare sotto silenzio e come una cosa da niente in questo mondo; mentre qualsiasi altra perdita, un braccio, una gamba, cinque dollari, propria moglie, etc., salta subito all’attenzione”. Si trattava di un pericolo tipico della società contemporanea. Kierkegaard riconosceva l’industrializzazione repentina, l’ascesa delle masse e del materialismo delle economie capitaliste, come minacce alla psicologia dell’individuo. In Postilla conclusiva non scientifica alle briciole di filosofia (1846), Kierkegaard sosteneva che “l’astrazione del livellamento, quest’autocombustione del genere umano indotta dall’attrito che si crea quando viene a mancare l’isolamento religioso dell’interiorità personale, resterà alta come diciamo di un aliseo che corrode ogni cosa”.
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Come ci illustra Clare Carlisle nella sua nuova e straordinaria biografia, Philosopher of the Heart, Kierkegaard fu “probabilmente il primo grande filosofo a vivere nel mondo riconoscibilmente moderno dei giornali, dei treni e delle vetrine, dei luna park e dei grandi negozi del sapere e dell’informazione. Anche se la vita stava diventando materialmente più semplice e confortevole per le persone più abbienti come lui, stavano sorgendo nuovi tipi di problematiche riguardo alla propria identità e alle proprie apparenze”. In altre parole, Kierkegaard esperì le ambiguità, le contraddizioni e le difficoltà della vita moderna che esplorò nella propria opera. Disprezzava la venuta della società di massa, tuttavia passò la propria vita nei quartieri centrali di Copenaghen; si espresse con sdegno sulla borghesia, eppure visse nella ricchezza e nelle comodità che gli erano state concesse dall’eredità paterna; era un fervente cristiano, però fu l’antagonista più noto della cristianità stabilita. Per di più, Kierkegaard si addentrò nelle condizioni moderne non come un predicatore o un oratore o con un supporto istituzionale accademico: scrisse “senza l’autorità”, come lui stesso afferma. “Kierkegaard vedeva l’intera industria accademica come una scappatoia dall’esistenza autentica”, osserva Carlisle, “metteva in relazione questo distacco intellettuale con la cinica commercializzazione della conoscenza: i professori delle moderne università vedevano le proprie idee come i mercanti vendono le proprie merci, ma in modo ancora più ipocrita, poiché le loro astrazioni furbescamente infiocchettate non contengono un briciolo di autentica saggezza”.
Per il pensatore scandinavo, la crisi spirituale dell’umanità necessitava di una risposta opposta a questo tipo di presuntuoso distacco. La minaccia all’io moderno era troppo grande. Essere costantemente circondati da persone assorte non nel rapporto con Dio, ma negli spettacolari luccichii della società borghese, rappresentava il rischio di perdere la coscienza di sé stessi. Kierkegaard vedeva nell’io la sintesi fra finito e infinito, fra temporaneo ed eterno, in continuo divenire, in costante cambiamento. Ciò esponeva le sue vulnerabilità: il solipsismo, la disintegrazione; in breve, l’interruzione del rapporto con Dio, che per Kierkegaard era l’aspetto più importante della reale individualità. Una vita che non si fonda sinceramente su Dio, per quanto piena e felice resta una vita vissuta nella disperazione, dal momento che la disperazione è la “perdita dell’eterno e dell’io”. Il compito dell’individuo è avere fede, ossia l’opposto della disperazione: “mettendosi in rapporto con sé stesso, volendo essere sé stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto”.
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Kierkegaard sapeva ciò di cui parlava. La sua gigantesca opera può essere vista come un lungo, compulsivo ed esasperante tentativo di capire chi fosse e quale fosse il suo posto nel mondo. Come osserva Carlisle, Kierkegaard “era invischiato in una discussione fra traguardi terreni e la rinuncia estetica”: era combattuto fra il desiderio di continuare a scrivere e la tentazione di ritirarsi in campagna e abbandonare per sempre la sua attività autoriale. A tal proposito, la vita di Kierkegaard, come quella di Nietzsche, è un monologo, un monodramma al quale il pubblico rispondeva contestualmente con assoluto smarrimento. Nessuno sapeva cosa fare del suo lavoro. Quando nel 1843 i due volumi di Aut-Aut iniziarono a circolare a Copenaghen, Signe Læssøe scrisse a Hans Christian Andersen, che al tempo si trovava a Parigi: “Comprendo solo una piccola frazione del libro – il tutto è troppo filosofico”.
Con i suoi molti pseudonimi, la propensione all’ironia e l’abilità nel mescolare generi letterari e filosofici, Kierkegaard propiziava questo tipo di risposte. Nulla di ciò che faceva o scriveva era mai chiaro. “Il paradosso”, scrisse nel suo diario nel 1838, “è l’autentico pathos della vita intellettuale, e come soltanto le grandi anime sono esposte alle passioni, così soltanto i grandi pensatori sono esposti a ciò che io chiamo paradossi, i quali non sono che grandiosi pensieri prematuri”.
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“Ha scoperto”, scrive Carlisle, “che vivere in una moderna metropoli intensifica il livello di ansia da lui stesso riconosciuto come universalmente umano. Fin dai tempi di Adamo ed Eva, gli esseri umani si sono sentiti ansiosi e ora, accerchiati dalle migliaia di riverberi della città, le loro ansie si moltiplicano, poiché diventano inquieti spettatori delle loro stesse vite”. Nonostante il personaggio pubblico polemico, Kierkegaard era estremamente gentile con amici e parenti, soprattutto se in difficoltà. Scrisse lunghe e premurose lettere alla cognata che soffriva di depressione, ricordandole di “amare sé stessa”. Un amico, Hans Bröchner, una volta disse che “lui lo capiva come pochi altri e che non lo sollevava dalle proprie tristezze nascondendole, ma facendogliele capire, snocciolandole fino alla chiarezza più assoluta”.
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Alcuni si potrebbero chiedere se davvero Kierkegaard sia stato credente, una domanda evidentemente paradossale che in tanti rigetterebbero con un po’ di alterigia. Com’è possibile dubitare della fede di Kierkegaard, che praticamente si uccise scrivendone? Eppure, questa domanda contiene un’intuizione valida. Dopo tutto, la concezione di cosa voglia dire vivere una vita cristiana, per Kierkegaard, è così esigente da diventare inumana nella quotidianità. “La fede non si può comprendere, il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere” scrisse ne Il mio punto di vista, un’osservazione che Albert Camus avrà avuto sottomano quando, ne Il mito di Sisifo, dichiarò che Kierkegaard “fa qualcosa di meglio che scoprire l’assurdo: lo vive. […] Quel viso tenero e insieme sghignazzante, quei movimenti repentini, seguiti da un grido che parte dal fondo dell’anima, sono lo spirito dell’assurdo stesso alle prese con una realtà che lo supera”.
Dove Camus vedeva la soglia dell’assurdo, Kierkegaard si librava in un salto di fede. Ma la sua versione del cristianesimo è spesso indistinguibile dallo stato dell’assurdo; tant’è che, come Camus afferma, Kierkegaard attribuisce a Dio le caratteristiche principi dell’assurdo: ingiustizia, incoerenza e incomprensibilità. E nelle sue feroci sferzate alla chiesa danese e alla cristianità stabilita, Kierkegaard si avvicina a Nietzsche: come il tedesco, riconosce che non solo Dio è morto, ma che la fede si è estinta nelle anime degli uomini d’oggi, e in particolare nell’anima di chi si proclama emissario di Dio. “Kierkegaard si sente fortemente combattuto nei confronti del cristianesimo, e utilizza il termine “cristianità” in modo denigratorio,” commenta Carlisle all’inizio. “Crede che il cristianesimo – le sue tradizioni, i suoi concetti, i suoi ideali – sia diventato così familiare e dato così tanto per scontato, che presto potrebbe scomparire sotto la linea dell’orizzonte”.
Così, sia per quelli che non possono che librarsi in quel salto, sia per chi invece pensa che il cristianesimo sia effettivamente tramontato, l’opera di Kierkegaard ha il paradossale effetto di restituirci all’assurdo, ossia dichiarare il confronto fra il nostro desiderio di significato e il silenzio dell’universo. E restituendoci all’assurdo, rivelandoci l’impraticabilità e l’efferatezza di una vita cristiana, ci aiuta – forse inavvertitamente – a iniziare a rispondere alla questione che Kierkegaard stesso si è posto in principio: come si può essere umani in questo mondo?
Morten Høi Jensen
*L’articolo è stato pubblicato in forma completa su “The American Interest”; la traduzione è di Giacomo Zamagni
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Critica e trattatistica del barocco. Tesauro e la critica barocca. Madame reali fra i Savoia. Alessandro Tassoni
Maria Giovanna Battista-Nemours di Savoia.
Il Cannocchiale Aristotelico
Alessandro Tassoni
Emanuele Tesauro
Cristina di Francia. Duchessa di Savoia
Critica e trattatistica del barocco
Tesauro e la critica barocca
Emanuele Tesauro
Nobile piemontese, ex gesuita, Emanuele Tesauro visse alla corte di Torino, in forte rapporto con la nobiltà brillante e rissosa del Seicento.
Non tutta la trattatistica teorica sull'acuteza a metà Seicento muove dalle esigenze moderate che condizionano le regole del Peregrini e del Pallavicino. Il più celebre trattato sul concettismo, Il Cannocchiale aristotelico di Emanuele Tesauro, se ha in comune con i moderati l'impegno di regolamentazione del nuovo stile, non ne condivide la risentita polemica contro le esagerazioni, è animata anzi da un vibrante entuusiasmo per il meraviglioso potere della argutezza.
Gran madre d'ogni ingegnoso concetto, chiarissimo lume dell'oratoria e poetica elocuzione, spirito vitale delle morte pagine, piacevolissimo condimento della civile conversazione, ultimo sforzo dell'intelletto, vestigio della divinità nell'animo umano.
e, lungi dalle riserve nei riguardi del Marino delle Vindicationes Societatis Jesu, elogia con molta convinzione questo poeta attraversomuna formula che con la sua insistenza sulla consapevolezza delle scelte linguuistiche e stilistiche dell'autore dell'Adone sembra porsi all'estremo opposto del rimprovero pallaviciniano per la mancanza di ingegno filosofico. L'eestremismo barocoo del Tesauto ha caratteristiche diverse da quello del primo Seicento; proprio laa lode sopraricordata alle novità linguistiche mariniane, autorizzate ad un attento vaglio delle ragioni che giustificano ogni <<paroluzza>>, lo mostra bene nella sua notevole diversità dall'apologia dell'Aleandri. Il contatto e lo stacco insieme del Tesauro dalle posizioni del barocco di primo Seicento può essere simboleggiato del resto dalla sua stessa esperienza biogarfica. Nobile piemontese, ex gesuita, Emanuele Tesauro ha vissuto la massima parte della sua lunnga vita nella corte di Torino, celebrandone con le sue orazioni i fasti ed i lutti, organizzandovi feste accademiche, componendovi imprese, mescolandosi appassionatamente alle lotte, agli intrighi, si è trovato cioè, più diquanto possa essere stato un pio prelato romano ccome Pallavicino, in forte rapporto con la vita brillnte e rissosa della nobiltà secentesca, di cui è stato spesso il consulente; e perciò di lui meno critico nei riguardi degli aspetti mondani e frivoli del nuovo stile. In questa vita di corte egli non è stato però uno spegiudicato avventuriero come il Marino, ma ha svolo il ruolo di un vero uomo politico, operante ennl'ambito soltanto dello stato cui per nascita apparteneva e, in quell'ambito, fedele sempre ad una particolare fazione, quella dei principisti, seguendo sì le evoluzioni del suo protettore, Tommaso di Catignano, ricnonciliatosi come lui quindi con Madonna Reale, diventatone addirittura panegirista, eppure sempre impegnato, a giustificare le ragioni del suo partito nella guerra civile con un'abile polemica, attenta a trovare in quella ribellione una piattaforma politica seria sia pure accanto ad altre di puntiglio avvocatesco tipicamente secentistico. E' stato in grado di vivere alcuune tiiche esperienze del mondo barocco, di anarchia rissosa e di disinvolto adattamento ai compromessi, con una dignità eccezionale ed è stato educato perciò dalla sua stessa vicenda umana a ricercare entro l'estro e il fasto secentistico la più nota più dignitosa e raffinata. Anche la lunga genesi delle sue idee sul concettismo conferma questa sua singolare situazione. Emanuele Tesauro cominciò molto presto a meditare sullo stile e sulla poesia, anticipando alcune idee che riprenderà nell'opera della sua piena maturità, in un contesto di gusto un poco diverso però. Negli scritti giovanili il Tesauuro aderisce sì sostanzialmente alla sensibilità marinistica e del Marino è anzi esplicito ammiratore, ma è aperto anche a preo ccupazioni moderate, di una buona appliczione dei vari tipi di eloquenza (nel discorso il Giudicio del 1625) e addirittura (nella Gigantomachia del 1619) è critico, anche se fosse solo per un mero ossequio ai temi moralistici circolanti nella Compagnai di Gesù in cui allora egli militava, ed evidentissimi per esempio nella polemica del Padre Famiano Strada. verso la poesia moderna troppo lasciva: egli rimpiange, proprio come il Campanella e come il Villani, gli antichissimi tempi in cui i poeti attraverso i miti davano un misterioso insegnamento. La protesta contro le <<lascive modulazioni>> dei moderni nnon passerà nel Cannocchiale aristotelico che, in molte sue pagine, nel suo stesso disegno generale, nell'azione che svolge sui contemporanei, è una convinta apologia del gusto secentistico. Tuttavia le esperienze giovanili, l'eco delle contemporanee discussioni barocco-moderate che è quasi impossibile che il Tesauro ignorasse, la predilezione alla dignità e alla raffinatezza della sua stessa sensibilità d'uomo darnanno a questa apologia una direzione tutta originale e faranno sì che egli leghi al concettismo nuovi e più complessi significati. Per il Tesauro la superiorità ddell'argutezza, trova la sua suprema giustificazione nel potere quasi divino che essa sembra attribuire agli uomini:
ma non solamente per virtù di questa diventa Dio, il parlar degl'uomini ingegnosi tanto si differenzia da quel dè Plebei quanto il parlat degli angeli da quel degli uomini: ma per miracolo di lei, le cose mutoole parlano, le insensate vivono, le morte risorgono, le tombe, i marmi, le statue da questa incantatrice degli uomini ricevendo voce, spirito, movimento, cogli uomini ingegnosi ingegnamente discorrono. Insomma tanto solamente è morto quanto all'argutezza non è arrivato.
Dio stesso di essa si vale <<motteggiando gli uomini e gli angeli, con vari motti e simboli figurati, gli altissimi suoi concetti>>. E la forza animatrice dell'arguzia è legata, <<acciocché la verità per sé amava co'l vario condimento di concettosi pensieri si raddolcisca>>, più personale del Tesauro di aristocraticità, di linguaggio diverso da quello del vulgo:
acciocché l'ottusa e temeraria turba non si presuma interprete dè divini concetti ma solo i più felici e acuti ingegni, consapevoli dè celesti secreti, ci sappiano dalla buccia della lettera snocciolare i misteri scosi e con subalternate influenze, il Nume impari da sé solo, il savio dal Nume, l'idioto dal savio;
sicché nel rifiuto della ricerca barocca d'un vasto successo presso il pubblico è chiaro un altro elemento caratteristico della civiltà secentesca: la visione gerarchica delle <<subalternate influenze>>. Il carattere divino dell'arguzia ha poi anche un più profondo fondamento: essa è divina, perché ha in qualche modo un potere simile al potere creatore di Dio: sì come Dio di quel che non è produce quel che è, così l'ingegno di un non ente, fa ente, fa che il leone diventa un uomo e l'aquila una città, innesta una femina sopra un pesce e fabbrica una sirena per simbolo dell'adulatore.
In tal maniera distinguere la poesia dalla verità non può più significare come per il Pallavicino un filosofare verso di essa bassamente. La <<cavillazione urbana>> che è propria dell'arguzia è da distinguersi dalla cavillazione dialettica; questa <<ha per fine di corrompere quasi prestigiosamente l'intendimento dei disputanti con la falsità>>, la cavillazione urbana invece <<hha per iscopo il rallegrar l'animo degli uditori con la piacevolezza senza ingombro del vero>>. Nella metafora c'è non soltanto unaa capacità di fondere insieme più immagini, di <<inzeppare>> più cose in una sola parola in <<un istraforo di prospettiva>> che <<fa travedere molto obietti l'un dentro l'altro>>, ma v'è anche la possibilità di far <<trasparire il vero come per un velo, acciocché da quel che si dice velocemente tu intenda quel che si tace; e in quell'imparmento veloce è posta la vera essenza della metafora>>. Lo stesso piacere del rendersi conto del meccanismo fallace e ingegnoso nascosto dietro il concetto si presenta nel Tesauro in una accezione più raffinata della rutilante meraviglia del primo barocco, in distacco non solo dall'ebbrezza dell'Alelandri ma anche in certi temi cari ai classicisti. E' un diletto più delicato dello <<stupore>> secentistico: l'ingegno nel riconoscere l'opera sia nelle <<acutezze gravi>> che <<nelle dotte conversazioni son le facezie migliori>> ha un <<soave riso>> placido e sereno come quando veggiamo un caro amico o un bellissimo volto o una perfetta pittura o un'amena prospettiva o un mirabile e improvviso cangiamento di scena>>. Il far pompa di ingegno appare anche come un raffinato esercizio per stimolare quel riconoscimento e quel soave riso. Aotto questo punto di vista la <<facetudine>>non è più un semplice piacere ma una virtù morale che ammministra la piacevolezza al servizio degli uomini, è <<un'onesta letizia che rastaura l'animo lasso dalle sue preoccupazioni>>. La preoccupazione moderata di distinzione tra arguzie giuste e arguzie illegittime, non riguarda più la gratuità del gioco concettoso, bensì riguarda direttamente la morale, quando la <<letizia>> non è più <<onesta>>, quando si è scurrili, o quando si ricerca l'arguzia per guadagno, oo anche quando essa <<per dilettar gli uni offende gli altri>>. La raffinatezza del concettismo del Tesauro ha così un carattere tutto conservatore: la carica di spregiudicatezza che in altro barocco sembra a volte dare un compito dimistificante al nuovo stile è scomparsa: nel gusto di civil conversazione del Tesauro gli <<scherzi mordaci>> vanno banditi: <<han più del ferino che dell'umano>>. Lo stesso tema della <<svogliatezza>> del gusto contemporaneo, nel Cannocchiale aristotelico si presenta in una accezione un poco diversa. Se il Tesauro riconosce i meriti di raffinatezza dei contemporanei, tende però ad attribuire la costante ricerca di sempre nuovi ornamenti a una eterna tendenza dell'animo umano: sempre l'uomo prova <<nausea delle cose cotidiane>>, quando <<l'utilità con la varietà, con il piacere non va congiunta>>. Questo allargamento porta di più saldo e convinto nel concettismo del Tesauro. Con lui la visione barocca della vita giunge al culmine, non si piega più in una particolare situazione storica ma assorbe tutte le età. Ed è qui proprio che sta la ragion prima del più ricco speculare del Tesauro. L'argutezza propria dell'uomo di sempre occupa sempre di più il posto della poesia e, acquista anche un valore più complesso, come la poesia ha valore creativo, come la poesia svolge una funzione morale, di ristoro con un <<soave riso>> degli uomini, come la poesia ha un compito civilizzatore sia pur nella direzione minore della piacevolezza della civil conversazione a cui induce anche gl uomini più selvaggi. E' chiaro nello stesso tempo che nell'attenuarsi di quella risentita attenzione all'eccezionalità della età persente, che era stata il motivo unificatore ditanta critica secentesca, è andato perduto. Il raffinato e perfezionatissimo barocco del Tesauro, è ricerca di un ordine nel nuovo anche se su posizioni più avanzate di quelle dei barocchi moderati, e, nonostante la consapevolezza della novità della sua indagine, lungi dallo scandire il distacco con la tradizione, cerca di annullarlo interpretando in chiave concettistica tanta letteratura del passato cercando le autorità che giustifichino il presente. Persino il titolo del suo fortunaato trattato testimonia la posizione non rivoluzionaria della sua apologia del concetto: egli sceglie sì una metafora <<moderna>>, la metafora tra il più <<ingegnoso>> tra i ritrovati della tecnica contemporanea, il cannocchiale, ma il suo cannocchiale sarà, a diversità di quello galileiano, Cannocchiale aristotelico che la maggiore capacità di vedere che egli a sé rivendica, dipende da un più attento uso degli insegnamenti aristotelici e non da un libero filosofare. Il Tesauro è all'estremità opposta del Tassoni. Là la polemica antirinascimentale coincideva, a prezzo di molte confusioni, con la polemica contro il vecchio dogmatico sapere. Qui l'esaltazione del gusto che al rinascimentale è succeduto pòuò svolgersi in tutta la sua ricchezza entro posizioni altrimenti conservatrici.
Madame reali fra i Savoia
Cristina di Francia, duchessa di Savoia (Parigi 1606-Torino 1663) passa alla storia come Madama reale. Figlia dii Enrico III e sorella di Luigi XIII, sposa Vittorio Amedeo I (Torino 1587-Vercelli 1637). Questi, alla morte del padre Carlo Emanuele I nel 1630, durante la seconda guerra del Monferrato, è costretto ad accettare il trattato di Cherasco (1631), lasciando ai Gonzaga-Nevers il posesso di Mantova e del Monferrato e alla Francia quello di Pinerolo. L'alleanza con la Francia, è riicucita con la lega di Rivli nel 1635. Morto il marito nel 1637, Cristina di Francia assume la reggenza per i figli Francesco Giacinto e Carlo Emanuele II. La sua politica di amicizia con la Francia provoca il malcontento dei cognatim il cardinale Maurizio di Savoia e il principe Tommaso, che scatenano una guerra civile per ottenere il controllo dello stato. Lo scontro tra madamisti filofrancesi e princpisti filospagnoli continua fino al 1640, quando, la Madama reale ristabilisce la pace. Il conflitto, indebolisce il ducato poiché facilita l'ingerenza della Francia e della Spagna nella vita politica interna. Salito al trono il figlio Carlo Emanuele II (Torino 1634-1675), Cristina conserva di fatto l'autorità sovrana, fino alla morte nel 1663. Anche in questa fase storica il ducato sabaudo rimane legato alla Francia, e Carlo Emanuele II fallisce in ogni tentativo di reprimere i valdesi, di riprendere Ginevra e di conquistare Genova. Nel 1665 sposa in seconde nozze Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours (1644-1724) che, alla morte del marito nel 1675, diviene reggente per Vittorio Amedeo II.
Alessandro Tassoni
Poeta e letterato dal temperamento litigioso e polemico, Alessandro Tassoni (Modena 1565-1635) nasce da una famiglia nobile e si laurea in legge. Lavora, al servizio di molti potenti del tempo. Dal 1607 al 1603 è in Spagna con il cardinale Ascanio Colonna, ma lasciato l'alto prelato: nel 1604 si stabilisce a Roma. Qui si deddica agli studi e alle polemiche letterarie, divenendo membro dell'Accademia della Crusca e di quella degli umoristi. A Roma, Tassoni intreccia rapporti con gli ambasciatori sabaudi. Come ricompensa per i suoi servizi di informatore, Tassoni otterrà prestigiose mansioni diplomatiche. Lavora, per il cardinale Ludovisi e per Francesco I, duca di Modedna. Personaggio controverso, il tratto predominante è il suo ostinato spirito di contraddizione, che lo porterà spesso a lanciarsi in violente e dure polemiche. Riveste, un ruolo di rilievo nel panorama letterario del Seicento, perché scrittore colto ed estremamente produttivo. E' la vena - comico satirica, tuttavia, a renderlo famoso ed è in questo filone che si inserisce il suo capolavoro: La secchia rapita. Pubblcata nel 1624, l'opera è la sua aperta polemica nei confronti delle continue rivalità tra le città italiane. A tutt'altro genere appartengono, invece, le Considerazioni sopra le Rime del Petrarca e le Filippiche contro gli spagnoli; quest'ultima animata da spirito patriottico e da una lucida analisi politica. Enorme diffusione hanno, i Pensieri diversi che rappresentano un esempio significativo dello stile enciclopedico tanto in voga nel Seicento.
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“La poesia è sovversiva per eccellenza. Lautréamont e la volontà di aggressione”. Benjamin Fondane sfida Gaston Bachelard
Benjamin Fondane, il pensatore imprendibile, imprevedibile, agisce come un giaguaro. Dietro la sua prosa, smagliante, a tratti involuta, strategica, sento l’odore, l’animalesco. Fondane fonda il gesto critico sulla descrizione dell’avversario, non senza elogi. Parte, cioè, dalla riconoscenza – non dal riconoscimento. Riconosce la muscolatura della preda, la sua eleganza. Poi affonda. Come il giaguaro, all’inizio Fondane ha andatura dimessa, elogia la foresta filosofica; quando attacca, infine, è drastico e mirabile, ed è tutto lì, in quella frase clamorosa, nuda, “La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali»”. Lì, Fondane, con morso chirurgico segna l’abisso tra poesia e filosofia, tra la vita filosofica che l’uomo occidentale ha scelto rispetto all’abitare poeticamente, nel crisma del rischio. Ha preferito elevarsi, cioè, più che adorare l’etica dell’erba, il vigore del suolo. Ma uccidere un dio con il ragionamento non è divorarlo nel canto. In particolare, nel 1940, su “Cahiers du Sud” – la rivista fondata da Jean Ballard, su cui hanno scritto, tra gli altri, René Guenon, Antonin Artaud, Albert Camus, Henri Michaux – Fondane legge e disseziona il Lautréamont di Gaston Bachelard (passato in Italia, nel 2009, edito da Jaca Book, per la cura di Filippo Fimiani). Lo fa, prima con aristocratico distacco, considerando un filosofo di cui spesso ha scritto – riconoscendone, quindi, una postura degna di scontro – poi squartando. Riguardo a Lautréamont, di cui quest’anno ricorrono i 140 anni dalla morte, Fondane aveva già detto tutto in Rimbaud le voyeu, diversi anni prima (1933; nel 2014 pubblicato da Castelvecchi come Rimbaud la canaglia, per cura di Gian Luca Spadoni). “Lautréamont parla per il lettore, declama; vi si sente scaturire in ogni istante il tono della predicazione, l’enfasi romantica e romanzesca, il genere maudit, la sicurezza dell’uomo che insegna quel che sa bene di non sapere e si attribuisce una missione tra gli uomini… Non sfugge alla volontà, terribilmente tesa, di apparire straordinario… Che questa dinamite non esploda, che non superi il livello della scrittura, non siamo nelle condizioni d’incolpare Lautréamont; ma è lo iato che separa la sua esperienza da quella di Rimbaud a rendere l’avventura di quest’ultimo assolutamente unica”. Quando ‘recensisce’ – cioè, azzanna – il Lautréamont secondo Bachelard, irritandosi quando il poeta, che resta una ferita, un assoluto, una voragine, viene semplificato a emblema, a santino, a figurina metafisica, Fondane ha da poco scritto il Faux Traité d’esthétique (per Denoël, è il 1938). Un libro d’estasi, un trattato di ribellione poetica. Uscito nel 2014 per Mucchi come Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale (per la cura di Luca Orlandini), tornerà in circolo, in traduzione e curatela rinnovate (sempre a firma di Orlandini) per Aragno, tra un paio di mesi. Sarà un piccolo evento, l’irrinunciabile, un fuoco sul palmo della mano, che fiamma lame. (d.b.)
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A proposito del “Lautréamont” di Bachelard
Il libro di Bachelard è il terzo di una serie dedicato alla ricerca di una psicanalisi della cultura – o meglio, poiché la psicanalisi è concepita dall’autore in modo assai poco classico: analisi dei bassifondi, delle zone profonde e delle forze motrici e istintive del fatto culturale e poetico. La Psychanalyse du feu, il secondo libro della serie, tentò di ricavare le fondamenta «di una fisica o di una chimica del sogno», al fine «di approntare gli strumenti per una critica letteraria oggettiva, nel senso più rigoroso del termine». Il libro dedicato a Lautréamont costituisce l’illustrazione di tale avvincente e ampio progetto. Egli adotta come modello l’opera di Lautréamont, introdotta mirabilmente da Edmond Jaloux, nei termini in cui ci viene presentata, all’apice della raffinatezza e del rigore, dall’edizione José Corti. È un’ottima e lodevole iniziativa editoriale, quella di Corti, di far seguire alla pubblicazione delle opere di Lautréamont la potente e mirabile intelligenza dell’analisi di Bachelard.
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È un’opera capitale e, ancor meglio, estremamente fertile. Attualmente è impossibile prevedere quale influenza egli avrà sulla psicologia dell’arte – ma il lettore non può che auspicarla di tutto cuore. Nulla di meglio è stato scritto in merito, con un punto di vista così innovativo, una intuizione così penetrante e mezzi così rigorosi. Ma una personalità così robusta non poteva fare altro che comunicarci la sua sola intuizione; in questo libro troviamo anche la parte del filosofo, che d’altronde è di prim’ordine – e che, per quanto voglia cancellarsi, non risalta di meno: questa seconda influenza entra in gioco creando qualche difficoltà alla prima, dispiegando di fronte ai nostri occhi la natura ambivalente dell’autore. È la prova – nel caso ce ne fosse il bisogno – della buona fede dell’opera, e i commenti che questa suscita in noi non fanno altro che mostrare con maggior forza le profondità da cui essa emerge alla luce della coscienza.
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È una duplice e profonda intuizione, quella che, dopo aver descritto l’opera di Lautréamont come «una fenomenologia dell’aggressione» e l’opera poetica in generale come un atto istintivo e spontaneo, proclama che, al contrario della credenza generale, anche il pensiero è un atto aggressivo – che il filosofo «attacca» il problema. In effetti, è uno stile aggressivo, quello di Bachelard – tuttavia, non è certo che l’aggressività del filosofo sia analoga alla natura di quella del poeta, e che ne perpetui il significato. Nel mio Faux Traité d’esthétique ho mostrato che fu Platone, nella sua Repubblica, il primo a comprendere che la natura dell’aggressività poetica e quella speculativa erano di natura opposta; la filosofia, in seguito, ha avuto il torto di volersi conciliare con questo irriducibile avversario, la poesia a sua volta ha avuto il torto di accettare una tregua che non poteva che danneggiarla. Credo che, dopo Platone, nessuno sia spinto tanto lontano quanto Bachelard, nella scoperta del fondo cupo della poesia, e abbia segnalato in questa, con maggior forza e penetrazione, quel complesso profondo e primitivo, anteriore al pensiero stesso, che suscita il risentimento del filosofo e lo induce senza tregua a volersi rivalere contro il poeta. Da parte mia, vi è il rammarico che Bachelard abbia evitato di trionfare; il suo piacere estremo per la poesia glielo ha impedito; egli propone delle conciliazioni, tanto ripugnanti per la poesia quanto per la filosofia; ciò vuol dire che il problema dell’antagonismo poetico-filosofico non emerge affatto dall’avvolgente oscurità dei secoli. Di conseguenza, l’enigma perdura, e tanto più grande, nel momento in cui l’analisi di Bachelard è dedita a descrivere apertamente e con audacia il cuore dell’esperienza poetica ch’egli considera allo stesso tempo istintiva – e irriducibile.
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Bachelard si propone di analizzare innanzitutto l’opera di Lautréamont, ma avvertiamo chiaramente che, nel suo pensiero, si tratta solo di un caso esemplare, e perfino di un caso limite dell’attività poetica: una volta posti i termini dell’analisi, si potrà rintracciare il valore degli altri poeti in base al fatto che questi lautréamontizzino più o meno, o qualora essi oppongano un rifiuto al lautréamontismo. Il lautréamontismo è ritenuto da Bachelard un criterio della poesia: e una presa assoluta, da parte della coscienza poetica, di un complesso di vita animale, la produzione di una violenza, una creazione di tempo e velocità, una volontà sostantivante, di metamorfosi. È un occhio immenso, quello di Bachelard – un occhio che vede più lontano dello sguardo. Trascuro con rammarico gli innumerevoli dettagli e le audaci definizioni che il pensatore del Siloe adopera per infondere una manciata di magnifico magnesio, benché duratura, nei bassifondi della poesia lautréamontiana; è un’intuizione che emerge chiaramente, e con tale certezza, che consiglio al lettore di procedere nei miei termini: leggere il libro lentamente. Questi potrà così verificare che in effetti, per Bachelard, Lautréamont rappresenta una sorta di unità di misura dell’atto poetico: egli non giudica forse l’opera di Kafka – e a ragione? – un complesso di Lautrémont negativo? quello di Hugo o di Leconte de Lisle un Lautréamont estenuato? quello di Eluard, infine, come la trasposizione di un complesso lautréamontiano su un piano diverso, ecc.? Bachelard compie un passo in avanti, nel momento in cui pone il complesso lautréamontiano dell’animalità, un complesso inumano – insiste egli – sul piano culturale; egli vede nel dramma di Lautréamont «un dramma della cultura», un atto che deve trovare la sua soddisfazione, il suo rigoglio e la sua estenuazione – nelle parole. Tutto ciò è di una esattezza sorprendente. Ma quando Bachelard si decide a mostrarci la trasposizione che viene prodotta, nell’opera di Ducasse, del complesso animale in immagini e disposizioni culturali – non lo vediamo affatto:
Levant cette peau noire ouverte sous le crin (oltre una pelle nera aperta sotto il crine)
di cui parla Mallarmé nel «sa négresse par le démon secouée» (la sua negra scossa dal demonio). E il mistero si installa, irritante, perfino là dove un’istante prima lo avevamo così precipitosamente cacciato. Questa «volontà di aggressione», questa crudeltà per la crudeltà, gratuita, pura contiene tuttavia un’etica perlomeno singolare: in effetti, con nostro grande stupore, il critico scopre, in Maldoror, un’anima tutta matematica, colma «di furia matematica» (p. 128), che disprezza la forza, la brutalità, la violenza e la vita. Nulla è più vero, ma anche più estraneo, alla precedente analisi di Bachelard, di questa affermazione: «Sembra, in effetti, che nell’opera di Ducasse vi siano le tracce di due concezioni dell’Onnipotente. Esiste l’Onnipotente creatore di vita – e contro questo creatore di vita la violenza ducassiana si rivolterà. Vi è l’Onnipotente creatore del pensiero: Lautréamont lo associa allo stesso culto della geometria.» (p. 129) E Bachelard aggiunge: «Vediamo così che, nell’opera di Ducasse, a una passione per il pensiero si aggiunge il disprezzo per la vita. Ma perché Dio ha creato la vita, se avrebbe potuto creare direttamente il pensiero?». Non so se questo pensiero di Bachelard sia giusto, ma proverei imbarazzo a contestarlo, io, che nel XXIV capitolo del mio Rimbaud scrissi: «Lautréamont rimprovera a Dio di essere (“la mia soggettività e il Creatore, è troppo per un cervello”) e Rimbaud gli rimprovera di non essere, di abbandonarlo a se stesso (“la vera vita è assente”). Rimbaud rimprovera a Dio la sua assenza (ossia l’esistenza della Necessità, dell’Autorità) e Lautréamont la sua “presenza” nel mondo (ossia l’esistenza dell’Ingiustizia)». È indubbio che ciò voglia dire: Rimbaud rimprovera a Dio di aver creato il pensiero, e Lautréamont gli rimprovera di aver creato la vita. Ma, nello schema del mio libro, si comprende che l’anima matematica disprezza quel Dio che ha creato la vita; com’è possibile che Bachelard, nel suo schema, giustifichi il disprezzo della vita da parte di un uomo ch’egli considera l’esemplare privilegiato del complesso animale, un prototipo della fenomenologia dell’aggressione? Se, in ogni caso, la violenza esiste qua e là, e anche la «furia», queste non potrebbero essere della stessa natura, essendo esse rivolte – essenzialmente a quanto a pare – rispettivamente, la prima a disprezzare il pensiero, la seconda, a disprezzare la vita. La «furia» poetica la troviamo agli antipodi rispetto alla furia etica. Preso dall’intento di scoprire la disposizione etica di Lautréamont, non mi sono affatto preoccupato di stabilire a quale profondo istinto rispondesse la sua poesia; preso dalla disposizione poetica dell’autore del Maldoror, Bachelard avrebbe potuto trascurare la sostanza della sua etica. In effetti, è stata solo una dimenticanza; la conclusione del libro ci dimostrerà che Bachelard non crede a una disposizione etica che non sia saldamente collocata al centro stesso dei valori che governano l’opera poetica. Egli non potrebbe degnarla di una seria considerazione.
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D’altronde, non è affatto mia intenzione chiedere conto a Bachelard delle contraddizioni interiori del suo autore; esse esistono, si fondono in una meravigliosa unità organica; è compito del critico esporle, e non spiegarle. Tantomeno intendo dimostrare che questa duplice tendenza, ch’egli trova nel cuore dell’opera di Maldoror, noi la ritroviamo nell’analista: questi afferma continuamente che esiste autentica originalità poetica solo nel ritorno a un qualche complesso primitivo, biologico e tuttavia, alla fine della sua analisi, egli si propone di umanizzare la poesia, di «deanimalizzarla», conducendola a questo dilemma, ch’egli ci confessa apertamente: «… dobbiamo forse divorziare dalla vita o continuare con la vita? Per noi, la scelta è compiuta… La vita deve volere il pensiero» (p. 199). Ma la seconda tendenza è decisamente più accentuata in Bachelard che in Lautréamont, poiché il libro conclude in questi termini: «Dobbiamo inserire nel lautréamontismo dei valori intellettuali» (p. 199). Vediamo così (come già osservato più in alto) che Bachelard non considera seriamente l’odio di Lautréamont per il Dio creatore della vita, né la sua passione matematica per un Dio creatore del pensiero. La «scelta» di Bachelard è ormai compiuta, e quella di Lautrémont lo è altrettanto; mentre il primo sceglie il pensiero «deanimalizzante», il secondo sceglie la poesia animalizzante. Se la vita deve volere il pensiero, è indubbio che quella di Lautréamont non lo vuole; e, se credo all’analisi dello stesso Bachelard, è in quanto volontà poetica che la vita di Lautréamont rifiuta il pensiero. È pur vero che l’estetica classica non tiene in alcun conto la «volontà» del poeta; a questi si dirà quel che egli «deve volere» e non dovrà fare altro che conformarsi al dettato; il poeta non è forse una creatura della ragione? Ma, agli occhi dello stesso Bachelard, il poeta non è affatto una creatura che appartiene alla ragione; egli tiene in gran conto la sua irresponsabilità; sa che il poeta crea la sua opera attraverso l’istinto e i suoi complessi; e al cuore della poesia egli riconosce non una volontà di pensare, ma una volontà di aggressione, di metamorfosi… Non solo il poeta è perduto, se obbedisce ai dettati dei filosofi, ma egli è perduto nell’istante in cui la decisione di «volere il pensiero» emerge in lui stesso, dalle sue profondità. Una decisione cosciente – e il «dover volere» non potrebbe essere altro che un atto cosciente – non farebbe che alterare un atto che appartiene al getto spontaneo, all’esplosione.
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Da parte mia, non abbraccio l’intera poesia che appartiene al nome esclusivo di Lautréamont. Il complesso animale non è il solo, a mio avviso, al quale il poeta abbia ricorso. Ma convengo con Bachelard che l’immersione poetica, per sua essenza, accada in qualche luogo irrazionale, che essa agisca in modo istintivo. La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali». Così, collocare in lei quei valori che essa disprezza, vuol dire conciliare – con la forza – nemici irriducibili. Ma poiché, di fatto, tale operazione si rivela tanto assurda quanto irrealizzabile, non sarebbe più onesto ammettere la loro opposizione? Ammettiamo che la vita del filosofo «deve volere» il pensiero; che quella del poeta al contrario lo disprezza; non dico che debba volerlo disprezzare; egli lo fa suo malgrado, spontaneamente. In apparenza il poeta smette di essere un poeta nell’istante in cui egli è «appassionato del pensiero» – almeno in quanto poeta – e il filosofo smette di essere un filosofo nell’istante in cui egli sente la vita, e il fetore dell’istinto; impossibile inserire i valori intellettuali nell’uno, o la vita, nell’altro.
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Ammettere, tuttavia, che la poesia si opponga irriducibilmente alla filosofia, vorrebbe dire ammettere che la poesia rappresenta una funzione metafisica analoga a quella della filosofia, e – poiché vi è lotta, e un equilibro precario – nulla ci vieta di parteggiare per il trionfo della prima. Quest’unico pensiero relativizzerebbe per sempre l’assoluto della conoscenza; e sappiamo che, dopo aver descritto l’opera d’arte come il mago che ci svela l’essenziale assurdità, il Signor Bergson, avvertito il pericolo, ritornò a conciliazioni più prudenti. Malgrado il suo piacere per il pericolo e l’amore per il rischio poetico, Bachelard si deciderà forse ad affrontarli, libero di rischiare il suo «dover volere» il pensiero?
In ogni caso, ritengo il libro di Bachelard un meraviglioso stimolante di idee. Se non avessi già scritto il mio Faux Traité d’esthétique, lo farei ora, se non altro per il piacere di confutarlo. Vi aggiungerei una solo cosa: è la psicanalisi della cultura a non essere possibile, poiché la cosa più difficile di tutte, è quella di vincere le resistenze dello stesso analista.
Benjamin Fondane
*L’articolo è apparso originariamente nei «Cahiers du Sud», il 1940, XIX, pp. 527-532; e successivamente pubblicato nella raccolta di testi: B. Fondane, «Le Lundi existentiel», Editions du Rocher, 1990, Monaco, pp. 157-168. La traduzione italiana è di Luca Orlandini, come la ricerca bibliografica.
L'articolo “La poesia è sovversiva per eccellenza. Lautréamont e la volontà di aggressione”. Benjamin Fondane sfida Gaston Bachelard proviene da Pangea.
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