Tumgik
#Luca Orlandini
pangeanews · 5 years
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“Quando, ogni volta che incontri qualcuno e gli chiedi ‘cosa fai’, e risponde sereno che di mestiere fa l’artista o lo scrittore, e sai già che ti trovi di fronte a un sotto prodotto dell’artista e dello scrittore, e il tuo primo impulso è quello di tirargli a bruciapelo un pugno in faccia”. Solare incenerimento del mondo moderno da parte di un solitario
“L’uomo… da niente egli può sperar aiuto che dal proprio animo, poiché ognuno e solo nel deserto. Ma gli uomini sono come quello che sogna di levarsi e quando s’accorge d’esser ancora a giacere, non pero si leva ma si rimette a sognar di levarsi – cosi, ne levandosi ne cessando di sognare, continua a soffrir dell’immagine viva che gli turba la pace del sonno e dell’immobilita che gli rende vana l’azione che sogna. Ognuno e il primo e l’ultimo.” Michelstaedter
Quando penso al paradosso, comprensibile ma non meno scioccante, di non tollerare il sopruso di pochi per promuovere la libertà dei molti, e dunque il boia del suffragio universale; o al più grande e inspiegabile atto di fede, quello di trattare gli altri come se fossero persone normali.
Quando amo gli scrittori maleducati come solo la vita lo può essere: “ignorava di avere genio, non si considerava neppure uno scrittore, nessuna indulgenza per l’astrazione, nessuna traccia cicatriziale dello stile classico; in lui vi era un’anima equatoriale, dilatata nella sua esuberanza, devastata dai propri eccessi, incapace di imporsi quei freni che nascono dalla riflessione o dall’introspezione”.
Quando essere sedotti dalla propria solitudine molto più di quanto non lo siamo dalla compagnia degli altri, senza essere necessariamente degli introversi, potrà sembrare una vanitosa vacuità, e vi diranno “ogni spontaneità è disordine, ogni libertà capriccio, ogni natura un atto di provocazione nei confronti dell’Intelligenza”. Alcune rare creature sentono che più si è liberi, più si è soli. Un onere e una grazia ereditata, e non una posa a cui si possa decidere di aderire; e non esistono affinità tra il comandamento etico “tu ti sacrificherai per il bene del tuo prossimo”, e il comandamento metafisico “tu regnerai nel tuo essere”.
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Quando il primo comandamento di chi ahimè vuole essere un commentatore di idee altrui, se proprio deve, è quello di non diventare, e meno che mai essere considerato, uno specialista o uno studioso, in un mondo dove a quanto pare è d’obbligo guadagnarsi la patente di rispettabilità critica, essere riconosciuti in quanto ‘studiosi’ dotati della licenza di probità critica, intellettuale. Immaginate… definire Cioran uno studioso di Valéry o De Maistre, a causa dei potenti saggi che ha dedicato loro. Immaginate… definire Ceronetti uno studioso o un “grande intellettuale”, come ha fatto chi nulla ha capito (P.G. Battista), quando in realtà era molto di più e meglio, poiché fu un sapiente, che rispose lapidario, ironico e profondo, a chi gli obiettava di essere privo di specializzazioni: “L’unica mia specializzazione è il dilettantismo”.
Quando penso a Voltaire, un antesignano di questa dotta Repubblica delle Lettere, e alle sue veementi proteste contro Shakespeare, che ne impedirono per molto tempo la ricezione in Francia. A lui, che a proposito dell’Amleto, nel 1786 sentenziava così: “un dramma volgare e barbaro, che non sarebbe tollerato neanche dal più basso popolano di Francia… l’opera di un selvaggio ubriaco.” Ricorda l’astio del cattolicissimo Tommaseo nei confronti di Leopardi, che, tra gli innumerevoli dileggi, definiva le Operette morali: “fredda e arrogante mediocrità”. Due facce opposte della stessa ragione, unite in un’istintiva repulsione fisica, primitiva e brutale, del profondo.
Quando è incomprensibile l’ammirazione dell’anti-intellettuale Bukowski per Sartre, un mediocre imitatore francese di Dostoevskij via Heidegger; e, allo stesso tempo, il suo giudizio negativo su Shakespeare, uno che non fu esattamente uno sterile erudito, come dimostra il vigore della sua immaginazione. Come si può ammirare l’esistenzialista francese e disprezzare Shakespeare? Chinaski, che spesso vedeva giusto ma era anche pieno di queste contraddizioni, avrebbe risposto: “Fottiti, amico. E non mi piace nemmeno Tolstoj.”.
Quando ci sarà sempre qualche professore che, mediocre e arrogantemente accademico, vi vorrà rimproverare la vostra mancanza di institutio, il vostro sciogliervi dalle catene di una coscienza bibliografica, dallo stile della letteratura da note a piè di pagina, la prosa analitica, la moderna lingua razionale della prosa scientifica, poiché ignorano che non tutti sono tenuti a una qualche forma di rigore intellettuale, e che non sempre c’è da perdere nella disinvoltura metodologica, se questa porta con sé frutti maturi e risorse inesauribili… “anche l’apparente disordine era ordine e coerenza, l’approssimazione vero rigore, il gratuito necessario”… portate alle loro estreme conseguenze, fuori dalla semplice letteratura e i suoi codici, senza per questo scadere nell’avanguardia.
Quando idealmente, ogni critico, professore e ricercatore, qualunque sia il territorio dotto in cui si applica, dovrebbe formarsi, e immergersi fin dalla sua infanzia intellettuale, in tutte quelle personalità che in un modo o nell’altro hanno minato alla radice, con le loro parole e vite, la stessa idea di critico e di critica. E trarne le conseguenze, per riemergere in superficie e porsi questa domanda finale: “sono in grado di superare l’incontestabilità e la profondità delle loro accuse?”. Quelle che rivelano la vanità teorica della critica in generale, di quella engagé, produttiva, utile. Qualunque sia la risposta, bisognerebbe essere così onesti da ammettere che, in ogni caso, i critici, i letterati, gli intellettuali, i filosofi – quel mondo che non ha mai conosciuto uno spaesamento assoluto in mezzo alle parole e ai libri – non avranno mai le risorse personali per superare tali contestazioni. Il vero nomadismo inquieta e paralizza, quando non si ha il potere di viaggiare con l’immaginazione senza il baedeker dell’erudizione in mano.
Quando si è ospiti a cena dai conti Leopardi, e soprattutto una cosa vi emoziona. Non la sterminata biblioteca in cui studiò, l’immenso chiostro laico fatto di volumi, ma la sua culla, il principio, l’origine e il destino del genio, l’ingenuità, intorno alla quale Leopardi girò come intorno al proprio asse.
Quando infarcire a getto continuo la propria prosa di rimandi dotti, eruditi, storici, filosofici, letterari, a meno di non essere un Brodskij, un Cioran o un Manganelli, può anche rivelarsi un difetto d’immaginazione individuale. La maggior parte delle volte è così. Chiedete a un compositore d’idee altrui di adottare una prosa nuda, completamente sua, priva di spunti eruditi, e scorgerete il suo scoramento letterario, la sua fatale appartenenza al mondo della prosa analitica, alla letteratura da note a piè di pagina. È lo specchio di una penosa condizione. Una confessione d’inferiorità al cospetto della creazione, elevata al rango di un equivoco prestigio letterario. Salvo rari casi, zero linfa, anemia assoluta e uno sconfortante grigiore.
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Quando è impossibile, oggi, essere i rozzi corifei di una cultura che, spensieratamente, si professa pop, o al contrario essere tenuti per dovere al rigore intellettuale dello schematismo angusto della filologia classica o della saggistica scientifica, quando queste realtà, con ogni evidenza, ormai non producono nulla di profondo, come accadeva all’epoca di Leopardi o Nietzsche, che furono anche filologi. Il secondo infine intuì che “la filologia porta al peggio”, e abiurò il suo passato.
Quando la calligrafia intellettuale di oggi, in preda al disincanto del concetto, rinchiusa nella gabbia di una nitida geometria, e troppo presa dalla probità dell’astrazione, raramente si accompagna alla potenza, alla vita e all’immaginazione. L’erudizione, anche qualora non neghi la soggettività per vegetare nella più piatta obbiettività, priva di profondità, annega nell’esistenza sublimata a priori dalla lunga catena degli eroi della mente, paralizzata nelle maglie di una coscienza bibliografica.
Quando dobbiamo ammettere che l’intelligenza è anche un refrain sconcertante, un alibi pazzesco per ogni critico, poeta coscienzioso e probo consumatore di saggistica. Per il pantheon dei colti. È il teatro dell’immortalità della conoscenza che guarda in acquario l’assurdo, con arcano terrore, appena dissimulato da un vano ghigno di scherno e gli occhi socchiusi a lama di rasoio. Il cullarsi nella dissacrazione a getto continuo. Ridimensionamento umoristico, morale dello scrupolo critico, feroce ironia della ragione fatta metodo. Eppure, impossibile ridere di tutto, al modo dei filosofi e dei critici. E cosa ben diversa è il riso di Leopardi, che è affermazione della vita: “tutto è follia in questo mondo fuorché il folleggiare. Tutto è degno di riso fuorché il ridersi di tutto. Tutto è vanità fuorché le belle illusioni e le dilettevoli frivolezze”. Quello dei critici, i filosofi e i semplici letterati, è il riso della rinuncia predicato da ogni forma di stoicismo. Baudelaire, contro gli spregevoli corteggiatori delle folle, scrisse con ironico e furente nitore: “Signori, se volete essere felici a questo mondo dobbiamo essere con coraggio, diteci, che cosa? uomini di genio, riformatori, innovatori, profeti, fenomeni? No, signori miei… dobbiamo essere mediocri! Ecco la Splendida idea per il nostro tempo. Un odio sconfinato, per la poesia, per me”.
Quando tutto quel che non si osa dire è vittima del bon ton, dell’educazione, delle convenzioni, e della viltà. E se si osa, è il coraggio che tocca solo la superficie. Un vuoto rituale di parole. Non respira oltre l’urbano. L’evento non circola. Tutti questi letterati, scrittori, opinionisti, giornalisti, ricercatori e parolai a rimorchio di un pretesto, di un grande e magistrale pretesto che non toccheranno mai, sono compulsatori del prestigio altrui, della linfa di coloro che hanno avuto un destino, loro malgrado.
Quando, ogni volta che incontri qualcuno e gli chiedi “cosa fai”, e risponde sereno che di mestiere fa l’artista o lo scrittore, e sai già che ti trovi di fronte a un sotto prodotto dell’artista e dello scrittore, e il tuo primo impulso è quello di tirargli a bruciapelo un pugno in faccia. Tu, che pretendi del fottuto pudore. Che tolleri e t’intendi solo con chi scrive suo malgrado, preso da un’esistenza che non riesce a governare. I disadattati di rango: “ho notato che non mi posso veramente intendere con una persona se non quando è al colmo della sconfitta, ha perduto ogni stabilità, e con lei ogni certezza di successo. Il fatto è che in quei momenti depone ogni menzogna ed è nuda, e vera, restituita alla sua essenza dai colpi della sorte”. E penso a Simone Cattaneo. Al rigore della vertigine. A coloro che rischiano in ogni istante di naufragare, che non conosceranno mai la serenità e la calma dei mestieranti, quella di Moravia, che si metteva a scrivere tutti i giorni le sue cinque pagine, come esercizio per accumulare il fottuto lavoro. Amo i perduti, i bruciati, i miei unici fratelli, il folgorante e irragionevole fetore della vita, benché non lo augurerei a nessuno, poiché quello vero ottunde, imbruttisce e infine abbatte. È schifoso.
Quando la loro opera è ridotta a stigma del proscritto che rovescia la vita in comune. A limbo letterario. Una zona d’oltretomba riservata ai bambini a cui il battesimo della ragione viene negato. Il territorio marginale, domestico, degli specialisti, i geometri in possesso degli strumenti intellettuali per maneggiarli. Allo spazio dissacratorio del critico e del filosofo.
Quando il pantheon della cultura in loro vede solo puer aeternus. Transfughi dell’immacolata concezione del sociale. Aiòn wannabe. Repliche sgraziate del caos originale, e un increscioso noir cosmogonico. La peggior glossa estetica a ogni decadenza. Nel migliore dei casi, solo spacciatori di prosa o poesia estetizzante. Intrattenimento, fiction. La probità esige maturità, ci dicono, anche se quasi sempre questi ‘bambini’ sono gli unici a prendere ancora seriamente dal mondo la materia per la loro creazione, e hanno da dire sul rigore molto più di quanto non ne abbia la “profonda probità del pensiero”, e tutti quei lettori fieri di abbassare lo sguardo di fronte alla probità del critico, una creatura pubblica che pretende di trionfare sulle obiezioni della vita, una linfa muta e oscura.
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Quando la nostra immaginazione, oggi, è più che mai gregaria. Una massa mimetica in cerca di modelli, e molti sono i vicari della nostra immaginazione, contro la conquista della solitudine: democrazia, stato, politica, anarchia, cinema, tv, www, moda, design, mercato, finanza, romanzi, saggistica, professori, intellettuali, scrittori, maître à penser, giornalismo, calcio. E i poeti lasciamoli stare. Oggi non si sente dire altro, da librai e distributori, che nessuno legge poesia.
Quando oggi tutto è pop. E tutto è pop significa dire che tutto è design. Anche il pensiero! E forse una funzione di styling, rivestimento di prodotto o prefigurazione di logo, marketing, e non certo di stile. Pensa all’Ikebana, per passare ai giardini di Le Nôtre, più figli della geometria che della terra, per arrivare, oggi, al “floral design”.  Al funesto passaggio dall’astrologia e l’alchimia alla chimica e l’astronomia. Al fade. L’estinzione dell’emblema, dell’alchimia, dove tutto è ludismo che dissacra e scippa profondità. Mera superficie, capriccio urbano. Simulacro profano. Simulazione, un massimo di prosaicità elevato a metafisica. Negazione di ogni potenza e grandezza della creazione. La nostra epoca. Niente, qui, del senza tempo o del soffio delle ere geologiche. La tirannia del volto umano dilaga, e una musicista, per contraccolpo, rivelatrice, scrive: “In Islanda non andiamo in chiesa, passeggiamo nella tundra”.
Quando i designer possono essere spesso dei fieri imbecilli, allo stesso modo dell’artista felicemente pop. Frutto del loro tempo e nient’altro. Funzionali. Progettisti del Bello. L’inattuale come mera rivisitazione storica, posa perennemente urbana, bisogno ossessivo della superficie, e il venir meno dell’estensione del profondo nella superficie.
Quando il miglior segno della nostra decadenza contemporanea è l’abuso del pop. La tirannia di un’esasperante superficie: pop philosophy, food design, design del mobile, floral design. Il rovinoso sex appeal di un dialetto universale. Al punto che, per conferire uno spessore vissuto a un prodotto, un mobile o un vestito o un paio di jeans, questi viene dotato di un aspetto anticato o usato artificiale. Non si ha più tempo per il vissuto. Tutto è obsoleto, pronto per la discarica, prima ancora di essere consumato dal Tempo che passa, “l’artista più leggendario che sia mai esistito”, con il suo splendore e la sua miseria.
Quando la moda e il design, e l’indiscutibile supremazia di coloro che sfruttano l’aura dei nomi ‘Officina’, ‘Laboratorio’, rappresentano l’alchemico degli Archimede della modernità di oggi ridotti al pop e al marketing. Al design spacciato per bottega rinascimentale. Un simulacro custom-chic, eufonicamente cool, un tono fondato sul nulla, moda buona per qualche stagione e l’inconsistenza dello spirito del tempo.
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Quando sarebbe bene non dare mai a un altro essere umano il potere e il privilegio di giocare con il tema più evanescente, ambiguo e potente della natura umana: l’identità. Soprattutto se si tratta della nostra. Oggi siamo ridotti a quella deriva ripugnante che vede lo stilista, un altro fottuto essere umano, firmare con il suo nome, a lettere cubitali, perfino le mutande che indossiamo.
Quando uno splenetico con velleità da scrittore vi dice: – tutti questi anni, tutti questi decenni a leggere in solitudine, avrebbero potuto e dovuto trasformarsi in un’arma, in un potere, in un mezzo per trovare un posto onorevole, o forse anche disonorevole, in questo mondo, in qualunque regione della vita. Oggi, quando tutto ormai sembra perduto, appare solo una sconfitta, la più autorevole dopotutto, poiché non siete diventati assassini, alcolizzati, ladri, dissipatori di soldi altrui, drogati. E forse è un’onta. E un patetico ritiro da un mondo che, a queste condizioni, sembra non avere più nulla da offrire, se non dolore e bruttezza. L’aristocrazia di un perduto. La rassegnazione diventata posa. La trascrizione della propria lenta deriva. E l’ingenuità si paga, sempre. È una litania che potrebbe essere il tipico pensiero di un involontario paria intellettuale qualunque, un perfetto sconosciuto, grazie ai buoni uffici dei colpi della vita. Un pensiero ripetuto infinite volte nei secoli dei secoli, e una libido tutta pletorica, scaduta nell’avventura dello Spirito a causa della sua fisiologica e metafisica incapacità di adattamento. Un altro sfigato, diranno i più. E forse anche il non riuscire a usufruire di se stessi, a esercitare l’ambivalenza dei propri appetiti e dei propri sogni, camminare per strada e avere una sensazione strana dentro, e capire che è dovuto a un senso di abbandono, e non perché non si abbiano amici, amore, lavoro, persone con cui comunicare, ma perché si sente l’abbandono che una parte di voi ha imposto all’altra, a come un giorno una vi abbia lasciato, impercettibile, poi plateale, per sottrarvi l’efficacia della vostra dote di illusioni.
Quando si è qualcuno, ma solitudine e disadattamento sono troppo profondi, e l’irreale diventa patria. Re Mida al contrario, si vive in un universo spopolato, nell’epilogo di un bruciato, di uno che non torna più. Nel misterioso refrain che aleggia come un nimbo sulla carriera di ogni artista, quando questi dispera che la sua dissennatezza venga mai consacrata. E l’artista consacrato è colui che conquista il diritto di rimanere bambino in un mondo di adulti, che si guadagna da vivere sulle macerie dell’infanzia altrui, con un gesto di immane prepotenza imperiale.
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Quando l’artista, personalità compromettente e compromessa, se mai ve ne fu, soprattutto oggi, non dovrebbe mai preoccuparsi della serietà del suo lavoro di fronte agli occhi degli altri, del suo gioco in quanto lavoro, mestierante. L’unica sua preoccupazione dovrebbe racchiudersi in questo frammento: “non ho tempo per lavorare”. In caso contrario dimostrerebbe solo un fatale complesso manovale, una contraddizione deteriore che solo nel genio è talvolta davvero fertile. Eppure la faccenda è complessa. Un conoscente romagnolo, e un “passionale da far paura” direbbe Nabokov, ormai passato a miglior vita, vittima di una early grave, un mimetico di Bukowski con i soldi di papà, sosteneva che la miglior cultura sia quella che si creano gli sfaccendati coi soldi, come lui, se hanno la sensibilità e l’intelligenza per costruirsela. Salvo rare e paradossali eccezioni, in generale è falso. Una pretestuosa giustificazione. Lo stesso Chinaski diceva cose molto istruttive, e feroci, su quegli artisti o poeti che non dovevano lottare per la vita nella loro creazione, su quegli artisti che vivevano con i soldi di mamma o papà, sulla mancanza assoluta dello stimolo del bisogno: “dal punto di vista della creazione, quelli che nascono avendo tutto a disposizione sono i più disgraziati, è una tragedia superiore.” Cioran
Quando una creatura anomala, un miracolo linguistico, inclassificabile, impossibile da annoverare tra i literary hacks o i plumitifs, si impone con la forza irresistibile della sua corroborante lucidità. E una linfa complessa scorre nuovamente nel pallido territorio delle idee. Un tono extra letterario, vitale, nel più raffinato degli stili. E uno stupefacente poeta della prosa appare, avvolto da una semplicità che turba. E qualcosa di esaltante aleggia nella cenere che la sua tragica ironia sparge sulla decadenza della nostra civiltà, sulle rovine della nostra irrimediabile nudità metafisica. Non fu mai un professore segnato dall’università, e neanche un letterato, in fondo, poiché non sfornò libri, ma al contrario un parassita sociale, uno che, rispetto alla logica produttiva del suo secolo, ha perso tempo come pochi altri: “Tutti i vantaggi che ho sui miei contemporanei derivano dalla mia mancanza di rendimento.”
Quando evocare continuamente la profondità, il reale e l’esistenza con la scrittura, benché onorevole, è certamente la patetica ossessione di una malinconia, e dunque di un’impotenza. L’epilogo di un naufragio consumato, statuario, a cui l’incontinenza verbale conferisce una parvenza di vita, di movimento, l’illusione di un sussulto organico. E tutto viene a noia, anche la profondità, quando questa diventa un refrain teorico senza smalto né ironia o pause e il genio naturale che la sorregge. Una profondità ininterrotta non solo rende impossibile la vita, ma è anche noiosa e molesta, come può esserlo una creatura petulante, e la profondità dei teorici e i semplici letterati.
Quando tutto ciò che si scrive è filosoficamente un aborto, inutile e anche il rifiuto a un rapporto organico con le parole, nonostante una decisa sensibilità alle analisi formali che soddisfano nella capacità che ha lo stile di sottoporre a un superiore sigillo i pensieri, l’avventura di scrivere potrebbe diventare interessante, ammesso che si abbia qualcosa da dire in proprio. E da qui, potenzialmente, risorse inesauribili, nostro malgrado.
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Quando si è completamente fuori dal mondo letterario, artistico o accademico, né d’altronde si aspira a entrarvi, uno dei possibili modi di ammettere di voler commettere il reato di scrivere, illudendosi di avere qualcosa da dire, è quello di mentire spudoratamente e sostenere con fermezza che si scrive solo per questa volta, del tutto eccezionalmente; che non si ambisce a fare lo scrittore o il critico, e meno che mai l’artista. Giurare e spergiurare, per superare l’imbarazzo di voler scrivere in un mondo dove tutti hanno qualcosa nel cassetto, e per scongiurare, anche se solo per un istante, le sottili rappresaglie degli specialisti della parola. E forse vi siete già rotti i coglioni di questa illusione, della scrittura, perché d’altronde la pensate così: non sono uno fottuto scrittore, né un filosofo né un artista, sono solo un monomane.
Quando la cultura e le lettere sono sterili, in fondo, vi educano a non indugiare sulla personalità, sul temperamento, sull’uomo vivente, sugli elementi troppo equivoci e sfuggenti, difficili da nominare e definire. A raffrenare la vostra bestialità! A vegetare nell’elogio del plagio, questa sconfessione dell’unicità e fiero osanna di una sentenza: “l’allevamento in serie esclude la produzione dei grandi caratteri… l’esercizio dell’artificiale impedisce l’emergere dell’eterno”. E, da qui, lo sprofondare nel “principio estetico dell’intertestualità”, un’idea molto diffusa nel nostro tempo, dominante, che ha origini illustri e diffuse nel Novecento. In W. Benjamin e nelle sue tesi contro l’idea di genio, ispirazione, creatività e mistero, che, secondo le stesse parole di un Benjamin ancora in preda a un pregiudizio illuministico, “nella storia hanno sempre condotto a un’elaborazione fascista delle opere dell’ingegno umano”. In Faulkner, che non fu affatto interessato a tali nozioni, ma innanzitutto alla scrittura come mero esercizio di artigianato, tecnica, che per lui costituiva il 90% del processo creativo. Se prevale questo mondo, il significato di una parola conta più della voce che la esprime, la voce di qualcuno e non di chiunque.
Quando Luca Ricci, uno scrittore di racconti che va per la maggiore, crede nelle scuole di scrittura creativa e ritiene plausibile la figura e l’intervento dell’editor nel processo creativo di uno scrittore, e afferma senza pudore che scrivere è innanzitutto “uno sforzo immane di logica”, di un labor limae, il frutto di una cultura e una conoscenza presa in prestito, convenzionale. E questa affermazione ha una sola conseguenza, il rovinoso primato della logica sull’intuizione. Il progressivo impoverimento della facoltà di produrre immagini. La convinzione che le più potenti espressioni creative ai nostri interrogativi sull’esistenza siano soprattutto il prodotto della fatica e dello studio cosciente. E privilegiare il momento del lavoro su quello dell’ispirazione. Il frutto di una semplice allegoria mondana, per ridursi a una tradizione ben nota: Mallarmé, Valéry, Faulkner. E una legione di analoghe creature. A vegetare in una metafisica d’artista in preda alle maglie di un mero nesso sintattico-logico. Nel territorio dei grammatici nell’anima. Tra coloro che abbandonano la vera vita per una fottuta letteratura umanista. La fuga dal reale verso la metafora, sublime allegoria.
Quando la calligrafia intellettuale subordina l’eccezione, la creatività individuale a orchestrazione di materiali e suggestioni già esistenti. A un ruolo di mero talento compositivo, per mettere sotto accusa ogni creazione spontanea e per giustificare e privilegiare: “il primato del procedimento e del mestiere a scapito del dono, un’invenzione sprovvista di fatalità, di ineluttabilità, di destino”. L’ottundimento del profondo. Estinzione del lirico. È solo allora che i pallidi  bibliomani scrivono compiaciuti: “Il testo tende a essere sempre meno emanazione inconfondibile di un unico soggetto, sempre più inter-testuale, ogni opera è sempre meno opera individuale e sempre più opera collettiva, sempre meno reale e sempre più virtuale, e il testo è – in ogni sua parte – citazione, anche là dove non si citi consapevolmente… il simbolo generazionale del copia-e-incolla, modello di una new wave di creativi indifferenti al diritto d’autore, sempre più sotterrato nell’era della Rete aperta, anarchica, anonima”, per concludere: “è anche l’estinzione della nozione tardo romantica dell’idea di originalità e di autenticità dell’opera letteraria, concetti che trovano sempre meno ospitalità nella nostra epoca post-contemporanea che fa della citazione, la commistione e il riuso dei testi altrui una delle risorse più diffuse della creatività.” Si scade nell’essoterico. Poi, molto dopo, quando quel che più conta sarà stato evirato, un flebile rigurgito d’anima scriverà sconsolato sulla stampa nazionale: “l’ispirazione ormai fa paura”, “manca la potenza in letteratura”, “poeti, vi accuso”, e dopo aver abbandonato per strada, o reso inoffensivo, il più importante, il meglio, il fetore di quell’energia che contraddistingue le personalità sovrane e il segreto impulso di ogni aspirante Impero.
Quando l’idolatria della citazione, o l’abuso della citazione, è una debolezza alla portata di coloro che posseggono un pensiero proprio. Esempio estremo di abuso e grandezza: i passages di Walter Benjamin. Per gli altri, la maggioranza, è solo lo specchio di un’assenza. Di un vuoto non dico di genio, ma almeno di vero talento. Linfa stagnante.
Quando sai che i libri di Carver passavano sotto l’ingombrante, ipertrofico, travolgente e schiacciante editing di Gordon Lish, il suo editor personale, e lo ridimensioni come scrittore, anche perché concepiva come plausibile l’esistenza e l’importanza delle scuole di scrittura creativa. Al contrario di Bukowski, che al college frequentò un corso di scrittura creativa, per uscirne poco dopo, sbattendo la porta, urlando: “Tutto quello che è stato detto qui dentro è una fottuta stronzata!”.
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Quando uno spettro si aggira da sempre nel territorio della creazione. Aleggia come una tara su ogni impresa creativa, dalla più sublime alla più infima, ormai “rosa dalla più sottile delle anemie”. Un complesso di inferiorità, per lo più dissimulato, in seno alla vita, e un’anomalia clamorosa. Tutti, infatti, soffrono dello stupefacente complesso di voler conferire un fottuto prestigio intellettuale alle loro creazioni e ai loro pensieri, perfino le porno star con velleità da maître à penser, le virago della letteratura erotica, con un’omologia assolutamente falsa, esilarante, quella di credere che l’intelligenza coincida necessariamente con il sapere, l’erudizione, il mondo dei dotti.
Quando ricordi quel giorno in cui, da giovane uomo sano e forte, pieno di vita, ti operasti di una semplice ernia, e fosti ricoverato, in via del tutto eccezionale, in terapia intensiva. Gli altri reparti erano pieni. E ricordi, a notte fonda, quel signore anziano, alto, nel letto difronte al tuo, ormai ridotto a uno scheletro, e all’improvviso assisti alle ultime convulsioni della sua vita, a lui in preda a un attacco ischemico, e alla stretta dell’inesorabile asfissia. Al suo dimenarsi, penosamente nudo, in un vorticare impetuoso di lenzuola, gambe e braccia, il contorcersi delle mani, le smorfie inaudite del volto, mentre invano le infermiere tentavano di contenerlo, e ogni catetere saltava via, come impazzito, spargendo su tutti loro merda e urine. Dopo, un assordante silenzio, e il suono netto, terminale, della linea piatta. Non una parola, solo i gesti asettici di una laica  composizione, dopo il passaggio dell’infame Signora. In fondo, spazzatura da deporre, da smaltire. E tu, con un atto di ingenua pietà, il giorno dopo decidi di trascrivere questo vortice di convulsioni con una fottuta poesia, a trasfigurare questo estraneo con un memento mori:
Conclusa l’avventura della nostra vita ruotiamo la mano e chiudiamo le dita in un movimento di mezzo vortice rapido, come un ventaglio che si chiude di colpo una stretta, una ruga.
E pensi… a questo si riduce la poesia. A sublimare qualcosa di disgustoso, e dare un senso a quel che non ne ha. A far aleggiare un profumo di redenzione sul fetore della vita. Una devastante consolazione, che non ti ha mai consolato. Un’illusione affascinante, e una pseudo immortalità che non ti appartiene. A te, che non ti consideri poeta, e l’unica poesia che abbia mai osato scrivere da giovane, si riduce a questa:
You sink statuary “worn by everything ever desired” the window watching you condensing air on its glass in a raging winter dressing the days, trampling same sidewalks “a funeral in the brain”.
Ma, in fondo, lo sappiamo tutti.
“They say that… great beasts once roamed this world. As big as mountains. Yet all that’s left of them is bone and amber. Time undoes even the mightiest of creatures. Just look at what it’s done to you. One day… you will perish. You will lie with the rest of your kind in the dirt. Your dreams forgotten, your horrors effaced. Your bones will turn to sand. And upon that sand… a new god will walk. One that will never die. Because this world doesn’t belong to you or the people who came before. It belongs to someone who has yet to come.” Ed Harris, in Westworld.
“Everything is more complicated than you think. You only see a tenth of what is true. There are a million little strings attached to every choice you make; you can destroy your life every time you choose. But maybe you won’t know for twenty years. And you’ll never ever trace it to its source. And you only get one chance to play it out. Just try and figure out your own divorce. And they say there is no fate, but there is: it’s what you create. Even though the world goes on for eons and eons, you are here for a fraction of a fraction of a second. Most of your time is spent being dead or not yet born. But while alive, you wait in vain, wasting years, for a phone call or a letter or a look from someone or something to make it all right. And it never comes or it seems to but doesn’t really. And so you spend your time in vague regret or vaguer hope for something good to come along. Something to make you feel connected, to make you feel whole, to make you feel loved. And the truth is I’m so angry and the truth is I’m so fucking sad, and the truth is I’ve been so fucking hurt for so fucking long and for just as long have been pretending I’m ok, just to get along, just for, I don’t know why, maybe because no one wants to hear about my misery, because they have their own, and their own is too overwhelming to allow them to listen to or care about mine. Well, fuck everybody. Amen.
Now it is waiting, and nobody cares. And when your wait is over, this room will still exist… and it will continue to hold shoes and dresses and boxes and maybe someday another waiting person. And maybe not. What was once before you, an exciting and mysterious future is now behind you, lived, understood, disappointing. You realize you are not special. You have struggled into existence and are now slipping silently out of it. This is everyone’s experience. Every single one. The specifics hardly matter. Everyone is everyone. So you are Adele, Hazel, Claire, Olive. You are Ellen. All her meager sadnesses are yours. All her loneliness. The gray, straw-like hair. Her red, raw hands. It’s yours. It is time for you to understand this. Walk. As the people who adore you stop adoring you, as they die, as they move on as you shed them, as you shed your beauty, your youth as the world forgets you, as you recognize your transience, as you begin to lose your characteristics one by one, as you learn there is no one watching you and there never was, you think only about driving. Not coming from anyplace, not arriving anyplace, just driving, counting off time. Now, you are here. It’s 7:43. Now, you are here. It’s 7:44. Now, you are… gone. Die. … Everyone’s dreams in all those apartments. All those secrets we’ll never know. That’s the truth of it – all the thoughts nobody will ever know”.
Philip Seymour Hoffman, in Synecdoche.
Mettono in scena, alla grande, la maggior preoccupazione di ogni essere vivente. Il problema della morte, e il nulla del mondo. È questo quello che fanno la grande poesia e la grande arte e, nel farlo, danno un senso a quel che non ne ha: “le opere di genio… non trattando né rappresentando altro che la morte”. Leopardi
L'articolo “Quando, ogni volta che incontri qualcuno e gli chiedi ‘cosa fai’, e risponde sereno che di mestiere fa l’artista o lo scrittore, e sai già che ti trovi di fronte a un sotto prodotto dell’artista e dello scrittore, e il tuo primo impulso è quello di tirargli a bruciapelo un pugno in faccia”. Solare incenerimento del mondo moderno da parte di un solitario proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2I8BAAC
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glamzery · 7 years
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eddycurrents · 5 years
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For the week of 2 September 2019
Quick Bits:
Agents of Atlas #2 again seems to focus more on Amadeus Cho and his perspective than the rest of the team, but it’s still very entertaining. Greg Pak, Nico Leon, Pop Mhan, Federico Blee, and Joe Sabino continue to weave together intrigue, superhero action, and romance with a very interesting mystery evolving. 
| Published by Marvel
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Animosity #23 is part one of “Rites of Passage” from Marguerite Bennett, Elton Thomasi, Roberto De Latorre, Rob Schwager, and Taylor Esposito. While Jesse and her caravan continue to try to make it out west, her animal friends attempt to plan for her upcoming 13th birthday. Wonderful character moments here and further insight into the horrors that the animals have seen.
| Published by AfterShock
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Battlepug #1 brings the web comic to regular monthly print comics from Mike Norton, Allen Passalaqua, and Crank! While it does help to have read the previous adventures, you can pick up and enjoy this humorous take on sword and sorcery fairly easily. Some very nice humour in the “Covfefe” puppet.
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Berserker Unbound #2 is another wonderful issue from Jeff Lemire, Mike Deodato Jr., Frank Martin, and Steve Wands. The art alone from Deodato and Martin is wonderful, deftly mixing the modern and the archaic. It’s also very interesting to see the barbarian trying to navigate our strange modern world and the fact that he can’t understand anything that anyone is saying.
| Published by Dark Horse
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Birthright #39 gives us the confrontation with Mastema. Learning that she’s pretty much thoroughly insane and that the entire two worlds are screwed. At least, from her perspective. The colour work here from Adriano Lucas is positively brilliant.
| Published by Image / Skybound
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Breaklands #1 is a Comixology digital original from Justin Jordan, Tyasseta, Sarah Stern, and Rachel Deering. It’s different, bloody, and intriguing as to what’s going on. The opening suggests a kind of weird cult, the past gives the impression of post-apocalyptic tribes or gangs. 
| Published by Justin Jordan
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Buffy the Vampire Slayer #8 is a prelude to the “Hellmouth” crossover event with Angel, but I’ll say that it is essential to the overall storyline. This issue basically sets up the entire thing, even while still doing prologuey things. Great art from David López and Raúl Angulo. And, despite what Angel (at least that’s who I assume is in that devil mask) and Xander say, the “bat” costume is great, even if it doesn’t make sense.
| Published by BOOM! Studios
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Conan the Barbarian #9 takes us on a trip through Conan’s hallucinations of monsters he felled in battle as he tries to lead a group of people caught underground in the lair of the Undergod. Incredibly impressive artwork from Mahmud Asrar and Matthew Wilson. As we get a bit of reminiscence here, it feels as though we’re approaching the end of this arc.
| Published by Marvel
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Crowded #9 is pretty intense as Vita and Charlie breach a hotel and try to get the information on who set up the Reapr campaign from one of Charlie’s old “friends”. It goes about as well as you’d expect. Christopher Sebela, Ro Stein, Ted Brandt, Tríona Farrell, and Cardinal Rae continue to keep this story on its toes, speeding along as fast as it can.
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Dark Red #6 begins the next arc from Tim Seeley, Corin Howell, Mark Englert, and Carlos Mangual. It tosses more complications into Chip’s life in the form of a “cleaner” enthralled to another vampire and a family of were-jaguars fleeing from an El Salvadoran gang.
| Published by AfterShock
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DCeased: A Good Day to Die #1 expands the story a bit further with this one shot featuring a reunion of some of the Bwa-Ha-Ha era of the Justice League and a few other guests. Great art from Laura Braga, Darick Robertson, Richard Friend, Trevor Scott, and Rain Beredo.
| Published by DC Comics
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Deathstroke #47 continues “Deathstroke RIP” and it’s going to do your head in a bit. A banged, bruised, beaten-up, and confused Slade shows up with a bad attitude and we’re unsure how he’s back from the dead and acting fairly un-Slade-like. Also, Jericho gets his Doctor Manhattan moment. Priest, Fernando Pasarin, Carlo Pagulayan, Jason Paz, Cam Smith, Wade von Grawbadger, Jeromy Cox, and Willie Schubert are definitely continuing to keep this interesting.
| Published by DC Comics
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Die #7 catches up with the other half of the party in Isabelle and Chuck and, well, Chuck is an asshole. Kieron Gillen, Stephanie Hans, and Clayton Cowles manage to out-bleak the previous issue, but in a way that doesn’t elicit sympathy this time. It’s interesting as to how they build up Chuck, elaborate on his backstory, and make him even more thoroughly unlikeable.
| Published by Image
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Doom Patrol: Weight of the Worlds #3 is fairly impressive, with Gerard Way, Jeremy Lambert, Steve Orlando, Doc Shaner, Tamra Bonvillain, and Simon Bowland managing to become even more inventive with the narrative for an already incredibly inventive series. This one takes the convention of a flashforward and presents it as an issue of Doom Patrol in the future, weaving in some hard-boiled narration through a series of novels. Great work here all around.
| Published by DC Comics / Young Animal
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Everything #1 is weird. Very weird. This first issue from Christopher Cantwell, INJ Culbard, and Steve Wands feels like it’s mostly about setting up the atmosphere and briefly introducing many of the characters as the new Everything Store opens up in Michigan. Love the art from Culbard.
| Published by Dark Horse / Berger Books
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Fallen World #5 concludes what has been an excellent series setting up the next stage of the 4002 AD time period of the Valiant universe from Dan Abnett, Adam Pollina, Ulises Arreola, and Jeff Powell. The art from Pollina and Arreola is gorgeous, really leaning hard into the weird and wonderful of the future.
| Published by Valiant
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Fantastic Four #14 kicks off “Point of Origin” celebrating the initial launch of the Fantastic Four’s expedition that turned them into the Fantastic Four. The shifting timeline makes this feel weird, but it’s still an interesting premise. Great art from Paco Medina and Jesus Aburtov.
| Published by Marvel
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Future Foundation #2 is more fun from Jeremy Whitley, Will Robson, Paco Diaz, Daniele Orlandini, Greg Menzie, Chris O’Halloran, and Joe Caramagna. Why exactly the kids would mistake a younger looking Maker as their own Reed Richards is anyone’s guess, but this is still an entertaining prison break story building upon loose threads from Secret Wars.
| Published by Marvel
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Ghost Spider Annual #1 continues the “Acts of Evil” theme running through this year’s annuals as Gwen takes on Arcade and a host of Spider-Man’s villains and allies. It’s a good story from Vita Ayala, Pere Pérez, Rachelle Rosenberg, and Clayton Cowles that helps Gwen get a sense of place when it comes to some of the differences between Earths-65 and -616/
| Published by Marvel
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Giant Days #54 is the end to the series, but there’s one more issue in the story in the Giant Days: As Time Goes By special. Still, John Allison, Max Sarin, Whitney Cogar, and Jim Campbell gives us one last hurrah as Daisy, Esther, and Susan spend the summer together before graduation, tying up some loose ends, before saying goodbye to one another. It’s an emotional end, full of the eccentricities and humour that have been a hallmark of the series.
| Published by Boom Entertainment / BOOM! Box
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The Green Lantern #11 continues the multiversal adventure. This is really some of the fun, eccentric science fiction-y superheroics that Grant Morrison really excels at along with gorgeous artwork from Liam Sharp and Steve Oliff. I quite like Sharp’s Neal Adams-esque Batman GL and it’s neat to see the Green Lantern oath’s differences across multiple universes.
| Published by DC Comics
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Harley Quinn #65 kind of does an end run around the “Year of the Villain” content, incorporating it as a couple pages of the comic within the comic, while the rest of the issue is devoted to Harley dealing with the grief of the loss of her mother. By kind of ignoring it. Escaping to the Coney Island Volcano Island and getting a bit...rustic. Sam Humphries, Sami Basri, Hi-Fi, and Dave Sharpe also keep Harley’s trials going along nicely.
| Published by DC Comics
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Harley Quinn & Poison Ivy #1 follows up on Poison Ivy’s new status after regrowing herself from the death sustained in Heroes in Crisis. Now, I can’t say I exactly liked that series or what happened, but I do think that Jody Houser, Adriano Melo, Mark Morales, Hi-Fi, and Gabriela Downie make the most of it and turn it around into an entertaining start to this new story. Also, a nice pick up on both the broader “Year of the Villain” event (even though there’s no event banner) and on the new developments in Justice League Dark about the Parliament of Flowers and the Floronic Man.
| Published by DC Comics
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Immortal Hulk #23 brings the fight to Fortean. It’s absolutely brutal on both sides. Joe Bennett, Ruy José, Belardino Brabo, Paul Mounts, and Matt Milla really do an incredible job with the action here. And the end is stuff of nightmares.
| Published by Marvel
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Justice League #31 continues the “Justice/Doom War”. It’s very, very nice to see the Justice Society back in the mainline DC universe. Combined with the Legion of Super-Heroes back, it’s a wonderful time to see these two teams back. Feels good. It also helps that Scott Snyder, James Tynion IV, Jorge Jimenez, Alejandro Sanchez, and Tom Napolitano have JSA nestled within a great story, flinging the Justice League through the past and future.
| Published by DC Comics
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Lois Lane #3 is worth it for the art from Mike Perkins and Paul Mounts by itself. The fight between the two Questions is incredible, beautiful flow of action and energy all through the exchange. Also, we get some follow up on Superman protecting Lois adding complications. There could be an argument made that this story is unfolding at roughly a snail’s pace, but that would overlook the wonderful character moments occurring, the atmosphere, and epic action sequences. 
| Published by DC Comics
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Midnight Vista #1 is a wonderful start to this story from Eliot Rahal, Clara Meath, Mark Englert, and Taylor Esposito. It’s an alien abduction story told pretty much straight and its intriguing as to how the disbelievers in this tale are going to deal with, even amid the very real kidnapping and lost time that occurs. I love Meath’s line art here.
| Published by AfterShock
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No One Left to Fight #3 hits hard a couple times, first in Winda’s decidedly horrible way of handling rejection and jealousy and then in the Hierophant’s temptation of rebuilding Valé, fixing what ails him. More great work from Aubrey Sitterson, Fico Ossio, Raciel Avila, and Taylor Esposito. This book is a feast.
| Published by Dark Horse
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Pretty Deadly: The Rat #1 is a very welcome return of this series, shifting time frame again to ‘30s Los Angeles and adopting a noir style. The artwork from Emma Rios and Jordie Bellaire is drop dead gorgeous, seemingly coming up with new styles and approaches to storytelling. The film stills in particular are very impressive.
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Savage Avengers #5 brings a bloody and brutal “end” to the first arc from Gerry Duggan, Mike Deodato Jr., Frank Martin, and Travis Lanham. It’s not so much a conclusion as a chapter break, ending the bit with the Marrow God, but transitioning into whatever will come next in the war against Kulan Gath.
| Published by Marvel
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Sea of Stars #3 is another showcase for Stephen Green and Rico Renzi to just illustrate the hell out of some really cool stuff. This one shifts primary focus back to Kadyn and his interstellar entourage and it’s hilarious. The kid does kid things that drive his space monkey and space whale friends insane. Especially taunting a quarkshark.
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Something is Killing the Children #1 begins a rather disquieting horror series from James Tynion IV, Werther Dell’Edera, Miquel Muerto, and AndWorld Design. It’s brutal, bloody, and filled with all of the terror that you get from a frightened kid who just watched his friends get butchered. This is a visceral horror that punches you right in the gut. Very well done.
| Published by BOOM! Studios
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Spawn #300 is not a bad anniversary issue, a fairly hefty book featuring a lead “chapter” with gorgeous artwork from returning long term Spawn line artist Greg Capullo, kicking off with something disturbing, then leading into a combination of the story threads that Todd McFarlane has been weaving for some time now. While there is a foundation on the old, this one also sets up a fair amount of what’s coming. Great art throughout from Todd McFarlane, Greg Capullo, J. Scott Campbell, Jason Shawn Alexander, Jerome Opeña, Jonathan Glapion, FCO Plascencia, Brian Haberlin, Peter Steigerwald, and Matt Hollingsworth.
| Published by Image
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Star Wars: Jedi Fallen Order - Dark Temple #1 is a tie in to the forthcoming video game from Electronic Arts by Matthew Rosenberg, Paolo Villanelli, Arif Prianto, and Joe Sabino. It centres around a padawan who somehow managed to escape Order 66 on a recently-joined Republic world of Ontotho and the mystery of a temple that she was sent to investigate.
| Published by Marvel
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Supergirl #33 concludes Kara’s quest and “The House of El: United”, giving her perspective on the founding of the United Planets in Superman #14. It’s a decent end here, opening up new possibilities for what we’ll see next.
| Published by DC Comics
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Triage #1 is a very impressive debut from Phillip Sevy and Frank Cvetkovic. Interesting set up of variations on the same woman, Evie, across multiple worlds, and a mystery as to what’s going on. Sevy’s art here is gorgeous.
| Published by Dark Horse
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Usagi Yojimbo #4 begins a new two-part arc in “The Hero” as Usagi agrees to escort an author caught in a controlling, loveless marriage to her father. There’s a really nice opening sequence in this one with zombies.
| Published by IDW
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Vampirella/Red Sonja #1 is a pretty good start to this series from Jordie Bellaire, Drew Moss, Rebecca Nalty, and Becca Carey. It’s set in 1969 and built around the Dyatlov Pass Incident, which sends Vampirella out there to investigate to potentially find a “friend”. Beautiful art from Moss and Nalty. 
| Published by Dynamite
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Web of Black Widow #1 is wonderful. Stephen Mooney was born to draw espionage thrillers, having done so incredibly on his own Half Past Danger as well as The Dead Hand and James Bond 007. He has a style that reminds me of Dave Stevens and it just works perfectly for this kind of story. Add to that Jody Houser, Tríona Farrell, and Cory Petit, throw in a mystery born out of Natasha’s past and continued questioning her own status as her since she was brought back from death, and you’ve got a recipe for a near perfect storm of a debut.
| Published by Marvel
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Wyrd #4 concludes what has been an intriguing series from Curt Pires, Antonio Fuso, Stefano Simeone, and Micah Myers.  This has been a rather interesting story of superpowers seemingly gone wrong and it ties up with a Superman analogue as a child going homicidal. It’s dark, but it feels real.
| Published by Dark Horse
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Other Highlights: Absolute Carnage: Scream #2, Absolute Carnage: Symbiote Spider-Man #1, Alpha Flight: True North #1, Amazing Spider-Man: Going Big #1, Archie #707, Batman/TMNT III #5, Champions #9, Charlie’s Angels vs. Bionic Woman #3, Curse Words #24, The Death-Defying Devil #2, Descendent #5, The Dreaming #13, The Goon #6, House of X #4, Legion of Super-Heroes: Millennium #1, Marvel Action: Spider-Man #8, Nuclear Winter - Volume 3, Old Man Quill #9, The Punisher #15, Redneck #23, Rick and Morty Present Flesh Curtains #1, Section Zero #6, Space Bandits #3, Star Trek: Discovery - Aftermath #1, Star Wars #71, Superman: Up in the Sky #3, Transformers/Ghostbusters #4, Turok #5, The Wicked + The Divine #45
Recommended Collections: Age of X-Man: Prisoner X, Black Badge - Volume 2, Catwoman - Volume 2: Far From Gotham, Hellboy and the BPRD: 1956, Immortal Hulk - Volume 4: Abomination, Infinite Dark - Volume 2, Outcast - Volume 7, Spider-Gwen: Ghost Spider - Volume 2: Impossible Year, Superb - Volume 4: The Kids aren’t Alright, War of the Realms: New Agents of Atlas, X-Force - Volume 2: Counterfeit King
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d. emerson eddy is currently suffering the effects of a very gassy pug.
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horacio-oliveira-74 · 5 years
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http://www.pangea.news/julio-cortazar-lettera-inedita-pizarnik-a-cura-luca-orlandini/
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cerentari · 4 years
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Gioielli Rubati 130: Annalisa Rodeghiero - Enrico Toso - Domenico Carrara - Erospea - Luca Oggero - Vincenzo Ditoma - Luciano Orlandini - Carla Viganò.
Gioielli Rubati 130: Annalisa Rodeghiero – Enrico Toso – Domenico Carrara – Erospea – Luca Oggero – Vincenzo Ditoma – Luciano Orlandini – Carla Viganò.
Ringrazio Daniela Cerrato per la gentile collaborazione. Questo numero della rubrica è reperibile anche qui: https://ilmondodibabajaga.wordpress.com/ XI. A oriente di qualsiasi origine si vestiranno d’alba. Ne coglieranno l’essenzialità oltre ragione. La promessa prima, verrà conservata. A tutto ciò che deve ancora essere la sposa innalzerà altari, occhi. A tutto ciò mai torri né ombre. Nel…
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buenosairesnews · 6 years
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World Cup countdown: 50 days, Argentina moment number 5, United States in 1930
As part of the 50 days, 50 Argentina World Cup moments, we will be counting down the top 50 Argentina moments at a World Cup using the daily number.
We are just 5 days until the start of the FIFA World Cup and in 5th place we have Argentina defeating the United States by a five goal difference at the 1930 FIFA World Cup.
It was Argentina’s “semi final” match (the last game before the final itself) and it was Argentina against the United States. After having defeated France 1-0, Mexico 6-3 and Chile 3-1 in the previous three matches, the team would go on to thump the U.S by a five goal margin.
Luis MONTI opened the scoring in the 20th minute and it was the only goal of the first half. The second half saw a total of five goals with Alejandro SCOPELLI scoring in the 56th followed by a pair of goals by Guillermo STABILE (first in the 69th and the second in the 87th minute) and Carlos PEUCELLE scoring two others.
With the score at 5-0, the United States managed a goal through Jim BROWN.
Here was Argentina’s starting XI for the match: Juan BOTASSO Rodolfo ORLANDINI Fernando PATERNOSTER Alejandro SCOPELLI Guillermo STABILE Luis MONTI Carlos PEUCELLE Jose DELLA TORRE Juan EVARISTO Mario EVARISTO Manuel FERREIRA
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If you missed it, here are our 50 World Cup moments: 50: Sergio ROMERO gets 50th cap vs. Switzerland at 2014 FIFA World Cup. 49: Roberto AYALA scores in the 49th minute vs. Germany at 2006 FIFA World Cup. 48: Angel DI MARIA’s 48th cap for Argentina vs. Bosnia-Herzegovina at 2014 FIFA World Cup. 47: Mario KEMPES scores Argentina’s 47th goal all time at the 1978 FIFA World Cup vs. Peru. 46: Jorge VALDANO scores in the 46th minute at the 1986 FIFA World Cup. 45: Javier ZANETTI scores in the 45th minute vs. England at the 1998 FIFA World Cup. 44: Gabriel BATISTUTA scores goal number 44 in his Argentina career at the 1998 FIFA World Cup. 43: Gonzalo HIGUAIN receives cap number 43 for Argentina vs. Germany in the final of the 2014 FIFA World Cup. 42: Pedro PASCULLI scores in the 42nd minute for Argentina vs. Uruguay at the 1986 FIFA World Cup. 41: Maxi RODRÍGUEZ scores in the 41st minute for Argentina vs. Serbia & Montenegro at the 2006 FIFA World Cup. 40: Roberto AYALA plays in his 40th match for Argentina vs. Jamaica at the 1998 FIFA World Cup. 39: Pablo ZABALETA plays in his 39th match for Argentina vs. Nigeria at the 2014 FIFA World Cup. 38: Javier SAVIOLA scores in the 38th minute for Argentina vs. Ivory Coast at the 2006 FIFA World Cup. 37: Maxi RODRIGUEZ plays in his 37th match for Argentina vs. South Korea at the 2010 FIFA World Cup. 36: Mauricio PINEDA scores in the 36th minute for Argentina vs. Croatia at the 1998 FIFA World Cup. 35: Ezequiel LAVEZZI plays in his 35th match for Argentina vs. Netherlands at the 2014 FIFA World Cup. 34: Diego MARADONA scores his 34th goal for Argentina vs. Greece at the 1994 FIFA World Cup. 33: Gonzalo HIGUAIN scores in the 33rd minute for Argentina vs. Mexico at the 2010 FIFA World Cup. 32: Hernan CRESPO scores his 32nd goal for Argentina vs. Mexico at the 2006 FIFA World Cup. 31: Diego MARADONA scoring in Argentina’s 31st FIFA World Cup match vs. Hungary. 30: Argentina loses opening match of 1982 FIFA World Cup vs. Belgium. 29: Argentina are knocked out of the 1982 FIFA World Cup after playing their 29th ever group stage match. 28: Claudio CANIGGIA scores in the 28th minute for Argentina vs. Nigeria at the 1994 FIFA World Cup. 27: Pedro TROGLIO scores in the 27th minute for Argentina vs. the Soviet Union at the 1990 FIFA World Cup. 26: Diego MARADONA scores his 26th goal for Argentina vs. Belgium at the 1986 FIFA World Cup. 25: Sergio AGUERO plays in his 25th match for Argentina vs. Germany at the 2010 FIFA World Cup. 24: Diego MARADONA scores his 24th goal for Argentina vs. England at the 1986 FIFA World Cup. 23: Ezequiel GARAY plays in his 23rd match for Argentina vs. Belgium at the 2014 FIFA World Cup. 22: Argentina defeat Greece 2-0 on June 22 at the 2010 FIFA World Cup. 21: Lucas BIGLIA plays in his 21st match for Argentina vs. Iran at the 2014 FIFA World Cup. 20: Rene HOUSEMAN scores in the 20th minute for Argentina vs. East Germany at the 1974 FIFA World Cup. 19: Diego MILITO wears the number 19 shirt for Argentina on his World Cup debut vs. Nigeria at the 2010 FIFA World Cup. 18. Javier MASCHERANO plays in his 18th match for Argentina vs. Netherlands at the 2006 FIFA World Cup. 17: Claudio LOPEZ scores for Argentina in the 17th minute vs. Netherlands at the 1998 FIFA World Cup. 16: Gabriel BATISTUTA scores for Argentina in the 16th minute vs. Romania at the 1994 FIFA World Cup. 15: Leopoldo LUQUE scores for Argentina in the 15th minute vs. Hungary at the 1978 FIFA World Cup. 14: Diego SIMEONE wears the number 14 shirt for Argentina vs. Nigeria at the 2002 FIFA World Cup. 13: Argentina play in their 13th draw all time at a FIFA World Cup vs. Netherlands at the 2014 FIFA World Cup. 12: Guillermo STABILE scores for Argentina in the 12th minute vs. Chile at the 1930 FIFA World Cup. 11: Juan Sebastian VERON plays his last World Cup match for Argentina in nearly eight years vs. Sweden at the 2002 FIFA World Cup. 10: Angel DI MARIA scores his 10th goal for Argentina vs. Switzerland at the 2014 FIFA World Cup. 9: Argentina number 9 Gabriel BATISTUTA gets his last ever yellow card for Argentina vs. England at the 1990 FIFA World Cup. 8: Argentina played in their 8th all time knockout match at a FIFA World Cup vs. Yugoslavia at the 1990 FIFA World Cup. 7: Claudio CANIGGIA scores his 7th goal for Argentina vs. Italy at the 1990 FIFA World Cup. 6: Claudio CANIGGIA scores his 6th goal for Argentina vs. Brazil at the 1990 FIFA World Cup.
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audrabertolone · 6 years
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Mollo tutto e ricomincio da zero
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tmnotizie · 6 years
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ANCONA – Fino  al  1° luglio al Ridotto del Teatro delle Muse INTEATRO FESTIVAL va in scena Nassim ultimo testo dell’iraniano Nassim Soleimanpour. Lo spettacolo scritto e interpretato dall’artista di Teheran, vedrà sul palco un diverso interprete per ogni rappresentazione utilizzando un meccanismo teatrale originale e perfetto che vedrà coinvolto anche il pubblico.  Sul palco si alterneranno nelle diverse serate: 30 giugno Lella Costa e l’1 luglio Lucia Mascino.
La regia dello spettacolo è di Omar Elerian, disegno Rhys Jarman, sound designer James Swadlo,  light designer Rajiv Pattani, produttore Michael Ager, script editor Carolina Ortega e Stewart Pringle, la produzione è di BUSH THEATRE e la produzione italiana è di MARCHE TEATRO.
Ogni sera un attore diverso interpreta il nuovo e audace lavoro dell’artista Nassim Soleimanpour, esplorando il concetto di libertà, esilio e le limitazioni del linguaggio.Biglietti in vendita biglietteria del teatro 071 52525 [email protected] – biglietti on line www.geticket.it www.inteatro.it   www.marcheteatro.it
Prosegue fino al 21 luglio, la quinta edizione della manifestazione E–State al Dorico “Ancona Olimpica” ideata per far rivivere il vecchio e caro Stadio Dorico nel periodo meno utilizzato, quello estivo. Saranno coinvolte tutte le discipline sportive anconetane, che la struttura dello storico Stadio Dorico può ospitare, a partire dalle ore 17 fino alla mezzanotte.
Sabato 30 giugno, ore 17:00  “Archeologo per un giorno”  Museo della città. Vivi l’emozione dell’archeologia! Al Museo della città, dopo un’emozionantevisita guidata alla scoperta della sezione antica greco-romana e una divertente lezione sui rudimenti dell’archeologia, sarà possibile sperimentare una vera e propria simulazione di scavo archeologico! Con tanto di strumenti e ritrovamenti eccezionali, i bambini vestiranno i panni del direttore di scavo, del restauratore, dello scavatore e dell’esaminatore.
Proprio come in un vero team! Si consiglia abbigliamento comodo. Evento per famiglie con bambini dai 7 ai 10 anni. Ingresso Piazza del Plebiscito QUOTA DI ADESIONE: € 10,00 a bambino; € 2,00 per gli adulti Prenotazione obbligatoria telefonando al numero 0712225047 (negli orari di apertura) o scrivendo a [email protected]
Prosegue la rassegna di Sport in Piazza Pertini in programma nei mesi di giugno e luglio.Un programma particolarmente articolato quest’anno con tornei, gare ed esibizioni di calcio a 5, basket, ginnastica, bridge, danza, watervolley, wheelchair hockey….. e molto altro. Calcio A5 1 Luglio ore 21.00  – XXIII° CITTA’ DI ANCONA Trofeo Estra Prometeo 1 Luglio ore 21.45 (Finalissima) Asd Ankon Dorica
Per Lazzabaretto Cinema 2018, Sabato 30 Giugno 2018  DOPO LA GUERRA 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Annarita Zambrano. Con Giuseppe Battiston, Barbora Bobulova. Genere Drammatico – Francia, 2017, durata 100 minuti.
Festival del Mosciolo. Sabato 30 giugno “A spasso con Desy” Partenza della motonave Desy per minicrociere della durata di 2 ore.(Costo 20€ adulti,6-12 anni 15€). Orari da definire. Ore 18,30:Apertura stands gastronomici. Truccabimbi e Lotteria di beneficenza a cura della Croce Rossa Italiana Comitato di Ancona. Dimostrazione di Old Subbuteo a cura del Club I.N.S.O.M.M.ADalle 18,30 alle 22,30 Caccia ai Tesori del Porto Antico, a cura dell’ Associazione “i Sedici Forti di Ancona”. In premio tre cene da consumare allo stand del Festival del Mosciolo. Ore 22,30 Patrik Pambianco Voce-Davide Di Luca chitarra ACoU2stic Tribute.
DOMENICA 1° LUGLIO  
Marina Dorica, il 1°luglio esibizione della Associazione Corale Orlandini con lo spettacolo “Cantando Oltre” dalle ore 21.30.
Domenica 1 luglio, ore 17:00 Visita “Arte d’estate – Scultori del Novecento ad Ancona” Pinacoteca Civica. Ancona ha avuto nel XX secolo artisti importanti che ci hanno lasciato opere significative: nel caso della scultura, queste sono diventate parte della nostra memoria urbana e collettiva. Maltoni, Morelli e Trubbiani, tre grandi nomi dell’arte della nostra città, con i loro interventi hanno definito l’immagine di Ancona moderna. Alla scultura anconitana del Novecento è dedicato questo giro, dove scopriremo le opere d’arte che questi scultori hanno lasciato in Pinacoteca ed in città.
In tal senso concluderemo il percorso all’esterno, focalizzandoci su un edificio abbandonato da tempo ma molto importante per la storia anconitana, attualmente in fase di riscoperta e valorizzazione: la Casa del Mutilato in Corso Stamira. Ingresso biglietteria vicolo Foschi, 4. QUOTA DI ADESIONE: € 8,00 a partecipante. Prenotazione obbligatoria telefonando al numero 0712225047 (negli orari di apertura) o scrivendo a [email protected]
Fino  al  1° luglio al Ridotto del Teatro delle Muse INTEATRO FESTIVAL va in scena Nassim ultimo testo dell’iraniano Nassim Soleimanpour. Lo spettacolo scritto e interpretato dall’artista di Teheran, vedrà sul palco un diverso interprete per ogni rappresentazione utilizzando un meccanismo teatrale originale e perfetto che vedrà coinvolto anche il pubblico.  Sul palco si alterneranno nelle diverse serate: 30 giugno Lella Costa e l’1 luglio Lucia Mascino.
La regia dello spettacolo è di Omar Elerian, disegno Rhys Jarman, sound designer James Swadlo,  light designer Rajiv Pattani, produttore Michael Ager, script editor Carolina Ortega e Stewart Pringle, la produzione è di BUSH THEATRE e la produzione italiana è di MARCHE TEATRO.
Ogni sera un attore diverso interpreta il nuovo e audace lavoro dell’artista Nassim Soleimanpour, esplorando il concetto di libertà, esilio e le limitazioni del linguaggio.Biglietti in vendita biglietteria del teatro 071 52525 [email protected] – biglietti on line www.geticket.it
www.inteatro.it   www.marcheteatro.it
Marina Dorica, dal 28 giugno al 1° luglio  XXVIII Middle Adriatic offshore Cup.
Per Lazzabaretto Cinema 2018 L’INSULTO 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Ziad Doueiri. Con Adel Karam, Rita Hayek. Genere Drammatico – Libano, 2017, durata 113 minuti. Il film che tocca i nervi scoperti del Libano. Presentato in concorso all’ultimo Festival di Venezia ha ottenuto la Coppa Volpi alla miglior interpretazione maschile. Ore: 21.15: Introduzione a cura dell’Associaizone Ankonistan, interviene il giornalista e documentarista Ruben Lagattolla  Ingresso intero 5€, ridotto 4€
All’Arena Cinema Italia per la rassegna Tropicittà alle ore 21.30 si proietta LAST CHRISTMAS    regia: Christiano Pahler
Festival del Mosciolo: Domenica 1 luglio “A spasso con Desy” Partenza della motonave Desy per minicrociere della durata di 2 ore.(Costo 20€ adulti,6-12 anni 15€). Orari da definire Ore 13,00 42° Motoincontro di Ancona, 15° Memorial Franco Nocelli a cura del Moto Club Ancona G.Lattanzi-La Casetta. Ore 18,30:Apertura stands gastronomici. Truccabimbi e Lotteria di beneficenza a cura della Croce Rossa Italiana Comitato di Ancona. Ore 21,30 “Rana Show”. Ore 22,30 Concerto con i “SEAN CONERO”, in collaborazione con la Universal Events
Per gli eventi promossi dall’Assessorato alla Partecipazione Democratica, domenica 1° luglio la   BANDA DI TORRETTE IN CONCERTO alle ore 21,30 sarà in concerto al Parco Belvedere – Posatora
LUNEDI’ 2 LUGLIO
Per Lazzabaretto Cinema 2018, Lunedi 2 Luglio 2018 SACCO E VANZETTI 21.30 – Mole Vanvitelliana, Banchina Giovanni da Chio, 28 Regia di Giuliano Montaldo. Con Gian Maria Volonté, Riccardo Cucciolla. Genere Drammatico – Italia, Francia, 1971, durata 111 minuti. La condanna a morte che cambiò la storia. Torna in sala il film di Giuliano Montaldo con le musiche di Ennio Morricone e Joan Baez. **Ore 21.15: Introduzione a cura dell’Istituto Gramsci Marche, interviene Carlo Latini (Presidente Istituto Gramsci) Rassegna “Cinque pezzi facili: il cinema di Ennio Morricone” Ingresso unico 4€
All’Arena Cinema Italia per la rassegna Tropicittà alle ore 21.30 si proietta DOGMAN    regia: Matteo Garrone
MOSTRE
Fino a domenica primo luglio Ancona Foto 2018 festival Genti e Gente alla Polveriera Castelfidardo del Parco del Cardeto che ospita la mostra fotografica di Danilo Antolini, Pia Bacchielli, Chiara Gambardella.  Apertura dalle 17:00 alle 19:30 fino al primo luglio continua la mostra di Monika Bulaj
Fino al 24 ottobre è possibile visitare presso la Biblioteca Benincasa una nuova mostra libraria e documentaria. Si tratta della mostra “Tra editoria e letteratura: A. Gustavo Morelli editore e tipografo ad Ancona tra Otto e Novecento”, incentrata su una figura notevole nel panorama culturale cittadino tra Otto e Novecento: il tipografo editore A. Gustavo Morelli (1852-1909). La mostra è visitabile presso lo Spazio d’Ingresso della Benincasa, in Via Bernabei 30, dal lunedì al venerdì dalle 9 alle 19.
Durante il periodo estivo (luglio e agosto), sarà visitabile il mattino, dalle 9 alle 13.30 e di pomeriggio anche il martedì e il giovedì dalle 14.30 alle 17.La mostra espone anche tra l’altro una lettera del pittore Francesco Podesti, di cui Morelli pubblicò due opere.Della mostra è disponibile un catalogo presso la Sala di lettura e a richiesta si effettuano visite guidate
Mostra fotografica  Women – fino all’ 8 luglio 2018, dal martedì alla domenica Orario: 17,30-19,30. Con le opere di Pia Bacchielli, Silvia Breschi, Sergio Cavallerin, Rosella Centanni, Corrado Maggi, Aldo Moglie, Edoardo Pisani, Tiziana Torcoletti. Galleria Puccini Via Bernabei 39 – Ancona  www.galleriapuccini.it
La mostra “Women”, attraverso la fotografia, ha cercato di cogliere alcuni aspetti delle donne nella loro quotidianità e nelle diverse latitudini. Il linguaggio che ha usato è quello delle differenze nelle infinite varietà dei soggetti ritratti diventando la foto parte integrante della narrazione.  Ogni artista espone una, due, tre foto/storie che dialogano fra loro, raccontando con sguardi diversi le donne, le molte realtà, facendosi testimoni anche di quello che spesso viene nascosto, singoli sguardi che nel loro insieme vogliono contribuire a rendere una visione più ampia della condizione femminile.
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starwarsnewsit · 6 years
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Giuseppe Camuncoli - intervista al disegnatore di Star Wars: Darth Vader
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Giuseppe Camuncoli - intervista al disegnatore di Star Wars: Darth Vader
Giuseppe Camuncoli è una celebrità nel mondo del fumetto internazionale. Il disegnatore italiano (noto anche come Cammo) ha collaborato con le case editrici più importanti del settore (Sergio Bonelli Editore, Marvel Comics, Dc Comics). La Casa delle Idee lo ha scelto per il lancio della seconda serie a fumetti dedicata al Signore dei Sith Darth Vader. Insieme allo sceneggiatore Charles Soule ci sta raccontando gli eventi “canonici” ambientati dopo Star Wars Episodio III – La Vendetta dei Sith.
I fan di Guerre Stellari stanno adorando questo progetto, che si sta trasformando in uno dei capitoli più importanti della saga a fumetti di Star Wars. In Italia queste storie sono pubblicate da Panini Comics sul mensile spillato Darth Vader e raccolte in un apposito volume da fumetteria/libreria.
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Starwarsnews.it ha avuto l’onore di intervistare il fumettista italiano. Qui sotto potete leggere le sue risposte, che vi invitiamo a leggere, poiché ha ben spiegato cosa significa lavorare per Star Wars e Lucasfilm.
Giuseppe Camuncoli – Intervista di starwarsnews.it
1) L’attenzione di Lucasfilm per il canone rende più complesso il tuo lavoro su Darth Vader? E’ forte, rispetto al solito, la pressione da parte degli editor e del fandom?
Giuseppe Camuncoli: L’Universo di Star Wars è un affresco particolarmente maestoso e mastodontico. L’attenzione per i dettagli che viene richiesta nel momento in cui si porta acqua a quel mulino è assolutamente necessaria. Anzi, prima di lavorare effettivamente sulla serie di Darth Vader, pensavo davvero peggio. In realtà, dopo 19 numeri, posso dire che tutto fila piuttosto liscio. Gran parte del lavoro viene svolta a monte, a livello di sceneggiatura: quando mi viene fornita significa che le pagine scritte da Charles Soule sono già state passate al setaccio dalla Lucasfilm e quindi approvate per quel che riguarda i contenuti (magari dopo una seconda o una terza stesura/revisione). A me “resta” solamente da verificare che i veicoli, i costumi, i personaggi disegnati siano effettivamente centrati, e giusti per l’epoca in cui sono ambientate le storie. Già molte immagini mi vengono direttamente fornite da Charles, incorporate nel testo; quel che manca cerco sempre di verificarlo con gli editor Marvel e Lucasfilm, che in questo sono veramente efficaci. Dopo un anno e mezzo di lavoro continuativo, nonostante un cambio in corsa degli editor Marvel, direi che il meccanismo è oliato alla perfezione.
2) Quanto pensi durerà il tuo felice “matrimonio” con Darth Vader? Ti vedremo su altri progetti legati a Star Wars?
Giuseppe Camuncoli: Il mio “matrimonio” con l’Oscuro Signore, come da contratto prematrimoniale, durerà per 25 numeri (tante saranno le uscite previste fin dall’inizio da Marvel e Lucasfilm). Inizialmente l’idea era quella di farmi fare il lancio della serie e gli story-arc principali, affidando qualche numero ad altri disegnatori. In realtà, poi, abbiamo trovato questo compromesso perfetto: sono passato dal fare matite definite, per gli inchiostri di Cam Smith, al realizzare solo i layout (che richiedono meno tempo) da affidare successivamente a Daniele Orlandini, bravissimo disegnatore e brillante mio ex-studente della Scuola Internazionale di Comics, che le prende in mano e le completa rendendole tavole finite. In questo modo riusciremo a fare tutti i numeri della serie, cosa di cui sono particolarmente orgoglioso.
Per quanto riguarda il futuro, è ancora presto per parlarne, ma l’esperienza finora è stata ottima, e mi piacerebbe di sicuro continuare con altri progetti legati al mondo di Star Wars. Recentemente, ad esempio, ho disegnato una storia di backup per il N. 50 di Star Wars, sempre con protagonista Vader e per i testi di Kieron Gillen, e mi sono trovato benissimo, per cui la mia disponibilità e il mio entusiasmo ci sono sempre.
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3) Sei arrivato a lavorare per questa serie da fan di Star Wars? Cosa ne pensi del nuovo corso Lucasfilm/Disney?
Giuseppe Camuncoli: Sì, sono un fan della saga (prevalentemente per film e fumetti, a dire il vero) fin da quando ero piccolo, il che ha avuto il suo peso nell’accettare di corsa quando mi hanno proposto, tra le varie cose, di disegnare la seconda serie di Vader. Riguardo al nuovo corso della Disney, sono piuttosto soddisfatto. Non tutto è eccellente, ma al tempo stesso ci sono stati momenti davvero molto emozionanti e ben fatti, cosa che invece un po’ era mancata a mio parere nella trilogia di George Lucas degli Episodi I, II e III. Quindi sono sicuramente ottimista per il futuro.
Ad esempio, credo che i fumetti del rilancio Marvel siano veramente belli, e lo dico in maniera il più obiettiva possibile perché ogni volta che ricevo una nuova sceneggiatura di Vader mi esalto come un fanboy. E questo, di solito, è sempre un buon segnale.
4) C’è un personaggio della saga che ami particolarmente e vorresti disegnare?
Camuncoli: Ce ne sono tanti, a dire il vero. Il mio preferito, però, è sicuramente il buon Chewbacca e finora l’ho disegnato solamente in un paio di copertine. Altri personaggi che spero prima o poi di disegnare, sono sicuramente Boba Fett, Jabba the Hutt, Darth Maul, i Sabbipodi e i Java.
5) Hai visto Solo: A Star Wars Story? Cosa ne pensi? Cosa ti piacerebbe vedere in un terzo spin-off cinematografico?
Giuseppe Camuncoli: Sì, l’ho visto e mi è piaciuto. Visivamente è davvero sontuoso, ma anche storia, personaggi e recitazione alla fine sono di ottimo livello. Magari è un po’ veloce in alcuni passaggi e un po’ lento in altri. La storia forse non ha picchi emotivi ed emozionali estremi, ma il mio gradimento è stato molto alto. Ero piuttosto scettico sulla scelta di Alden Ehrenreich per la parte di Han (altro personaggio a cui sono molto affezionato), più che altro perché mi sembrava che somaticamente avesse poco a che vedere con Harrison Ford. Invece la sua performance è stata fantastica. Ma del resto, ogni film in cui appare Chewbe (a parte l’imperdonabile Episodio VIII, di cui NON sono un fan), è un film che mi piace a priori.
Per quel che riguarda l’eventuale terzo spin-off, mi piacerebbe tanto, ma proprio tanto, che fosse dedicato a Obi-Wan Kenobi e che avesse di nuovo Ewan McGregor come interprete. La sua interpretazione di Ben è stata una delle poche cose egregie della seconda trilogia di Lucas e ora si potrebbe raccontare magistralmente il periodo che va dall’Episodio III a “Una Nuova Speranza”. Staremo a vedere, ma spero che la Forza continui a scorrere potente in questi spin-off.
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LEGGI:  Darth Vader 17, leggi le prime pagine in anteprima. Il Jedi sopravvissuto sfida gli Inquisitori
Ringraziamo Giuseppe Camuncoli per averci concesso questa intervista, ricca di dettagli sul suo lavoro e delle sue sincere emozioni da fan.
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I firmatari del Manifesto di People For Planet
Cesare Aglialoro, Operatore sociale Paolo Aiello, Sviluppatore software Michele Aina, Agricoltore Diego Albertini, Cittadino del mondo Stefania Albertini, Medico Alfredo Albiani, Operatore olistico Marco Alfieri, Giornalista Michele Ammendola, Counselor Luca Aoe, Copywriter Giovanni Aquilino, Dipendente Pubblico Silvana Arbia, Ex Magistrato – Senior Trial – Tribunale penale internazionale delle Nazioni Unite per il Ruanda Maurizio Arrighi, Impiegato Roberto Arzilla, Medico Alessandra Ascia, Presidente del Consiglio Comunale di Gela Paolo Astarita, Programmatore Marco Bachi, Musicista Claudio Baila, Tecnico Anna Balbiano, Giornalista Danila Baldo, Docente di scuola secondaria di secondo grado Alessandra Balduccini, Agronoma Fabiana Barbati, Cittadina (e imprenditrice agricola) Leo Barbi, Anpi Gavorrano Scarlino Andrea Guido Barcucci, Candidato Insieme x Gori prov. VA Elisa Bardini, Laureata in Comunicazione Interculturale Domenico Barranca, Impiegato Maurizio Bartoletti, Ragioniere-commerciale Gian Luigi Bassani, Operaio specializzato Antonella Bassi, Forte lettrice Eugenio Bausola, Pensionato Luigino Bellizzi, Pensionato Daniela Bellucci, Dottoressa Stefano Benni, Scrittore Roberta Bernobi, Terapista Paolo Berretti, Padre e marito Giovanni Berrino, Cittadino Cristina Bertocci, Traduttore Mauro Bertuzzi – Agronomo Ezio Betolotto, Direttore Francesca Bevacqua, Cittadina italiana residente all’estero Sara Bianchi, Impiegata Davide Bianchini, Consulente energetico e ambientale Teresa Bilotta, Professoressa di Liceo in pensione Fulvio Boccardo, Impiegato pubblico Maurizio Bogani, Impiegato Roberto Bogon, Responsabile Vendite Antonella Bonfini, Artista Patrizia Borghi, Insegnante Luigi Maria Giuseppe Borghini, Insegnante Marco Boschini, Coordinatore Associazione Comuni Virtuosi Mauro Bottaro, libero professionista Amalia Bove, CittadinAeBasta Guido Bovo, Antiquario Aurora Braida, Cuoca Nicola Bressi, Dottore naturalista Andrea Brezzi, Disegnatore meccanico Paola Brundu, Dipendente pubblico Riccardo Brusadin, Impiegato Laura Burrone, Cittadina Giancarlo Cadei, Analista programmatore Davide Calabria, Collaboratore Scolastico (firma per legge 1 e 3) Francesca Calini, Hotel manager Elma Cani, Studentessa e lettric Gabriella Canova, Scrittrice Simone Canova, Scrittore Carlo Cantini, Musicista Monica Capitani, Insegnate Nadia Capoleoni , Impiegata Loretta Capra, Pensionata Anna Cardiota, Avvocata Anna Carella, Insegnante Maria Carmine Carusone, Pensionata Alice Carpini, Cittadina Vania Carraro, Insegnante Alessandro Carucci, Ricercatore Marco Casareto, Giornalista Sergio Casiraghi, Matematico Valeria Castagna, Impiegata tutto fare Roberto Aseglio Castagnot, Educatore professionale Claudia Castelli, Docente Fabiano Cavadini, Docente Giovanni Cavalcabue, Impiegato Antonio Cavallo , Studente Lucio Cavazzoni , Candidato alla Camera dei Deputati per Liberi e Uguali Giovanni Cazzaniga, Pensionato Scilla Ceccherini, Cittadina italiana residente a Bruxelles Ilaria Cecchi, Impiegata Antonino Celentano, Impiegato Catello Celotto, Impiegato Paola Centofanti, Pensionata Eugenio Cerelli , Tecnico Sanitario di Laboratorio Biomedico Joelle Cerfoglia, Cittadina Sara Cerrato, Studentessa Claudio Cianca, Consulente Indipendente Clelia Ciardulli, Lavoratore nella comunita’, Istruttore di Inglese per stranieri Angelo Cifatte, Funzionario comunale Francesca Cintori, Pensionata Raffaele Cioffi, Docente Università Parthenope Monica Cipelletti, Team enabler Antonio Cipriani, Pensionato Francesca Cocco, Partner innovazione – Knowledge for Business Grazia Coco, Cittadina Alessandra Colaiacovo, Mamma zen Beatrice Coletti, TV Manager Enrico Colliva, Funzionario pubblico Giuliano Colomban, Project manager Daniele Colombi, Impiegato ambientalista Sara Comoglio, Neomamma Alberto Corsetti, Odontotecnico Federico Costa, Pasticcere Vincenzo Cotronei, Pensionato Claudia Crovace, Guida Turistica Laura Cuccuru, Laureata in Comunicazione Donatella Curti, Impiegata Virginia D’Aiuto, Chimico Maria Cristina Dalbosco, Scrittrice Daniela Dal Fiume, Impiegata Lorenzo Dambrosio, Studente Sara Damiani, Impiegata Carlo D’Andreis, Operaio Luigi D’Angelo, Tecnico Ilaria D’Arcangelo, Professionista HR Antonio Deamici, Agronomo Marilena De Biase, Insegnante in quiescenza Felice Del Giudice, Docente Marina Dell’Aquila, Insegnante Viviana Della Bella, Pensionat Giovanni Dell’Erba, Pensionato Alfredo De Luca, Agronomo Luigi De Magistris, Sindaco di Napoli Leonarda De Matteis, Libero professionista Nino De Miceli, Psicoterapeuta Claudio De Paulis, Pensionato Marco De Pertis, Ingegnere Loredana De Petris, Senatrice Liberi e Uguali Giuseppe De Renzis, Medico Stefano De Rienzo, Imprenditore Simona Di Bartolo, Biologa Marcello Di Carne, Consulente Alessandra Di Claudio, Amante della natura Roberto Difalco, Psicologo Barbara Di Feo, Imprenditrice Antonio Di Lollo Capurso, Avvocato Michele Dotti, EducAttore Danilo Duina, Ingegnere Mirella Esposito, Impiegata Stefano Esposito, Advisor finanza sostenibile Maurizio Faccioli, Operaio settore alimentare Giorgio Fanò Illic, Professore Universitario Gianfranca Fantin, Casalinga Ferruccio Fantini, Pensionato Nadia Farina, Dipendente pubblico Maurizio Fauri, Docente Università Trento Claudia Faverio, Libera professionista Nicola Fera, Insegnante Clelio Ferrara, Pensionato Sergio Ferraris, Giornalista Fabio Ferretti, Pensionato Luca Ferretti, Videomaker Piero Ferruccio, Pensionato Fabio Fiamberti, Disoccupato Diego Filotto, Insegnante Alessandro Finazzi, Cantante Jacopo Fo, Attore Walter Fontana, Tecnico della sicurezza Loretta Fontebasso, Mamma Maria Rosaria Forcella, Insegnante Vittorio Foresti, Insegnante a riposo Maria Forgioli, Alimentazione naturale e orti Clara Fornaro, Artista Giannantonio Fornasari, Insegnante Roberto Fortino, Pensionato Filippo Fossati, Deputato Francesco Francis, Pensionato Maria Carmela Franze’, Avvocato Tiziana Freti, Consulente Carla Fruttaldo , Insegnante Franco Fumo, Ingegnere e Agronomo Carlo Gabardini, Scrittore Graziano Galassi, Insegnante Massimiliano Gallo, Direttore de Il Napolista Vincenza Gambino, Docente di scuola primaria Andrea Gardini, Medico Francesca Garioni, Attrice Vito Garofalo, Avvocato Tiziana Gherardini, Pensionata Alessandro Ghionzoli, Presidente di associazione di volontariato Marco Giaccaria, Musicista Valeria Gialanella, Pensionata Anna Giamporcaro, Fotografa Salvatore Giangreco, Avvocato Ivan Giaquinto, Viaggiatore Giovanni Giarratana, Pensionato Anna Giordano, Casalinga Daniela Giosuè, Ricercatrice Università della Tuscia Antonio Girardo, Psicologo Analista Gianni Pietro Girotto, Senatore Gruppo M5S Bruno Giuranna, Musicista Tiziana Maria Gherardini, Videomaker amatoriale Greta Golia, Social media manager Peter Gomez, Giornalista Laura Graci, Insegnate di yoga – Counselor Michele Fusco Granolla, Abitante del Pianeta Fabio Grassi, Comunicazione turismo Enrico Greppi, Cantante Elena Gualco, Formatore Roberto Guercia, Project Manager Stephanie Holmes, Pensionata Piero Iaschi, Medico pediatra Miriam Ientile, Cittadina del mondo Vincenzo Imperatore, Consulente aziendale Licia Iob, Impiegata Mauro Iori, Tabacchino Rosanna Jemoli, Medico Caterina Labate, Impiegata Claudio Lago Marco Lamalfa, Impiegato Daniele La Montagna, Ingegnere Daniela Lancioni, Pensionata Davide Lanfranco, Operaio Osvaldo Lazzini, Pensionato Alberto Leggio, Studente Cristina Leonelli, Docente Università Modena Reggio Emilia Maurizio Leoni, Fotografo Gad Lerner, Giornalista Laura Levati, Biologa Filomena Ilaria Lillo, Studentessa Marina Livella, Impiegata Giancarlo Livraga, Semplice cittadino Maurizio Lo Presti, Direttore T.O Giampaolo Loreto, Geologo Maria Daniela Lucchesi, Pensionata Vito Lucente, Pensionato Daniela Luise, Insegnante in pensione Enrico Lupano, Pensionato Daniele Luttazzi, Scrittore Pietro Luzi, Anatomo Patologo Antonello Macrì, Psicologo Alberto Maggi, Teologo Alessandro Silvio Maria Magistrelli, Studente Luisella Magnoni, Pensionata Alessandro Maida, Artista Lorena Maini, Commerciante Giulia Maira, Pensionata Maria Maistrelli, Studentessa di biotecnologie Devid Majenza, Geometra Liana G. Malato, Agente di Commercio in pensione Antonio Manca, Operaio Stefania Manetti, Pediatra ACP Marilena Manganaro, Insegnante Andrea Maraffino, MioBio Dacia Maraini, Scrittrice Marina Maran, Docente Paolo Marazzi, Guida Alpina Marisa Marcante, Producer Maurizio Marchetti, Tecnico tv Umberto Marcomeni, Pensionato Neri Marcorè, Attore Mattiello Mariano, Insegnante Livella Marina, Impiegata Valerio Marinucci, Impiegato Enrico Marone, Editore Carlo Marzovillo, Libero Professionista Marco Masieri, Commerciante Andreina Mason, Impiegata Paola Mastrodonato, Persona Edwin Matta Castillo, Programs & Policy Officer ONU Alessio Maurizi, Giornalista Radio24 Claudia Mazzola, Docente (precaria) scuola secondaria di I grado Cristina Meda, In cerca di occupazione Ezio Meli, Impiegato Luca Mercalli, Metereologo (firma per i farmaci sfusi) Cristina Merlino, Giornalista Alfredo Messina, Avvocato Gaia Mezzadri, Imprenditrice Marco Milanesi, Libero professionista Marco Mina, Pubblico impiegato Rosa Minerva, Docente Bruno Giulio Misculin, Candidato politico Flavio Mobiglia, Educatore e Musicista Sandro Mogni, Correttore di bozze Maria Antonietta Montella, Scrittrice Carlo Moretuzzo, Pensionato Flaminia Morin, Cittadina italiana Francesca Moroni, Insegnante Paolo Morsut, Pensionato attivo Ingy Mubiay, Scrittrice Massimo Muratori, Libero professionista Rossella Muroni, Candidata Camera dei deputati Francesca Mustacchio, Agricoltore Alessio Nanni, Artista Luca Napoli, Psicologo Psicoterapeuta Lorena Nascimben, Farmacista Giuseppe Nenna, Concept designer, presidente associazione Ditaubi Alessandro Nutini, Musicista Claudio Oddone, Medico Vincenzo Olivieri, Dirigente Veterinario ASL Giorgio Orlandi, Cittadino pensionato Andrea Orlandini, Musicista Federico Pacini, Musicista Franca Paganelli, Artigiana Gabriella Pagani, Pensionata Paolo P. Pagnon, Docente Pippo Palazzolo, Libero ricercatore Luisa Palermo, Insegnante in pensione Giuseppe Panebianco, Impiegato Daniela Papone, Pensionata Sergio Parini, Giornalista Zita Paris, Operatore socio-sanitario Giovanni Battista Parodi, Archeologo Enrico Parolini, Ingegnere in ambito efficienza energetica Guido Passi, Regista Bruno Patierno, Coordinatore Gruppo Atlantide Iacopo Patierno, Regista Maddalena Pedio, Dipendente Pubblica Agostino Pela, Guardiaparco Sara Pelargonio, Studente Serena Pellegrino, Deputata Giovanna Perfetti, Avvocato Andrea Perissi, Pensionato Carlo Petrini, Fondatore Slow Food Cristina Piali, Impiegata Luca Piattelli, Dipendente pubblico Francesco Piccardi, Interprete di conferenza Matteo Piccolo, Impiegato Thomas Piccolo, Infermiere Cristina Picchietti, Pensionata coscienziosa Simone Pizzi, Commesso disoccupato Elisa Poggiali, Ingegnere Luciano Polese, Ingegnere MariaCristina Pollastri, Casalinga Manuela Porru, Programmatrice Maria Paola Pozzi, Insegnante in pensione Angela Prati, Fotografa Margherita Prevedello, Operatore Sanitario Tommaso Puglisi, Sognatore Giuseppe Quattrone, Pensionato Giulia Ranaldi, Operatrice sociale Splendora Rapini, Medico Chiara Rapuzzi, Consapevole umana Donatella Reginato, Impiegata Achille Renzullo, Architetto Paola Restiglian, Funzionario ente regionale Susanna Riavini, Pensionata Angelo Riccardi, Disoccupato Antonio Ricci, Autore TV Carla Ricci, Architetto Maria Ricci, Pensionata Romina Rivoli, Libero professionista Fabio Roggiolani, Cofondatore Ecofuturo Festival Andrea Romoli, Impiegato Daghi Rondanini, Ingegnere del suono Patrizia Rosa, Pensionata Laura Rossetti, Cittadina Paolo Rossi, Attore Eva Rossi, Operatore olistico Valerio Rossi Albertini, Fisico CNR Marina Rossignoli, Casalinga Tanja Rosso, Operatrice Shiatsu Loretta Roveda, Pensionata Vera Roveda, Fotografa Francesca Roversi, Insegnante Berardino Corrado Ruggeri, Impiegato Maurizio Sacco, Medico Renzo Massimo Deliso Samaritani, Amministratore Associazione “Sole e Luna” Giuseppa Sammati, Ente pubblico Angelo Sandri, Segretario politico nazionale Democrazia Cristiana Ana Maria Sandu, Receptionist A.G. 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Join The Game: B.T. E. Battaglia vince la tappa provinciale PV-LO Under 14
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Il B.T. Battaglia Mortara (Alessandro Gioia, Matteo Bettanti, Luca Pirovano, Edoardo Colombo) vince la tappa delle provincie Pavia-Lodi del join the game 2018 nella categoria under 14, svoltasi a Lacchiarella domenica 25 febbraio. 20 formazioni al via suddivise i 4 gironi. Nel girone di qualificazione vittorie contro Battaglia 2 (Nicolo' Donati, Lorenzo Daghetta, Federico Impallomeni, Luca Orlandini), Cat Vigevano black, Cat Vigevano white, e Basket Lodi, poi in semifinale contro Virtus Binasco e in finale contro Junior Vigevano. Il quartetto giallo blu partecipera' alla fase finale regionale il 25 Marzo in sede da destinarsi.
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Le formazioni del B.T. Battaglia a fine manifestazione da sinistra a destra: Donati Nicolo', Daghetta Lorenzo, Colombo Edoardo, Pirovano Luca, Impallomeni Federico, Orlandini Luca, Gioia Alessandro, Bettanti Matteo.
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pangeanews · 5 years
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“Cioran è un vampiro che non ha il coraggio di farsi monaco”. La celebre recensione di John Updike che stroncò la carriera americana del grande Emil
Non so se sia il suo libro più grande – in fondo, è l’opera intera, questa miniera trafitta di linci, una vigilante oscurità, a contare, intera, per estensione. In effetti, di fronte alla statura il censimento della grandezza è fallimentare. Il libro fu pubblicato da Gallimard nel 1969, cinquant’anni fa, lo comprai poco dopo essere atterrato a Milano, al crocevia del nuovo millennio. Mi attraeva il titolo. Il funesto demiurgo. Ne fui folgorato. Ricordo che ero nei dintorni di Cairoli, piazza Duomo era una piscina di luce, era inverno, un inverno colorato di azzurro. La luce bianca che mi accecava, pensai, proveniva dal libro – una luce capace di scartavetrare l’iride. Ricordo che telefonai a un amico del liceo. Devi leggere Cioran, gli dissi. Credo che Cioran faccia questo effetto: una rivelazione, fatta proprio a te, in un istante in cui l’enigma del mondo ti appare come un cappio e un miracolo. Nella nuova edizione del 1989 il libro – in origine: Le Mauvais Démiurge – è corredato da dida efficace: “Non riusciamo a conciliare il concetto di un dio onnipotente con l’evidente onnipresenza del male. Qualcosa di indicibile, dalle origini, ha viziato l’esistenza per sempre. Non possiamo ammettere che il buon dio, il ‘Padre’, sia stato coinvolto nello scandalo della creazione. La bontà non crea, la sua immaginazione è insufficiente; tuttavia, la creazione del mondo è necessaria, e necessariamente infima. La verità è che siamo scaturiti da un dio malvagio, al quale ci aggrappiamo con le nostre miserie e le nostre colpe: nulla ci lusinga così tanto come collocare la fonte della nostra bassezza nelle azioni di un creatore perverso. Apprezziamo la sua deplorevole incapacità di restare immutabile, perpetuiamo il suo lavoro dacché procreare è rendersi complice del crimine originario. Ogni generazione è sospetta; agli angeli non si addice la felicità, propagare la vita è compito di chi è caduto”. Per intendere questo libro bisognerebbe penetrare nella visione dei Bogomili, pensiero dualista del X secolo, censito tra gli eretici, che riteneva il cosmo spaccato tra i principi contraddittori del Bene e del Male e la Terra il parto di un dio malvagio. Spinto da Cioran, parecchi anni fa, li studiai: venivano dalla Tracia, si attestarono, con successo, in Bulgaria. Non ho più la mia edizione del Funesto demiurgo. Credo di averla regalata all’amico liceale – che oggi, dopo aver procreato, ha la famiglia disintegrata, forse Cioran agisce, dopo un decennio, come un virus. In ogni caso, Il funesto demiurgo funestò la carriera americana di Cioran – che per altro, come noto, disprezzava la fama, la viltà dei letterati e l’idiozia dell’accademia. A segare le gambe a Cioran – per così dire – fu John Updike, aureo romanziere a stelle e strisce, pluristellato. Quando stronca la traduzione di quel libro, realizzata per Quadrangle da Richard Howard come The New Gods – va detto che la prima traduzione del Funesto demiurgo è passata in Italia come I nuovi dèi, per le Edizioni del Borghese, nel 1971 – Updike è all’apice della sua vita letteraria: nel 1968 “Time” gli ha dedicato la copertina, è già lo scrittore di Corri Coniglio, Il ritorno di Coniglio, Il Centauro, Coppie. La recensione – titolo-sfottò: “A Monk Manqué”, poi in Hugging the Shore, raccolta di saggi e testi critici di Updike; sia sempiterna lode a Luca Orlandini per avermi procurato il testo – fa colpo; Cioran ne scrive, con svogliata ira, a Mircea Eliade: “L’articolo di Updike ha minato la parvenza di notorietà che potevo avere laggiù. Passato il momento di disappunto, mi sono detto che tutto ciò è nell’ordine delle cose, e che non bisogna prendere sul tragico questo genere di miserie. Persino il mio traduttore newyorkese mi ha scaricato. La sola cosa che rimpiango è che per forza di cose mi alieno dall’inglese, dato che in mancanza di visitatori yankee non ho quasi più occasione di parlarlo” (Parigi, 20 dicembre 1978; in: Cioran-Eliade, Una segreta complicità, Adelphi, 2019). Indirettamente, Cioran sembra rispondere ad Updike in un paio di interviste rilasciate intorno alla fatidica stroncatura (entrambe raccolte in Un apolide metafisico. Conversazioni, Adelphi, 2004). Con François Bondy (1970), Cioran dileggia “il rito del libro annuale. Bisogna pubblicare un libro all’anno, altrimenti ‘ti dimenticano’. È l’atto di presenza obbligatorio… Come sono stati fortunati Marco Aurelio e l’autore dell’Imitazione, ai quali ne è bastato solo uno!”. Con Fernando Savater (1977), Cioran approfondisce l’argomento: “io credo che un libro debba essere davvero una ferita, che debba cambiare in qualche modo la vita del lettore. Il mio intento, quando scrivo un libro, è di svegliare qualcuno, di fustigarlo”. Cioran – il cui successo, oggi, è inversamente proporzionale al cauto distacco con cui leggiamo i romanzi di Updike – non può, non poteva funzionare nel mondo americano dove il mercato sopraffà il miracolo, dove la vita – intesa come diletto provocato dalla provocazione e dal denaro – vince sulla vitalità e il risveglio per fustigazione è visto come un sopruso, meglio una sauna zen, un ashram a San Francisco o un sano dibattito letterario sotto il falò delle luci della ribalta. (d.b.)
***
John Updike, Un monaco mancato
Nessuno dei rivali e dei critici di Cioran ha pensato di considerarlo come uno scrittore che, come altri scrittori, abbia il dovere di essere interessante né lo rimprovera che compie questo dovere in modo davvero sinistro. Benché erudito ed intellettuale all’estremo, non è tanto un pensatore quanto un posatore che inanella una serie di modi, di pose davanti a noi senza quel desiderio, tipico dei filosofi, volto a dirigere le nostre azioni e le nostre attitudini. È un intrattenitore, se diamo per assodato che l’esibizione compulsiva delle proprie ferite psichiche abbia qualcosa di interessante. Figlio di prete ortodosso, Cioran è innamorato e senza speranze del Cristianesimo – insaziabilmente arrabbiato col Cristianesimo. Viene dalla terra di Dracula e cerca le sale gotiche della storia, si trova claustrofobicamente a casa sua dentro l’orrore, il dolore, la negazione di sé, la rabbia. Che benedizione affamata è quella che spalanca le sue fauci sul collo del bene! Il lato oscuro di Cioran ha però un risvolto positivo, vale a dire una genuina ammirazione per la vita monastica, specialmente nei suoi aspetti morbidi. (…)
I suoi saggi, con la vastità di riferimenti – sa tutto per non dirci niente – sono un genere di rammemoramento agonizzante fatto dall’interno vacuo della ‘civiltà incapace di respirare’ che lo circonda. Non è mera arroganza ma volontà tesa a umiliare, vuole lo spopolamento che lo porta alla sua sistematica abolizione dei nomi dei contemporanei, e dice perciò “qualche teologo” o – per dire de Gaulle – “il meno insignificante degli uomini moderni”. Ma l’assenza, nei suoi dibattiti elettrizzati coi fantasmi, di nomi viventi enfatizza la mancanza di ogni altro incontro che non sarà mai possibile, e nemmeno a forzare le cose il suo pensiero verrà mai domato dal confronto, da avversari all’altezza, da alternative che non esistono nella sua danza di idee morte; la sua prosa istrioneggia ed è agitata e spezzettata come le movenze di un vampiro. (…)
Tutti i saggi raccolti nel The new gods (Le mauvais demieurge) si interrompono ogni volta che potrebbero diventare graziosi e fluenti; sembrano, invero, scritti punto per punto, shock dopo shock, una serie di cadenze che vorrebbero passare per melodia. Il frequente ricorso agli asterischi e agli attacchi di nuovi paragrafi tradisce la prospettiva mobilissima di un’intelligenza devota soltanto a se stessa. La migliore sezione di questo libro, la più divertente, concreta e suggestiva della mente vivente di Cioran, è l’ultima – una stringa di aforismi sconnessi intitolata Pensieri strangolati. (…) Reso celebre per un defatigante perfezionismo stilistico, Cioran è quel tipo di intellettuale outsider che Thomas Mann ha descritto nella storia breve Dal Profeta: “l’Io solitario cantava, farneticava, comandava; si perdeva in intricate immagini, sprofondava in un gorgo di sconnessioni e riemergeva, improvviso e pauroso, là dove meno lo si sarebbe aspettato. Le bestemmie si mescolavano agli osanna, l’incenso ai vapori di sangue; e in tonitruanti battaglie veniva conquistato e redento il mondo…”.
Ora, benché i suoi sponsor americani ce lo passino come filosofo, a Cioran difetta almeno la metà di quel che la parola greca suggerisce: amare il sapere. Saggezza senza amore è sofisticheria. Leggete subito un altro scrittore di frammenti che sia nervoso e dubitante, uno come Wittgenstein – a Cioran mancano spaventosamente due qualità di pensiero che l’austriaco possiede. Sono gentilezza e serietà. Non desidera farci rinascere dalle nostre ire per mezzo della chiarificazione; non desidera, diversamente da Nietzsche e Kierkegaard, infiammare la nostra rabbia sino al punto critico per poi curarla. Desidera darci soltanto, col suo agile e sinistro zampettare ragnesco tra le complessità delle nostre vicende attuali, dei frissons – ecco la sua parola favorita, i brividi. E i mezzi sembrano sproporzionati rispetto ai fini.
John Updike
*traduzione di Andrea Bianchi. Il passo di Mann è cavato dai Racconti ed. Mondadori 1978
**In copertina: John Updike (1932-2009) ha ottenuto in carriera due Premi Pulitzer e svariate candidature al Nobel per la letteratura
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pangeanews · 5 years
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“Dobbiamo pensare contro il cervello”. Gaston Bachelard crede di poter addomesticare il Minotauro. Un saggio di Benjamin Fondane
Tra i libri apparsi in questi ultimi anni non ne conosco di più interessanti, più densi e più stimolanti di quelli di Bachelard. La loro ricchezza è sorprendente, la loro trama solida, il loro pensiero mobile e vivo – il loro stile è quello di un grande scrittore; sono libri che chiamano in causa un gran numero di problemi, tecniche, vie spirituali e dunque l’uomo – e il loro autore. Impossibile sfuggire alla loro stretta, alla loro impresa, poco importa il nostro accordo o meno con l’autore; e perfino il disaccordo non avrebbe presa su un pensiero che, appena professato, già abbandona se stesso e si ricerca nuovamente, creando le condizioni di un nuovo accordo o un differente disaccordo. Quel che colpisce maggiormente nel pensiero di Bachelard, è la sua energia e la sua danza. Energia! Qualunque sia il pensiero che egli vuole esprimere, Bachelard afferma, nega, attacca, va alla carica, si installa da subito nell’assoluta certezza, dogmatizza e innalza patiboli. Egli non propone nulla, discute: “È il vostro essere e la vostra intera ragione che impegnate nella discussione. Infatti, vi è discussione, in quanto affermate con energia; e dato che dedicate tale energia tesa, una piccola parte della vostra anima e della vostra viva durata, vuol dire che qualcosa o qualcuno vi ostacola: vi smentisce, e dunque affermate!” (22, D.D.). E inoltre (134, Non): “Per avere qualche garanzia di essere dello stesso parere su di un’idea particolare, è necessario almeno non essersi trovati d’accordo. Due uomini che volessero realmente intendersi, dovrebbero, in un primo momento, contraddirsi. La verità è figlia della discussione, non della simpatia.” Egli si spinge oltre, parla di un “platonismo della violenza” (168, Lt), di una “malvagità della ragione” (125, Lt), violenza e malvagità dissimulate nel cuore della “vita filosofica, sorridente e serena”, poiché – Bachelard lo ammette – questa vita non può compiersi che “negando la vita” (146, Lt).
*
Bachelard non lesina la sua instancabile energia. Il suo pensiero è battagliero, polemico e provocante. Ma è il suo modo di essere, il quale prescinde dallo scopo prefisso. Qualunque sia l’oggetto, che muti o sia agli antipodi rispetto a quello precedente, il pensiero di Bachelard non cambia – all’opera è sempre lo stesso attacco, la stessa intensità, lo stesso dogmatismo; questo pensiero vuole far proprio l’oggetto, qualunque esso sia, prenderne possesso, già pronto ad abbandonarlo, senza alcun riguardo, un attimo dopo. La danza che a mio avviso rappresenta la seconda virtù del pensiero di Bachelard, non la troviamo al cuore di tale disposizione – in sé, non è il pensiero a danzare. La danza si installa tra due pensieri, due libri, due oggetti, negli intervalli; se vi è gioco, non lo troviamo nel pensiero, ma tra i pensieri. A tal punto che, ogni volta, siete certi di afferrare un pensiero formale, esplicito, nella sua totalità, di Bachelard, ma niente affatto certi di poterlo accordare a quello di un libro scritto prima o dopo. Eterogeneità? Indubbiamente, se è l’unità logica – e non l’unità dinamica – quella che cercate in un uomo; se in un pensiero cercate il suo scarto, per trarne un sostegno, una volta per tutte, e non il pensiero nell’atto di pensare, teso verso un fine sempre lontano ma sempre presente. Il fine d’altronde non è mai molto evidente. In apparenza sembra si tratti della ricerca di un sapere comunicabile (41-42, D.D.), e talvolta di un “privilegio del pensare” (109, D.D.), ma più spesso si tratta di ottenere un “sistema coercitivo” (95, Lt), una filosofia “della coscienza del riposo” (198, Lt) e infine una “buona coscienza” (200, Lt). Bachelard parla sovente di una pedagogia, ma in fondo, a mio avviso, quel che egli vuole, con ferma volontà, è una terapeutica. Che ciò accada con il privilegio del pensare, con la ritmoanalisi, la dialettica o la psicanalisi, poco importa; qualunque sia la modalità con cui egli si rapporta al reale, lui vuole modificarlo. Poiché in questo reale egli trova sempre qualcosa “che non va”: il pensiero ha il suo male – la vita; il sapere ha il suo male – la ragione e il cervello; anche il sogno ha il suo male – l’incubo. Ciò vuol dire che la verità non potrebbe soddisfarlo, poiché questa non dona alcun riposo né una buona coscienza. Così come, secondo Bachelard, è necessario trapiantare nella poesia di Lautréamont i “valori intellettuali”, allo stesso modo dobbiamo trapiantare questi stessi valori nella vita e la verità; il suo istinto etico reclama i “sistemi di coercizione”.
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Al lettore che segue il lavoro di Bachelard, sembrerà che io esageri e mi affretti, in ogni caso, a fornire un ritratto rigido e moralista di un pensiero di cui asserivo che nulla potrebbe appagarlo. Può darsi che questi abbia ragione. Bachelard vuole indubbiamente moralizzare la materia, la vita, la verità e perfino il sogno, ma forse con il solo obiettivo di disfarsi del loro scarto, facendone delle funzioni prive di contenuto. E se egli attacca la pienezza, il continuo bergsoniano, ciò accade perché non vi vede altro che delle “identità dissimulate”, delle “illusioni di durata”. Se ai suoi occhi la stessa musica è solo “una perfidia temporale”, e solo perché questa non è parte, “propriamente parlando, di una sorgente originaria. La sua origine… è come la sua continuità… un valore di composizione. (132, D.D.). Eppure, malgrado la pretesa razionalità di tale attacco, Bachelard in fondo non chiederebbe di meglio che credere all’esistenza di questa continuità. Infine, in seguito, egli la trova e crede di trovarla (“è il pensiero dello psichismo che ha la continuità della durata”, 291, Air) nell’immaginazione metaforica, là dove la metafora non significa il reale nei termini di un concetto, ma è il reale stesso, realmente vissuto. Così, è chiaro, lo sentiamo smarrito. Ed egli non ha forse ottenuto una catarsi che, pretesa in guisa di un dato della ragione, è diventata un’antiragione e un’antimorale o piuttosto una trascendenza, un “al di là del bene e del male”? Bachelard non ci dissimula tale malessere, poiché egli ci parla di sé nei termini di un homo duplex, un essere lacerato che desidera insegnare il comunicabile ma si vede costretto a insegnare i sogni.
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Alla Sorbona, in qualità di professore, egli insegna compensandole la filosofia della matematica e la “metafisica” dell’immaginazione”. Al suo primo corso, egli deve affermare (se mi rifaccio a ciò che scrive): “Evitare gli ostacoli epistemologici” che feriscono il Sapere – e con ostacoli epistemologici egli intende la vita, la società, la ragione, il cervello, le “forze elementari” (109, Air), il sogno (83, D.D.): “Dal suo punto di vista, le linee curve dalle inflessioni pigre sono delle linee di pensiero inferiore, di vita spirituale inferiore. Esse appaiono nella fase calante, quando l’essere cosciente si lascia invadere e vincere dalle resistenze estreme”. Inoltre, egli deve affermare che mediante il pensiero “si parla di ciò che si vede; si pensa ciò che si parla; il tempo è perfettamente verticale e se ne va tutto intero lungo il suo corso orizzontale, portando tutte le durate psichiche dello stesso ritmo. Al contrario, sognare è disingranare i tempi sovrapposti” (114, D.D.).
Ma nel secondo corso, e forse agli stessi allievi, egli dice – “sognate”: “L’immaginazione è una delle forme dell’audacia umana.” (113, Air) “Noi sogniamo o noi pensiamo. Che si possa sempre usare l’immaginazione!” (128, Air) Tragica condizione! Lo stesso uomo che ci propone di guarire dalla fantasticheria (83, D.D.), ci propone ora il metodo di Desoille: la guarigione attraverso le immagini (130, Air).
L’uomo che aveva scritto: “Quando si è condotta accuratamente la polemica della precauzione, ci si sente al riparo dagli accidenti.” (73, D.D.), tuttavia rimproverava a Bergson, nello stesso libro, di non aver attinto l’essenza del “rischio per il rischio… il rischio assoluto e totale, il rischio privo di scopo o ragione… e la vertigine che ci seduce al pericolo, alla novità, la morte e il nulla,” (14, D.D.) Egli ci ha detto che le linee curve dalle inflessioni pigre sono delle linee di pensiero inferiore e tuttavia: “Che si possa sempre fantasticare!”. Bachelard è indubbiamente abbastanza accorto da non conciliare tali contraddizioni, a non proclamarle ovvie; egli ci dirà che non intende la stessa cosa con sogno, immagine e immaginazione. Quando egli avrà sfociato  nell’Assurdo, nondimeno esclamerà, convinto di averlo addomesticato: “L’Assurdo possiede dunque una legge.” (128, Air)
*
Di fatto, egli non accetterà il sogno, né l’immaginazione né l’assurdo se non prima sottomessi a delle leggi. Rifiuterà loro ogni oggettività esterna e consentirà loro solo una realtà psichica – sono degli a priori psichici. E accoglierà la fantasticheria, l’immaginazione e l’assurdo solo se separati dalla vita e le “infime continuità degli istinti” – li purgherà da ogni materia e li renderà alla loro perfetta autonomia. Ma esiste comunque una bella differenza tra il pensiero puro che vuol quantificare l’universo e un pensiero secondo cui l’universo si risolve in pura qualità; ce ne corre tra un a priori colto in un concetto e un a priori vissuto in un’immagine.
Non mi propongo, qui, di conciliare le contraddizioni del pensiero di Bachelard e nemmeno di rimproverargli le sue contraddizioni – vorrei congratularmi con lui. È grazie alle sue contraddizioni, ai suoi contraccolpi, alla sua apertura e alla sua danza che questo pensiero è in grado di attingere una realtà in movimento, ricca e di mantenere comunque rapporti con quel che possiamo chiamare: l’essere. In un’altra occasione abbiamo scritto che “il falso è ontologicamente più ricco del vero” (Faux Traité d’esthétique); avremmo qualche difficoltà a dimenticarlo. Ma, piuttosto, vorrei dire della curiosa avventura che ha condotto Bachelard da un estremo all’altro dell’universo spirituale e che fa di lui un convertitore convertito. In fondo non è altro che la storia del monaco Paphnuce in Thaïs; ma, se nel mondo dei sensi questa storia è banale, essa è singolarmente rara in quella dello spirito. Il mondo intellettuale è un paesaggio in cui nessuno ha mai convertito nessuno, e se stesso meno che mai. In generale, per esprimerci nei termini di Bachelard, è il complesso di Teseo ad animare l’istinto intellettuale; di norma, l’avventura si conclude con il massacro del Minotauro o – ma è alquanto raro – con la sconfitta del valoroso. Dalla “discussione” non è mai nata alcuna verità.
*
D’altronde il lettore di Bachelard non si è mai fatto ingannare dalla parola “discussione”. Possiamo indubbiamente discutere con un avversario in buona fede (qualora lo trovassimo), ma dobbiamo forse sollevare una disputa contro gli “ostacoli epistemologici”? Si discute con il “pensiero inferiore”, il pensiero pigro, voluttuoso? Non sarà certo l’autore del Philosophie du non ad accettare un tale compromesso. Così egli dichiara guerra, una guerra impietosa, non solo contro gli istinti e la vita, la società e la fantasticheria (il che non stupisce), ma anche contro la ragione e il cervello. Mi scuso per le innumerevoli citazioni, ma il lettore non potrà che trarne profitto e d’altronde devo giustificare affermazioni tanto sorprendenti. Così, Bachelard ha scritto: “È chiamato in causa lo stesso utilizzo del cervello. D’ora in poi, il cervello non sarà più lo strumento incontestabilmente appropriato al pensiero scientifico – in altri termini, il cervello è uno ostacolo al pensiero scientifico. È uno ostacolo, dato che questi coordina i nostri moti e i nostri appetiti. Dobbiamo pensare contro il cervello” (251, Psy). Ed egli non è certo più accomodante con la ragione: “Insomma, la scienza istruisce la ragione. La Ragione deve obbedire alla scienza (e, citando Destouches)… se l’aritmetica si rivelasse contraddittoria, si riformerà la ragione e si conserverà intatta l’aritmetica” (144, Non). Di conseguenza, nessuno rimarrà sorpreso quando egli scrive: “Dobbiamo dunque pensare contro la vita”, e continuando su questa via ascetica (18, Feu): “Ognuno di noi deve distruggere in sé, ancor più rigorosamente delle proprie fobie, le proprie ‘passioni’ [in greco], la sua compiacente indulgenza nelle prime intuizioni”.
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Non discuto, qui, delle straordinarie affermazioni che, viste da un punto di vista alternativo al nostro, verrebbero ritenute semplicemente puerili; nessun lettore di Bachelard può pensare che il suo autore voglia realmente riformare la ragione per farle accettare il principio di non-contraddizione, di cui essa rappresenta, dalla notte dei tempi, l’unica vestale; né che Bachelard possa credere per un solo istante che si possa pensare contro il cervello o che la scienza possa governare il pensiero, come un deus ex machina nato al di fuori del pensiero di non-contraddizione, a guisa di un’essenza. Quel che dobbiamo conservare, non è la validità delle affermazioni di Bachelard, ma la loro direzione e tendenza, la loro intensità polemica, la loro fedeltà a un’idea di salute, ascetica, che conosce i propri ostacoli e li nomina e si propone di vincerli. È per tale ragione che Bachelard si doterà di un metodo e ricorrerà a una terapeutica e penserà alla psicanalisi. È li che ha inizio la sua avventura, ed è là che vale le pena soffermarsi.
*
Di fatto, ho detto “avventura”, poiché chi avrebbe potuto immaginare, quale lettore de La Formation de l’esprit scientifique (Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective) – irritato o soddisfatto che esso sia dall’analisi – che tale estrema e pressoché disumana impresa dell’imperante razionalismo non era altro che l’oscura via con la quale gli dèi avrebbero condotto infine il loro detrattore ad amare e perfino cantare gli ostacoli che questi si era proposto di combattere? Ma l’“incanto” non agirà da subito; in questo libro – di cui abbiamo reso, a suo tempo, un ampio resoconto nei Cahiers – l’autore non si serve ancora, per combattere le linee curve dalle inflessioni pigre, dell’intero arsenale messo a disposizione dalla tecnica psicanalitica. E allora eravamo lontani dall’immaginare che l’autore, apparentemente così aderente ai rozzi espedienti della psicanalisi, se ne sarebbe liberato così facilmente! Sembrò allora che gli studi ai quale egli si sottoponeva – quelli prescientifici e degli alchimisti – non facessero altro che rinforzare l’opinione del critico nei loro confronti, ossia che il loro valore fosse nullo. Così Bachelard iniziava già a vedervi un’immensa immaginazione all’opera e i nuovi ostacoli epistemologici che avrebbero rimpiazzato i complessi freudiani già gli si paravano davanti sotto forma tetravalente – fuoco, acqua, aria, terra – l’intera cosmologia dei presocratici. Bachelard intraprese la psicanalisi dei quattro elementi al fine di raffinare la scienza da tale oscura attività. In quella ch’egli dedicherà al fuoco – la prima – tenta ancora di sopprimere il fuoco: “Giacché la fantasticheria è impotente, ecco il nostro obiettivo: guarire lo spirito dalle sue felici illusioni, e liberarlo dal narcisismo indotto dal suo iniziale contatto con l’oggetto, per dotarlo di certezze piuttosto che del mero possesso, e dei poteri della convinzione in luogo del semplice calore ed entusiasmo – insomma, per dotare le mente di prove che non sono una effimera fiamma!” (15, Feu). Ma alla fine del libro egli è già conquistato dalla fantasticheria e dal fuoco e ci propone “una chimica della fantasticheria… che dovrebbe dimostrare che le metafore non sono semplici idealizzazioni che prendono il volo a guisa di fuochi d’artificio… ma al contrario… (213, Feu). D’ora in avanti, gli studi successivi, quelli dedicati all’acqua, all’aria (in attesa di quello sulla terra), non recheranno più il sottotitolo: psicanalisi. Bachelard non desidera più psicanalizzare, non ha più alcuna volontà di ostacolare acqua, terra, fuoco e aria, la nostra fantasticheria e il suo potere di fornici le intuizioni originarie. Così, è la poesia a insinuarsi platealmente nell’universo pastorizzato di Bachelard; non, da subito, la poesia in quanto tale; nel suo mirabile libro su Lautréamont, egli pretende ancora la “deanimalizzazione” di questa poesia, reclama il trapianto dei “valori intellettuali”. Ma infine le evidenze originarie, le intuizioni elementari, fondamentali non sono più ostacoli epistemologici e diventano quelle funzioni irriducibili, vitali che liberano l’intelligenza pensante.
Così, Teseo non ha ucciso il Minotauro, ed egli non è stato divorato da lui, al contrario: questi ha infine compreso che il Minotauro non divora sempre il pensiero del rischio per il rischio, il rischio senza alcun fine o ragione, e che la vertigine che ci seduce alla novità e al pericolo non sempre ci riserva la morte e il nulla. E, qui, Teseo si allea con il Minotauro.
*
Certo, Bachelard è troppo filosofo e troppo razionalista per ammettere le evidenze originarie, che non sarebbero altro che delle forze oscure, libere, capricciose, arbitrarie. Egli vuole l’Assurdo, ma sottomesso a una Legge. Sì, desidera che l’immaginazione ci fornisca le evidenze originarie, ma solo dal punto di vista psichico; acqua, terra, aria e fuoco avranno una realtà, ma immaginaria; certo, sono delle funzioni, ma funzioni d’irrealtà. L’universo della fantasticheria non è più una linea curva, pigra, del pensiero inferiore – esso è ricco di tutto il pensiero dell’uomo, ma non ci viene da fuori, non ha oggetto, è solo un universo di a priori in base al quale noi pensiamo il mondo nella modalità della fantasticheria. Così, il Minotauro è dotato di una sostanza reale, ma solo dal punto di vista psichico; questi non avrebbe il potere di sovrastare il pensiero scientifico. All’idealismo kantiano del pensiero puro si aggiunge un’altro idealismo – quello dell’immaginazione; precisamente, come nei suoi suoi precursori, non esiste la paura, i mostri, il terrore, la caduta; questi sono reali solo per l’immaginazione. L’idealismo di Bachelard ci propone nuove categorie. Egli dice:
  “Le rêve est avant réalité le cauchemar avant le drame la terreur avant le monstre la nausée avant la chute la chute crée l’abîme avant que la fantôme ne parle, je lui parle”
  L’onirismo crea il suo mondo, la poesia lo esprime. È un pensiero assai seducente e fertile, che ha fornito a Bachelard il materiale per i suoi ultimi libri sulla fantasticheria e la poesia, con una potenza e una bellezza fuori dal comune. Ahimè non posso soffermarmi a dire, qui, dell’interesse che suscita il suo metodo, della ricchezza della sua immaginazione. In ogni sua pagina incontriamo intuizione originali e metodi critici che la stessa critica letteraria dovrebbe meditare con profitto. Intuizioni che rappresentano i prolegomeni di un’estetica che, ponendo l’accento sulla facoltà onirica del poeta che sogna unito ai quattro elementi, dissimula male il rifiuto dell’affettività, del discorso, della parola, della punteggiatura che essa assume, nella poesia, a vantaggio dei semplici elementi della certezza – “la triste certezza”, dice lui.  Il prototipo del suo universo poetico è la “frase éluardiana, priva di punteggiatura”, quella stessa frase che, nella sua estetica del “luogo comune”, Jean Paulhan (Les Fleurs de Tarbes) fa sua quale esempio di quel universo poetico che vuole “umiliare il linguaggio”. Forse avremo modo di ritornare su queste due estetiche, per vedere se la facoltà onirica di cui parla Bachelard ottenga il risultato previsto sull’immagine e la metafora o se al contrario questa onirizzi in tal modo la parola, la sintassi e il discorso che, in questo caso, non sarebbero più degli elementi di certezza ma, allo stesso modo dei luoghi comuni di Paulhan, riserve di energia (onirica), un linguaggio nel linguaggio. Ma, con ogni evidenza, l’estetica di Bachelard ricerca un assoluto che la poesia può attingere direttamente, con quella evidenza immediata che si colloca in seno al vasto pensiero estetico che echeggia da Rimbaud ai surrealisti.
Eppure Bachelard non attingerà alcun assoluto! Impossibile, per lui, trovare il riposo, la buona coscienza. Poiché, così come esistevano, nel pensiero scientifico, gli ostacoli epistemologici, Bachelard scopre in seno al sogno gli ostacoli onirici: “Gli incubi (afferma egli, in uno dei suoi ultimi corsi alla Sorbona), rappresentano il grande male umano. Il male viene dalle nostre notti. Lo psichismo è edificato male. Dobbiamo attingere una tecnica del sogno che abbiamo perduto”.
*
Così, nel nuovo universo che Bachelard si è creato nella speranza di mettere termine all’inquietudine metafisica, al male, deve ancora utilizzare la morale e perpetuare il suo ruolo di esorcista. Perfino nel suo paradiso della fantasticheria, esiste un serpente; anche il sogno ha il suo peccato originale. Impossibile, dunque, continuare a fantasticare se prima non abbiamo pastorizzato il sogno dal terrore che crea il mostro, dalla nausea che crea la caduta, dalla caduta che crea l’abisso; esiste “una lotta tra quel che è terreste e l’aria”. Ed è qui che Bachelard, in quanto teologo ignaro di esserlo, riprende il tema fondamentale della caduta e ci propone la salute attraverso il disprezzo della materia e allo stesso tempo la valorizzazione dell’aria; manicheo, egli crede al bene e al male, ma in quanto pelagiano, egli crede che sia in potere dell’uomo – e solo a lui – di vincere il male. L’uomo può. Egli può vincere l’orizzontalità con l’ascesa verticale. Dopotutto, lui, non è forse l’autore della tecnica? Per quanto la poesia accolga con meno favore l’aria rispetto al fuoco, la terra o l’acqua, è necessario che essa si decida per la condotta “verticale”, quella dell’aria. Abbiamo bisogno di una tecnica del sogno, di una tecnica della poesia, di una tecnica, sempre e comunque. Dobbiamo addomesticare il sogno. Sì, esistono metodi per domare il mostro. Non sarà certo Bachelard a essere divorato dal Minotauro, è il Minotauro a essere addomesticato. E allora, a noi il riposo, la buona coscienza! Non dobbiamo fare altro che trovare e applicare correttamente il sistema coercitivo di cui ci ha già parlato Bachelard. Dopo averci rivelato, con sguardo limpido, l’istinto dell’animale predatore che scorre nella poesia di Lautréamont, egli conclude: “Per noi la scelta è compiuta. La vita deve volere il pensiero. Il lautréamontismo, allora, ci appare una forza di espansione da trasformare. Dobbiamo trapiantare sul lautréamontismo i valori intellettuali. Questi valori riceveranno incisività, audacia e fertilità, insomma tutto quel che è necessario per fornirci una buona coscienza, il piacere dell’astrazione, di essere uomo.” (199-200, Lt). Dobbiamo sognare, che si possa continuare a immaginare! – ma dopo aver trapiantato i valori intellettuali nel sogno e averlo privato di istinto, animalità e materia. Abbiamo bisogno di un sogno puro.
*
Dopodiché, non riesco a immaginare cosa il pensiero scientifico potrebbe rimproverare a Bachelard. Al contrario vedo chiaramente le obiezioni che io stesso potrei sollevare contro di lui. Ma non sarebbe prematuro? Già nel suo L’Eau et le rêves, analizzando una pagina di Balzac, Bachelard scrive: “Come riconoscere più apertamente che la materia è dotata di un pensiero, di una fantasticheria e che essa non è limitata nel venire a pensare, sognare e soffrire in noi” (232). In effetti, come non riconoscerlo? Ma se la materia pensa, allora forse esistono altre cose, al di fuori di noi, che pensano? Il mostro verrebbe forse prima del terrore, il dramma prima dell’incubo, la caduta prima della nausea? Lo psichismo non sarebbe una monade sigillata ed essa potrebbe aprirsi ad altro da sé? Ma allora il viaggio non è ancora concluso. Addio riposo e buona coscienza! siamo in un mondo in cui le funzioni d’irrealtà portano alle realtà.
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Fino ad oggi Bachelard si dedicato al solo studio delle funzioni poetiche, ma resta la funzione mitica. La metafora è una versione ridotta del mito, ci dice lui. Ma il mito sarebbe allora una metafora in grande? In una goccia d’acqua vi è il mare, ma il mare è forse altra cosa rispetto alla somma di un’infinità di gocce. E, dopotutto, è poi certo che la goccia d’acqua sia quella dell’oceano – in piccolo? I popoli primitivi sapevano distinguere bene tra sogno e sogno, tra il sogno ordinario e quello mitico, tra il sogno che non porta a nulla e quello che porta a…
… A che cosa? Solo una metafisica del sogno potrebbe tentare di dirlo, ma sarebbe assai prematuro chiederlo a Bachelard. Per il momento egli si rifà a un criticismo del sogno, i suoi corsi e le sue opere non sono altro che prolegomeni a una critica dell’immaginazione pura; i suoi quattro elementi sono meri quadri formali nei quali l’immaginazione si produce e opera. E ogni criticismo si preoccupa del nostro riposo, della nostra buona coscienza, della passione per l’astrazione e l’essere uomo; si fa mille scrupoli per metterci al riparo da ogni accidente. Eppure Bachelard ci assicura che l’immaginazione rappresenta una delle forme dell’audacia umana, e canta il rischio per il rischio, il rischio privo di fine o ragione e ci invita a non smettere di sognare. È forse un’imprudenza aspettarci ancora, da lui, questa metafisica del sogno, di cui egli ci parla? Verrà il giorno in cui, dopo aver sacrificato la vita al pensiero e aver pensato contro il cervello, egli potrà pensare contro il “riposo” e contro la “buona coscienza”. Il giorno in cui egli si sarà libero dalle sue fobie; è inoltre tra coloro che hanno il potere di liberarsi dalle loro “passioni” [in greco]. Bachelard fa parte di quegli autori che non si rileggono, lui, che non si preoccupa di quel che egli ha pensato ma di quel che sta per pensare. Il suo pensiero è un moto dinamico su cui nessun Zenone potrebbe aver presa; la sua freccia vola, Achille raggiunge e supera la tartaruga. Il suo stile è quello della corsa. Egli è ammantato da una straordinaria immaginazione che crea, è libera e feconda – e un apriti sesamo, che sottomette alle sue metafore funzioni, rapporti, algebre, perfino metallo, acqua, fiamma o respiro. Mi propongo più che mai di seguire Bachelard da vicino, giacché egli reca in sé un mondo audace che non smette di produrre novità.
Benjamin Fondane
Cahiers du Sud, 1944, pp. 62 -72. (Poi pubblicato ne: Le Lundi existentiel, ed. du Rocher, Monaco, 1990, pp. 184-205). Traduzione italiana di Luca Orlandini
*Legenda degli acronimi: L’Eau et les Rêve (Eau), L’Air et les Songes (Air), entrambi apparsi presso l’editore J. Corti. Per gli altri libri di Bachelard: il Lautréamont (Lt, apparso presso Corti); La Psychanalyse du Feu (Feu, presso la N.R.F.); La Dialectique de la Durée (D.D., ed. Boivin); La Philosophie du non (Non, ed. Presses universitaires); e La Formation de l’esprit scientifique. Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective (Psy, ed. Vrin).
**In copertina: Henri Rousseau, “Zingara addormentata”, 1897
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pangeanews · 5 years
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“La poesia è sovversiva per eccellenza. Lautréamont e la volontà di aggressione”. Benjamin Fondane sfida Gaston Bachelard
Benjamin Fondane, il pensatore imprendibile, imprevedibile, agisce come un giaguaro. Dietro la sua prosa, smagliante, a tratti involuta, strategica, sento l’odore, l’animalesco. Fondane fonda il gesto critico sulla descrizione dell’avversario, non senza elogi. Parte, cioè, dalla riconoscenza – non dal riconoscimento. Riconosce la muscolatura della preda, la sua eleganza. Poi affonda. Come il giaguaro, all’inizio Fondane ha andatura dimessa, elogia la foresta filosofica; quando attacca, infine, è drastico e mirabile, ed è tutto lì, in quella frase clamorosa, nuda, “La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali»”. Lì, Fondane, con morso chirurgico segna l’abisso tra poesia e filosofia, tra la vita filosofica che l’uomo occidentale ha scelto rispetto all’abitare poeticamente, nel crisma del rischio. Ha preferito elevarsi, cioè, più che adorare l’etica dell’erba, il vigore del suolo. Ma uccidere un dio con il ragionamento non è divorarlo nel canto. In particolare, nel 1940, su “Cahiers du Sud” – la rivista fondata da Jean Ballard, su cui hanno scritto, tra gli altri, René Guenon, Antonin Artaud, Albert Camus, Henri Michaux – Fondane legge e disseziona il Lautréamont di Gaston Bachelard (passato in Italia, nel 2009, edito da Jaca Book, per la cura di Filippo Fimiani). Lo fa, prima con aristocratico distacco, considerando un filosofo di cui spesso ha scritto – riconoscendone, quindi, una postura degna di scontro – poi squartando. Riguardo a Lautréamont, di cui quest’anno ricorrono i 140 anni dalla morte, Fondane aveva già detto tutto in Rimbaud le voyeu, diversi anni prima (1933; nel 2014 pubblicato da Castelvecchi come Rimbaud la canaglia, per cura di Gian Luca Spadoni). “Lautréamont parla per il lettore, declama; vi si sente scaturire in ogni istante il tono della predicazione, l’enfasi romantica e romanzesca, il genere maudit, la sicurezza dell’uomo che insegna quel che sa bene di non sapere e si attribuisce una missione tra gli uomini… Non sfugge alla volontà, terribilmente tesa, di apparire straordinario… Che questa dinamite non esploda, che non superi il livello della scrittura, non siamo nelle condizioni d’incolpare Lautréamont; ma è lo iato che separa la sua esperienza da quella di Rimbaud a rendere l’avventura di quest’ultimo assolutamente unica”. Quando ‘recensisce’ – cioè, azzanna – il Lautréamont secondo Bachelard, irritandosi quando il poeta, che resta una ferita, un assoluto, una voragine, viene semplificato a emblema, a santino, a figurina metafisica, Fondane ha da poco scritto il Faux Traité d’esthétique (per Denoël, è il 1938). Un libro d’estasi, un trattato di ribellione poetica. Uscito nel 2014 per Mucchi come Falso Trattato di estetica. Saggio sulla crisi del reale (per la cura di Luca Orlandini), tornerà in circolo, in traduzione e curatela rinnovate (sempre a firma di Orlandini) per Aragno, tra un paio di mesi. Sarà un piccolo evento, l’irrinunciabile, un fuoco sul palmo della mano, che fiamma lame. (d.b.)
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A proposito del “Lautréamont” di Bachelard
Il libro di Bachelard è il terzo di una serie dedicato alla ricerca di una psicanalisi della cultura – o meglio, poiché la psicanalisi è concepita dall’autore in modo assai poco classico: analisi dei bassifondi, delle zone profonde e delle forze motrici e istintive del fatto culturale e poetico. La Psychanalyse du feu, il secondo libro della serie, tentò di ricavare le fondamenta «di una fisica o di una chimica del sogno», al fine «di approntare gli strumenti per una critica letteraria oggettiva, nel senso più rigoroso del termine». Il libro dedicato a Lautréamont costituisce l’illustrazione di tale avvincente e ampio progetto. Egli adotta come modello l’opera di Lautréamont, introdotta mirabilmente da Edmond Jaloux, nei termini in cui ci viene presentata, all’apice della raffinatezza e del rigore, dall’edizione José Corti. È un’ottima e lodevole iniziativa editoriale, quella di Corti, di far seguire alla pubblicazione delle opere di Lautréamont la potente e mirabile intelligenza dell’analisi di Bachelard.
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È un’opera capitale e, ancor meglio, estremamente fertile. Attualmente è impossibile prevedere quale influenza egli avrà sulla psicologia dell’arte – ma il lettore non può che auspicarla di tutto cuore. Nulla di meglio è stato scritto in merito, con un punto di vista così innovativo, una intuizione così penetrante e mezzi così rigorosi. Ma una personalità così robusta non poteva fare altro che comunicarci la sua sola intuizione; in questo libro troviamo anche la parte del filosofo, che d’altronde è di prim’ordine – e che, per quanto voglia cancellarsi, non risalta di meno: questa seconda influenza entra in gioco creando qualche difficoltà alla prima, dispiegando di fronte ai nostri occhi la natura ambivalente dell’autore. È la prova – nel caso ce ne fosse il bisogno – della buona fede dell’opera, e i commenti che questa suscita in noi non fanno altro che mostrare con maggior forza le profondità da cui essa emerge alla luce della coscienza.
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È una duplice e profonda intuizione, quella che, dopo aver descritto l’opera di Lautréamont come «una fenomenologia dell’aggressione» e l’opera poetica in generale come un atto istintivo e spontaneo, proclama che, al contrario della credenza generale, anche il pensiero è un atto aggressivo – che il filosofo «attacca» il problema. In effetti, è uno stile aggressivo, quello di Bachelard – tuttavia, non è certo che l’aggressività del filosofo sia analoga alla natura di quella del poeta, e che ne perpetui il significato. Nel mio Faux Traité d’esthétique ho mostrato che fu Platone, nella sua Repubblica, il primo a comprendere che la natura dell’aggressività poetica e quella speculativa erano di natura opposta; la filosofia, in seguito, ha avuto il torto di volersi conciliare con questo irriducibile avversario, la poesia a sua volta ha avuto il torto di accettare una tregua che non poteva che danneggiarla. Credo che, dopo Platone, nessuno sia spinto tanto lontano quanto Bachelard, nella scoperta del fondo cupo della poesia, e abbia segnalato in questa, con maggior forza e penetrazione, quel complesso profondo e primitivo, anteriore al pensiero stesso, che suscita il risentimento del filosofo e lo induce senza tregua a volersi rivalere contro il poeta. Da parte mia, vi è il rammarico che Bachelard abbia evitato di trionfare; il suo piacere estremo per la poesia glielo ha impedito; egli propone delle conciliazioni, tanto ripugnanti per la poesia quanto per la filosofia; ciò vuol dire che il problema dell’antagonismo poetico-filosofico non emerge affatto dall’avvolgente oscurità dei secoli. Di conseguenza, l’enigma perdura, e tanto più grande, nel momento in cui l’analisi di Bachelard è dedita a descrivere apertamente e con audacia il cuore dell’esperienza poetica ch’egli considera allo stesso tempo istintiva – e irriducibile.
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Bachelard si propone di analizzare innanzitutto l’opera di Lautréamont, ma avvertiamo chiaramente che, nel suo pensiero, si tratta solo di un caso esemplare, e perfino di un caso limite dell’attività poetica: una volta posti i termini dell’analisi, si potrà rintracciare il valore degli altri poeti in base al fatto che questi lautréamontizzino più o meno, o qualora essi oppongano un rifiuto al lautréamontismo. Il lautréamontismo è ritenuto da Bachelard un criterio della poesia: e una presa assoluta, da parte della coscienza poetica, di un complesso di vita animale, la produzione di una violenza, una creazione di tempo e velocità, una volontà sostantivante, di metamorfosi. È un occhio immenso, quello di Bachelard – un occhio che vede più lontano dello sguardo. Trascuro con rammarico gli innumerevoli dettagli e le audaci definizioni che il pensatore del Siloe adopera per infondere una manciata di magnifico magnesio, benché duratura, nei bassifondi della poesia lautréamontiana; è un’intuizione che emerge chiaramente, e con tale certezza, che consiglio al lettore di procedere nei miei termini: leggere il libro lentamente. Questi potrà così verificare che in effetti, per Bachelard, Lautréamont rappresenta una sorta di unità di misura dell’atto poetico: egli non giudica forse l’opera di Kafka – e a ragione? – un complesso di Lautrémont negativo? quello di Hugo o di Leconte de Lisle un Lautréamont estenuato? quello di Eluard, infine, come la trasposizione di un complesso lautréamontiano su un piano diverso, ecc.? Bachelard compie un passo in avanti, nel momento in cui pone il complesso lautréamontiano dell’animalità, un complesso inumano – insiste egli – sul piano culturale; egli vede nel dramma di Lautréamont «un dramma della cultura», un atto che deve trovare la sua soddisfazione, il suo rigoglio e la sua estenuazione – nelle parole. Tutto ciò è di una esattezza sorprendente. Ma quando Bachelard si decide a mostrarci la trasposizione che viene prodotta, nell’opera di Ducasse, del complesso animale in immagini e disposizioni culturali – non lo vediamo affatto:
Levant cette peau noire ouverte sous le crin (oltre una pelle nera aperta sotto il crine)
di cui parla Mallarmé nel «sa négresse par le démon secouée» (la sua negra scossa dal demonio). E il mistero si installa, irritante, perfino là dove un’istante prima lo avevamo così precipitosamente cacciato. Questa «volontà di aggressione», questa crudeltà per la crudeltà, gratuita, pura contiene tuttavia un’etica perlomeno singolare: in effetti, con nostro grande stupore, il critico scopre, in Maldoror, un’anima tutta matematica, colma «di furia matematica» (p. 128), che disprezza la forza, la brutalità, la violenza e la vita. Nulla è più vero, ma anche più estraneo, alla precedente analisi di Bachelard, di questa affermazione: «Sembra, in effetti, che nell’opera di Ducasse vi siano le tracce di due concezioni dell’Onnipotente. Esiste l’Onnipotente creatore di vita – e contro questo creatore di vita la violenza ducassiana si rivolterà. Vi è l’Onnipotente creatore del pensiero: Lautréamont lo associa allo stesso culto della geometria.» (p. 129) E Bachelard aggiunge: «Vediamo così che, nell’opera di Ducasse, a una passione per il pensiero si aggiunge il disprezzo per la vita. Ma perché Dio ha creato la vita, se avrebbe potuto creare direttamente il pensiero?». Non so se questo pensiero di Bachelard sia giusto, ma proverei imbarazzo a contestarlo, io, che nel XXIV capitolo del mio Rimbaud scrissi: «Lautréamont rimprovera a Dio di essere (“la mia soggettività e il Creatore, è troppo per un cervello”) e Rimbaud gli rimprovera di non essere, di abbandonarlo a se stesso (“la vera vita è assente”). Rimbaud rimprovera a Dio la sua assenza (ossia l’esistenza della Necessità, dell’Autorità) e Lautréamont la sua “presenza” nel mondo (ossia l’esistenza dell’Ingiustizia)». È indubbio che ciò voglia dire: Rimbaud rimprovera a Dio di aver creato il pensiero, e Lautréamont gli rimprovera di aver creato la vita. Ma, nello schema del mio libro, si comprende che l’anima matematica disprezza quel Dio che ha creato la vita; com’è possibile che Bachelard, nel suo schema, giustifichi il disprezzo della vita da parte di un uomo ch’egli considera l’esemplare privilegiato del complesso animale, un prototipo della fenomenologia dell’aggressione? Se, in ogni caso, la violenza esiste qua e là, e anche la «furia», queste non potrebbero essere della stessa natura, essendo esse rivolte – essenzialmente a quanto a pare – rispettivamente, la prima a disprezzare il pensiero, la seconda, a disprezzare la vita. La «furia» poetica la troviamo agli antipodi rispetto alla furia etica. Preso dall’intento di scoprire la disposizione etica di Lautréamont, non mi sono affatto preoccupato di stabilire a quale profondo istinto rispondesse la sua poesia; preso dalla disposizione poetica dell’autore del Maldoror, Bachelard avrebbe potuto trascurare la sostanza della sua etica. In effetti, è stata solo una dimenticanza; la conclusione del libro ci dimostrerà che Bachelard non crede a una disposizione etica che non sia saldamente collocata al centro stesso dei valori che governano l’opera poetica. Egli non potrebbe degnarla di una seria considerazione.
*
D’altronde, non è affatto mia intenzione chiedere conto a Bachelard delle contraddizioni interiori del suo autore; esse esistono, si fondono in una meravigliosa unità organica; è compito del critico esporle, e non spiegarle. Tantomeno intendo dimostrare che questa duplice tendenza, ch’egli trova nel cuore dell’opera di Maldoror, noi la ritroviamo nell’analista: questi afferma continuamente che esiste autentica originalità poetica solo nel ritorno a un qualche complesso primitivo, biologico e tuttavia, alla fine della sua analisi, egli si propone di umanizzare la poesia, di «deanimalizzarla», conducendola a questo dilemma, ch’egli ci confessa apertamente: «… dobbiamo forse divorziare dalla vita o continuare con la vita? Per noi, la scelta è compiuta… La vita deve volere il pensiero» (p. 199). Ma la seconda tendenza è decisamente più accentuata in Bachelard che in Lautréamont, poiché il libro conclude in questi termini: «Dobbiamo inserire nel lautréamontismo dei valori intellettuali» (p. 199). Vediamo così (come già osservato più in alto) che Bachelard non considera seriamente l’odio di Lautréamont per il Dio creatore della vita, né la sua passione matematica per un Dio creatore del pensiero. La «scelta» di Bachelard è ormai compiuta, e quella di Lautrémont lo è altrettanto; mentre il primo sceglie il pensiero «deanimalizzante», il secondo sceglie la poesia animalizzante. Se la vita deve volere il pensiero, è indubbio che quella di Lautréamont non lo vuole; e, se credo all’analisi dello stesso Bachelard, è in quanto volontà poetica che la vita di Lautréamont rifiuta il pensiero. È pur vero che l’estetica classica non tiene in alcun conto la «volontà» del poeta; a questi si dirà quel che egli «deve volere» e non dovrà fare altro che conformarsi al dettato; il poeta non è forse una creatura della ragione? Ma, agli occhi dello stesso Bachelard, il poeta non è affatto una creatura che appartiene alla ragione; egli tiene in gran conto la sua irresponsabilità; sa che il poeta crea la sua opera attraverso l’istinto e i suoi complessi; e al cuore della poesia egli riconosce non una volontà di pensare, ma una volontà di aggressione, di metamorfosi… Non solo il poeta è perduto, se obbedisce ai dettati dei filosofi, ma egli è perduto nell’istante in cui la decisione di «volere il pensiero» emerge in lui stesso, dalle sue profondità. Una decisione cosciente – e il «dover volere» non potrebbe essere altro che un atto cosciente – non farebbe che alterare un atto che appartiene al getto spontaneo, all’esplosione.
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Da parte mia, non abbraccio l’intera poesia che appartiene al nome esclusivo di Lautréamont. Il complesso animale non è il solo, a mio avviso, al quale il poeta abbia ricorso. Ma convengo con Bachelard che l’immersione poetica, per sua essenza, accada in qualche luogo irrazionale, che essa agisca in modo istintivo. La poesia è sovversiva per eccellenza – e non vediamo cosa essa potrebbe sovvertire, se non, precisamente, i «valori intellettuali». Così, collocare in lei quei valori che essa disprezza, vuol dire conciliare – con la forza – nemici irriducibili. Ma poiché, di fatto, tale operazione si rivela tanto assurda quanto irrealizzabile, non sarebbe più onesto ammettere la loro opposizione? Ammettiamo che la vita del filosofo «deve volere» il pensiero; che quella del poeta al contrario lo disprezza; non dico che debba volerlo disprezzare; egli lo fa suo malgrado, spontaneamente. In apparenza il poeta smette di essere un poeta nell’istante in cui egli è «appassionato del pensiero» –  almeno in quanto poeta – e il filosofo smette di essere un filosofo nell’istante in cui egli sente la vita, e il fetore dell’istinto; impossibile inserire i valori intellettuali nell’uno, o la vita, nell’altro.
*
Ammettere, tuttavia, che la poesia si opponga irriducibilmente alla filosofia, vorrebbe dire ammettere che la poesia rappresenta una funzione metafisica analoga a quella della filosofia, e – poiché vi è lotta, e un equilibro precario – nulla ci vieta di parteggiare per il trionfo della prima. Quest’unico pensiero relativizzerebbe per sempre l’assoluto della conoscenza; e sappiamo che, dopo aver descritto l’opera d’arte come il mago che ci svela l’essenziale assurdità, il Signor Bergson, avvertito il pericolo, ritornò a conciliazioni più prudenti. Malgrado il suo piacere per il pericolo e l’amore per il rischio poetico, Bachelard si deciderà forse ad affrontarli, libero di rischiare il suo «dover volere» il pensiero?
In ogni caso, ritengo il libro di Bachelard un meraviglioso stimolante di idee. Se non avessi già scritto il mio Faux Traité d’esthétique, lo farei ora, se non altro per il piacere di confutarlo. Vi aggiungerei una solo cosa: è la psicanalisi della cultura a non essere possibile, poiché la cosa più difficile di tutte, è quella di vincere le resistenze dello stesso analista.
Benjamin Fondane
*L’articolo è apparso originariamente nei «Cahiers du Sud», il 1940, XIX, pp. 527-532; e successivamente pubblicato nella raccolta di testi: B. Fondane, «Le Lundi existentiel», Editions du Rocher, 1990, Monaco, pp. 157-168. La traduzione italiana è di Luca Orlandini, come la ricerca bibliografica.
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pangeanews · 5 years
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Benjamin Fondane, l’uomo che ha scotennato i filosofi
Il viso sembra acquisire una personalità diversa a seconda dello squarcio da cui lo si scruta. Ciò che resta sono gli zigomi, il naso, insomma: è un viso sfuggente ma a cui non si sfugge. In una fotografia di Man Ray, il filosofo – o meglio, l’uomo, dacché siamo nel gergo dell’inafferrabile – che si chiama Benjamin Fondane – nato Wechsler o Vecsler che dir si voglia, diventò Fundoianu e poi Fondane, in un groviglio di identità che perfezionano l’assoluta individualità di BF – mira, con vigore di severità, la propria testa, che si eleva dalle mani poste a tazza. Il gioco di prestigio fotografico non ha alcuna patina da esteta – il tizio che ammira se stesso – ma una disciplina raddoppiata – misuro quanto il mio corpo sia gemella al mio pensiero.
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Il pensiero di Fondane non edifica, intendo, un corpus filosofico: è, semplicemente, corpo, carne, parola vivente, idea biologica. Lo dice Cioran, che installa Fondane tra gli Esercizi di ammirazione. “Il volto più solcato, più scavato che si possa immaginare, un volto dalle rughe millenarie, ma in nessun modo irrigidite perché animate dal tormento più contagioso ed esplosivo. Non mi saziavo di contemplarle. Mai avevo veduto prima un tale accordo tra l’apparire e il dire, tra la fisionomia e la parola. Mi e impossibile pensare alla minima frase di Fondane senza percepire immediatamente la presenza imperiosa dei suoi tratti”. Coincidenza tra corpo e parola, appunto.
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Di Fondane, filosofo dell’oltranza e dell’abisso, del non ritorno e della sfida, abbiamo in Italia libri fondamentali – grazie alla cura dedita di Luca Orlandini – ma forse non se ne è compresa la fondamentale importanza. Fondane oppone il pensare – cioè: il vivere – poeticamente alla speculazione, l’estro all’accademia, l’esasperazione e l’estasi alle interpretazioni, ai sussulti dei semiologi, alle litanie degli esistenzialisti. Nel Falso Trattato di estetica (1938, per Denoël, l’editore che in quegli anni pubblicava Céline e Artaud; 2014 per Mucchi Editore, cura e traduzione di Luca Orlandini) Fondane lancia ai poeti – egli stesso poeta, per altro – il monito: “Ma come possono dei poeti che pagano un tributo alla dialettica, avere il coraggio di osare imporre quello che il pensiero poetico e le sue stesse strutture richiedono formalmente? Ovvero: il totale abbandono del pensiero aristotelico-cartesiano, il ritorno alla follia, ai pregiudizi, alle superstizioni e all’assurdo?”.
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Incrocio due dati. Il primo è una memoria, a posteriori – lo scritto è del 1975 – di Mircea Eliade su Fondane. “Mi sono ricordato… di quella notte dell’autunno del 1943, quando cenammo da B. Fondane con Lupasco, Lică Cracanera e Cioran. Fu la prima e l’ultima volta che incontrai Fondane. Abitava nascosto assieme alla sorella, e vedeva solo pochissimi amici”. Il nascondimento pare un carisma di Fondane: pur volutamente ‘di lato’ è stato al centro del pensiero europeo. Il 7 marzo del 1944 è arrestato insieme alla sorella dalla polizia francese, è l’era di Vichy. Gli amici premono per la liberazione di Fondane, che accade: ma l’uomo va fino in fondo, appunto, non vuole lasciare la sorella – che lo sterminio sia esperienza, esperanto dell’orrore. Internato ad Auschwitz, muore, il 2 o 3 ottobre, in una camera a gas. Appunto, Fondane è il filosofo inimitabile, eletto all’elusione, che si legge riconoscendogli una esclusività che brucia. Egli è ‘al centro’: nato a Iasi, nella Moldavia rumena, nel 1898, a Parigi dal 1923, è il discepolo di Lev Sestov, frequenta Tristan Tzara, si avvicina al Surrealismo, resta, sostanzialmente in una catartica, carnefice solitudine. È invitato in Argentina da Victoria Ocampo, a cui consegnerà, nel 1939, il manoscritto delle conversazioni con Sestov (in Italia tradotto come In dialogo con Lev Sestov. Conversazioni e carteggio, Aragno, 2017, libro di fulgida bellezza), conosce Artaud e Martin Buber, frequenta Cioran, scrive di Rimbaud – Rimbaud, la canaglia, 1930; Castelvecchi, 2014 ��� e soprattutto il libro fondamentale, quello su Baudelaire – uscito postumo, nel 1947; come Baudelaire e l’esperienza dell’abisso, Aragno 2013.
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La centralità di Fondane: nella scrittura muscolare, biologica, stratificata, come un allevamento di pitoni, in picchiata, bisogna leggere armati di biro (“Solo l’impurità conserva, ancora e malgrado tutto, l’attrattiva del doppio polo del sacro, la seduzione e il terrore”), inseguendo quest’uomo in corsa, che scrive vivendo, cioè in caduta libera. “Mi attende un battello da qualche parte (perché un battello? Sarebbe troppo lungo da spiegare). E un paese, da dove non potrò granché correggere bozze, o scrivere prefazioni, né assistere all’uscita del libro, né udire le grida di terrore di fronte al cataclisma che avrò scatenato, sia per le mie idee, o per i miei errori d’ortografia, di grammatica, per le anfibologie, o ancora, chissà, per il solo fatto di essere nato. L’errore non è mio. Non ho creato io quest’epoca e le sue miserie, le sue peripezie, i suoi disordini, la sua trama aggrovigliata, nella quale io stesso mi perdo e di cui così poco comprendo”, scrive Fondane nella nota ad esordio del Baudelaire, “Addio Francia! Scriverò la prefazione un’altra volta”. Fuga, battelli ebbri, ebbrezza, banditismo, errore ed erranza, lo sgarbo grammaticale come maceria di stile, cicatrice d’aggettivi, la miseria a mo’ di località e di danza. Baloccatevi ancora con Bataille, Blanchot, Barthes, tutti eccelsi – ma non eccezioni – e infine consolatori. Fondane condanna la nostra codardia.
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Di famiglia ebraica, escono ora di Fondane gli “Scritti sull’ebraismo”, per Giuntina (a cura di Francesco Testa e Luca Orlandini), come Tra Gerusalemme e Atene – titolo che gioca scassinando il saggio di Sestov, Atene e Gerusalemme. Il libro, come dire, funziona come primo gradino per entrare nel ‘tempio’ filosofico di Fondane: è un talamo intimo, questo, soprattutto nei testi giovanili, usciti su riviste rumene. La gita Nel cimitero ebraico di Iasi, “di fronte alle lapidi inclinate, tra cui esala la terra, i passeri tra i salici sillabano gli epitaffi balbettando”, commuove. Il vagabondaggio, a ridare memoria ai morti, si compie al fianco di “un ebreo anziano” (“accompagno il vecchio affinché mi faccia scoprire qualche lapide dimenticata, per amore della definizione”), sfocia al cospetto della tomba del padre. “Evoco mio padre con poche linee, come un disegnatore. Penso a lui e cerco un evento triste per poter piangere. Ma forse ce ne sono troppi. Tutti”. L’articolo è del 1920, ed è in questo candore (e clangore), credo, il preludio al Fondane più complesso e involuto, il filosofo che ustiona, il figlio del Minotauro.
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La porzione su Franz Kafka è tratta dal Baudelaire, ricalcata nel libro Giuntina, ha micidiale indipendenza: “tra le esperienze religiose del nostro secolo non ne esiste una più curiosa, più straziante, più nuda – e per certi aspetti così vicina a quella di Baudelaire – dell’esperienza di Kafka”. Una lettera di Geneviève Tissier, moglie di Fondane dal 1931, a Jean Ballard, racconta l’indole del pensatore, solito dire, “Se Hitler sapesse che esisto, mi farebbe arrestare… Dobbiamo sopportare tutto questo come una prova di ascetismo”. Eccolo: “Battendo in ritirata, in mezzo alla folla di rifugiati, vetture, soldati e cavalli morti, il Fondane soldato trova, tra le ricchezze di pellicce, calze di seta, gioielli perduti dalle auto in fuga… un Pascal. Lo raccoglie. E vediamo questo strano soldato sfinito dal caldo e dalla fatica, appesantito da un equipaggiamento e da una riserva di munizioni tanto ingombranti quanto inutili, battere in ritirata, oltrepassare oltre i cavalli morti e la moltitudine di oggetti, preso dal suo Pascal, che legge con passione”. Riconoscere l’essenziale nell’assenza, nella morte.
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Penso al poema di Fondane, Ulysse, a cui lavora per oltre un decennio. Che non ci sia chiara l’importanza di questo artista – se lo fosse, saremmo ancora così tranquilli, così monaci al frumento della frustrazione quotidiana? – è ovvio perfino a Wikipedia: la nota di Fondane in inglese è sontuosa, articolata, lunghissima, come quella francese; in Italia ne abbiamo, al confronto, lo sputo, uno spuntino.
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Luca Orlandini mi segnala questa frase di Fondane, un sasso contro i filosofi in teca: “Ogni filosofia non è che un consiglio alla rassegnazione… Esprimere il raccapricciante, l’orribile, senza disprezzarlo e un atto che va oltre la nostra idea di ‘sincerità’”.
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Certamente, Fondane turba perché tempesta di bestie la nostra testa. Ci obbliga a trasmutare sguardo, via, vita, ci scaglia addosso muta e mutamento. “Sosteniamo dunque che l’uomo, contro i suoi bisogni naturali, i suoi ‘dati’ intimi, biologici e metafisici, abbia concesso un potere sovrannaturale al sapere, alle idee chiare e distinte, alla necessità – in una parola: all’infelicità che, sotto il nome di ‘principio di realtà’, si è impossessata del suo spirito e non smette di comandarlo. Idealisti, razionalisti, scettici, materialisti e perfino cristiani – tutto un mondo si è inginocchiato davanti al principio di realtà, adottandolo come unico criterio dell’esperienza e come sola fonte delle evidenze umane”. D’altronde, Fondane sa che “l’uomo è più grande, più terribile, più allucinante quando pone delle domande, tuttavia, le risposte sono in genere stupide, tristi ed evasive, come se l’uomo non fosse fatto per dare risposte – come se la risposta appartenesse a un altro”. In questo ‘altro’ – accettare il lato oscuro, l’inspiegabile, l’inappagato, il feroce, il tremendo – Fondane ci getta, con fierezza. Ho citato da La coscienza infelice (1936, Denoël; per l’Italia, Aragno, 2016, e la cura di Orlandini), che mi sembra un accesso immediato – come un pugno – al suo pensiero. Altrimenti – parlo per la mia mente, ignifuga alla metafisica, spinosa al filosofeggiare – partite da Lungo le rive del fiume Ilisso, il saggio che apre le conversazioni con Sestov: ha una luce particolare, il corrusco di una guerra già detta. Fondane è geniale nel disintegrare le sicurezze erette dai sistemi filosofici, ci sgrava al selvatico della vita, senza riserve o preservativi, “per poter dormire (ovvero, nel linguaggio degli uomini: agire) dobbiamo come re Saul, sopprimere tutti gli incantesimi nel dominio del pensiero; il benché minimo pensiero è un deus ex machina in grado di scatenare i mali peggiori… La spada delle Mille e una notte araba pende sopra la storia della filosofia; ogni notte la filosofia è costretta a inventare una nuova e fantastica teodicea al fine di mantenere il nemico in sacco e respingere indefinitamente l’evento fatale che sarà comunque inevitabile. Ma la scienza, che noi mettiamo all’opera per mantenere in piedi un mondo falso di cui noi siamo la sola divinità, non è certamente quello di cui avremo bisogno al momento della morte”. Dell’inevitabile Fondane è il profeta.
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Ha fatto lo scalpo ai filosofi, Fondane, ha scalpato i fondamenti della vita ‘civile’: si guardano sbigottiti, sorridono ebeti, scambiano il turgido fiotto di sangue per una statua, sono già morti, non lo sanno. (d.b.)
*In copertina: il cranio di Benjamin Fondane in una fotografia di Man Ray
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pangeanews · 5 years
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“Io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, trovo più bellezza nel fiato cupo e potente di un orso che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi che nel migliore dei versi di Yeats, voglio solo respirare e perdere a modo mio”
Amico,
Se io fossi qualcuno, ti direi che le mie parole sono una poetica demistificazione delle leggende letterarie. Solo così trovo un senso a sputare qualche verbo sul foglio, fino a quando ne avrò voglia. Mi aggiro come un lupo preistorico intorno alla corruzione dell’estetismo letterario, al complesso erudito della ricostruzione storica, alla degradazione letteraria, alle false promesse dell’arte, intorno ai venditori di illustri illusioni, all’abuso delle immagini in poesia, del tono poetico, alla grande superstizione dei metafisici, il linguaggio, questa pretesa sgargiante sul nulla. E, salvo rare eccezioni, che tristezza. Lo sappiamo tutti che “esiste un’élite di ansiosi, il resto è l’umanità”. E nessuna preoccupazione per la moda o per il pubblico, nelle mie volubili divagazioni, ma solo una ironia lirica, spietata. Scrivo solo per me stesso, per fastidio. Non c’è altruismo nelle mie parole. Non mi occupo degli altri. Non destino il mio tempo alle loro vite. Non ho il terrore dell’ortodossia, esprimo le mie esagerazioni e difendo una sola causa, la mia, che so essere perduta fin dall’inizio, dal giorno in cui si nasce. Una sola cosa mi interessa, respirare e perdere a modo mio. Non ho la superstizione dell’altro, né ritengo la vita umana sacra. Per lo più sono sensibile al lato negativo delle cose, alla loro natura irreale, al punto da riconoscermi, più spesso di quanto non vorrei, in questo sprezzante cristallo… “sembra che abbia più amanti e pochi amici, poiché la sensualità è riservata alle donne, la sua insolenza agli uomini e l’ironia a tutti, anche a se stesso”. Ahimè l’idea scenografica di Luca, quando in realtà capitolo spesso all’indole opposta, non lesino amicizia, cura, pudore e umanità nei rapporti, con uno zelo perfino imbarazzante. Come chiunque conduca più vite allo stesso tempo, e dubiti terribilmente di sé, perché la vita, lo sai, reclama la vita. Se fosse un film, ti direi che faccio a pugni per strada, prendo a calci la vita come se gridassi al mondo intero l’infinita vanità del tutto, eppure cammino in silenzio, con me stesso. In certi giorni anche una bambina di sei anni potrebbe avere la meglio su di me, e non per eccesso di delicatezza, ma di sensibilità, voglio dire, uso i miei sensi in modo assoluto e un buco nero lampeggia nei miei occhi verdi, quando sono troppo lucido per avere carattere.
*
E solo tu hai il potere di esasperarmi con le tue tesi, certi tuoi pregiudizi (ma sono davvero i tuoi?), voglio dire, in un modo che non riesco a irrigidirmi. E già pecco di stupidità, se è inevitabile che ognuno di noi si nutra di pregiudizi e, come sai, di te mi importa solo come difendi ciò che più ti tocca.
Tu, che contrapponi l’inferiore precipizio del vedere immediato alla verticale facoltà fantastica, la tua preoccupazione, quella di giungere dall’eccitazione dei sensi al soprasensibile. Tu, che parli di eros, sostenendo che è tutto. A me, a cui eros non interessa, se il suo unico merito è quello di partire dalla carne per giungere alla conoscenza, e il suo unico obiettivo è quello di elevare il piacere alla conoscenza. Se tutto, in eros, si riduce a una sessualità più “intima” e “riflessiva”, per ascendere ad altro. Quando l’erotismo è già la smania mentale, il rito dell’anima, qualcosa che si vuole elevare al di sopra dell’animale… e lo sai, da sempre si afferma che eros perda la sua sostanza, e scada quando diventa “animalesco”. Ma perché?
E sai che l’eros di Carmelo Bene era tutto per la pornografia, che sbeffeggiava Bataille, definendolo un “cattocomunista”, quando scriveva: “Dopo una notte di erotismo nascono i bambini, la specie si ingrossa, le famiglie si espandono, i condomini si rafforzano, lo Stato si gonfia. Si ricade nel sociale. La pornografia è il solo antidoto a tutto questo perché il soggetto, qui, è l’oggetto squalificato, è la mancanza di rappresentazione, ossia l’irrappresentabile… l’erotismo è quanto di romanticamente più stupido ci possa essere, appartiene all’io… il plagio reciproco nella irreciprocità assoluta”. Ma in fondo che ne capisco io, un povero demente?
*
Io, che non scelgo tra l’irritualità oscena della pornografia e la scena rituale dell’erotismo. Né il tentennare teorico dei sadiani, le loro oscenità ragionate che sono più importanti del piacere stesso, la prosperità del vizio nella spersonalizzazione del singolo individuo. Né l’elemento erotico dell’anima, la grammatica di eros, il superamento di se stessi nella ricerca di un altrove, il coito come un efficace strumento di ricerca spirituale, per dilatare il piacere a costante stato dell’essere. Voglio dire, qualcosa di profondamente stucchevole e falso alleggia in entrambe le mentalità, se univoche, moda, teoria, manifesto, avanguardia, via maestra da seguire, catechismo. Io, che non condivido la parzialità di CB per la pornografia, né la tua per l’erotismo. E solo per capriccio, perché l’univocità ha sentore di schematismo e uccide l’ambiguità. Ed io, povero scemo, vittima dei miei umori, annego nel gorgo dei vasi comunicanti, nel tutto e il niente allo stesso tempo, consapevole che nessuno è più degno dell’altro, e non esiste gerarchia, progressione o ascesi che tenga, così, perché l’animale e la gnosi sono fusi, indivisibili, come dare colpi sul mercurio.
*
Amico, sofferenza, emozione, paura, passione, piacere sono già tutte estasi aderenti alla vita, e dunque vere, perché momentanee, non promettono alcuna liberazione. Non faccio del sesso un mito, ma trovo estatica la fica, la sua forma, quel irresistibile e feroce taglio, ipnotica fessura, antro del desiderio. La fica è già metafisica, voglio dire, uno stupefacente, cocaina lirica, come possono esserlo la profondità e la luce di uno sguardo, un sorriso, una bocca, il suono di una voce, il dorso e il fondo di una schiena, la fierezza di un seno, le mani, la linea di una coscia o di una camminata, il sapore dei baci e l’odore della pelle, un orgasmo. So che quasi nessuno è altezza dei propri squilibri, che quasi tutti deludono, ma ogni volta che vedo una donna che mi cattura, per strada, e la perdo, e so che non la conoscerò mai, che non potrò avere il privilegio di averla tra le braccia, è un piccolo grande lutto, perché, come si dice, ogni essere è abitato da una vita segreta, inavvicinabile, entrarvi è sempre una feroce avventura, talvolta un dono. E ho detto cocaina, la fisiologia che eccede se stessa, il paradosso della biologia, e non “la conoscenza è il nutrimento dell’anima” di Platone. Un surreale che è intensificazione e non una fottuta ablazione della passione materiale. Voglio dire, io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, nella parola per deviare dalla carne, nel tempo per sdegnare lo spazio. Non vegeto nell’antitesi, mi nutro da predatore – ogni amor proprio lo è – di un incessante movimento, a seconda della posizione del corpo, della disposizione d’animo, della quantità d’alcol o caffè bevuta, o di un’insondabile commistione di moventi ed emozioni. Non teoria, posa estetica e parole alate sull’essere. Non facciamo finta di non capire. Perfino un giovane capriolo che salta di gioia convulsa, erratico, come impazzito, per gioco, eccesso di energia, all’alba della vita, è l’estasi della natura, che si rinnova, supera se stessa.
Così, di Cioran mi piace il fatto che avesse un’inclinazione gnostica ma rifiutasse tutte le soluzioni, non solo quelle gnostiche. Se il mondo, qua giù, non è una soluzione, non lo è neanche un altro, superiore a quello materiale, neanche la mistica dell’arte o della poesia. Lui, che si immerge nelle filosofie orientali, e alla fine sceglie sempre il samsara e non il nirvana, che sostiene essergli “fisiologicamente estraneo”. Lui, che si interessa allo stoicismo, e non si piega mai alle sue risposte. Mi piacciono le sue plateali contraddizioni. Quella in cui afferma, per esempio, che il sesso è sopravvalutato, che il suo prestigio gli viene dal fatto di sopravvivere alla pratica prosaica del bidè, eppure alla fine della vita capitola, con una sbandata paurosa, non solo platonica, per la giovanissima Friedgard Thoma, lei, che non gliela ha mai data. Vedi, tutta questa estatica verticalità, e poi un pelo di fica, a volte, tira più di un carro di anime. Voglio dire, quando si desidera qualcosa la si vuole mangiare di passione, e non fare all’amore con le parole.
*
Ma perché questa ossessione univoca per un erotismo estatico, per l’elevazione, l’ascendenza, la riflessione, questa “scalata verso la luce che si affronta dal nulla”? Perché scrivere che un’arsura deve essere celestiale, e cantare che accedere a qualcosa implica un’ascensione, lo scaturire del bello dal mostro, della forma perfetta dal gorgo del male? Perché questo riscatto? Questa ossessione per i verbi verticali, l’abuso della luce, la pretesa che l’educazione al bello debba equivalere all’amare, e l’elevazione alla Bellezza? Come se il bello e il profondo dovessero assumere una forma alta per esistere davvero, come se il mondo fosse troppo osceno per non essere sublimato. Lo sai che la grazia della penna sfiora sempre la sua disgrazia, come il giorno e la notte, l’estasi e la depressione. Non c’è elevazione. E non avere paura di sporcarti, di unire la biologia alla tua gnosi, di gettare nel fango la tua immaginazione, di unire il libro della natura a quello dell’uomo, invece di trasfigurare la crudeltà nella purezza, il male nell’arte, la perdizione nella dedizione di una estetica che sia un’etica. Ancora questa fottuta mistica dell’arte. Ma perché? L’orrore e la vita hanno forse bisogno della nostra bellezza per esistere – ma che! – per non essere insignificanti, per essere grandi e sottrarsi al loro nulla? Ho già sentito qualcosa di altrettanto deludente, a sancire l’inferiorità dell’animale e il creato e fissare per sempre il privilegio estatico, verticale, la nobile esclusiva degli umani, “l’animale vive, semplicemente, solo l’uomo esiste”. E quale inutile presunzione di superiorità. Se proprio vuoi parlare di mistica, rammenta quella sensuale che unisce mondo animale e mondo spirituale, quella che disprezza la pretesa di voler separare, in assoluto, la creazione umana dall’esperienza sensibile e dalla sua induzione quotidiana.
*
Scrivi che la parola viene prima, e solo dopo, eventualmente, la carne? Ma no! Lo ripeterò fino allo sfinimento. Se non vuoi disprezzare la sapienza dei sensi, delle immagini, non c’è gerarchia verticale tra inferiore e superiore, ma solo una continua osmosi impura. Imporre la Letteratura, poi, come sola sapienza e salvezza, dire che il futuro dell’Umanità dipenda dai lettori autentici di tutto il mondo (quelli di Dante e di Shakespeare), pretendere che il linguaggio dell’abiezione si elevi all’eleganza del cigno, a sublime figurazione; sentire la necessità di trasfigurare la realtà con la Bellezza; mutare l’umiliazione in qualcosa di divino; passare per la carne per deviarsene; vedere la grazia nel cadavere; fare della sventura un trionfo e diventare padroni – sono illusioni creative affascinanti ma sconcertanti, che spezzano il cuore. La contrazione della vita mediante l’impegno della parola, il fuoco della passione rivolto a un fine che la contraria, l’ablazione del desiderio, spacciati così, come un fottuto trionfo, una suprema forza, la quintessenza della vita: “siamo così abituati a vedere nella saggezza un residuo delle passioni spente, che fatichiamo a riconoscere in lei la forma più dura, più condensata dell’Ardore, la particella aurea nata dal fuoco, e non la cenere”. Io, che non tollero in Harold Bloom, questo aristocratico dell’intelletto disincarnato, la sua definizione dei poeti, “degli angeli”, e la loro pretesa missione, “la riconquista del cielo”, il divorzio incolmabile che si insinua tra la bellezza naturale e la sua rarefazione artistica. Amico, lo sai anche tu che la metafisica, come la mistica, è la grande arte di eludere la pericolosa esperienza terrena, “e la possibilità di passare per un eroe a un uomo che non sa nemmeno cosa sia la guerra”. Lo scriveva il tuo amato Šestov, un metafisico, perché la fede nel fantastico si oppone al feroce nulla sensuale della materia, così, perché lo sconforto di dover morire e sparire genera una lotta che, nella volontà di lasciare una traccia, la compensazione di una ferita, l’invocazione di chissà che cosa, nel farlo, umilia la terra.
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E poi, lo sai, che ho già scritto altrove di non aver mai creduto alla strana e illuministica fiducia nella formazione su larga scala di un’opinione pubblica colta, capace di servirsi del proprio intelletto. Non ho mai avuto fiducia nel lettore. Nella sua facoltà critica, meno che mai creativa. In un vuoto formalismo che nasconde per lo più un ammasso di feroci pregiudizi ambulanti travestito da statuaria apoditticità. Ho sempre mal tollerato i dotti che giocano alla commedia della conoscenza, e la maggior parte dei fruitori di libri, gli illusi che immaginano l’intelligenza coincidere con il sapere, con il tanto più leggere, tanta più intelligenza o presenza. Quest’ultima, poi, è come il carisma e il fascino, impossibile che aleggi e imperversi, se non innata. E solo tu sai quanto possano essere ignoranti le persone colte, che la vera immaginazione ha sempre disertato le scuole. Quanto alla forza del genio di Shakespeare, per sapere quanto sia insignificante l’istruzione umana, basta leggere i suoi commentatori. E sai che perfino l’Opera, al pari della vanità, ha bisogno di volta in volta di un turiferario, un adulatore, un incensatore che contribuisca a diffondere il suo Verbo, il narcisismo dissimulato sotto le false spoglie di un Don Chisciotte che cerca stuoli di Sancho Panza, o il proprio san Paolo, “il più grande agente elettorale della Storia”, a cui affidare la propria futura gloria. E il letale difetto di chiunque scriva, voglio dire, di quelli che hanno fatto della scrittura il loro mondo, si rivela quando ogni esperienza vissuta è in funzione della trascrizione nelle parole, peggio ancora, un pretesto per future pubblicazioni. Non è un bel vizio, e un lusso che meritano pochi eletti.
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E dico che, qualora io fossi un poeta o uno scrittore, non sentirei mai la necessità di sfoggiare una fonte, una nobile filiazione, dei numi tutelari. A che pro evocare una nomenclatura, l’ansia di mettersi sotto la cappella di un altro? Una catena illustre che domina, pregiudica ed intimidisce i più, nelle smisurate doti che attribuiamo loro, che sminuiscono il senso delle nostre – “la maggior parte delle volte non nutrono, ma annientano, e nulla di davvero autentico può sorgere sotto un altro sole”. Lo scrisse un certo Edward Young, nel Settecento. Lo sai anche tu, che l’eccessiva abitudine a sorgenti non nostre, il languire sulle fondamenta di un altro, quasi sempre indeboliscono ogni forza di pensiero personale, che il tono di seconda mano rappresenta un’umiliazione. E che il genio di uno vero scrittore o poeta sta nel far scomparire tra le righe, se non dimenticare, le sue eventuali fonti ispiratrici, le influenze, e perfino nell’occultarle, perché “le imprese che si basano su una tenacia interiore devono essere mute e oscure”. Vagheggio una natura vegetale, la crescita innata di una mente, quei creatori che riescono a infondere un tono sorgivo, minerale, asemantico alle loro parole, e forse sono solo creature ideali, mitiche. Una chimera.
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Sì, è vero, ogni vero scrittore può essere anche un distruttore che accresce l’esistenza, che l’arricchisce scalzandola, ma sempre nel paradosso, con un’esperienza scavata nel corpo che si fa pensiero. E quando si spinge oltre e afferma che in assoluto l’arte è superiore alla vita, che essa rende interiore, e dunque accettabile, la smisurata estraneità del mondo, come accade nella mistica letteraria di Proust, quando scrive che la vera arte: “è il momento in cui lo spirito prende corpo, in cui il corpo insignificante viene riconosciuto come persona spirituale, pensiero indipendente da qualunque corpo, morto o no, e quasi immortale”, allora ascolto “indipendenza spirituale”, “immortale” e “insignificanza del corpo”, e già provo un conato, mi si chiude la vena, come quando afferma: “In fondo, anche in quelli tra noi che per i quali la nobiltà spirituale consiste nel non ammettere i moventi volgari, nel condannarli, nello sforzo di purificarli, essi possono esistere, trasfigurati… vi è, dunque, tutta una parte che viene esclusa”. Così, come se nulla fosse, una condanna, una purificazione, la trasfigurazione, l’esclusione di tutto un universo che si sa immenso e con cui non si vuole avere a che fare. Ma che bella sequela di umilianti verbi. Lui, per cui “la vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura”. Il fottuto verbo. L’ultima, suprema fede, per degradare l’intensità dell’immanente a favore dell’esaltazione di un mondo proiettato oltre il regno della materia, oltre la natura del mondo vegetale e animale, per giungere all’immortalità dell’opera e di una vita. Con ardore puritano, là dove la parola assume il potere di creare un’illusione, tanto quanto la vita reale, empirica, ne ha di distruggere questa stessa illusione. Così, perché il mondo è sentito come carcere dell’anima, e ogni storia esteriore non sarebbe altro che il riflesso del destino di un pneuma oltre mondano più autentico; e più forte è la perdita della realtà, più intensa diventa la coscienza negativa del mondo esteriore, la ricerca di un io concentrato nella propria insulare verticalità. Lo sai anche tu che il primato del Tempo smaterializza il corpo in vista dell’eternità dell’anima. Perfino l’inconscio è scremato dall’impura immanenza, così, perché accordiamo il primato alle impressioni soggettive, interiori, rispetto al reale, e riteniamo le impressioni tratte, sì, dalle sensazioni indotte dal reale, da un correlato empirico e materiale, ma che questi sia solo, ahimè, un inevitabile punto di partenza da superare, un male necessario. Ogni cosa è già il pensiero di una cosa, “l’istante in cui le cose vivono sono fissate dal pensiero che le riflette”, scrive l’autore della Recherche.
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E tu sostieni che bisogna leggere i grandi per vivere con più presenza al mondo. Chissà, forse aiuta. Ma ricordo Sergio Solmi, quando scrive con piglio forse troppo idillico: “Poeti che invece di comporre versi, avrebbero dovuto, camminando senza posa, addentrarsi nel bosco e riposare nei pressi di un ruscello, sotto il sole o la luna, sottomettersi all’influsso di forme e suoni elementi fugaci”. E vado oltre. Guardo altrove. Non faccio un mito della natura ma, non dico l’ovvio, un leopardo, una tigre, un leone, ma ogni animale, anche quelli domestici, anche quelli in apparenza più disgustosi, una tarantola e un’anaconda, hanno una presenza e una carisma che inquieta e rapisce allo stesso tempo, che noi neanche ci sogniamo. Eppure non hanno scritto o letto una sola riga. Voglio dire, trovo più bellezza e potenza nella presenza, il respiro affannato, cupo e potente di un orso, che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi, al battito vivo della natura, il suo inconfondibile fetore, che nel migliore dei nobili versi di Yeats. L’ho vissuto nelle foreste dell’Up State New York. Hai mai provato? Che emozione e perfino più estasi, al cospetto di quel ruggito che colpiva le mie ossa, le cui onde penetravano la mia cassa toracica. E spesso trovi più poesia, vita e bellezza in chi attraversa il deserto o l’antartico a piedi, in solitaria. In chi ha scalato tutte le ventiquattro vette più alte del mondo, solo. E forse ci sono state più estasi e libertà per Patrick de Gayardon, con la sua tuta alare, il maestoso volo orizzontale, la sua fine. Forse c’è più bellezza estatica in quella affascinante donna che, dopo una litigata furiosa piange e, chissà perché, per contraccolpo, dà fuoco a un desiderio animalesco, un mutuo furore di baci e carezze, una scopata memorabile, con quella luce inaspettata negli occhi, quella forza feroce e ostinata, e linfa impertinente nei lineamenti, solo apparentemente senza difese, quella energia che non ha filtri, e il capitolare difronte alla verità di questa presa diretta, un baratro sensuale, muto, mentre tu le lecchi le lacrime. E forse c’è più estasi in quella impresa leggendaria, verticale, da mozzare il fiato, prima e unica al mondo, la scalata senza corde, free solo, a mani nude del mitico El Capitan da parte del giovane Alex Honnold, uno che ha ‘anima’, cuore e palle, quando lotta fisicamente con la morte a ogni centimetro. Amico, prova a trovarti a tre metri da un leone che ruggisce, a un leopardo che ti fissa dritto negli occhi, senza recinti di protezione, e annegherai nella fascinazione ipnotica, il puro terrore, e forse anche nel pianto, quando scorgi quella verità profonda, inaudita, inaccessibile alle parole, là dove non c’è bisogno di evocare o inventare Dio. Voglio dire, non guardate solo la televisione. Ricordo l’onça, il poderoso giaguaro amazzonico, che attraversò il campo dove si trovava la mia tenda, nel Mato Grosso, la zona di Diamantino, lui, che si fermò e mi fissò dritto negli occhi per alcuni secondi, un’eternità, per decidere se attaccare o fuggire, e invece si dileguò con tutta l’abbagliante presenza di un passato remoto, a passo felpato, lento, nel gorgo della fitta foresta. Impossibile non rimanere infinitamente turbati da tanta maestosa e incredibile bellezza, quando nessun verso ti restituisce una simile emozione, quella potenza muta che le parole hanno sempre tentato, quasi sempre invano, di captare. Prova per credere, e non guardare solo i documentari.
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Ricordo quando io, Mark Harmon e un beduino, vestiti da Tuareg, a volto coperto, soli, vagavamo nel deserto, ognuno sul suo cammello, giorni e giorni, fuori dal set, per imparare a governare questa creatura, i comandi gutturali da emettere, i suoni, le parole chiave. Dovevamo girarvi delle scene. Imparammo a cavalcarli, veloci come il vento, tra il silenzio delle dune, il sibilo afoso dell’aria, i loro versi, a cui noi stessi rispondevamo con vocalizzi ancestrali. E avevo undici anni. Voglio dire, frequentiamo i versi, e molti di noi vorrebbero incontrare quelli rari, le parole che racchiudono questo senso di avventurosa vastità, l’emozione che non abbandona la terra. Lo sai, che temere qualcosa non è un buon motivo per mancarle di rispetto, che sono stufo di questi pur bravissimi scrittori che, quando li vedi in foto, sono quello che sono, troppo pallidi, perché gli estremi tuttalpiù loro li studiano, non li vivono, si leggono l’ira di dio.
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E poi mi chiedono perché, oggi, io non mi emozioni quasi più per una buona parte degli esseri umani, e invece rimanga profondamente turbato per la storia recente di quel cane da caccia, una femmina, presa e abbandonata in un canile per ben quattro volte, dai cacciatori, perché non faceva quello che ci si sarebbe aspettato, cacciare, lei, che al quarto abbandono si è lasciata morire di tristezza. Amico, la foto di quella creatura senza vita su tutti i giornali, buttata sul selciato, esanime, sfinita dalla vita prima del tempo, lei, che non ha avuto l’occasione di avere non dico un padrone, ma un’amicizia per la vita.
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Se solo tu fossi stato mio fratello, ti avrei portato e provare tutto, almeno una volta nella vita. A buttarti da una aereo, a percorrere il deserto o l’antartico a piedi, a cavalcare un cammello o un cavallo, a correre il rischio di incontrare un animale selvaggio da vicino o toccarlo, a vagare nella foresta amazzonica, a provare l’ebrezza estatica della velocità con una macchina sportiva o una moto, a scalare una montagna o navigare in mare aperto in solitaria, prima di scrivere un solo verso, prima di dire che “è vita uscire dalla vita, per verificarne le sue periferie” con la tua pretesa verticale, senza prima conoscere queste ebbrezze.
E lo sai, che la vera poesia più spesso si trova fuori dalla poesia, dai poeti di professione, perché, come si dice, lei è impossibile, esiste solo quando viene immaginata, e una volta che finisce sulla pagina, scompare. Amico, ricordo alcuni papuani, gli Yali che abitano le regioni remote del Wanyak, mai usciti dai loro confini, dalle loro montagne o visto altre culture, portati a visitare per la prima volta l’Europa, un giorno d’inverno si trovano sulla costa francese, una spiaggia con il mare in tempesta, stupiti e rapiti, e uno di loro esclama all’altro, serio: “guarda, il mare vuole mangiarmi, le onde mi leccano i piedi”, loro, che parlano la lingua dei primitivi, e sono poeti senza essere dei poeti.
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Non so se ho un’anima, ma ho almeno un cuore, che è ancora un organo, un corpo, un tatto, un’emozione, io, che non credo in nulla, e sono un demistificatore solo perché amo le leggende che contano davvero, a cui comunque non credo. Ma lo sai, che i veri creatori talvolta sospendono l’incredulità, si offre loro la giugulare, a tratti, forse, per solidarietà con l’impossibile.
Luca Orlandini
*In copertina: Luca Orlandini; lo scambio tra Luca Orlandini e Davide Brullo che prelude a questo pensiero è qui.
L'articolo “Io non mi lancio nell’invisibile per disprezzare il visibile, trovo più bellezza nel fiato cupo e potente di un orso che si alza in piedi e ti guarda dritto negli occhi che nel migliore dei versi di Yeats, voglio solo respirare e perdere a modo mio” proviene da Pangea.
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