#decisionismo
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gregor-samsung · 11 months ago
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“ Gli uomini tutti d'un pezzo dove li aveva mai visti?, insistevo. Erano quelli capaci di vere inclinazioni, rispose. Proprio il contrario dei personaggi, che avevano sempre bisogno di decidersi per fare qualcosa, e quando poi la facevano non era per farla ma per fare come gli altri... Se neppure io lo sapevo qual era l'idea che avevo di me stesso! Si, doveva esserci una smagliatura, tra me e me, di cui bisognava pur venissi a capo. Mi pareva di non sentire amore o anche rallegrarmi come immaginavo accadesse agli altri, con naturale abbandono. Glielo avevo confidato io una volta! E poi per orgoglio e necessità me l'ero accollata questa supposta diversità, l'avevo costruita, difesa, mi ci ero adattato, ostinato, barricato dentro, e avevo finito per preferirla. Ma era forse solo una maschera che col tempo sarebbe caduta, o una mia ipotesi tutta ancora da accertare nei fatti. Come poteva lui ritenermi incapace di vere inclinazioni, e io stesso crederlo, se non avevo mai avuto fino ad oggi una qualsiasi esperienza che me lo confermasse? E oggi, ecco, l'occasione si presentava. Oggi alle sei. Dovevo rifiutarla per rimanere nel vago, oppure dovevo approfittare e farla con Mira l'esperienza — oggi — alle sei — per saperne di più su me stesso? In fondo era lui a spingermi a questo, a provocarmi ritorcendo contro di me quanto gli avevo confidato. Solo se lo avessi smentito, mi dicevo, avrei potuto riconquistare la sua ammirazione e fors'anche la sua amicizia, sì solo così sarei passato nella prima categoria, quella degli uomini, che lui rispettava... L'occhio nel labile specchio del finestrino mi stava guardando carico d'apprensività — non erano i miei, per l'appunto, i pensieri di un personaggio? — e già mi comunicava il solito disagio quando di colpo l'immagine sparì insieme con gli alberi della Villa Comunale. “
Raffaele La Capria, Un giorno d'impazienza, Bompiani, 1976, pp. 17-18.
 NOTA: L’edizione del 1976 è una riscrittura dell'opera prima dell’autore pubblicata nel 1952.
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ginogirolimoni · 2 months ago
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Deportazione migranti in Albania.
Commissione Covid.
Proteste contro l’attacco di Israele alle basi Unifil con soldati italiani.
Manovra di bilancio.
Commissione antimafia.
Ministri della Cultura.
Riforma della Giustizia.
Stiamo facendo la storia.
Ho l’impressione che ogni volta che questo governo si mostra duro, decisionista e autoritario, fa emergere in realtà tutto il ridicolo di cui è inconsapevolmente capace.
Il problema di noi italiani è che preferiamo ridere di chi ci governa, che essere ben governati.
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bagnabraghe · 2 years ago
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Conflitto ed energia politica: Costantino Mortati e Carl Schmitt
Le tesi di Santi Romano (anche rilette alla luce delle interpretazioni di Paolo Grossi e Mariano Croce), per quanto colgano delle dinamiche giuridiche l’intrinseca relazionalità e vitalità sociale sottesa all’ordine, necessitano di essere integrate intingendo la “grammatica del diritto” nella “sostanza paludosa e magmatica della doxa”. È necessario addentrarsi nei “luoghi della decisione” e della…
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adrianomaini · 2 years ago
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Conflitto ed energia politica: Costantino Mortati e Carl Schmitt
Le tesi di Santi Romano (anche rilette alla luce delle interpretazioni di Paolo Grossi e Mariano Croce), per quanto colgano delle dinamiche giuridiche l’intrinseca relazionalità e vitalità sociale sottesa all’ordine, necessitano di essere integrate intingendo la “grammatica del diritto” nella “sostanza paludosa e magmatica della doxa”. È necessario addentrarsi nei “luoghi della decisione” e della…
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falcemartello · 1 year ago
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Far parte dell'Unione Europea significa essere cittadini che non possono decidere nulla di ciò che fa lo Stato. Far parte dell'Unione Europea significa sostituire la democrazia formale con il decisionismo tecnocratico verticistico e irresponsabile.
Boni C.
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jedivoodoochile · 1 year ago
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RORSCHACH (2020-2021).
Tom King / Jorge Fornés.
DC Comics
No es fácil escribir una secuela de Watchmen (se ha intentado con resultados generalmente mediocres), pero Tom King no es cualquier escritor. Narra la historia, no de Rorschach, como uno tendería a pensar, si no de tipos que se creen Rorschach y sienten la obligación de hacer justicia por sus propias manos. Esto ocurre años después de la invasión de calamares, con la cual termina "Watchmen", el comic original. Todo el mundo ha quedado traumatizado, con el temor de que la tragedia se repita. Se preguntan: ¿Qué ha pasado con los superhéroes? Robert Redford ha sustituido a Nixon como presidente de USA, pero hay un candidato amenazándolo, Turley, a quien, de pronto, un tipo vestido con la máscara de Rorschach, junto a una muchacha enmascarada, intentan asesinar. Desde ahí Tom King teje una historia que comienza siendo de detectives, para luego mutar en una sobre el poder de la ficción en la política, en los lectores y en los propios autores. ¿Qué sentido tiene escribir una historia? ¿Qué sentido tiene escribir, en general? Al final la historia acaba siendo un relato de fanáticos fundamentalistas que citan a Hannah Arendt para justificar su violencia. Y esa es la pregunta que alza Tom King (o una de las preguntas): cuando uno hace justicia con sus propias manos ¿cómo puede estar seguro de que está en lo correcto? Los malos no piensan que son malos, al contrario, y, de hecho, lo más común es que ni los malos ni los buenos evalúen lo que hacen, sencillamente actúan. Tom King critica cualquier decisionismo y se ríe de quienes creen que la ficción se parece a la realidad. Las palabras son intentos por hallar sentido donde no lo hay y en eso se parecen a Dios, dice. También afirma: ningún dibujante, jamás, ha sido capaz de dibujar una mano, pues ninguna mano real tiene contornos delineados. Aparecen muchos artistas reales (algunos vivos) de comics, y es evidente que el personaje principal está basado en la leyenda alucinada Steve Ditko, creador de varios comics clásicos y quien al final de su vida se convirtió al Objetivismo y se alineó con la ultraderecha.
Casi está demás decirlo: este es un comic inusual en los comics de superhéroes. Una historia que es, a la vez, por lo menos tres historias distintas, que trata de política, filosofía, teoría literaria y ética. El dibujo del español Jorge Fornés es de otro mundo, y calza a la perfección con el tono maduro del guión del gran, gran, Tom King, nuestro Alan Moore.
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giancarlonicoli · 8 months ago
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2 mag 2024 16:53
“SONO ANTIFASCISTA” – IL DANNUNZIANO GIORDANO BRUNO GUERRI AFFERMA QUELLO CHE LA MELONI NON RIESCE A DIRE E ANNUNCIA IL VOTO ALLE EUROPEE PER FORZA ITALIA: “QUESTA DESTRA È TROPPO CONSERVATRICE SUI DIRITTI. LA MELONI NON PUÒ RINNEGARE LA SUA STORIA. HA ANCORA LA FIAMMA NEL SIMBOLO. LA TOGLIERA’, DIAMOLE TEMPO. NON È COSÌ DIFFICILE RINNOVARE LE ORIGINI" - "SCURATI? DIMENTICA CHE HA ATTACCATO PER PRIMO LUI. NON SARÀ RICORDATO PER IL SUO LAVORO STORICO” -
Concetto Vecchio per la Repubblica - Estratti
Giordano Bruno Guerri, cosa ne pensa della censura ai danni di Scurati?
«Perché dice censura?»
Come la chiamerebbe?
«Ma non sappiamo se è saltata per tircheria della Rai o perché lui voleva più soldi».
Motivi editoriali, c’è scritto su un documento Rai.
«Io lo avrei fatto gratis».
Nel merito che mi dice?
«Scurati afferma che sulla sua faccia hanno dipinto un bersaglio, ma dimentica che ha attaccato per primo lui».
Ma resta la sproporzione di un cittadino attaccato dal governo.
«Ma non è un privato cittadino, è uno scrittore famoso. Deve sopportare le reazioni di chi accusa».
(...)
«Io sono liberale, libertario, democratico ed ex libertino, e quindi antifascista».
Ma non è un valore?
«Ma il ribadirlo ossessivamente mi ricorda quelli che protestano contro la spedizione dei Mille».
Giorgia Meloni fa bene a non dirsi antifascista?
«Non può rinnegare la sua storia. Viene da lì. Ha ancora la fiamma nel simbolo».
Ecco.
«Capisco che come politica non si possa smentire. Ma sono sicuro che le pesa».
Perché non toglie la fiamma?
«Lo farà. Ma diamole tempo. Non è così difficile rinnovare le origini».
Fini lo fece.
«Ma dopo che era al potere da anni. Meloni lo è da meno di due».
Per chi voterà alle Europee?
«Forza Italia».
(...)
Le piace la destra al potere?
«Mi piace il decisionismo. Meno il conservatorismo sui diritti, a cominciare dall’eutanasia».
E sull’aborto?
«Penso che lì l’ultima parola spetta alle donne. Nessuno può imporre niente».
Concorda su Tele Meloni?
«No».
Vede mai il Tg1?
«Ma è sempre stato così, con il partito che sta a palazzo Chigi. Ho una certa età per ricordare gli spot della Rai a Fanfani».
Non c’è occupazione?
«Si chiama spoil system».
Cosa guarda in tv?
«I tg, Blob, Crozza, Rai Storia, molto La 7».
Insomma, non prevede una democrazia ungherese?
«No. Sarei il primo a denunciarla».
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jrlrc · 11 months ago
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Milei: locura y masturbación en Davos
El 17 de enero de 2024 puede recordarse como el día que Javier Milei se atrevió a masturbarse frente al mundo.
Fue a Davos y atacó a “la casta”, aunque él la tiene metida en su gobierno. Atacó al feminismo (como quién?). Negó el cambio climático. Prácticamente dijo que todos menos él somos socialistas, hasta las élites de Davos y los neoliberales del mundo, también llamados “neoclásicos”. Incluso se atrevió a afirmar que el neoliberalismo abre la puerta al socialismo (falso porque el neoliberalismo puede achicar el Estado en todo o aumentar el Estado en seguridad pero NUNCA sobre lo socioeconómico, SIEMPRE reduce la intervención del Estado que no sea a favor de los más ricos y sus empresas). Repitió la fantasía de que no existen las fallas del mercado. Sostuvo sin sostener históricamente que el Estado es en sí -todo Estado- el único problema esencial en el mundo. Defendió la “libre competencia” pero también que no se regulen/combatan los monopolios (cualquiera con un mínimo neuronal ve la contradicción). Inventó datos económicos sobre los siglos anteriores al 19, incluso mintió confusamente sobre un supuesto logro de sólo 5% de pobreza extrema mundial (Gracias Monopolios!) después de 1800, e insistió en la estupidez -la suya- de que la justicia social es injusta, reivindicando una inexistente/irreal meritocracia de la riqueza extrema, etcétera.
Una locura, sin duda.
Un discurso tan vergonzoso para los argentinos racionales como lo son los discursos de AMLO para los mexicanos racionales.
Mentiras, hipersimplificaciones, ignorancia histórica, eructos y masturbaciones “libertarians” o anarcocapitalistas que sólo pueden emocionar a adolescentes (de mente y cuerpo o sólo de mente). Y a conservadores extremos sobre lo social. Por eso lo elogiaron hasta la polución Agustín Laje y Agustín Antonetti.
Pero además de idioteces, banalidades y falsedades, el discurso de Milei fue y es sólo eso: discurso. Retórica. No es precisamente lo que está haciendo en la presidencia. El Milei candidato no es idéntico al Milei presidente.
Como presidente, sus decisiones y propuestas de legislación son en general neoclásicas, neoliberales. No desaparecen totalmente al Estado ni tienden hacia allá, como quieren los “libertarios”; lo de Milei reduce al Estado respecto a la mayoría socioeconómica, a la que desprotege o perjudica en favor de la minoría de los más ricos, y lo mantiene o aumenta (al Estado) en cuestiones de seguridad o capacidad de represión política. El presidente Milei va contra el Estado pero no como en el discurso que tenía como “economista” (simple repetidor ideológico libertario) ni como candidato (“libertarian” y populista de derecha) ni como en el discurso de Davos (en el que habló como “economista” y candidato). Ya en el poder -del Estado- Milei va contra el Estado democrático y social de Derecho: decreta autoritariamente, intenta que el Congreso se suicide en pro del decisionismo presidencial, todo para que el Estado abandone toda provisión de servicios y beneficios sociales/mayoritarios para dedicarse a proteger a los más grandes empresarios y a vigilar a la ciudadanía para que no proteste.
Defender el discurso de Milei en Davos es defender la locura de una farsa, una locura antisocialista, la del anticomunismo histérico, pero también una farsa antisocial; es la retórica que ahora sirve para tapar los hechos y las intenciones contra la sociedad de la mayoría, en particular contra la economía de la mayoría social, y contra su régimen democrático. Defender a Milei es defender lo peor de hoy.
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primaveraludica · 1 year ago
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Sobre un creciente problema de exclusión
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   Una de las tantas costumbres sucias de la industria, de las que más evidencian su -consciente o no- cosmovisión rectora, es lo en torno a los requisitos materiales. Me refiero a la evolución en el tiempo de lo que podríamos llamar, con finalidad didáctica, el "requisito común", como un nivel paradigmático de tecnología que necesitamos para jugar la mayoría de lo lanzado hasta la fecha. Este nivel tecnológico, con los años, aumenta sin clemencia, dejando a muchas personas fuera del mundo de la ficción interactiva, cabe recalcar, con poco y nada de retribución en calidad artística. En el cine, el avance tecnológico no fue menos palpable que en la ficción interactiva(1); el sonido, el color, los efectos especiales, la tecnología de puesta en escena, todo lo revolucionó a nivel técnico, pero a consecuencia de estos avances, un principio pilar nunca traicionó el cine: ser el arte del común de la gente. Si algo caracteriza a las artes del principio del siglo XX, es su universalidad, que (al menos hasta ahora) parecía un nuevo pilar ideológico irrevocable del arte mundial. Esto ahora, podemos ponerlo en duda, ya que si queremos ver avanzar a las artes venideras de la era de Internet, al contrario de lo que nos quieren hacer parecer los defensores acérrimos del progreso indefinido y lo digital, nos vemos excluidos. Por razones de calidad de vida, algunas regiones (cuanto más australes, más), tomamos consciencia de lo excluyente del fenómeno del requisito común mucho antes que ciertas otras; recalco que a la fecha de este artículo, una computadora que cumpla para los estándares de hoy, en Argentina, se precia en más de tres salarios mínimos. Así vamos develando, caso a caso, la cosmovisión rectora de la que hablamos al principio. De antemano, claro que hay excepciones, de las que nos ocuparemos con gusto de analizar en próximos artículos, pero si nos detenemos, y nos atrevemos a mirar el bosque, vemos una masa de compañías en una dirección clara. La industria del videojuego profesa una ideología superficialista, en contra de lo artístico por estar en contra de lo metafísico o lo trascendente. Su norte no es la complejidad sustancial, sino la complicación técnica, y así recibimos los mismos nuevos visitantes, una y otra vez, que no son más que uno solo, que sale por la puerta de atrás y vuelve a entrar, enmascarado, por la puerta de adelante.
Ramiro E. Solarewicz
Notas
1. En Primavera Lúdica, no usamos la definición reduccionista de ficción interactiva como la que hace uso de hipertextos simples, ni la que sólo permite la "interacción", entendida como presencia ergódica e (imperfectamente) inmersiva del espectador, sino la que contempla el decisionismo del mismo, que lo eleva al nivel de inmersión máximo, no por medios visuales o sonoros, sino por la cesión del cetro de la decisión verdadera y más táctil, con sus efectos correspondientes en la diégesis de la obra. Este concepto se desarrollará más y mejor en próximos artículos, aunque para la finalidad de éste, pueden entender el final de la oración como "[...] que en el videojuego".
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quod-quid-erat-esse · 3 years ago
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"En el curso de una rigurosa y aguda crítica ideológica Schmitt contrapone a aquella justificación las características reales de esa misma sociedad. Pone de manifiesto que la homogeneidad social que presupone la concepción liberal no es sino ficción, lo que priva de sentido a todas las construcciones que dependen de ella. Este es el punto en el que entronca la crítica de Schmitt al parlamentarismo del Estado liberal-burgués. El carácter ficticio de la homogeneidad de la sociedad, presupuesta en la concepción liberal, vacía de todo sentido a la tesis de que están dadas las condiciones para un debate basado sólo en la razón, capaz de descubrir por su solo ejercicio las soluciones generales a las necesidades de esa sociedad. El sustrato social de las decisiones es un contexto plural en el que se dan intereses contrapuestos que, a juicio de Schmitt -escéptico, o quizá más bien apresado en la idea de una escisión inevitable entre interés y razón-, no son susceptibles de resolución racional sino sólo de compromisos o soluciones de fuerza. En este contexto el principio de la mayoría se presenta como imposición, por la fuerza y con carácter coyuntural, de un sector de la sociedad sobre otro. Y ésta no es base suficiente para la existencia de un Estado con una identidad firme, esto es, basado en criterios claros y con la autoridad precisa. El principio democrático tiene por lo tanto que estar dotado de un contenido sustantivo, y sólo posee sentido y justificación en tanto que hace posible una voluntad unitaria del pueblo. No es, en consecuencia, compatible con el pluralismo. Por eso, y en relación con su crítica a la concepción liberal, el concepto de democracia tiene que entenderse exclusivamente desde la idea de la igualdad. Para Schmitt la libertad no se corresponde con la democracia; es un principio propio de la concepción liberal-burguesa, que se basa en una orientación moral según ideas humanitarias e individualistas, y que obviamente carece de fundamento democrático. La democracia, por el contrario, tiene como contenido la homogeneidad del pueblo, su igualdad, anclada en la decisión fundamental en favor de una determinada idea directriz, que vale por igual para todos. Y en este sentido esta igualdad sustancial no impide que pueda excluirse de ella a una parte del pueblo. Con ello zanja el problema de conciliar ambas nociones, y lo hace en favor de la unidad, de la homogeneidad, dejando al margen la diversidad, la diferencia que procede del reconocimiento de la libertad"
Rafael Agapito en Introducción a El Concepto de lo Político de Carl Schmitt
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corallorosso · 3 years ago
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Dieci anni fa finiva l'ultimo governo Berlusconi: lasciò un paese in macerie La nuova Liberazione, nella piazza più importante del Paese. La sera del 12 novembre di dieci anni fa. Tre minuti prima delle ventuno. L’auto del premier Silvio Berlusconi arriva in piazza del Quirinale e la folla radunata lì esplode in un boato. Gioia e rabbia. “Ladro, mafioso, bastardo”. Quasi una rivoluzione. C’è pure chi lancia delle monetine, come già contro Craxi al Raphael all’epoca di Tangentopoli. In piazza c’è persino un gruppo di musicisti. Sono professori di conservatorio. Un concerto che si apre con l’Hallelujah per la caduta del governo. Handel. Il 12 novembre, di sabato, è infatti l’ultimo giorno a Palazzo Chigi del leader di Forza Italia. Un incubo a fasi alterne che va avanti dal lontano 1994. Quattro volte presidente del Consiglio. (...) In dieci giorni, dall’8 al 18 novembre, il ventennio breve di Berlusconi si è sbriciolato sotto la scure dell’Unione europea, tra spread e impegni non rispettati. (...) Il Caimano lasciò un’Italia in macerie. La sua famosa discesa in campo era avvenuta il 26 gennaio 1994. Populista ante-litteram con due decenni d’anticipo su Donald Trump, Silvio Berlusconi travestì il conflitto d’interessi incarnato dal suo impero traballante e indebitato con le banche lanciando una doppia crociata: contro i comunisti e contro il teatrino della politica. In un Paese come il nostro, incline al decisionismo dell’uomo forte, il tycoon del Biscione fu accolto trionfalmente nelle urne delle Politiche del 1994. (...) Poi c’è che più che al governo della cosa pubblica, B. ha badato solo a quello della sua cosa privata. Le leggi ad personam sono state decine sia per la sua persona sia per il suo impero economico. Il suo, per molti versi, è stato un regime con due “nemici”: i magistrati e i giornalisti liberi. Quando la Cassazione lo condannò in via definitiva nell’agosto del 2013 i giudici certificarono pure la sua vocazione naturale a delinquere. Così come condannati sono due dei principali cofondatori di Forza Italia: Cesare Previti (corruzione giudiziaria) e Marcello Dell’Utri (mafia). Berlusconi è stato il politico che ha sdoganato istituzionalmente i postfascisti del Msi. Tutte cose note, ma che giova ricordare oggi che il Caimano (85 anni) sogna di fare il presidente della Repubblica confidando nella nuova destra di Matteo Salvini, Giorgia Meloni e Matteo Renzi. Del resto, gran parte della classe politica e della classe dirigente lo ha sempre riverito o raccontato come un politico “normale”, nascondendo o facendo finta di non vedere i suoi reati e i suoi vizi. Bastava guardare la faccia sbalordita di Bruno Vespa, l’altra sera da Floris, quando Alessandro Di Battista spiegava che Berlusconi ha anche dato soldi alla mafia. Non solo. Per i suoi sostenitori ed estimatori, è come se questi dieci anni senza governo avessero conferito a B. un’aureola di saggio padre della patria. Roba da matti. In ogni caso, al Caimano va dato atto di essere stato l’ultimo presidente del Consiglio “indicato” dal popolo, benché la Costituzione non lo preveda. Da allora non ce ne sono stati più: Monti, Enrico Letta, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Giuseppe Conte (il candidato premier del M5S era il capo politico Luigi Di Maio) e adesso Mario Draghi. Ecco, questi dieci anni formano un cerchio che si apre con Monti e si chiude con Draghi. Ma questa è un’altra storia. O no? Fabrizio d'Esposito
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gregor-samsung · 3 years ago
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“ Chi lui fosse veramente, non m'interessava, e poi ci voleva poco a capirlo. Ma chi era lui per Mira, ecco, solo questo lo faceva esistere per me. Tanto nessuno esiste per sé, mi dicevo, ognuno è inventato dall'altro. Mira non è stata inventata da me giorno per giorno? E io non sono per lei una persona a me stesso sconosciuta? Ciò vale dunque anche per Walter, per tutti, e non ci vuole poco a capirlo. Perché siamo forse soltanto proiezioni altrui, quasi sempre incapaci di stabilire una connessione tra ciò che si è per sé e ciò che si è per l'altro, o ciò che un altro è per gli altri, e così via... Nella piazza, davanti all'edicola, c'era un gruppetto di persone ferme a curiosare, attratte dai titoli dell'ultima edizione. Grandi titoli neri che annunciavano una guerra sul 38° Parallelo. Mi avvicinai anch'io per leggere. Mi domandai dove si trovava il 38° Parallelo, quale rapporto mai ci fosse tra le private mie vicende, i problemi veri o falsi inseguiti tutt'oggi, e la vicenda che si svolgeva in quell'estrema parte del globo, laggiù. Il 38° Parallelo rappresentava per ora solo un'espressione geografica, un punto di riferimento convenzionale. Ma mentre leggevo quei titoli minacciosi su otto colonne fui preso da una inquietudine strana, diversa da quella provata oggi. Mi vidi di nuovo sfollato nel triste e solitario paesino di montagna, di lì la guerra pareva lontana, lontanissima, e d'improvviso una sera il giornale arrivò con la notizia che il fronte avanzava, si spostava verso di noi, e la guerra ci avrebbe travolto tra poco, senza tanti riguardi, ci sarebbe passata addosso... Un rapporto si stabilisce sempre, prima o poi, non c'è scampo. Stavo indugiando su queste ed altre analoghe considerazioni, quando una mano mi toccò sulla spalla. “
Raffaele La Capria, Un giorno d'impazienza, Bompiani, 1976 (riscrittura dell'opera prima dell’autore, pubblicata nel 1952); pp. 77-78.
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abr · 3 years ago
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Il male minore?
Trovo davvero patetico ‘sto dibattito tirato dagli Ubbidienti all’Economist:  “Draghi deve rimanere Premier”. 
Abbiamo toccato con mano il decisionismo del tutto arruffone e inconclusivo di Draghi. E’ un capitano della marina borbonica, un farqualcosista, “facite ammuina” sia sulle grandi opere che giustificano il Pnrr che sul covid. Si conferma super burosauro di quelli che se gli dai da gestire il Sahara, il risultato sarà la carenza di sabbia.  
Il suo atout è uno solo: gode di straordinaria credibilità nelle capitali del Neo- Sacro Romano Impero, dove lo presentano bene pure agli altri leader veri. 
Quindi al Paese serve ma NON PER FARE COSE, non è capace, non ha mai dovuto farlo in vita sua (centomila volte meglio un Bertolaso); serve per “dialogare” senza cappello in mano coi Padroni. Un garante, non un operativo.
Il suo posto è alla presidenza della repubblica. Un Ciampi II e ho detto tutto, turandomi il naso: Promoveaur ut Amoveatur. 
In positivo - ne ha, oltre alla credibilità - è un convinto Atlantista (oggi significa anti Via della Seta, Biden o Trump non cambia); non c’entra con sacrestie o sezioni e coi loro riti e, dulcis in fundo, non piace al Gran Visir de Tuc le Scosse Auto-inculanti, d’Alema l’infallibile barometro (basta fare il negato di quel che sostiene, si ottiene che tempo farà).  
Preparate ordunque il ritratto del Visitor Rettiliano nella galleria dei notari intrallazzoni. E’ il posto perfetto per un Vile Affarista (cit.)  
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toscanoirriverente · 4 years ago
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Stop - Il decisionismo flemmatico è finito, Conte scopre di essere solo e circondato
Il presidente del Consiglio, di fronte alla presa di posizione di Italia Viva sulla gestione dei fondi del NextGenerationUe, ha capito che dovrà archiviare il suo piano di creare un governo nel governo. Per rimanere dove si trova è costretto ad acconciarsi a leader di una coalizione
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fondazioneterradotranto · 4 years ago
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Nuovo post su https://is.gd/osQ723
Il soldato ruffanese Rocco Gnoni e le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale
  di Paolo Vincenti*
  Giovani soldati che verranno cancellati dal tempo
e dimenticati come cenere dispersa nel vento
figli di una terra che non vuole più tenerseli  accanto 
cosa rimane dopo un sacrificio inutile
di questa vita già finita in un istante soltanto il mio onore
il bene più importante
(Enrico Ruggeri, Il mio onore)
  Una dolorosa pagina di storia nazionale, una delle più inquietanti della Prima Guerra Mondiale, è quella delle fucilazioni sommarie, che vide alcune centinaia di soldati morti per repressione interna, ovvero uccisi sul fronte dallo stesso esercito italiano per episodi di insubordinazione o resistenza agli ordini, diserzione o altro ancora. Nella Prima Guerra Mondiale non si moriva solo di fame, di freddo, di stenti, di malattie contratte nelle trincee, o sotto i colpi dell’esercito nemico.
In migliaia di processi sommari a discapito di soldati italiani, mandati alla sbarra per futili motivi, molti di questi soldati con estrema superficialità vennero condannati. Soldati innocenti, con un banale pretesto, venivano accusati di gravi misfatti e passati alle armi, assolvendo alla funzione di capro espiatorio, secondo la più classica concezione di derivazione ebraica.
E anzi se la guerra stessa, secondo l’interpretazione antropologica abbondantemente sviluppata da Renè Girard della violenza fondatrice della nazione, sta alla base della odierna società[1], a maggior ragione, il sacrificio di un drappello di soldati, per giunta giovani, si presenta come una specie di macabra sineddoche, pars pro toto, cioè, della guerra, che è essa stessa sacrificio di massa, secondo Roger Caillois[2].  Le motivazioni spesso addotte dai tribunali erano del seguente tenore: «il tribunale non ritiene di dover concedere le attenuanti generiche nell’interesse della disciplina militare per la necessità che un salutare esempio neutralizzi i frutti della propaganda demoralizzatrice».  Ossia, le condanne venivano comminate anche «in chiave di ammonimento e di prevenzione generale», fedelmente al motto di Mao Zedong  “colpirne uno per educarne cento”, poi fatto proprio dalle Brigate Rosse italiane negli anni del terrorismo. L’arroganza del Generale Cadorna, il senso di sfiducia e di sospetto da parte del Comando Supremo nei confronti dei soldati, generato dalla consapevolezza della palese impreparazione del nostro esercito rispetto alle forze nemiche, portarono alle sanguinose repressioni di militari sui militari. Queste repressioni avvenivano per i più svariati motivi, quali diserzione, comportamenti indisciplinati, atti di autolesionismo. Quello che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati all’arbitrio degli ufficiali sul campo, i quali erano costretti ad assumere delle decisioni fatali senza il giusto discernimento, turbati dalla grave tensione del momento o dal timore di essere essi stessi oggetto di provvedimenti disciplinari per mancato decisionismo. Il tragico conto finale delle fucilazioni è di 750 soldati con processi dei tribunali militari e oltre 300 vittime di giustizia sommaria, come approfondiremo in questa trattazione.
Il problema era anche dovuto alla vetustà della normativa militare italiana in vigore nella Prima Guerra Mondiale. Infatti, il codice penale militare risaliva al 15 febbraio 1870 e questo, a sua volta, riproduceva, con solo lievi modifiche, quello dell’esercito sardo dell’ottobre 1859. Dobbiamo le notizie che riportiamo in questo saggio a due libri fondamentali: Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, di Enzo Forcella e Alberto Montico ne[3], e Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, di Marco Pluviano e Irene Guerrini[4].
«L’edizione del 1914 del codice penale per l’Esercito del Regno d’Italia prevedeva la pena di morte per un’ampia casistica di reati commessi in tempo di guerra, quali lo sbandamento o l’abbandono di posto in combattimento, il tradimento, la diserzione, lo spionaggio, la rivolta, le vie di fatto contro un superiore, l’insubordinazione in faccia al nemico, la mancata consegna o l’abbandono di posto da parte di vedetta o di sentinella di fronte al nemico; la sollevazione di grida allo scopo di obbligare il comandante a non impegnare un combattimento, a cessare da esso, a retrocedere o arrendersi; inoltre lo spargimento di notizie, lancio di urla per incutere spavento o provocare il disordine nelle truppe, nel principio o nel corso del combattimento. La pena capitale era riservata anche ai comandanti, per reati particolarmente gravi, quali ad esempio la resa di una fortezza senza aver esauriti gli estremi mezzi di difesa e l’abbandono di comando in faccia al nemico»[5].
E l’Italia non era nemmeno la nazione ad avere il codice penale più obsoleto, in quanto, «ad esempio, l’esercito tedesco impiegò nella Grande Guerra il codice penale militare del 20 giugno 1872, mentre quello austro-ungarico risaliva al 1868 (modificato nel 1869 e nel 1873)»[6]. Agli ufficiali era conferito il potere di emanare dei bandi, in base all’articolo 251 del codice penale militare, ai quali tutti dovevano rigidamente attenersi. Tali bandi prevedevano delle norme di comportamento draconiane e delle pene durissime per i trasgressori. Queste pene, poi, data l’ampia facoltà discrezionale dei comminatori, si potevano trasformare in definitive, capitali. Gli inferiori erano tenuti ad ubbidire senza pensare, a dimostrarsi forti, coraggiosi, sprezzanti del pericolo in ogni circostanza.
Si può capire come questi episodi contribuiscano a smontare del tutto i luoghi comuni sulla “guerra gloriosa” che l’enfasi patriottarda ha stratificato per anni nell’immaginario collettivo che sempre si alimenta di esempi edificanti quanto edulcorati. La guerra perde così qualsiasi aura di “guerra giusta”, perde ogni legame con l’aggettivo “grande”, che la pubblicistica le ha cucito addosso, per rivelarsi ai nostri occhi per quello che essa è, cioè guerra, anzi «Guerra! Guerra!», come grida la Norma di Bellini (“guerra, strage, sterminio”), maledetta, come tutte le guerre.
La dura repressione partì da una Circolare del Generale Cadorna che nel maggio 2015 stabiliva: «Il Comando Supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l’esercito una ferrea disciplina». Per mantenerla, era scritto, «si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile vigore»[7]. Nel settembre di quell’anno, venne emanata un’altra Circolare, col n. 3525, secondo la quale, al verificarsi di atti di «indisciplina individuale o collettiva nei reparti al fronte», bisognava rispondere con un immediato intervento di repressione, che prevedeva anche la fucilazione, come giustizia sul campo, sommaria, se i sintomi di tale insubordinazione fossero stati gravi[8]. Si lasciava cioè ai militari superiori, ufficiali e Regi Carabinieri, una enorme discrezionalità nelle decisioni da adottare e, in buona sostanza, il diritto di vita e di morte sui loro sottoposti. Se poi non fosse stato il caso di intervenire immediatamente con la condanna capitale, questi atti di insubordinazione sarebbero stati giudicati dai tribunali militari e ad essi deferiti i soldati che se ne fossero resi colpevoli.  «Il superiore ha il sacro diritto e dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà inesorabile quella dei tribunali militari. Ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita»: così il testo della Circolare[9].
Facendosi più cruente le fasi della guerra, anche l’autorità statale diventava più stringente e pervasiva; di pari passo con i poteri speciali del Comandante di Stato Maggiore Cadorna, aumentava la severità delle sue disposizioni, mentre veniva quasi esautorato il ruolo del Parlamento. Tutte le funzioni ricaddero progressivamente nella competenza dei tribunali militari e le pratiche autoritarie imposte dalla legislazione di guerra si facevano aberranti. «Al culmine dello sforzo bellico funzionavano complessivamente 117 tribunali militari in Zona di Guerra, marittimi, nel Paese e in Colonia»[10]. Tutto ciò, oltre ad indebolire lo stato democratico, «era funzionale alle sempre più forti pulsioni autoritarie che percorrevano la nazione. Queste, sostenute da larga parte della stampa e in particolare dal Corriere della Sera trovavano nel Generale Cadorna uno dei punti di riferimento più autorevoli»[11]. E non solo gli ufficiali che dovevano mantenere la disciplina venivano costretti ad essere inflessibili con i loro sottoposti, ma anche i giudici dei tribunali militari erano continuamente richiamati ad una maggiore severità nella comminazione delle condanne; il Generale Cadorna riteneva che molti di essi fossero troppo teneri e che la procedura concedesse troppe garanzie ai processati[12]. Al tempo stesso, se gli atti di insubordinazione si erano resi così frequenti, Cadorna era convinto che ciò fosse dipeso proprio dalla debolezza degli ufficiali superiori e poi dei giudici e propose di istituire un maggior numero di tribunali militari con una distribuzione capillare sul territorio, sicché essi, come si può capire, finirono con l’avocare a sé anche le competenze di quelli civili. In pratica, nulla di minimamente rilevante, sia civilmente che penalmente, in Italia, soprattutto nelle zone di guerra, poteva sfuggire alla giustizia militare[13]. Per l’effetto contrario di ogni inasprimento legislativo, però, i reati che si volevano colpire aumentavano. «Dall’analisi di Giorgio Mortara sull’operato della giustizia militare risultò che i reati più frequenti furono: diserzione volontaria per 162.563 casi, indisciplina per 24.601, cupidigia per 16.522, mutilazione volontaria per 15.636, resa o sbandamento per 5.325 e violenza per 3.510»[14].
Anche Bruna Bianchi, nel suo libro La follia e la guerra, riporta i dati dell’Ufficio Statistico del Ministero della Guerra pubblicati da Giorgio Mortara nel 1927, dai quali si evince che «le denunce per renitenza dal 24 maggio 1915 al 2 settembre 1919 furono 470.000 (di cui 370.000 italiani residenti all’estero); le denunce per diserzione furono 189.425», ma indica che «nell’arco del conflitto si conclusero 162.563 processi e furono emesse 101.685 condanne»[15].
Leggere la pubblicistica sulla materia ci fa capire come ai concetti alla base dei reati sopradetti fosse data dai tribunali militari una interpretazione estensiva, su sollecitazione del Generale Cadorna, in modo da colpire quanti più soldati possibile.
Pluviano e Guerrini spiegano come, fra le carte d’archivio, sia avvenuto il fortunoso ritrovamento della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la Prima Guerra Mondiale, redatta nel 1919 dall’Avvocato Generale Militare Donato Antonio Tommasi, sulla quale torneremo. Questa relazione, insieme agli Allegati, ritrovati da Giorgio Rochat (che firma la Prefazione del loro libro) il quale li ha messi a disposizione, hanno costituito la base del volume[16]. Nel mentre gli autori proseguivano nell’indefesso lavoro di ricerca negli archivi, essi hanno presentato una prima ricognizione del loro studio nella relazione Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la Grande Guerra[17]. Prima di questi lavori, le cifre sui fucilati di guerra erano piuttosto vaghe, certamente discordanti. Gli studiosi si barcamenavano fra le cifre fornite dalla politica che indicavano le vittime della giustizia sommaria in poche centinaia e quelle fornite dal giornale socialista «L’Avanti» che parlava di più di 1000 morti. Pluviano e Guerrini si sono invece basati sulla Relazione del Generale Tommasi, integrandola con le risultanze della istituita Commissione d’inchiesta parlamentare del 1919[18], e poi con molte altre fonti emerse durante il lavoro di ricerca, fra queste anche le dichiarazioni dei parlamentari durante i lavori della Commissione.
Fra le varie fonti dirette, una delle più accreditate «è la relazione “Dati di statistica giudiziaria militare” del giugno 1925. Si tratta della statistica delle sentenze e dei procedimenti penali dei tribunali militari presso l’esercito operante e di quelli territoriali fuori e dentro la zona di guerra. Secondo questa relazione, furono comminate nel corso del conflitto 4.028 condanne a morte, delle quali 2.967 in contumacia, 311 non eseguite e 750 eseguite. Di queste ultime, 391 riguardarono il reato di diserzione, 5 la mutilazione volontaria, 164 la resa o sbandamento, 154 atti di indisciplina, 2 la cupidigia, 16 per violenza, 1 per reati sessuali, le rimanenti per reati diversi. Un’altra fonte importante ai fini della quantificazione è una tabella del Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare del Comando Supremo dal titolo “Specchio dei giudizi durante la campagna” datata 24 dicembre 1917 e relativa al periodo giugno 1915 – settembre 1917, conservata presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tale tabella è importante perché è l’unica a contenere anche il dato dei giudizi sommari: 112, che coincidono in buona parte con quelli riportati da Forcella e Monticone, fino all’agosto 1917. Nel settembre 1919 il ministro della guerra Generale Albricci, in sede parlamentare, ammise 729 condanne a morte eseguite durante tutta la guerra, mentre “le tristi esecuzioni sommarie superano di poco il centinaio”»[19]. Nel maggio-giugno 1916, a seguito dell’offensiva austro-ungarica, il regime disciplinare fu inasprito con l’ordine di ricorrere alle fucilazioni sommarie con ampia libertà, fino a colpire anche gli ufficiali. Dopo lo sfondamento austro-ungarico della nostra resistenza, il Comando Supremo ordinò al comandante delle truppe operanti sull’altopiano di Asiago di prendere le più energiche ed estreme misure: «faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano. […] L’altopiano di Asiago va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto»[20].  Inoltre, di fronte «alle diserzioni, che sempre più numerose si manifestavano sia presso i reparti schierati in zona di guerra che all’interno, nel dicembre 1916 il Ministero della guerra decise di togliere il sussidio economico ai famigliari dei colpevoli del grave reato, i cui nomi furono pubblicati nei loro comuni natii»[21]. La pena capitale, specie per i soldati che si erano macchiati del reato più grave, la diserzione, avveniva con fucilazione alla schiena. «Altre norme legislative emanate durante la permanenza di Cadorna alla carica di capo di Stato Maggiore dell’Esercito furono il bando del 28 luglio 1915 del Comando Supremo contro la diffusione di notizie sulla guerra e la denigrazione dell’esercito o della guerra stessa ed il decreto luogotenenziale del 19 ottobre 1916 n. 1417 per la repressione dell’autolesionismo»[22].
Di fronte al numero spropositato di esecuzioni, si avvertì l’esigenza di istituire una commissione interna che vagliasse le tante condanne comminate ed i metodi usati nella spregiudicata gestione Cadorna. Questa commissione venne affidata all’Avvocato Generale dello Stato Donato Tommasi, sul modello della già costituita “Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti militari che hanno determinato il ripiegamento al Piave”, comunemente definita “Commissione d’inchiesta su Caporetto”, di nomina regia, istituita nel 1918, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, che era nata in seguito all’ondata di paura e malcontento generatasi dopo la clamorosa sconfitta di Caporetto[23]. Già dalla Commissione d’inchiesta «il ricorso alla decimazione[24] fu stigmatizzato … e definito “provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare” tra l’altro per via della pena di morte così ingiustamente comminata a numerosi innocenti»[25].
Il Generale Tommasi[26] stilò una Relazione, in base alla quale i fatti vennero così suddivisi: Esecuzioni sommarie che appaiono giustificate; esecuzioni sommarie che appaiono ingiustificate; esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile; esecuzioni sommarie per le quali manca nei rapporti ogni elemento di giudizio[27]. Dei vari tipi, riportiamo alcuni esempi.
Per le esecuzioni sommarie giustificate: Brigata Messina, 93°reggimento, 30 giugno 1915, numero imprecisato di vittime, diserzione in complotto al nemico; Brigata Verona, 85° reggimento, 31 ottobre 1915. 1 fucilato. Abbandono del posto in faccia al nemico; Brigata Acqui, 18° reggimento, 22 aprile 1916. 3 fucilati, rivolta; Brigata Ancona, 69° reggimento, 13 giugno 1916. 3 fucilati. Sbandamento e mancata possibile difesa: Brigata Pavia, 27° reggimento, 11 novembre 1916. 1 fucilato. Insubordinazione e omicidio; Brigata Verona, 85° reggimento, 6 agosto 1916. 1 fucilato. Abbandono del posto e rifiuto di obbedienza in presenza del nemico: Brigata Catanzaro, 141° e 142° reggimento, 16 luglio 1917, 28 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie ingiustificate: Brigata Ravenna, 38° reggimento, 21- 22 marzo 1917, 7 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile: Brigata Salerno, 89° reggimento, 2 luglio 1916, numero imprecisato di morti. Diserzione al nemico, 3 luglio 1916, 8 fucilati, istigazione alla diserzione. Per le esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati: Brigata Catanzaro, 141°reggimento, 27 maggio 1916, Altipiano d’Asiago, 12 fucilati, sbandamento di fronte al nemico; Brigata Lazio, 131° reggimento, 15 giugno 1916, basso Isonzo, 1 fucilato, minacce e vie di fatto o rifiuto di obbedienza; 14° reggimento Bersaglieri, XL battaglione,16 giugno 1916, Altipiano d’Asiago, 4 fucilati, sbandamento; 5° reggimento Genio, 31°compagnia minatori, 26 luglio 1916, luogo imprecisato, 1 fucilato, vie di fatto a mano armata contro superiore;  XLVII battaglione Bersaglieri, 5 agosto 1916, quota 85 Monfalcone, 3 fucilati, diserzione; Brigata Regina, 9° e 10° reggimento, 13 maggio 1917, vallone di Doberdò, 6 fucilazioni non confermate, diserzione; Brigata Toscana, 77° reggimento, 23 giugno 1917, retrovie di Monfalcone, 2 fucilati, rivolta. Alla fine, “caddero vittime della giustizia sommaria 262.481 soldati e di essi 170.064, cioè il 62%, subirono una condanna. Furono comminati 15.345 ergastoli, dei quali 15.096 per diserzione. Le percentuali sono impressionanti: il 6% dei mobilitati fu rinviato a giudizio e quasi il 4% subì una condanna penale. Dei 262.481 processati, 177.648 passarono dai tribunali dell’esercito operante, mentre gli altri 84.883 furono giudicati dai tribunali territoriali. Sebbene i primi fossero più severi (ritennero colpevole il 66,3% dei processati), anche i tribunali territoriali condannarono il 61,8% dei giudicati”[28].
Fra le vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino. E veniamo così all’oggetto della nostra trattazione.
Rocco Gnoni, questo il suo nome, era nato a Torrepaduli, frazione di Ruffano, il 6 agosto 1888. Figlio di contadini, Rocco aveva sposato una sua compaesana di nome Giovanna Crudo; il matrimonio fu celebrato l’11 gennaio 1915. Pochi mesi dopo, il 29 maggio 1915, Rocco partì per la guerra, come riportato sul suo foglio matricolare n.31904. Dal foglio matricolare apprendiamo che Rocco Gnoni, di professione contadino, già ritenuto «rivedibile» a causa della «debole costituzione fisica», viene poi arruolato nell’11 Compagnia di Sanità (44° Divisione Sanità) e viene considerato «disperso nel fatto d’armi dell’ottobre 1917»[29].
Dopo quasi due anni di servizio al fronte, Rocco ottenne con ogni probabilità una licenza, durante la quale lui e sua moglie concepirono l’unico figlio, Donato, che venne alla luce il 19 novembre 1917. Gnoni però non poté mai conoscere il bambino, perché morì pochi giorni prima della sua nascita.
Pluviano-Guerrini riportano nel Capitolo «La Relazione Tommasi. Esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati»[30], un corpus molto più consistente di esempi. Fra questi, oltre a quelli sopra elencati: Brigata Ivrea, 162° reggimento, 21 febbraio 1917. 2 fucilati. Diserzione; Brigata Palermo, battaglione complementare, 20 maggio 1917. 3 fucilati. Rivolta; e poi 44° sezione di sanità, 4 novembre 1917. 1 fucilato. Accusa sconosciuta. Quest’ultima è quella che a noi interessa, perché il soldato fucilato per motivi sconosciuti è Rocco Gnoni, «un ventinovenne nato a Ruffano, provincia di Lecce. L’ordine di fucilazione fu impartito dal comando della 2°armata il 3 novembre 1917, mentre la ritirata era ancora in corso. L’esecuzione sommaria avvenne presso il Cimitero di Porcia, nel Pordenonese, alle 6.15 del 4 novembre 1917, quando i reparti italiani si apprestavano ad abbandonare la zona. Il plotone di esecuzione era composto da dodici carabinieri della 128° sezione, addetta al comando della 2° armata. La scheda compilata da Tommasi e i documenti allegati non riportano la ragione della condanna, e questo è un fatto di particolare gravità perché la fucilazione avvenne per ordine di un comando d’armata»[31]. Gli autori inoltre riportano in nota che nell’Allegato 40 sono contenute «la lettera di trasmissione del comandante dei carabinieri dell’armata al comando della 2°armata, il processo verbale dell’esecuzione sommaria, a firma del tenente dei carabinieri Nicola Crocesi, comandante del plotone di esecuzione, e l’atto di morte del soldato Gnoni, redatto dal capitano medico Ario Airaghi, sempre il 4 novembre 1917»[32].  Si apre allora una incongruenza nella ricostruzione della vita di Gnoni. L’Albo d’Oro dei caduti della Grande Guerra, infatti, dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, «nel ripiegamento al Piave», dopo la tragica sconfitta di Caporetto[33].  E anche il foglio matricolare, come già detto, annota «disperso» e «rilasciata dichiarazione di irreperibilità»[34]. Come tale viene ricordato nella targa commemorativa del Monumento ai Caduti del suo paese, la piccola frazione di Torrepaduli. In realtà, egli fu fucilato, come dimostrano inconfutabilmente Pluviano e Guerrini sulla base dei documenti ufficiali. Fu vittima della repressione interna, uno di quei capri espiatori, di cui si diceva all’inizio.
La storia ci insegna che la guerra, come evento straordinario, che sconvolge cioè il regolare procedere del tempo ordinario, frange prassi, codici, norme di comportamento e garanzie. Ogni guerra porta esecuzioni sommarie, decimazioni, pene di morte, e non solo scombina le regole del vivere civile ma sovente calpesta la stessa etica militare. La Prima Guerra Mondiale non fa eccezione: questa fu la grande delusione che già nel 1916 si impossessò dei ragazzi che con entusiasmo e fiducia erano partiti per il fronte.  Nihil novi sub sole è il motto tragicamente fatalistico che si potrebbe trarre. E non meno che appropriato ci appare l’aggettivo fatalistico, se pensiamo che ad una vera e propria roulette russa era affidata la vita di questi soldati, nelle parole del Generale Cadorna: «non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e il dovere ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte»[35].
Subito dopo la guerra, ci fu molta confusione sul numero esatto delle vittime di esecuzioni sommarie. Questo numero oscillava fra 109, indicato dall’On. Vito Luciano alla Camera dei Deputati il 19 settembre 1919[36], 152, il numero avanzato dall’Avvocatura generale militare, e più di 1000, come sosteneva il giornale del Partito Socialista «L’Avanti».  Come già detto, Pluviano e Guerrini, utilizzando le due fonti di segno opposto, ossia quella ufficiale della Relazione sulle esecuzioni sommarie del Generale Tommasi e quella non ufficiale e antimilitarista dell’Avanti, integrandole con i tanti documenti rinvenuti nell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME) e dalla memorialistica e dai resoconti di guerra, hanno calcolato questo numero in 750 fucilati[37].
Dopo il conflitto, la Relazione del Generale Tommasi restava la fonte più credibile sui fucilati di guerra, anche se il numero che presenta è in difetto e tende a colpevolizzare esclusivamente il Generale Cadorna facendo credere che col Generale Diaz la situazione fosse cambiata e le esecuzioni del tutto cessate (è invece dimostrato che vi fossero ancora dei casi), ma queste erano le pressioni che Tommasi aveva ricevuto dall’alto. In effetti, il Generale Cadorna nel frattempo era stato sostituito da Diaz.
Tuttavia, il destino della Commissione fu di essere insabbiata, analogamente a quella su Caporetto. Le sue risultanze vennero dimenticate e nessuno degli ufficiali colpevoli fu processato per i delitti commessi.
La linea del Parlamento italiano divenne quella di elogiare e ringraziare l’esercito e i suoi vertici per l’alto eroismo (dando avvio alla magniloquenza propagandistica che caratterizzerà tutto il dopoguerra fascista) e sostanzialmente perdonare i responsabili della carneficina, considerando quanto avvenuto come un male necessario, nonostante l’unica voce dissonante in Parlamento, quella del Partito Socialista, si alzasse contro simile conclusione. Di conseguenza, siffatti crimini contro l’umanità rimasero impuniti e un velo di oblio cadde sulla triste vicenda fino quasi ai giorni nostri[38]. Bisognerà attendere la pubblicazione dei libri di Forcella e Monticone del 1968[39] e di Procacci del 1993[40], basati sull’inchiesta del Generale Tommasi del 1919 fino ad allora segretata, per avere chiarezza. Queste ricerche hanno permesso anche di venire a conoscenza della vera fine del soldato Rocco Gnoni.
Nel 2016 è stato anche organizzato dall’Istituto Comprensivo Statale di Ruffano un incontro dal titolo    “I fucilati per mano amica nella Grande Guerra: verità e riabilitazione. La storia del soldato ruffanese Rocco Gnoni”.  Gli organizzatori di quell’incontro, in primis il prof. Roberto Molentino, referente del progetto “Cento anni fa… la Grande Guerra”, ed i docenti coinvolti, hanno voluto far luce sulle vere cause della morte di questo concittadino. Hanno ricercato il Verbale di esecuzione sommaria del soldato Gnoni Rocco, dal quale risulta che «detto militare venne fucilato il 3 novembre 1917 in Porcia per ordine del Comando della 2° Armata. Non vi è alcun accenno ai fatti che determinarono detto giudizio sommario e pertanto occorrerebbero nuove indagini per poter esaminare se l’ordine del detto Comando fu conforme alla legge». La fucilazione dunque avvenne nei pressi del cimitero di Porcia, paesino in provincia di Pordenone.          «Al soldato Rocco Gnoni furono sparati in due riprese complessivamente 12 colpi di moschetto M.1891, che lo resero all’istante cadavere»[41].  Sempre secondo il verbale, il cadavere del soldato fu seppellito all’interno del Cimitero di Porcia.
Per saperne di più, gli studenti del progetto scolastico coordinati da Molentino hanno intervistato il nipote del soldato, Gino Gnoni, il quale ha detto di essere a conoscenza del fatto, anche se non in grado di provarlo.
Gino ha sostenuto che suo padre, Donato, non voleva ricordare e non parlava mai di ciò che era accaduto a Rocco, anche se provò per tutta la vita sentimenti ostili nei confronti dell’arma dei Carabinieri[42]. Nonna Giovanna, vedova di Rocco, raccontava invece che un reduce le aveva riferito quanto accaduto al marito: sembra che mentre si trovava in un’osteria a rifocillarsi dopo le dure battaglie delle settimane precedenti, fosse stato redarguito da un superiore a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Questo segnò il suo destino.
Quanto scoperto trova un riscontro anche nel libro Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione di Sergio Bigatton e Angelo Tonizzo, pubblicato dal Comune di Porcia nel 2010[43]. Il volume, incentrato sulla partecipazione della cittadina del Pordenonese alla Prima Guerra Mondiale, riporta nella seconda parte il Discorso pronunciato dal generale Umberto Pastore a Palse per l’inaugurazione del mausoleo ai Caduti in guerra, l’opera di don Francesco Cum Le memorie di un parroco dell’anno dell’invasione, e gli scritti di Antonio Forniz La prima guerra mondiale nei piccoli ricordi di un friulano adolescente. Sono riprodotti inoltre alcuni passi del diario del pittore futurista e scrittore Ardengo Soffici, scritti dal Castello di Porcia, dove soggiornò durante la ritirata di Caporetto. Infine, alcune memorie di Pietro Masutti e di Luigi Del Ben. In Appendice, sono riportati i nomi dei caduti di Porcia. Fra questi caduti non figura Rocco Gnoni, ma gli autori riferiscono un episodio che a Porcia era ben conosciuto e che ci fa chiaramente pensare al Nostro. Parlano della storia-leggenda di un povero soldato giustiziato di cui a Porcia girava insistente la voce, un «soldato italiano fucilato dai suoi al cimitero di Porcia durante la ritirata», individuato dagli autori grazie al ritrovamento di una planimetria del cimitero dove, fra i morti sepolti, viene ricordato anche un «Italiano fucilato»[44]. Ne parla con un fugace cenno il religioso Don Francesco Cum nel suo discorso (stampato a Udine nel 1920), che gli autori riportano nella seconda parte del libro[45].  Uno degli autori, Sergio Bigatton, contattato dagli organizzatori della manifestazione ruffanese, ha affermato che il soldato cui si accenna nel libro è senz’altro Rocco Gnoni. A maggior conferma, l’episodio dell’uccisione di Gnoni si potrebbe ricavare da un’altra fonte, che è il libro di Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata[46], in cui il pittore e poeta futurista narra la sua esperienza nella prima guerra mondiale. Nella notte fra il 3 e il 4 novembre, scrive che, mentre era uscito con alcuni compagni a fare due passi nel paese, nel buio più fitto, avvertì dei rumori nei pressi del cimitero e fu attirato dalla luce di una lanterna. Incontrò alcuni uomini, dei carabinieri, e ai loro piedi un uomo morto, che Soffici ed i compagni scambiarono per una donna, in quanto l’uomo era acconciato in abiti femminili, probabilmente per sfuggire ai suoi assalitori. I carabinieri riferirono a Soffici e compagni che il loro superiore aveva ordinato di ammazzare sul posto quell’uomo, e loro avevano eseguito immantinente l’ordine, fucilando il malcapitato. Si trattava di una punizione esemplare. Anche se Soffici non fa il nome di Gnoni, è facile supporre che si tratti di lui[47].
Non sorprenderebbe che il soldato ruffanese si trovasse in un’osteria a sbronzarsi. Il vino e la prostituzione erano fin dall’inizio della guerra i soli due svaghi consentiti ai soldati nella terribilità del momento. Si trattava di svaghi autorizzati o meglio “istituzionalizzati” dalle autorità[48]. Il vino in trincea era un farmaco potentissimo, ne parla anche Emilio Lussu in Un anno sull’altopiano[49]. Utilizzato in quantità massicce dai soldati per fare fronte alla drammaticità della situazione, esso dava loro sollievo, potenziandone l’audacia e la bellicosità in alcuni casi, fungendo da oppiaceo e quindi anestetizzando la paura e il dolore in altri. Comunque, sia che lo usassero come coadiuvante per darsi forza e coraggio, sia come tranquillante per attutire nei fumi dell’alcol lo shock di un impatto emotivo devastante, tutti i soldati ne diventavano dipendenti. Tanto vero che anche nelle cosiddette Case del soldato[50], circoli ricreativi religiosi, creati dalla chiesa per contrastare le case di tolleranza (e fu una battaglia persa fin dall’inizio di fronte al proliferare delle case chiuse e al massiccio ricorso dei militari al sesso a pagamento), i soldati bevevano[51]. Anzi, una delle voci di spesa più alte negli acquisti delle Case del soldato era proprio quella per il vino, poiché i preti ritenevano che un consumo, sia pure moderato, della bevanda alcolica dovesse comunque essere permesso, anche per contrastare il ricorso alla prostituzione: come dire, si sceglieva il male minore[52]. Mons. Giuseppe Pellizzo, Vescovo di Padova, in una lettera affermava che avevano come unico pensiero quello di svuotare le cantine nei paesi abbandonati ed erano talmente attaccati alla bottiglia che se le montagne fossero state damigiane i soldati le avrebbero custodite meglio, essendo sempre aggrappati ad esse[53]. Questo scritto è anche più importante per quanto il prelato sostiene dopo[54], cioè che proprio a causa dell’ubriachezza, alcuni giorni prima un battaglione aveva rifiutato di andare avanti ed era stata sorteggiata una compagnia e decimata. Importante dappiù, questa lettera di Mons. Pellizzo, per la data in cui viene inviata, ossia il 31 maggio 1916, in un periodo in cui nessuno dei soldati dal fronte osava confessare tale pratica aberrante. L’alcol, dunque, veniva largamente usato nelle trincee e finanche incoraggiato dal Comando supremo. Esso costituiva proprio la benzina dei soldati, come dice Emilio Lussu.Ma poi, fuori dalle trincee, per somma incoerenza, specie con la gestione Cadorna, esso veniva proscritto, quasi demonizzato nelle Circolari del Generale che imponevano ai soldati, negli ambienti civili, assoluta sobrietà ed un severo contegno in ogni circostanza. Gnoni pagò con la vita la sua mancanza di contegno.
Nel 2015, gli Onorevoli Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu hanno voluto proporre una legge sulla riabilitazione di questi caduti della prima guerra mondiale. In effetti, nel 2014, nell’ambito delle celebrazioni in occasione del centenario della Grande Guerra, si segnalava l’iniziativa di un gruppo di 50 intellettuali che inviavano un appello al Presidente della Repubblica per la riabilitazione dei soldati fucilati. Essi si costituirono in un Comitato nell’ambito del Ministero della Difesa. All’iniziativa di questo Comitato si unirono i deputati Gian Piero Scanu e Giorgio Zanin, rispettivamente primo firmatario e relatore alla Camera dei Deputati della proposta di legge n. 2741 finalizzata «ad attivare il procedimento per la riabilitazione dei soldati italiani condannati alla pena capitale nel triennio 1915-18, nonché per restituire l’onore militare e riconoscere la dignità di vittime di guerra a quanti furono passati per le armi senza processo con la brutale pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori. Verrà così restituito l’onore militare e la dignità di vittime della guerra a quanti vennero fucilati. Infatti, una volta approvata la legge verranno inseriti nell’Albo d’oro del Commissariato generale per le onoranze I caduti»[55]. Giorgio Zanin venne anche invitato a Ruffano nel già citato Convegno del 2016 e in quell’occasione si è soffermato su questa triste vicenda e ha sottolineato l’alto dovere morale e civile di riaprire una delle pagine più nere della storia d’Italia.
Nella maggior parte dei casi, i sospetti e le accuse di delazione, spionaggio, intelligenza col nemico, diserzione, di cui erano fatti oggetto taluni soldati, rimasero tali, solo frutto di menti paranoiche o soggiogate. Le fucilazioni che ne seguirono furono invece reali, come molta memorialistica conferma e certa stampa dell’epoca andava denunciando. Soprattutto nelle interviste ai reduci, nelle testimonianze orali e in tanti diari pubblicati dopo la guerra, molto vivi e brucianti i ricordi delle esecuzioni sommarie[56]. Non così invece nelle lettere, quelle inviate dal fronte, che erano sottoposte a censura[57].
Alle esecuzioni dei militari, bisogna aggiungere quelle dei civili. Le fonti dimostrano che fin dai primi giorni del conflitto il nostro esercito si macchiò di vari delitti perpetrati a danno delle popolazioni di confine, uccidendo tantissimi abitanti dei territori occupati, con esecuzioni sommarie[58].
Una certa pubblicistica antimilitarista sostiene senza indugio che i veri eroi furono proprio questi, i disertori, i ribelli, i fuoriusciti. Questa pubblicistica porta a sostegno della propria posizione un abolito articolo della Costituzione, per l’esattezza l’articolo 50, poi divenuto articolo 54 che, al secondo comma, poi cassato, recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino»[59]. Ma al di là delle posizioni di un certo pacifismo radicale, tutto l’orientamento dell’opinione pubblica in questi ultimi anni in Italia è stato quello di riabilitare non solo i fucilati di guerra ma anche i renitenti e i disertori, considerati anch’essi vittime della sofferenza procurata dalla guerra. Un articolo pubblicato su «La Repubblica» nel 2014 dà voce al Vescovo Santo Marcianò, Ordinario Militare, il quale parla delle diserzioni come di «un fenomeno che coinvolse tutte le forze in campo, alimentato non tanto dalla paura quanto dalla nostalgia per la famiglia e odio per l’ingiustizia delle autorità militari. Le condanne furono circa centomila. Impossibile sapere con esattezza i fucilati, almeno un migliaio»[60].
Come non vedere, in questi soldati ingiustamente massacrati, come Rocco Gnoni di Ruffano, dei martiri laici? Eroi minori di una beffarda tragicommedia.
Per concludere con le parole di Ardengo Soffici: «sono forse costoro dei vinti, dei disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono, diciamo la parola, dei vigliacchi? No. Basta vederli. Basta lasciare entrare la loro anima nella nostra. Sono delle vittime. Sono degli incoscienti. Sono degli illusi – e il male non è qui. … il male è nelle radici – il male è laggiù sotto di noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi mercanteggia. Di chi abbandona. Il male è dappertutto; ma non è qui. Qui si soffre soltanto. Non è la via dell’infamia, qui. È la via della croce»[61].
* Società di Storia Patria per la Puglia, [email protected]
  Vivamente ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino, che mi ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
  Note 
[1] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980.
[2] R. Caillois, L’uomo e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001.
  [3] E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza,1968, 2° ed. , 2014.
[4] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004, p.12.
[5] F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano (1915-1917), p.1, in  www.museodellaguerra.it/wp-content/…/09/annali_23_Cadorna-e-le-fucilazioni.pdf. L’autore si rifà al libro di Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit.
[6] Ivi, p.36.
[7] Circolare n. 1 Disciplina di Guerra in data 24 maggio 1915, conservato presso l’archivio dell’USSME (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), repertorio L3, b. 141, fasc. 3, riportato in M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.36.
[8] Circolare n. 3525 in data 28 settembre 1915, Disciplina di guerra, USSME, Ivi, p.36.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.14.
[11] Ivi, p.15.
[12] Ivi, p.20.
[13] Ivi, p.21.
[14] Ivi, p.23.
[15] Ministero della Guerra, Ufficio Statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale. Dati sulla giustizia e disciplina militare, a cura di G. Mortara, Roma, 1927, in B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Roma, Bulzoni, 2001,
[16] Ivi, pp.1-6. Sulla copertina del libro è raffigurata un’immagine tratta dal film di Francesco Rosi Uomini contro, del 1970, ispirato al romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.
[17] Letta al convegno “Scampare la guerra”, tenuto a Fogliano  Redipuglia nel 1990. Questa relazione è poi confluita nel libro con cui si pubblicarono gli atti: 1914-1918 scampare la guerra : renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e collettivi di fuga e la giustizia militare nella Grande Guerra, a cura di L. Fabi, Ronchi dei Legionari, Centro culturale pubblico polivalente, 1994, pp.63-75. Guerrini – Pluviano sono anche autori di La giustizia militare, in Dizionario storico della Prima Guerra Mondiale, a cura di N. Labanca, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 137-146.
[18] Commissione d’inchiesta Dall’Isonzo al Piave. 24 ottobre-9 novembre 1917, Roma, Stabilimenti tipografici per l’amministrazione della guerra, 1919. Istituita con R.D.12 gennaio 1918, n.35.
[19] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, legislatura XXIV, 1ª sessione, discussioni, tornata del 12 settembre 1919, in                         F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano cit., p.12.
[20] Lettera in data 26 maggio 1916 del capo di Stato Maggiore dell’Esercito al Generale Clemente Lequio – USSME, in Filippo Cappellano, op. cit., p.6.
[21] Circolare n. 32800 in data 28 dicembre 1916, Conseguenze del reato di diserzione, Comando 3ª Armata. Altre conseguenze di legge del reato di diserzione erano: interdizione perpetua dei pubblici uffici, interdizione legale con la perdita di amministrazione dei propri beni, patria podestà, autorità maritale e capacità di fare testamento: fonte USSME, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[22] Ivi, p.11.
[23] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.41.
[24] La decimazione, che consisteva nel tirare a sorte il nome dei fucilati,come esempio di estrema disciplina militare inflitta ai soldati era una pratica già conosciuta dai Romani ma fu nella Prima Guerra Mondiale che se ne fece largo uso.
[25] Relazione della Commissione d’inchiesta, Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre – 9 novembre 1917, vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, 1919, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[26] Il giurista Donato Antonio Tommasi (1867-1949), tarantino di nascita, era leccese. Stimato magistrato, durante la guerra ricoprì il ruolo di Avvocato Generale presso il Tribunale supremo di Guerra e di Marina e poi dell’Esercito. Fu parlamentare, eletto nelle file del Partito Popolare, negli anni Venti. Strenuo oppositore del Fascismo, in occasione della Marcia su Roma, redasse il decreto per lo stato d’assedio per conto del Presidente del Consiglio Luigi Facta che venne respinto dal Re Vittorio Emanuele III. Per questo, fu ostracizzato dal regime. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e venne ferito dallo scoppio di una bomba lanciata sul centro militare clandestino che dirigeva a Roma, e fu onorato della medaglia d’argento al valor militare: M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.48.
[27] Ivi, Le fucilazioni sommarie cit., p.47.
[28] Ivi, p.19.
[29]Archivio di Stato di Lecce, Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890.
[30] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., pp.113-130.
[31] Ivi,p.125.
[32]Ivi, p.129.
[33] Albo d’Oro, Volume XVIII, Puglie, N. 902. Nell’Albo d’Oro, giusta circolare del Ministero della Guerra, 8 giugno 1926, sono inclusi tutti i militari del R. Esercito, della R. Marina, della R. Guardia di Finanza, il cui decesso o scomparsa sia avvenuta per causa di guerra dal 24 maggio 1915 al 20 ottobre 1920, data di pubblicazione della pace.
[34] Archivio di Stato di Lecce Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890. La dichiarazione di irreperibilità veniva rilasciata dal CIFAG (Centro interministeriale per la formazione degli atti giuridici) di Roma, ora soppresso.
[35] Telegramma circolare nr. 2910 del 1 novembre 1916 del Comando Supremo, in Filippo Cappellano, op.cit., p.7.
[36] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.2.
[37] Ivi, pp.2-3.
[38] Ivi,pp.5-6.
[39] E. Forcella- A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 (poi 2014).
[40] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. Sulle punizioni esemplari e le fucilazioni anche: A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Milano, Mondadori, 2014, p. 24.
[41] Si veda il Verbale della fucilazione allegato.
[42] Sul ruolo dei Regi Carabinieri: F. Angeletti, Il ruolo dell’arma dei carabinieri durante il primo conflitto mondiale: il fronte interno, in  «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, pp.371-386.
[43] Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione. Documenti e memorie sulla prima Guerra mondiale, a cura di S. Bigatton e A. Tonizzo, Pordenone, Sage Print, 2010.
[44] Ivi, pp.39-40.
[45] Ivi, pp.81-107.
[46] A. Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata, Firenze, Vallecchi, 1919.
[47]Ivi, pp.192-193.
[48] Sulle case di tolleranza, si veda E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.
[49] E. Lussu, Un anno sull’altopiano,Torino, Einaudi, 1964.
[50] Don G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956.
[51] E. Franzina, I casini di guerra cit., p. 192. Sull’argomento, anche P. Vincenti, Tra vergogna e onore: le prostitute di guerra, in L’officina del sentimento. Voci gesti segni femminili in Terra d’Otranto davanti alla Grande Guerra (1915-1924), a cura di G. Caramuscio, in corso di stampa.
[52] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia», n.36, dicembre 1989, pp.5-88.
[53]I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Sciottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p.73. Mons. Pellizzo, fondatore del giornale cattolico «La difesa del popolo», scrive tra il 1915 e il 1918 ben centocinquantasei lettere a Papa Benedetto XV per informarlo sul drammatico andamento della prima guerra mondiale.
[54] Pubblicato da I. Guerrini – M. Pluviano, in Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la grande guerra, in 1914-1918 scampare la guerra cit., pp.63-75.
[55] Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale https://www.camera.it › leg18
[56] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p. 239.
[57]Ivi, p. 240. Le lettere dal fronte avevano degli speciali censori che erano spesso gli ufficiali austriaci e tedeschi, incaricati di leggerle, allo scopo di emendarle da eventuali informazioni poco opportune e pericolose. Fra questi ufficiali, Leo Spitzer, il filologo austriaco al quale si deve il primo studio organico di carattere linguistico sulle lettere dei soldati dal fronte. Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915–1918, a cura di L. Renzi, Torino 1976, nuova ed., Milano 2016. Si veda anche D. Octavian Cepraga, Scritture contadine e censori d’eccezione: le lettere versificate dei soldati romeni della Grande Guerra, in Memorialistica e letteratura della Grande Guerra. Parallelismi e dissonanze Atti del Convegno di studi italo-romeno Padova–Venezia, 8–9 ottobre 2015,a cura di D. Octavian Cepraga, R. Dinu e A. Firţa, Quaderni della Casa Romena di Venezia, XI-2016, Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 2016, p.189.
[58] Ivi, pp. 196 -197.
[59] https://www.nascitacostituzione.it/02p1/04t4/054/art054-011.htm
[60] P. Gallori, Grande guerra, l’ordinario Militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, in «La Repubblica», 6 novembre 2014
[61] A. Soffici, op. cit.,p.202.
Ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino che ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
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libriaco · 5 years ago
Text
1984
Per la prima volta, con il suo ammirato o vituperato decisionismo, Craxi, per fermare la spirale inflazionistica, aveva spezzato la paralisi decisionale imposta da tempo immemorabile dal circuito consociativo tra governi e opposizione, tra parlamento e sindacati. Con l'accordo convinto della CISL, della UIL e della corrente socialista della CGIL, trascinando una DC e un establishment economico incerti e riluttanti (unica eccezione, l'avvocato Agnelli), di fronte al no della CGIL imposto da Berlinguer a Luciano Lama, Craxi andò avanti lo stesso, decidendo e varando il decreto detto di San Valentino. Vennero così congelati tre punti della cosiddetta "scala mobile", il meccanismo che, legando gli incrementi salariali alla crescita dell'inflazione, si era trasformato in un moltiplicatore dell'inflazione stessa. Gli effetti positivi non si fecero attendere: l'inflazione - "la più iniqua delle tasse" - venne domata, la produzione industriale riprese alla grande, l'economia e la società conobbero un nuovo ciclo espansivo.
C. Martelli, Ricordati di vivere, Milano, Bompiani, 2013
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