#scrittori campani
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gregor-samsung · 8 months ago
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Roberto Saviano e  Asaf Hanuka, Sono ancora vivo, Bao Publishing, 2021.
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Alla Tenda una settimana tra cinema, musica e letteratura
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Alla Tenda una settimana tra cinema, musica e letteratura. Modena. Musica rock dal vivo, cineforum e letteratura sono al centro della programmazione della Tenda inserita nell’ambito delle attività proposte dall’assessorato alle Politiche giovanili del Comune di Modena. Le iniziative sono tutte a ingresso libero e gratuito. La settimana si apre giovedì 16 novembre, alle ore 20.15, con il secondo appuntamento della rassegna cinematografica “Follia e dintorni”, a cura dell’associazione La Rosa Bianca in collaborazione con Unimore, incentrata su tematiche legate al rispetto dell’essere umano. Il film proiettato è “Il buio oltre la siepe” (Robert Mulligan, 1962); presentano la pellicola e introducono il dibattito Lillo Venezia ed Eleonora Bertacchini. Come nelle precedenti 13 edizioni, obiettivo del cineforum è di aprire una discussione al termine della proiezione, offrendo dunque ai presenti la possibilità di esprimere una propria riflessione scaturita dalla visione del film. Venerdì 17 spazio invece alla musica dal vivo di band modenesi curata da associazione Intendiamoci e Superbia Music Group. Sul palco di viale Monte Kosica, dalle ore 21, sale infatti il gruppo rock sperimentale “Pandorea”. Per l’occasione, la band, tutta al femminile, presenta il nuovo singolo “Mare in tempesta”, che segna una nuova fase di ricerca delle cinque musiciste, orientata alla fusione di linee vocali pulite e sonorità distorte di chitarre e basso, incalzate da ritmi di batteria precisi e potenti. Prima dell’esibizione di Pandorea, gli amplificatori verranno “surriscaldati” dal rock di altre due band del territorio, ovvero Not my grave e La convalescenza. Il programma settimanale si chiude sabato 18, alle ore 18, con un nuovo appuntamento di “Dialogo con l’autore”, rassegna di libri e scrittori curata dall’associazione culturale L’Asino che vola. Per l’occasione, Pierpaolo Ascari intervisterà Sandro Campani, autore del libro “Alzarsi presto. Il libro dei funghi (e di mio fratello)”, edito quest’anno da Einaudi editore. “Il libro – spiegano gli organizzatori – offre pagine dense di gratitudine e nostalgia verso gli affetti familiari e i posti del cuore dello scrittore, tra Reggio Emilia e Modena, in cui l’immersione nella natura è una forma di benedizione”.   Il calendario completo di tutte le iniziative e le modalità di prenotazione sono consultabili sui canali social e sul sito web de La Tenda all’indirizzo www.comune.modena.it/latenda. Per informazioni:mail [email protected], telefono 059 2034810.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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ross-nekochan · 4 years ago
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La notte è fatta per pensieri che non hanno un filo conduttore, per l'insonnia. È fatta per formulare domande a cui mai troveremo risposte, la notte è un buco nella realtà che ci permette di esplorare un mondo più grande e più complesso di quello in cui viviamo: noi stessi.
Francesco Borrasso - Le Regole di Kaliel
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patti-campani · 7 years ago
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LA NEBBIA di Luca Martini
LA NEBBIA
Camminava da ore, forse da giorni. Non sapeva cosa fosse successo. Si era ritrovato solo, ignaro del proprio nome e del passato, in una strada buia e confusa, e l'unica cosa che sentiva di dover fare era camminare. Era sfinito, le mani tremavano e i piedi erano un ammasso di carne putrida, infarcita di dolore e illogica speranza.Il viso era ferito, lo zigomo destro insanguinato, e la gamba gli faceva un dolore insopportabile.La trascinava, sfregando la suola della scarpa, aiutandosi con le mani, che imbracciavano la coscia destra a completare il passo faticoso, come fosse un sacco di cemento.La nebbia non gli faceva vedere nulla, camminava senza peso, senza sapere dove posava i piedi e avanzava a tentoni nell’aria densa, invischiata di umido grigio che lo portava in un posto di non sapeva dove. Non un rumore fuori, non un odore.Nemmeno una voce, un sorriso, un profumo di primavera.Nulla.Ogni tanto qualche grido, nulla d’umano, solo sofferenza, un urlo di animale ferito.Meglio, dilaniato.Continuava a camminare, senza sentire più niente, né anni, né sesso, né volto, né scopo.Proseguire senza sapere dove andare era l’unica cosa che poteva fare, come se il programma si fosse inceppato e il cervello non avesse più scampo.Ad un tratto nella nebbia vide qualcosa di più scuro che si muoveva verso di lui.Una sagoma nera, grande, anzi, normale.Un profilo umano.Riconobbe quel passo ciancicato, quell'andatura stanca, senza futuro.Continuò a camminare, rallentando il passo, lasciando la presa delle mani sulla coscia, fino a fermarsi.La sagoma buia fece lo stesso.Restarono fermi nella nebbia, a un passo l’uno dall’altro senza vedersi davvero.Due corpi senza volto, due aloni neri, scuri e densi.Poi avanzò.“Papà”.Gli parve di riconoscere la figura di suo padre, ferma nella nebbia, immobile come una statua erosa dal vento e dal sale, senza occhi, la bocca contratta in una smorfia di dolore. “Papà sei tu?” Allungò le mani, trovò il suo viso, gli accarezzò la barba dura e riconobbe le sue sopracciglia folte, quelle due pelurie irsute pungenti che tante volte aveva accarezzato da bambino mentre lui gli leggeva una favola.Lo ricordò sulla spiaggia, tutto vestito mentre faceva un caldo terribile, a raccogliere conchiglie e piccole telline sul bagnasciuga.L’uomo sorrise, poi fece un passo indietro, allungando una mano mentre svaniva nella nebbia.Lui si sentì perduto.Orfano.“Papà aspetta, devo dirtelo”.Fece qualche altro passo, sempre più faticoso.Io lo so. Vide suo padre che apriva le braccia e gli faceva cenno di avvicinarsi.Avanzò ancora, stavolta felice e leggero, senza dolore, senza paura.Poi mise un piede nel vuoto.E tutto svanì, lasciando spazio soltanto al niente.Alla nebbia che riempiva quel vuoto senza domani e che lo inghiottiva con mani rassicuranti.“Ti voglio bene, papà”.
  La nebbia - un racconto di Luca Martini  dedicato a  IL RITRATTO Luca Dimartino e Andrea Cataudella a cura di Patti Campani
Tatler,via Rialto 29/2 Bologna fino al 10 febbraio 2018 aperto dal lunedi al sabato dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19 chiuso giovedi pomeriggio e festivi
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andreamassarisindaco · 2 years ago
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LSD FESTIVAL - Libri, Suoni, Destinazioni vi aspetta ▶️SABATO 28 MAGGIO◀️ con 3️⃣ appuntamenti tra scrittura e teatro davvero imperdibili! ⬇️ 🔹 Alle 15.00: "Il linguaggio della Natura. Come decifrare e raccontare i simboli della terra che abitiamo.” Incontro con Francesco Boer e Sandro Campani. Un viaggio affascinante alla scoperta della natura che ci circonda, condotto attraverso il dialogo tra due scrittori straordinari, autori di diversi titoli, tra saggistica e narrativa. . 🔸 Alle 16.30: appuntamento con Luca Sofri, direttore de il Post e scrittore, che ci parlerà della sua esperienza di giornalista, ma soprattutto del suo ultimo progetto editoriale "COSE Spiegate bene", rivista cartacea a forma di libro che raccoglie spiegazioni, storie, e racconti d’autore. . 🔹 Alle 18.00: letteratura senza compromessi: Roberto Citran legge Vitaliano Trevisan, attore, scrittore e drammaturgo recentemente scomparso. Seguirà l'intervista. ▶️Tutti gli incontri del festival sono gratuiti e a ingresso libero◀️ fino al raggiungimento della capienza massima. Info e programma completo su: 🔗 https://www.lsdfestival.com/ . . . ❤️ L.S.D. Festival è un progetto a cura di Annalisa Zilioli, Manuela Copercini, Alessandra Testi, Simona Cini, Fabrizio Cesario, in collaborazione con Ass. LOC - Libera Officina Culturale, realizzato con il sostegno e il contributo del Comune di Fidenza e di alcuni preziosi partner privati: Socoplus, Gas Sales Energia, Europool, Lineasicurezza, Marusi Edilizia Fidenza , Emc2 Onlus, Elettrimont srl, Ottica Angela, San Donnino Multiservizi Srl, Il Ghirigoro bottega, EmiliAmbiente Spa, Laura Capellini tattoo artist. (at Fidenza, Italy) https://www.instagram.com/p/CeCVNuWthnV/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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cinquecolonnemagazine · 3 years ago
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Intervista ad Assunta Sànzari Panza
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Assunta Panza Il poeta che andiamo ad intervistare è Assunta Sànzari Panza, nata a Castelvenere (BN) e residente in provincia di Avellino. Insegnante di scuola primaria, ha pubblicato testi poetici in «Fermenti» e in diversi siti letterarî. Assunta Panza, è membro della giuria del Premio Internazionale Prata, che si tiene nella Basilica Paleocristiana di Prata Principato Ultra e si articola in varie sezioni allo scopo di esaltare il mondo culturale, della comunicazione, della ricerca scientifica e dell’impegno civile e sociale. Come si è avvicinata alla poesia? Scrivere è sempre stato per me un bisogno primario, fin da bambina. Solo scrivendo riesco a capire le cose. Ho letto da qualche parte che, da un lato va affermando che “la forma è l’unica sostanza dell’arte”; dall’altro, che bisogna “sfondare il confine del verso”. A questo punto è lecito domandarle, che considerazione ha della ricerca poetica, della sperimentazione di nuove forme poetiche? Senza ricerca e sperimentazione perpetua non esiste poesia. La cui forma è sostanza se è vero, come è vero, che la parafrasi la distrugge. Riporto ancora una sua affermazione: «L’opera d’arte (in particolare la poesia) si compie, insomma, nell’interpretazione, in assenza della quale è completamente inerte». Può darci più nozioni? Il ruolo del lettore è determinante per il compimento dell’atto estetico. Si vorrà forse negare che ogni lettura scopra nuovi sensi? Ergo, l’opera resta muta se non viene accesa, vivificata dall’interprete. Se la poesia (o l’opera d’arte) si compie nell’interpretazione, che ruolo ha la critica? Un ruolo decisivo, come ho appena detto. Il critico è un superlettore che ha la capacità di scavare nell’opera per trarne significati inopinati, inauditi sovente anche per lo stesso artista. C’è stato qualcuno che deve ringraziare per averle dato, che so, dei consigli di come muoversi nel suo percorso artistico? Insomma, c’è un modello che ha seguito o che segue? Nessun modello. Sono un’accanita consumatrice di poesia da che ho memoria di me, ma ho sempre cercato di trovare la mia strada in maniera completamente autonoma. Devo molto a Gualberto Alvino, i cui consigli sono stati per me talmente preziosi da indurmi a modificare radicalmente la mia concezione della letteratura, come si evince dalla mia silloge poetica Lux. Nova et vetera, di imminente pubblicazione e prefata dallo stesso Alvino. La maggior parte di noi ha avuto come riferimento i propri genitori (tranne per quelli, sfortunatamente, che sono nati orfani, ovviamente), figure indispensabili per la nostra crescita. Quanto hanno contato (o continuano a contare) nella sua vita? I miei genitori hanno influito molto sulla mia crescita culturale. In particolare mio padre Antonio Panza, uomo di specchiata moralità e spiccato gusto estetico, per il quale la cultura rappresentava l’unico mezzo per affrontare le avversità della vita e, soprattutto, per risolvere ogni tipo di problematica personale e sociale. Essere stata figlia di un padre dedito alla politica, addirittura investito dalla carica di sindaco di una cittadina campana, le ha reso la vita più facile o conflittuale? Perché “facile” o perché “conflittuale? Né più facile né più conflittuale. Considero l’attività pubblica di mio padre (tuttora ricordato con rispetto dai nostri concittadini) una lezione di vita e di condotta morale. A proposito: qual è il suo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Ho svolto un’appassionata attività politica fino a qualche anno fa, quando mi resi conto degli scenari in cui versa una politica dilaniata e ormai priva di pathos. Seguendola anche su Facebook, riporto qui un suo post: «Non ti piacerebbe tornare indietro nel tempo e fare una passeggiata con tuo padre?». Quanto è stata importante per lei la figura paterna? La figura di mio padre è stata fondamentale nella mia vita. A distanza di 12 anni dalla sua scomparsa, lo ricordo ogni giorno con affetto e straziante nostalgia. Ci sono altri desiderî inespressi nella sua vita? Riuscire a condurre in porto i miei progetti letterari. Il nostro comune amico Gualberto Alvino afferma che la cultura non la dà la scuola. Siamo noi a costruircela. Perché la scuola è così sorda, così oziosa? Concordo con Alvino: la scuola non può offrire altro che input e spunti di ricerca; il resto spetta all’individuo. Che cos’è per lei l’amicizia? L’amicizia è importante perché può spesso avere una funzione salvifica. Ma, ahimè, è una delle cose più rare. Che cosa distingue l’uomo dal poeta? La capacità di ascoltare il rumore «dell’erba che cresce», come dice Ungaretti. Torniamo alla poesia. Cosa cerca nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base dei suoi intenti? La poesia è per me uno strumento di conoscenza. Lavoro sul confine tra arte come artificio e vita vissuta. Tutto quel che scrivo scaturisce dall’esperienza: i dati concreti e reali sono ovviamente trasfigurati. La mia poesia è sempre immagine in movimento, governata da un ritmo spezzato e mai prevedibile. La sua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Non direi. Ribadisco la mia tendenza a esplorare sempre nuovi territori espressivi: solo così è possibile comprendere la realtà che ci circonda. In letteratura si può incontrare l’amicizia, cioè fidarsi dei “colleghi”, o il poeta e lo scrittore sono destinati ad affrontare le problematiche in perenne solitudine? Non posso che sottoscrivere toto corde una massima di Antonio Pizzuto: «Ci si trova soli dinanzi alla scrittura, in perpetuo rischio ottativo». Un consiglio per i giovani che si apprestano ad entrare nel tortuoso mondo della scrittura creativa? Sono restia a dispensare consigli. Ma, visto che lei mi esorta a farlo, eccone uno: evitare il già detto, sia a livello tematico sia sul piano formale. Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica, o sempre le stesse facce (poche) alle presentazioni di libri o letture poetiche; troppe poesie tutte dello stesso tono. Insomma: sembra esplosa in piccoli clan, e non sempre collegati tra loro, neanche nella stessa città. Qual è la sua opinione in merito? Concordo con lei. Siamo circondati da pletore di impostori che spesso non distinguono un’assonanza da un rinoceronte. Per costoro l’attività “letteraria” non rappresenta altro che uno status symbol. Sembra che oggi la poesia non venga presa con la dovuta serietà, finendo per essere uno “spassatiempo”. Lei quanto prende sul serio la poesia? Reputo criminoso asserire che la poesia possa essere un passatempo. Per me è sempre stata un’attività irrinunciabile. Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costituiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Ha mai partecipato ad uno di essi e che opinione si è fatta, quale beneficio può arrecare un siffatto premio? Condivido il suo pessimismo: i premi letterari seri si contano sulle dita di una mano. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole (non tutte per fortuna) ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Ha riscontrato difficoltà editoriali durante il suo percorso poetico? Fortunatamente non ancora, ma so bene quale sia l’andazzo. Le hanno mai chiesto denaro per pubblicare? No, mai. C’è qualche editore non a pagamento che consiglierebbe a chi si appresta a pubblicare e qualcuno da tenere alla larga, specie se a pagamento? Non mi sono mai occupata della questione. È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Ha mai cercato di dare una spiegazione a questo fenomeno? Si è sempre letto molto poco, soprattutto dall’avvento della civiltà dell’immagine. Ma ho molta fiducia nei giovani, alcuni dei quali ‒ mi consta personalmente ‒ fanno della lettura un vero e proprio lavoro. Se dovesse paragonare la sua poesia a un poeta famoso, a chi la paragonerebbe e perché? Quale affinità elettive ci trova con la sua poesia? Saba, Penna e Caproni per la mia prima stagione; Sanguineti e Amelia Rosselli per la seconda. Ma, ripeto, non si tratta di modelli. Quando si è accorta che poteva fare la poeta? Non c’è un momento preciso in cui ci si accorge di poter poetare: per quanto mi concerne, si tratta di un’inclinazione naturale, che ovviamente dev’essere coltivata giorno dopo giorno. Cosa pensa dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? Tutto il male possibile. La carta ha un fascino ineguagliabile. Trova difficoltà con l’ambiente letterario in cui vive e che rapporto ha con i suoi colleghi campani? Nessuna difficoltà: i miei rapporti con gli scrittori della mia terra, l’Irpinia, sono sempre stati improntati a cordialità e stima reciproca. Quando non si occupa di poesia, di cosa si occupa? Studio e cerco di svolgere al meglio la mia professione d’insegnante. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che ha raccolto nel mondo letterario? Pubblicare in riviste prestigiose come «Fermenti», «Steve», «Arenaria» e «Malacoda». E quella ancora da venire? Devo essere sincera? Vedermi recensita sulla Treccani. Ha una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa? Insegnarla come si deve fin dalla scuola primaria. In conclusione: quali programmi ha in cantiere? Per ora sono totalmente concentrata sul mio libro, che uscirà tra breve per i tipi di Robin Editore. Read the full article
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fiorile-tatler · 5 years ago
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Attrito#02 Una piccola cosa piccola cosa politica Marco Bettio    a cura di Patti Campani
(…) Ma là dove il campo inciampa nel mandorlo, ecco, un animale è balzato da ieri a oggi attraverso le foglie. E noi ci fermiamo, al di fuori del mondo. Il fulmine, Yves Bonnefoy, da Ce qui fut sans lumière
Camminare, camminare e pensare, è una cosa che accomuna molti degli scrittori da me amati, da Walser a Bernhard, e non so dire con esattezza da dove sia nato il mio sentire come uno scorrere parallelo tra la pittura di Marco Bettio e la poesia di Bonnefoy. Forse le immagini ricorrenti legate alla natura, il loro apparire limpido e improvviso; o perché tra le parole in uno e le immagini nell’altro c’è come un’ aria, come un respiro sospeso. La parola in Bonnefoy quasi galleggia sulla soglia dell’invisibile,  così i personaggi di Marco Bettio si palesano sospesi su un fondo grigio così potente nella sua neutralità. Ogni visione, poi, è come chiusa nella propria unicità incisa in questa atmosfera rarefatta. Senza fretta. Il dispiegarsi delle cose. Lo scorrere della parola, lo scorrere delle immagini. Un rumore di passi, muoversi di vento, foglie e rami, figure improvvise come apparizioni. Tutto ha un’energia intensa, profonda, rispettosa. Ecco, forse è proprio qui il legame più stretto che mi appare: il rispetto che nasce dall’empatia con quanto ci circonda, dal profondo senso di appartenenza, di tutela garbata. E come una camminata è concepita Una piccola cosa politica, che prende il nome da una delle tele esposte: una capra nera che ha sulla sua groppa una piccola scimmia. Un accadimento inverosimile quello di incontrare una tale coppia, eppure lungo la mostra, attraverso paesaggi scabri, se ne palesano molti di questi equilibri improbabili. I paesaggi sono tappe necessarie, riferimenti provvisori da cui ripartire. Forse perché la natura non ha bisogno del pensiero, esiste al di là di questo.   L’attrito palese, cercato e dichiarato nei personaggi che animano questo teatro folle e razionale insieme, è come una responsabilità di cui farsi carico e che ci porta a considerare con sguardo ampio questi eventi inusuali, a pensare che possano trasformarsi in un’occasione nella quale trovare un nuovo equilibrio. In questo senso l’attrito è anche strumento del procedere, mezzo che trasforma la visione in intuizione e la scelta di questa differenza in non indifferenza, trasformandosi in Una piccola cosa politica. Patti Campani
Attrito#02
Una piccola cosa politica - Marco Bettio dal 26 ottobre 2019 al 25 gennaio 2020 Fiorile+Tatler via Rialto 29/2 Bologna info:  http://fiorile-tatler.tumblr.com  [email protected]
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tempi-dispari · 5 years ago
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'I poeti devono reinventarsi, cercare di non sentirsi una nicchia di eletti', parola dello scrittore Peter Genito
Autore poliedrico, giallista, poeta, uomo di cultura, Peter Genito in questa intervista a Tempi Dispari offre il suo punto di vista sullo stato di salute della poesia in Italia e ci parla dei progetti imminenti e prossimi venturi. Da non perdere
Intervista raccolta da Carmine Rubicco
1 – Una veloce presentazione per chi non ti conosce come scrittore
Genitori campani, piemontese di nascita e formazione, toscano per passione, salentino per amore. Bibliotecario, poeta e giallista.
2 – Da quella che è la tua esperienza, come è mutato il ruolo del poeta nel nostro tempo?
Lo sapevo questa domanda non potevi non farmela… Il ruolo del poeta è cambiato molto, moltissimo. I poeti oggi purtroppo, rispetto ai tempi di Pasolini sono umiliati da un potere arrogante e ignorante. Ma non per ciò sono sconfitti, i poeti li puoi uccidere ma non li puoi sconfiggere. Anzi vedo molta ricerca in giro. Soprattutto tra le nuove generazioni. Vedo a giro molti autori, artisti, narratori, intellettuali, poeti, pieni di rabbia e voglia di fare, incazzati e propositivi. “La speranza è un essere piumato che si posa sull’anima e canta melodie senza parole e non si ferma mai” scriveva Emily Dickinson.
3 – Che posto ha la poesia nella vita di oggi, se ha ancora posto?
Ha ancora posto, ed è un posto privilegiato. Poco visibile ma di immenso potenziale. Sta dentro il cuore delle persone più semplici e oneste, la poesia. Non sta certo nei libri di poesia, la poesia. La poesia sta tornando all’oralità, e non è un ciclo o una tendenza, ma per non morire, le parole scritte dovranno tornare a essere dette, lette, anche gridate, volendo. I poeti sono oggi più vivi che mai, e i festival di poesia, i reading, gli happenings e i recital, che pullulano a ogni dove, testimoniano questa efferveescenza. Anche le biblioteche, per il lavoro che faccio, sono un ottimo posto per far vivere la poesia. Le biblioteche sono la casa dei poeti, e la poesia è di casa in biblioteca. Biblioteca non soltanto come archivio, o polverosi scaffali o palchetti con sopra libri morti di carta stanca, ma come luogo vivo, anche metaforico, del “fare” che è poi, etimologicamente, la poesia. Attraverso la mia partecipazione diretta, per esempio ai poetry slam, oppure in quelli che organizzo in biblioteca, la poesia pulsa nel cuore della società.
4 – Esistono secondo te formule espressive che possono affiancare, non dico sostituire, la poesia oggi?
Il cinema? Certi registi sono poeti più poeti dei poeti stessi, e penso a Pasolini, Olmi, a Antonioni, Fellini. Ma anche a Zeffirelli, R.I.P.
5 – Ha senso scrivere poesie e di poesia oggi o è troppo cambiata la sensibilità? O la poesia è immortale in quanto arte?
Ha senso; oggi più di ieri, ma i critici (se è a loro che allude la domanda) dovrebbero evitare l’ autoreferenzialità, la superfetazione retorica e lo sfoggio accademico. La poesia è immortale, ma è un flusso, quindi bisogna immergersi in essa, e tener presente che la modalità di comunicazione oggi è reticolare. Quindi non è più l’epoca dei salotti e delle conventicole, dei chiostri chiusi e asfittici. E pure delle presentazioni noiose (e magari a pagamento!) dove intervengono, se va bene, i parenti stretti dell’autore che sta lì a parlare del proprio ombelico bellissimo. Le poesie per me devono saper suscitare immagini e sogni, e la concorrenza di altri linguaggi è forte, soprattutto il cinema e la musica. I poeti, “laureati” o no devono reinventarsi, cercare di non sentirsi una nicchia di eletti, scendere dal loro secolare piedestallo.
6 – Scrittori contemporanei che segui
Magris, fin dai tempi del ginnasio, e poi De Giovanni, Carofiglio, Lucarelli; ma anche molto i saggisti alla Buttafuoco. Tra gli stranieri ho una vera adorazione per Murakami.
7 – Uno scrittore sottovalutato e uno troppo sopravvalutato
Peter Genito. Roberto Saviano.
8 – Le tue opere, scelta o necessità?
Istinto e cesello. Voglia di dire qualcosa anche senza aver qualcosa da dire, parafrasando il buon Cioran. Passione e volontà. Potenza e rappresentazione.
9 – I tuoi prossimi passi dove ti porteranno?
A New York o San Francisco, spero. Senza scherzi… Sto per pubblicare con l’editore Tracce una seconda raccolta di poesie. Spero anche di trovare un finale per il sequel di Lecce Homo. E poi insieme a un certo editore sto valutando di farne una trilogia, che possa tendenzialmente diventare una serie televisiva. Oronzo Mazzotta mi dicono sia un commissario parecchio fotogenico (anzi fotogenito). La nuova frontiera della narrativa è la serialità. Ma questa intervista è sulla poesia giusto?
10 – Quanto di Peter di oggi e quanto di Peter del passato c’è nelle tue opere
Moltissimo di quello del passato c’è nel giallo Lecce Homo. Il poeta, leopardianamente, parla sempre di sé… Anche quando non lo dice o non lo vorrebbe. Nelle poesie della mia prima raccolta Dal buio al cuore, moltissima della mia ispirazione viene dai luoghi, il dato geografico, dato il mio nomadismo, è centrale.Oggi la mia poetica sta trasformandosi, dal bagliore della neve, alla luce del mare del salento.
11 – un messaggio per chi legge.
Leggete di più e meglio. Leggere apre la mente e fa battere il cuore.
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sciscianonotizie · 6 years ago
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pangeanews · 5 years ago
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“Stiamo scomparendo, ci hanno rubato l’immaginario, dobbiamo ritrovare lo stupore, oltre l’apocalisse”: Matteo Meschiari dialoga con Simone Cerlini
Un fantasma si aggira per l’Europa. Un’entità mutaforma millenaria che oggi ha il volto dell’Annientamento, dell’Apocalisse, dell’Estinzione, sotto alla maschera del collasso climatico. Si è chiamata Tramonto dell’Occidente, Genocidio, si è mostrata, nuda, con l’annichilimento nucleare, ma in fin dei conti la conosciamo da sempre: la Dea con la Falce, nostra compagna Morte. L’opera d’arte da sempre ha che fare con la sua signora e la letteratura non sfugge a questo destino. Matteo Meschiari è un profeta della morte. La canta nelle forme in cui l’ha vista compiersi. La morte del paesaggio, la morte dei popoli, la morte dei saperi, degli imperi, delle culture, delle lingue. Come l’Angelo della Storia di Benjamin, lo sguardo rivolto al passato, ha avuto un’intuizione del futuro. Ha deciso di dare uno sguardo, Orfeo al contrario, e di sbirciare avanti. Ha visto ciò che non si può raccontare. La sua opera mette al centro l’Abisso. Senza paura di caderci dentro, sono andato a curiosare.
Mi permetto una piccola digressione. Per aggiungere senso a Matteo Meschiari e al suo romanzo, L’ora del mondo (Hacca, 2019), è importante gettare uno sguardo alle sue origini. Matteo è un emiliano d’Appennino e delle montagne parla, come hanno fatto autori meravigliosi prima di lui: Cavani, Pederiali, Maggiani, Crovi, Ferretti, oggi mi piace citare Sandro Campani. È importante ricordarlo perché chi non conosce l’Appennino non sa che quelle lande, soprattutto nel lembo di terra Tosco Emiliano, sono la culla dell’anarchia. Non so bene per quale ragione storica o geopolitica, ma lì ancora oggi unisce le persone una fortissima avversione per i poteri costituiti, per le autorità, per le verità condivise. Ai piedi del Cimone o del Cusna ti insegnano dalla culla a non dar nulla per scontato, a pensare con la tua testa, a non affidarti a nessun maestro e nessuna guida, a mettere tutto in discussione. A guardare il mondo dritto negli occhi e a darsi da sé le regole del proprio vivere. Tenete in considerazione questo assunto, quando leggete e ascoltate un emiliano, o un toscano, che puzza di montagna.
Ciao Matteo, vorrei andare subito al punto, con te, non ci rimane molto tempo. Abbiamo raggiunto un punto di non ritorno. L’essere umano è disposto ad aspettare fino a quando arriva il tempo dell’annientamento e dell’apocalisse. Sembra che ci avviciniamo alla soglia.
L’abbiamo superata. Ormai è troppo tardi. Ascoltami, non ci rimane che rafforzare l’immaginario per preparare i nostri figli a sopravvivere. L’immaginario è una facoltà cognitiva che l’evoluzione ha selezionato per anticipare il futuro. Per addestrarci a seguire le tracce lasciate dalle prede, per sperimentare le tecniche e le situazioni senza mettere a rischio la vita. È una facoltà che permette di razionalizzare il sogno, pianificare il domani. Le cose andranno molto molto male, voglio essere realista. Allora dobbiamo lavorare sull’immaginario attraverso gli strumenti che gli sono propri: ad esempio la letteratura, che ci può aiutare a stimolare e ad addestrare l’immaginario, a prefigurare condizioni estreme. Potenziare l’immaginario sarà una condizione essenziale per la sopravvivenza. L’umanità è sempre stata capace di affrontare momenti durissimi attraverso l’immaginario. Un immaginario assuefatto, stereotipato, atrofizzato è quello che ci rende meno reattivi di fronte al limite e alle difficoltà. Vivere immersi nell’anestesia è la condizione che prepara alla morte del singolo e della specie. Dobbiamo ribellarci all’imperialismo dell’anestesia, con l’unico obiettivo di facilitare la sopravvivenza.
Ma voglio fingere di essere ottimista. Se anche avessimo probabilità di continuare a esistere per ciò che siamo ora, ugualmente, esercitare l’immaginario da subito su degli scenari che sembrano iperbolici e distopici, ma che sono probabili, forse riusciamo a inventare strategie per intervenire. Per ridurre il danno forse siamo in tempo. Un esempio molto semplice. Ci sono due personaggi che hanno inventato un nuovo rubinetto con nebulizzatore capace di risparmiare il novanta per cento di acqua. Se non avessero immaginato un futuro senz’acqua non avrebbero inventato il rubinetto. C’è una capacità retroattiva nell’immaginare il futuro che può avere ricadute sul presente in maniera tale da aiutarci ad affrontare ciò che ci aspetta con maggiori strumenti e capacità. È esattamente questa la funzione cognitiva, evoluzionistica, dell’immaginario.
Bene, mi sembra un programma per una letteratura impegnata. O ancora di più, per assegnare un fine necessario a ogni creazione che ha impatto sull’immaginario. La storia però insegna che laddove una qualsiasi autorità ha deciso di assegnare un obiettivo o una intenzione alla letteratura, alla costruzione di senso, non abbiamo avuto grandi risultati. Della letteratura di epoca sovietica ci ricordiamo di Šalamov e di Grossman, che esprimevano tutt’altro rispetto a ciò che chiedeva il potere. La cultura dell’epoca fascista ha creato scrittori straordinari, penso a Bilenchi, ma che hanno espresso il loro talento nonostante la propaganda di regime. Ciò che chiedeva e voleva il Miniculpop non ce lo ricordiamo più, quella parte è scomparsa, si è esaurita, era una costruzione senza fondamenta. Com’è possibile la coesistenza di una letteratura che ha una intenzione encomiabile, rafforzare e preparare l’immaginario, rispetto al rischio di una letteratura inessenziale, etero diretta, non libera?
Conosci il progetto Tina?
No.
Male. Dovresti. Per fare il verso a Volodine, devo subito citare il mio “eteronimo”, Antonio Vena, che in realtà è un individuo reale. Con lui abbiamo inventato e condiviso un progetto. Abbiamo montato un blog nel giugno di quest’anno che si chiama “La Grande Estinzione” in cui vogliamo ragionare su due aspetti fondamentali. Il primo è che cosa fare della e con la letteratura nell’età dell’“Antropocene”. Cosa significa scrivere ed essere autori in un’epoca dove tutto sta cambiando. Poi cercare di capire come trasformare la società, quale società dobbiamo fondare perché la sopravvivenza nel futuro non sia un fatto esclusivo per pochi. Abbiamo montato un esperimento, che per ora, visto che non si tratta di una situazione dove ci sono soldi in giro, è inclusivo e lascia ampi margini di libertà. Abbiamo chiamato questo progetto Tina, che è l’acronimo di There is no alternative, lo slogan degli anni Ottanta di Margaret Tatcher con il quale sosteneva che non c’era alternativa al liberismo. Noi vogliamo ribaltare questo assunto per dire che non c’è alternativa se rimaniamo nello spazio di senso aperto dal liberismo. Abbiamo chiamato il progetto Tina per evocare un passato che vogliamo rovesciare, ma anche come tributo a una ragazzina indigena del Canada uccisa nel 2014, Tina Fontaine. Nel Canada ogni anno scompaiono donne, bambini e bambine nativi, rapiti e ammazzati: un vero e proprio genocidio etnicamente connotato. Una ragazzina che è esistita, che ha vissuto ed è morta a quindici anni e non ha più una voce. In punta di piedi ci piaceva pensare che vogliamo ridare voce a chi non ce l’ha. La prospettiva ce l’ha indicata Walter Benjamin quando diceva in Angelus Novus che l’angelo della storia guarda all’indietro le rovine del passato voltando le spalle al futuro. L’Apocalisse non dobbiamo necessariamente immaginarla come qualcosa che ci sta davanti. Ci sono tante retro-apocalissi che l’umanità ha vissuto nel suo passato. Con un esercizio di reminescenza nell’immaginario, vogliamo recuperare tutto ciò che nel passato dell’umanità ci può far capire meglio il presente. Quindi più che fare giochi di proiezione sul futuro vogliamo guardare dove l’umanità ha vissuto reali apocalissi e ha rischiato o vissuto l’estinzione. Se non l’intera umanità certamente gruppi umani, popolazioni, culture e individui, in una qualche parte della terra, che avevano corpo occhi pelle sogni, scomparsi perché è accaduto qualcosa di catastrofico che non sono stati capaci di prevenire o affrontare. Abbiamo stilato una lista di 100 eventi che costellano la storia delle estinzioni biologiche e umane e abbiamo chiesto agli utenti della rete di re-immaginare queste situazioni, dando corpo e sostanza alle persone e alle storie, per costruire dei microromanzi tra le 1000 e le 3000 battute. Abbiamo avuto una risposta stupefacente. In due giorni i temi sono stati subito coperti, non da scrittori, necessariamente, ma da persone che avevano voglia di dare il loro contributo, di mettere in gioco il loro immaginario. Il 15 ottobre scorso abbiamo chiuso la raccolta e oggi abbiamo i testi. Li stiamo guardando e studiando, siamo stupiti dal livello, sì, se vogliamo, anche letterario. È un progetto che espressamente mantiene una dimensione collettiva, hanno partecipato più di 70 “scriventi”. Abbiamo lasciato la massima libertà e quello che abbiamo raccolto è secondo noi un modo per restaurare l’immaginario e al tempo stesso fondarne uno nuovo, lasciando completa libertà di proposta e contributo. Tina ci ha permesso di sviluppare una riflessione che ci porta a ripensare la letteratura partendo dalla base.
Bell’esperimento, concordo, ma cosa c’entra con il rischio di imprigionare la creazione con la scusa dell’impegno? Che legame c’è tra Tina e il rischio di una letteratura schiava e superflua? D’altra parte anche il progetto di cui parli impone un contenuto alla creazione.
Noi oggi pensiamo la letteratura partendo dalle biblioteche, dal mondo del libro, dall’editoria, dal canone, dal rispetto di un insieme di regole. Il mercato editoriale, l’industria culturale condiziona il modo di concepire la funzione stessa della letteratura. Se però noi iniziamo ad ascoltare anche le persone che non hanno la possibilità e neppure la volontà di imporsi in quel mercato, le persone che non hanno voce all’interno del sistema dell’industria culturale, è possibile lavorare sull’immaginario dalla base. Con il progetto Tina stiamo cercando di fare proprio questo. Ritrovare lo stupore davanti a idee, scenari, rivelazioni che possono venire dal buio che sta oltre o al di qua del nostro sguardo. Si tratta di riaprire i cancelli, estremamente chiusi. Siamo dentro a una bolla e non ce ne accorgiamo. Siamo sì e no tremila in tutta Italia che facciamo gli stessi discorsi e ci parliamo addosso. Ci guardiamo, ci spiamo su Facebook, guardiamo le uscite editoriali, siamo inseriti all’interno di un micromondo chiuso e autoreferenziale. Là fuori invece c’è un grande mondo che immagina. Fatto da persone che premono ai cancelli. Sono loro che possono portare energia nuova e trovare piste nuove per andare in direzioni diverse.
A parlar male del liberismo con me cadi male. Parli di aprire i cancelli alla libertà di espressione in uno spazio pubblico, poi però ci vogliono anche quelli che quelle espressioni le fruiscano, le leggano. Magari talmente tanto attratte da quelle voci che sono addirittura disposte a pagare per ascoltarle. L’immaginario si sostanzia in scelte di quella che tu hai chiamato gente, che sono i lettori, i consumatori di prodotti culturali. Ciò che il pubblico sceglie è comunque una indicazione precisa, una certa tipologia di prodotto e di storie. Saranno anche decadenti epigoni del romanzo borghese, ma che qualche bisogno o desiderio devono pur soddisfare se hanno quel seguito. In realtà la cartina di tornasole che io ho rispetto all’immaginario è un’ altra rispetto a quello che presumi tu.
Sì, bisogna vedere che cosa intendiamo come immaginario. Anche tu devi convenire che c’è stata l’imposizione di un canone, soprattutto da parte dell’editoria italiana, e dai tecnici dell’editoria, che ti dicono non solo che devi scrivere in un certo modo, ma anche che devi scrivere certe cose. Quando questo accade siamo di fronte a un immaginario artefatto, pilotato. Però non esiste solo questo. Quando parlo di immaginario parlo anche di altre possibilità di creazione, dalle serie tv ai fumetti, ai graphic novel, ai murales, ai blog, alle fan fiction, e quello che pensa la gente nel proprio quotidiano anche quando non lo esprime. Persone che non leggono, disinteressati a Scurati, Missiroli o Fabio Volo, lontanissimi dai libri e dai prodotti culturali. Quella produzione non è interessante né per loro né per noi. Esiste una costruzione collettiva molto più profonda e se andiamo a verificarla senza giudicare, con sguardo veramente antropologico, troviamo delle sorprese, un mondo vivo, molto meno piatto e noioso di quanto pensiamo.
Penso che tutto sommato la letteratura, anche la letteratura essenziale, sia ciò che i lettori considerano essere letteratura essenziale, senza avere una definizione a priori che cala dall’alto per dare forma al suo oggetto. La proposta che tu fai può essere una letteratura incrociata all’antropologia e forse anche alla storia, come la intendeva Carlo Ginzburg. Può essere una proposta tra le altre. Poi, se quell’offerta è convincente le persone si sposteranno autonomamente, per scelta libera, senza bisogno di crociate, imposizioni o pogrom della cattiva letteratura.
Quello che vedo, che sta succedendo negli ultimi mesi, è che io prima mi trovavo in un mondo dove l’individualismo neoliberista narcisistico dello scrittore medio…
E dai con questo giudizio surrettizio, per te neoliberista è un sinonimo di malvagio e negativo.
Sì, lo è. Comunque, riformulo. Lo scrittore medio si occupava solo di pubblicare il proprio romanzo, di dialogare con una casa editrice, di arrivare alla visibilità personale, di conservare il privilegio, di procurarsi il proprio spazio, come se fosse un posto di lavoro fisso all’interno del mondo del libro. Quest’atteggiamento si sta lentamente incrinando. Ultimamente inizio a vedere piccole comunità estemporanee che stanche di questo modello stanno costruendo qualcosa di diverso. Uno spazio di condivisione e confronto non solo di idee ma anche di immagini, di storie, di visioni. Stiamo solo cercando i contenitori, perché come hai visto con Tina, le scatole si riempiono da sole, sono la risposta a un bisogno sentito. Perché siamo stanchi da tempo, anche se non abbiamo il coraggio di costruire una specie di sindacato di lettori e scrittori per reagire a questo stato di cose. Un senso di stanchezza nei confronti di un modo di fare letteratura, del modello dell’autore vanaglorioso che se ne va a collezionare premi. Poi l’altro elemento è la scelta dei contenuti, perché se continuiamo a fare romanzi di corna e vecchi o preti che toccano il culo alle ragazze o ai bambini, non andiamo molto lontano, anche se magari questi libri continuano a vendere. Ma sempre meno, sempre meno. C’è anche un altro tipo di lettori e ascoltatori, non per forza ipercolti, che però hanno una forte volontà di reagire. Percepisco una microcomunità temporanea che si è creata con queste istanze condivise.
Mi sembra che tu confonda per fenomeno culturale, forse anzi esistenziale o peggio ontologico, quello che a me sembra una strategia commerciale.
Massì c’è sicuramente anche questo, la capacità dell’industria di mercificare ogni esperienza nuova. Una soluzione è sterilizzare la portata narcisistica dell’esprimersi. Anche su Facebook mi faccio bello con i contenuti che posto. Trovo lettori e un pubblico. Ho i miei minuti di celebrità. Benissimo. Ma non sto parlando di questo. È possibile accedere a un immaginario profondo. Ecco, consideriamo l’esperienza di Tina come un esperimento. Rispetto al rischio che dici il progetto è blindato. Le condizioni sperimentali sono l’anonimato, l’azzeramento del rischio narcisistico. Tutti coloro che collaborano sanno che il loro contributo non sarà etichettato con il loro nome e cognome. Tina produce un’opera collettiva. Avremo semplicemente una lista di chi ha contribuito in ordine alfabetico alla fine del libro. Significa che si sono già autoselezionate persone non interessate ad apparire e ad esprimersi, o almeno, non voglio sembrare ingenuo, non interessate esclusivamente o principalmente a esprimere sé stessi o a esistere in uno spazio pubblico. Persone che si chiamano fuori rispetto al narcisismo e all’arrivismo che esiste in questo ambiente, dell’autore monade. Non è una cosa nuova, la narrazione come contributo di una comunità ha radici lontanissime, pensiamo ai grandi libri dell’epoca antica, dalla Bibbia all’Iliade e all’Odissea, al Enûma Elish. Andiamo verso l’ignoto, dando le spalle al futuro, guardando al passato e allontanandoci da esso. O anche, è dal passato più lontano che possiamo trovare gli strumenti cognitivi e letterari per affrontare il futuro.
E dall’immaginario che prefigura il futuro.
E dall’immaginario.
Sì va bene, allora guardiamo al passato, ma senza andare troppo in là, al passato recente. In tutta onestà mi sembra retorico parlare di questa novità nell’immaginario che prefigura l’apocalisse perché penso che non sia affatto un fenomeno nuovo. Non serve scomodare il millenarismo o i movimenti chiliastici di tutte le epoche e di molte culture. Penso agli anni Sessanta e Settanta e all’apocalisse atomica. Che ha prodotto eccome impatto sull’immaginario. In un modo del tutto simile a quanto sta accadendo oggi. Fenomeni di massa, giovani in piazza, accuse di furto del futuro, avvicinamento a una spiritualità di maniera, scenari apocalittici da Mad Max o The day after. Scenari di sopravvivenza dopo la catastrofe nucleare. Anche il guardare alla cultura di altri popoli non è un fatto nuovo. In quell’epoca era la ricerca di una alternativa non liberista e non sovietica, lontana cioè da quei corni del dilemma che conducevano entrambi all’annientamento. Mi viene in mente quell’opera geniale e decadente, che credo sia molto vicina a quello che immagini diventi l’ossessione dell’apocalisse nella cultura pop che è Watchman, la graphic Novel di Alan Moore.
Stai facendo un torto alla tua intelligenza se non vedi la differenza. Sono cambiate le premesse in modo radicale. Quel tipo di immaginario era una risposta alla guerra fredda, alla catastrofe atomica. Ma stai attento: quel rischio era generato da un manipolo di pazzi che come nel Dott. Stranamore se ne stavano in un bunker antiatomico a decidere i destini del mondo con il dito sopra al bottone fatale e che in una follia momentanea potevano fare fuori l’umanità. Fuor di metafora a una élite di potere, all’establishment politico e militare. Il rischio non ci coinvolgeva. C’era una completa deresponsabilizzazione della gente. I cattivi erano “loro”. Quello che accade oggi, invece, e che scatena così tanto i contrasti, il dibattito, le polemiche e le prese di posizione, in definitiva, la vitalità nuova di questa consapevolezza, è che siamo tutti noi i primi colpevoli di questa situazione. Magari ci può essere come reazione una negazione, una difesa inconscia di chi non si vuole sentire responsabile o vuole scongiurare la paura di un futuro fosco. Ma quel che accade è che c’è un’idea di responsabilità diffusa che può essere un terreno fertile per riscoprire alternative soprattutto attraverso soluzioni comunitarie.
Quindi non è vero che ci stanno rubando il futuro, ce lo stiamo rubando da soli.
Sì sono d’accordo. Un lavoro da portare a termine sull’immaginario è proprio l’interiorizzazione della responsabilità. Certamente c’è ancora molto da fare.
Responsabilità è una parola che, da padri, amiamo molto. Non vorrei metterti in bocca parole e pensieri non tuoi, ma mi sembra che anche tu condividi una posizione critica nei confronti della retorica sulla decrescita felice. Mi sembra di intuire, costante, nella tua opera, in particolare in Artico Nero, una presa di posizione forte dietro ad alternative al neoliberismo che sono a tutti gli effetti figlie di una cultura classista e neocolonialista. Per mascherare un disagio che ha altre cause ed altre ragioni ci si schiera contro a un modello di sviluppo, proponendo soluzioni che costringono intere parti di mondo a dire addio alla speranza di un miglioramento, alla possibilità di accedere alla società del benessere. 
Sì, hai interpretato correttamente il mio pensiero, nel senso che Serge Latouche mi sembra una persona intelligente e mi sta anche umanamente simpatico, tuttavia credo che il suo discorso sia impraticabile, tanto quanto un’altra soluzione che si riassume in una parola in voga che è sostenibilità. Si tratta di una prospettiva non solo evidentemente antropocentrica, ma di classe, che riguarda quello che può essere un tipo di intervento dell’europeo bianco che si confronta in una dinamica di lavaggio o meglio di doccia della coscienza e non con proposte politiche davvero efficaci. Il fatto che il re sia nudo lo ha già detto Zizek quando ci ricorda che andare in bicicletta e fare la differenziata non salverà il pianeta.
Non solo, credo anche che fermare la crescita significhi impedire alle comunità che hanno più difficoltà di accedere a ciò che riteniamo tra gli elementi basilari per la sopravvivenza e la dignità dell’uomo. La mobilità, l’energia elettrica, la disponibilità di acqua.
Non solo, ma queste nuove mitologie, non sto parlando di Latouche, ma soprattutto della variante americana, sono molto californiane nella prospettiva: è l’idea che si salverà solo una classe molto limitata. Non è un caso che a questo tipo di progetto, di ingegneria sociale, si stia dando un sostrato nell’immaginario collettivo attraverso la narrativa zombie. Lo Zombie è il proletario, il povero che posso ammazzare, sterminare a mitraglia, che posso infischiarmene se muore. Invece i sopravviventi, coloro che ce la fanno, si chiudono in una ecofortezza che lascia fuori l’agonia e la miseria degli altri.
Mi sembra il progetto politico di una celebre società di comunicazione di Milano…
Questo tipo di retorica viene recepita, e passa nell’immaginario di tutti attraverso letteratura, cinema e videogame. È in atto una guerra per accaparrarsi il controllo dell’immaginario, che per ora è combattuta da una parte sola. Stanno vincendo visioni non inclusive, è sotto gli occhi di tutti: l’idea che se ne salveranno soltanto alcuni. La vera sfida è riflettere e lavorare per individuare una strategia utile per salvarci tutti.
Lavorare sull’immaginario, poi, possiamo essere d’accordo o meno su come farlo, può portare a soluzioni. In questo discorso c’è un disegno di lavoro, di sforzo, di impegno, per far qualcosa di proattivo. Non tirarsi indietro e protestare, ma agire sul mondo.
È un discorso delicato. Provo una spontanea simpatia in effetti per i movimenti di strada che comunque hanno un effetto moltiplicatore: stanno sollevando il problema e creando un volano nella percezione pubblica del fenomeno, al netto dei paternalismi che vorrebbero cucire la bocca alla generazione dei più giovani. Però c’è anche da dire che in questo tipo di movimento c’è la necessità di costruire un immaginario delle soluzioni, non soltanto un immaginario della denuncia.
E L’ora del mondo può contribuire a costruire qualcosa di nuovo.
L’ora del mondo è un libro strano perché all’inizio è stato preso come il tentativo di costruire una mitologia appeninica, una nuova mitologia dell’Appennino o qualcosa di fiabesco e bucolico. In realtà L’ora del mondo funziona come una fotografia di Luigi Ghirri. Guardi una sua fotografia e quella ti rimanda una sensazione malinconica, tranquilla, crepuscolare, non aggressiva. Ma Ghirri stava preparando visioni apocalittiche. Pensa a queste spiagge fuori stagione, con le giostre colorate, le altalene nell’atmosfera invernale della riviera romagnola. Non ci sono bambini, non c’è nessuno. Vediamo i resti di una civiltà scomparsa. Pensa ai Campanili e alle Chiese. Alla linea brumosa della pianura. Si tratta della realtà senza l’uomo. Una realtà post-umana. Volevo cercare di intercettare questa sensazione. In ossequio anche all’Appennino. Ghirri mi ha dato lo sguardo per interpretare la nostra terra, come Gino Covili. La sua forza è questa: costruisce una sottile lastra di ghiaccio che sembra innocua, ma sotto c’è l’abisso. L’ora del mondo è un libro apocalittico. Parla della fine del mondo. L’ora del titolo è quella in cui saremo chiamati a rendere conto di tutto quello che abbiamo fatto, non come singoli ma come specie. Se vogliamo comunicare il rischio dell’annientamento nel romanzo non dobbiamo per forza costruire libri con catastrofi dentro. Si può concepire una rappresentazione dell’Apocalisse che attraverso una ricostruzione del cosmo faccia intendere che siamo vicini al punto di non ritorno.
Simone Cerlini
L'articolo “Stiamo scomparendo, ci hanno rubato l’immaginario, dobbiamo ritrovare lo stupore, oltre l’apocalisse”: Matteo Meschiari dialoga con Simone Cerlini proviene da Pangea.
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retegenova · 5 years ago
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MARTEDì 2 LUGLIO 2019 ALLA FELTRINELLI DI GENOVA PRESENTAZIONE DEL LIBRO “ITALIAN WAY OK COOKING – PIZZA MOSTRI E MANDOLINO”: MALAVITA E MOSTRI RACCONTATI CON UN SORRISO SATIRICO
Dopo il successo del primo romanzo, lo scrittore genovese Marco Cardone presenta il nuovo lavoro ambientato a Napoli tra fantasy, mostri e Camorra
  Genova. Martedì 2 luglio, alle ore 18, alla libreria Feltrinelli (via Ceccardi, 18/24r) è in programma la presentazione del romanzo “Italian way ok cooking – Pizza, mostri e mandolino” di Marco Cardone, sequel del primo libro “Italian way of cooking” della casa editrice Acheron Books. Il primo volume è stato un vero caso letterario nell’ambiente del fantastico. 
  Con questo nuovo romanzo, lo scrittore genovese continua a raccontare le avventure del cuoco toscano cucina-mostri Nero Bonelli, questa volta a Napoli alle prese con una città piena di fascino, storia e sole, ma flagellata da una sanguinosa guerra di Camorra. Qui, con la classica ironia che contraddistingue i suoi romanzi, Cardone racconta il retrogusto amaro di una città splendida, ma allo stesso tempo misteriosa e oscura come Napoli. «Si tratta di un romanzo che mischia diversi generi ed elementi – spiega l’autore Marco Cardone – Credo che la bellezza e, allo stesso tempo, la difficoltà sia proprio questa: dosare alla perfezione tutti gli ingredienti – il fantasy, il thriller, l’ironia, la cronaca – e raccontare una tematica così delicata e importante come la Camorra senza cadere nel grottesco. L’alchimia è tutto, proprio come in una ricetta culinaria».
  Presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino, il romanzo è il sequel dell’acclamato “Italian way of cooking”, pubblicato nel 2016 e divenuto un caso letterario per le sue tinte fantasy e pulp unite a elementi ironici e culinari. Arrivato nella cinquina finalista del Premio Carver Italia 2016, il romanzo è stato uno dei libri più recensiti di quell’anno. Oggi è considerato un long seller, le cui vendite aumentano di anno in anno; un fenomeno in continua ascesa che potrebbe presto trasformare il romanzo nella sceneggiatura di un film.
  Con “Italian way of cooking – Pizza, mostri e mandolino”, Cardone si conferma un esponente di rilievo del “fantastico italiano”, un genere ben radicato in Italia, ma spesso sottovalutato. «Come il suo prequel, anche questo romanzo appartiene al fantastico italiano – continua Cardone – si tratta di un genere che in Italia spesso viene considerato cadetto. In realtà, però, fa parte della nostra tradizione, basta pensare a Collodi, Boccaccio e Calvino. Con questo romanzo, il mio obiettivo è quello di contribuire a rilanciare questo genere letterario, considerato da molti incapace di trattare tematiche importanti, ricordando nel mio piccolo che il fantastico è da sempre il veicolo per parlare d’importanti realtà umane, come i lavori di grandi autori quali Kafka, Calvino e Matheson, solo per citarne alcuni, stanno a testimoniare».
  Lungo quasi il doppio del precedente, “Italian way of cooking – Pizza, mostri e mandolino” dosa perfettamente al suo interno diversi ingredienti: dall’enogastronomia al thriller, dal fantasy alla commedia, dal pulp alla cronaca cittadina. Ambientato a Napoli, alterna il vernacolo toscano tipico del protagonista alla lingua napoletana, limata e curata al fine di renderla comprensibile a tutti i lettori. Come il primo romanzo, racconta le avventure del “monsterchef” Nero, questa volta impegnato insieme al socio Mirco nella preparazione di un banchetto nuziale a Napoli. Città che darà loro del filo da torcere, nella quale i mostri non saranno la cosa peggiore da affrontare. «Anche in questo romanzo racconto le vicende dello chef cucina-mostri Nero – racconta Cardone – Torneranno anche i mostri, reali e metaforici, in particolare una creatura ispirata a IT di Stephen King, un omaggio a uno dei più grandi scrittori dei generi fantasy e horror e grande indagatore dell’anima umana. In realtà, il mostro più grande è la Camorra, raccontata utilizzando il fantastico come trampolino per affrontare problemi e situazioni reali in chiave metaforica. Fra misteri, sparatorie, piatti tipici, spiriti campani, amanti gelose, cantanti neomelodici e cacce a orrori senza tempo, i due cuochi scivoleranno in un vortice in cui sarà impossibile stabilire chi sia il cacciatore e chi la preda».
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ALLA FELTRINELLI DI GENOVA PRESENTAZIONE DEL LIBRO “ITALIAN WAY OK COOKING – PIZZA MOSTRI E MANDOLINO”: MALAVITA E MOSTRI RACCONTATI CON UN SORRISO SATIRICO MARTEDì 2 LUGLIO 2019 ALLA FELTRINELLI DI GENOVA PRESENTAZIONE DEL LIBRO “ITALIAN WAY OK COOKING - PIZZA MOSTRI E MANDOLINO”: MALAVITA E MOSTRI RACCONTATI CON UN SORRISO SATIRICO …
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maredinchiostro · 8 years ago
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patti-campani · 7 years ago
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Prospettiva Nomade #03 DI TUTTO RESTA UN POCO Dario Coletti e Luca Coser e un racconto di Gianluca Morozzi a cura di Patti Campani “Di tutto resta un poco. Non molto: da un rubinetto stilla questa goccia assurda, metà sale e metà alcool, salta questa zampa di rana, questo vetro di orologio rotto in mille speranze, questo collo di cigno, questo segreto infantile…” - da Residuo, Carlos Drummond  de Andrade Le cose accadono in un tempo che è reale. Ma il tempo individuale spesso non coincide con questo; esiste  uno scarto tra l’uno e l’altro, una sorta di extrasistole, un fuori tempo dettato da mille diversi  stimoli. Un sine materia o realtà invisibile che appartiene, differente, a ognuno di noi e che ci conduce a percepire un evento in più direzioni, anche temporali, convergendo in qualcosa che gli è simile ma non uguale. Perché in ogni  punto di ogni singola storia, o di ogni singola vita se preferite, Di tutto resta un poco. Ed è questo residuo, diventato improvvisamente materia viva, che  inceppa il meccanismo:  sovrappone immagini, suoni, riporta, nasconde, distorce, ci acceca o finalmente ci illumina uno spazio possibile che fino a poco prima era ancora inespresso. Ci rivela qualcosa che già c’era ma che non conoscevamo. Di  questo plurale  ed enigmatico prolungamento  di senso  ci narrano le opere di Dario Coletti e di  Luca Coser, così come  il racconto di Gianluca Morozzi. Di tutto resta un poco -  frammenti  che si ricompongono dettando microstorie, riscritture, eventi declinati nelle loro  potenzialità rimaste inespresse, in attesa. Dario Coletti  “Prometeo – god inside me” “Prometeo è un flusso di pensieri.  (…) Una caverna della memoria in continua evoluzione e destinata a un continuo lavoro di rilettura e rielaborazione. Un lavoro di riciclo, dove tutte le immagini scartate vengono esaminate, recuperate e riutilizzate in contesti narrativi nuovi. “( Dario Coletti ) Nel mito Prometeo  rappresenta il dono della previdenza, saper prevedere, cogliere un senso  in anticipo, ed in queste opere maggiormente risuona , a me, l’idea di uno sguardo quasi oracolare e  nel quale è costantemente suggerito il rimando fra il frammento e quanto racchiude in nuce.   Sguardo fissato ricomponendo  in unità i frammenti di immagini, ma un’ unità che vuole restare  incerta tra comprensione anticipata o tardiva, consegnata  nel suo oscillare continuo nel tempo e nello spazio  e  proiettata ai nostri occhi per essere data a quella che Tabucchi definisce “ una virtù dello sguardo, che non appartiene al nervo ottico ma all’intelligenza.” Luca Coser   “Chi sogna cosa “ “ (…) una sorta di necessità di affermare, attraverso il frammento, la condizione umana nel suo essere fragile, indefinita. “(Luca Coser) Riflettere sulla memoria o accadimento è sempre nella ricerca di Coser  un momento estremamente vitale e luminoso, rivelatorio:  una possibile chiave per decifrare  una certa vaghezza inquieta che ci accompagna. E queste ultime opere realizzate da Coser mi riportano direttamente all’idea di inveramento del possibile inespresso, all’immagine come configurazione di senso.   la dichiarazione nel titolo “ Chi sogna cosa” sottolinea poi, a mio parere,  di essere anche qui in scarto, in non coincidenza col tempo reale.  Una sorta di sospensione  del momento della rappresentazione, e per noi della visione, per farsi indice di un reale impossibile da rappresentarsi . Gianluca Morozzi  “Marika fragile “ “- Eccola qua la soluzione! Pensa Marika.  - Eccola qua la soluzione! Pensa la Strega.  - Eccola qua la soluzione! Pensa Lauro. “ Più voci a narrarci di un unico momento temporale, quello intercorso tra la notte e la mattina seguente. Frammenti sconcertanti per l’amaro e allo stesso tempo divertito  sorriso che strappano nella la loro evidente diversità;  un conflitto ad armi impari che seminerà nuovi resti, residui.  Perché è evidente: di tutto resta un poco. Patti Campani, marzo 2018 Tatler - via Rialto 29/2 Bologna dal 24 marzo al 18 maggio  aperto dal lunedi al sabato dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19 chiuso giovedì pomeriggio e festivi La mostra è parte del progetto Prospettiva Nomade, a cura di Patti Campani. La rassegna, che si svolge nel corso della stagione 2017/2018 nello spazio espositivo  Tatler di Gianfranco Salomoni, vede la partecipazione di cinque artisti, cinque fotografi e cinque scrittori.
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cinquecolonnemagazine · 4 years ago
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I luoghi di Napoli: Magie e Incanti
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Napoli si racconta nei luoghi della sua memoria millenaria affidandosi ai volti e alle voci dei protagonisti della sua cultura. Dieci appuntamenti, da luglio a ottobre, a ingresso libero su prenotazione (premionapoli.it oppure scabec.it/iluoghidinapoli) daranno vita alla rassegna I luoghi di Napoli: Magie e Incanti che proporrà, nelle location più suggestive, scelte tra i monumenti più significativi della geografia partenopea, letture e interpretazioni di pagine letterarie in cui il racconto incontrerà la musica e da essa si lascerà guidare.  Il progetto è della Fondazione Premio Napoli; supportato da Regione Campania e promosso da Scabec spa, si articolerà in dieci serate, dal 20 luglio al 8 ottobre. Scrittrici e scrittori affideranno brani letterari da loro selezionati ad attrici e attori che presteranno il corpo e la voce per rinnovare la pratica antica della lettura pubblica, un’esperienza che assume un significato speciale in un periodo, come quello odierno, segnato dal distanziamento e dall’isolamento. La musica scorrerà parallela al gesto e alla parola: in ciascuna delle serate scrittori e attori, tutti campani di origine o di adozione, saranno affiancati dagli strumenti e dalle voci di interpreti della scena musicale contemporanea, italiana e internazionale. Read the full article
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patti-campani · 5 years ago
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Attrito#02 Una piccola cosa politica Marco Bettio a cura di Patti Campani
(…) Ma là dove il campo inciampa nel mandorlo, ecco, un animale è balzato da ieri a oggi attraverso le foglie. E noi ci fermiamo, al di fuori del mondo. Il fulmine, Yves Bonnefoy, da Ce qui fut sans lumière
Camminare, camminare e pensare, è una cosa che accomuna molti degli scrittori da me amati, da Walser a Bernhard, e non so dire con esattezza da dove sia nato il mio sentire come uno scorrere parallelo tra la pittura di Marco Bettio e la poesia di Bonnefoy. Forse le immagini ricorrenti legate alla natura, il loro apparire limpido e improvviso; o perché tra le parole in uno e le immagini nell’altro c’è come un’ aria, come un respiro sospeso. La parola in Bonnefoy quasi galleggia sulla soglia dell’invisibile,  così i personaggi di Marco Bettio si palesano sospesi su un fondo grigio così potente nella sua neutralità. Ogni visione, poi, è come chiusa nella propria unicità incisa in questa atmosfera rarefatta. Senza fretta. Il dispiegarsi delle cose. Lo scorrere della parola, lo scorrere delle immagini. Un rumore di passi, muoversi di vento, foglie e rami, figure improvvise come apparizioni. Tutto ha un’energia intensa, profonda, rispettosa. Ecco, forse è proprio qui il legame più stretto che mi appare: il rispetto che nasce dall’empatia con quanto ci circonda, dal profondo senso di appartenenza, di tutela garbata. E come una camminata è concepita Una piccola cosa politica, che prende il nome da una delle tele esposte: una capra nera che ha sulla sua groppa una piccola scimmia. Un accadimento inverosimile quello di incontrare una tale coppia, eppure lungo la mostra, attraverso paesaggi scabri, se ne palesano molti di questi equilibri improbabili. I paesaggi sono tappe necessarie, riferimenti provvisori da cui ripartire. Forse perché la natura non ha bisogno del pensiero, esiste al di là di questo.   L’attrito palese, cercato e dichiarato nei personaggi che animano questo teatro folle e razionale insieme, è come una responsabilità di cui farsi carico e che ci porta a considerare con sguardo ampio questi eventi inusuali, a pensare che possano trasformarsi in un’occasione nella quale trovare un nuovo equilibrio. In questo senso l’attrito è anche strumento del procedere, mezzo che trasforma la visione in intuizione e la scelta di questa differenza in non indifferenza, trasformandosi in Una piccola cosa politica. Patti Campani
Attrito#02 Una piccola cosa politica - Marco Bettio dal 26 ottobre 2019 - 25 gennaio 2020 Fiorile+Tatler via Rialto 29/2 Bologna info:  http://fiorile-tatler.tumblr.com  [email protected]
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fiorile-tatler · 7 years ago
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Prospettiva Nomade#04 PHILUM
Dario Ghibaudo   Umberto Zampini e Alberto Andreoli Barbi a cura di Patti Campani
“Ignoriamo il senso del Drago, così come ignoriamo il senso dell’Universo, ma c’è qualcosa nella sua immagine che si accorda con l’immagine degli uomini, e così il drago appare in epoche diverse e latitudini diverse” J.L.Borges PHILUM è un ordine particolare all’interno della classificazione zoologica, il termine deriva dal greco ϕυλή «tribù» ed indica il tipo di appartenenza conseguente a criteri più ampi rispetto ai concetti di classe e di famiglia. Una sorta di senso allargato ad un legame specifico. Dedicato alle opere di Dario Ghibaudo, di Umberto Zampini e al racconto di Alberto Andreoli Barbi, il legame di appartenenza suggerito è indubbiamente quello dell’immaginario artistico. Strane entità che si sviluppano in questa particolare corrente evolutiva, mantenendo una sorta di attendibile verità scientifica, certo, ma la selezione evolutiva è data qui da cambiamenti che avvengono in periodi di tempo relativamente brevi, sotto l'impulso dell’immaginazione e la forza ambientale è costituita dalle eterne domande che ci accompagnano: chi sei? che cosa sei? o meglio: chi sono? che cosa sono? Ecco i nostri draghi. Con Il Museo di Storia Innaturale, ideato negli anni 90 ed in continuo divenire, Dario Ghibaudo indaga da tempo la condizione umana attraverso lo schermo di un’ipotetica quanto accurata ricerca scientifica. Il suo bestiario passa in rassegna caratteristiche, pregi, difetti, debolezze, sogni e quanto altro ci appartiene. Ottanta i nuovi Reperti del Museo di Storia Innaturale realizzati per Philum. Le immagini fotografiche di Zampini, in uno scatto illusorio quanto esatto nel suo mezzo, ci rendono l’immagine dell’uomo messo a nudo nel suo dialogo con una natura effimera e artificiale. I margini son dettati dal fare umano e allo stesso tempo sfuggono al suo controllo in un imprevedibile divenire. Pegaso e altri voli , sette immagini realizzate per Philum. Nei suoi racconti Alberto Andreoli Barbi ci coglie spesso nella nostra inadeguatezza, nel nostro confronto un po’ maldestro con la vita, con gli altri e con noi stessi, in questo nostro continuo vacillare tra istinto e controllo. Uno sguardo affettuoso il suo, che un po’ sorride e po’ ci soccorre nel momento di un inciampo. Situazioni minime, quotidiane e probabili, nelle quali possiamo facilmente ritrovarci con grande divertimento. Il suo racconto Chi sei? Che cosa sei? è parte integrante della mostra. Patti Campani, maggio 2018 Tatler - via Rialto 29/2 Bologna dal 26 maggio al 14 luglio  aperto dal lunedi al sabato dalle 10 alle 12 e dalle 16 alle 19 chiuso giovedì pomeriggio e festivi La mostra è parte del progetto Prospettiva Nomade, a cura di Patti Campani. La rassegna, che si svolge nel corso della stagione 2017/2018 nello spazio espositivo Tatler di Gianfranco Salomoni, vede la partecipazione di cinque artisti, cinque fotografi e cinque scrittori.
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