#ci si evolve ma in fondo siamo sempre noi
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Una delle verità più profonde sull'amore è questa: "Non ci innamoriamo di un'altra persona". Invece, "ci innamoriamo della versione di noi stessi che si risveglia attraverso la nostra connessione con loro". Non sono la fonte del nostro amore, ma i catalizzatori che lo rivelano, aiutandoci a riscoprire l'infinita capacità di amare che è sempre stata dentro di noi. L'amore, nella sua essenza più vera, non è qualcosa che cerchiamo o acquisiamo: è la nostra stessa natura, in attesa di essere scoperta attraverso gli specchi che gli altri tengono per noi.
Ogni connessione profonda richiama nuovi strati di noi stessi, alcuni teneri, alcuni selvaggi, alcuni sconosciuti. La persona giusta non ci completa, ma riflette l'amore, la bellezza e la forza che potremmo aver dimenticato esistessero. Ci sfida a crescere, a espanderci e ad abbracciare la pienezza di ciò che siamo. In loro presenza, non siamo solo amati, diventiamo più noi stessi, addentrandoci più a fondo nella verità del nostro essere.
Con la persona giusta, possiamo sperimentare un amore che sembra eterno, un amore che trascende il tempo e lo spazio. Non è vincolato da condizioni o aspettative, ma fluisce liberamente, creando uno spazio in cui entrambe le anime prosperano. Questo tipo di amore ci ricorda che l'amore più profondo che possiamo provare non riguarda l'altra persona, ma l'amore che ci ispira a provare per noi stessi e per la vita stessa. È un amore che si ripete, si espande e si evolve, mentre ci risvegliamo continuamente alla natura sconfinata dell'amore interiore.
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VersozerO: l'importanza imprescindibile delle parole
Sulla scena da circa 30nni, i VersozerO conservano intatta passione, curiosità e sperimentazione. Da sempre liberi da etichette ma concentrati sulla volontà di esprimersi senza freni e senza limiti. Nei loro dischi miscelano di tutto, dall’elettronica al metal, dal punk al rock. Cantano in italiano, una scelta difficile e stimolante allo stesso tempo, come da loro stessa ammissione. In questa intervista raccontano i loro esordi, il loro ‘segreto’ di longevità come band, il proprio concetto di underground e tante alte curiosità. Una band da scoprire. Un’intervista tutta da leggere.
Una presentazione per chi non vi conosce
Ciao a tutti e grazie mille a ‘Tempi Dispari’ per questa intervista.
Siamo i VersozerO, una band della provincia di Milano/Como attiva dal 1990 (fino al 2001 con il nome di POUNDER) nata con l’intenzione di cercare un punto di incontro tra il Rock-Metal e le liriche del cantautorato Italiano.
Abbiamo al nostro attivo 3 album (Terra, Evolver, Uomo) e siamo al momento lavorando sul prossimo.
La prima domanda riguarda il vostro ultimo disco, Uomo. Come avete fatto? Come si fa a scrivere un’opera così intricata, ricca di contaminazioni e suggestioni?
Uomo fa parte di un percorso che è iniziato nel 2003 (anno di pubblicazione del nostro primo album come VersozerO) e continua tutt’ora.
Conseguenza di tante contaminazioni perché tanti sono i nostri gusti che, pur mantenendo solide radici nel rock/metal, vanno dal cantautorato al grindcore passando per la musica elettronica e mille altre influenze.
E’ il risultato anche di tanta esperienza maturata in questi anni e della continua ricerca sia musicale che sulle tematiche che da sempre ci spinge a fare nuova musica e ad affrontare ogni nuovo album con tanto lavoro di ricerca sui suoni e sulle tematiche.
Tutti i vostri dischi hanno come protagonista principale l’essere umano. Perché?
Perché siamo umani.
Perché, volenti o nolenti, tutto quello che vediamo e capiamo è inevitabilmente dipendente dal fatto di essere umani, avere determinati sensi e avere ognuno una propria esperienza ed un proprio vissuto.
E’ un universo estremamente vasto ed interessante e che ci piace esplorare sia nella sua parte luminosa che in quella oscura perché entrambe costituiscono e sono necessarie alla natura umana che può essere tutto (e lo è) oppure niente (e lo è).
Quello che cerchiamo di fare è quindi una riflessione su ciò che siamo (come individui e come umanità) e ciò che vorremmo essere puntando al ‘meglio del nostro possibile’ perché siamo tutti al mondo per fare qualcosa e non fare niente perché si poteva fare poco non è una giustificazione
Che cosa manca oggi al genere umano?
Troppo spesso l’umanità.
Dal vostro punto di vista siamo in una costante fase di evoluzione o involuzione?
Come esseri umani siamo progettati per andare avanti, sempre e comunque quindi parleremmo di costante evoluzione.
Che poi questa sia in meglio o in peggio è un altro tema una cosa spesso indeterminabile e un punto di vista.
In fondo la vita è cambiamento, l’importante è quindi cambiare perché che tu lo voglia o no ‘il cambiamento passa e se non cambi passerai’.
Una carriera lunga costellata da 3 dischi e svariate grandi occasioni live. Il ‘segreto’ per sopravvivere nel panorama musicale?
Tre cose :Passione, Passione e anche un po’ di Passione.
Tante cose succedono e ci sono successe. Tante soddisfazioni e qualche delusione.
E’ cambiato tutto intorno a noi e siamo cambiati anche noi ma alla fine se siamo ancora qui è principalmente perché ci piace quello che facciamo, non sappiamo farne a meno e teniamo vivo quell’entusiasmo e quella curiosità che avevamo anche 30 anni fa.
Sono trascorsi diversi anni tra un disco e l’altro. Cosa è cambiato?
Come VersozerO, i componenti.
Il prossimo sarà il nostro primo album di seguito con la stessa formazione.
Siamo poi cresciuti, maturati, cambiati ed in 30 anni è naturale.
E’ cambiato anche il mondo in cui viviamo, qualcosa in peggio e qualcosa in meglio, ma, come dicevamo, il cambiamento è la vita che vive.
Una differenza tra Evolver e Uomo sono i suoni, da una parte, la complessità del songwriting dall’altra. È stato un caso o ascoltando i dischi vecchi avete detto: ecco dovremmo migliorare qui e qui?
Non c’è stata una precisa intenzione di migliorare o cambiare qualcosa in particolare ma sicuramente quella di fare un altro passettino avanti nel nostro percorso.
Tra Evolver ed Uomo sono poi cambiati chitarrista e cantante oltre ad essere un po’ cambiati anche noi.
Se facciamo un album nuovo è perché pensiamo di avere ancora qualcosa da dire, cosa che stiamo facendo anche per il prossimo album.
Qual è la parte più difficile dello scrivere in italiano? Trovare il testo ‘giusto’ o la melodia?
In realtà scrivere in Italiano è una cosa che ci viene naturale.
A livello di composizione nei brani dei VersozerO solitamente testo e musiche seguono due binari inizialmente paralleli per poi sposarsi e partorire la melodia e la metrica in un gioco in cui musica e parole si supportano, aiutano e, perché no, scambiano di posto grazie anche alla fluidità e alle possibilità che la lingua Italiana porta con se.
Perché avete scelto di cantare in lingua madre?
Perché oltre ad essere, appunto, la nostra lingua madre, l’Italiano è una lingua meravigliosa che sebbene meno si presti ad un linguaggio come quello del Rock/Metal, rappresenta una sfida stimolante che è in grado di dare grandi soddisfazioni.
Dai dischi non si evince un’influenza diretta per le liriche o le metriche della voce. Quali sono?
Su liriche e metriche cerchiamo di essere originali ma indubbiamente il nostro riferimento è la tradizione del cantautorato e del Rock Italiano che crediamo avere pochi eguali nel mondo.
Possiamo quindi citare Ferretti dei CSI, Morgan, Silvestri, Bersani, Guccini e, ovviamente, quello che riteniamo il sommo poeta e cioè De Andrè (uno che ha scritto canzoni che tolta la musica non sono meno belle).
Come l’essere di Milano/Como ha influenzato il vostro modo di scrivere?
Essere una band della provincia di Milano/Como ci ha permesso, soprattutto agli inizi, di vivere e fare parte del fermento degli anni ’90 dove il rock italiano ha toccato una delle sue vette.
C’era molta voglia di fare, molto da fare, molti gruppi interessanti da seguire e molto seguito per cui, proprio ai nostri inizi, è stata una bella spinta per iniziare e costruire su basi solide ed essere ancora qui dopo oltre 30 anni.
Il metal è ancora un’adeguata colonna sonora per la nostra epoca?
Assolutamente si anche perchè oramai è difficile definire cos’è il Metal e questo per noi, che non amiamo le etichette, è un bene.
Diciamo che per noi è energia, passione e indipendenza e puoi trovarlo in mille forme e sfaccettature soprattutto dopo lo sdoganamento del Metal operato dai Metallica negli anni ’90 e con il diffondersi del crossover di band imprescindibili quali i Faith No More.
Oggi il Metal è anche dove meno te lo aspetti.
Per alcuni è un sacrilegio, per noi è meraviglioso.
Il rock ancora non riesce ad emergere come dovrebbe o vorrebbe. Perché?
Perché è Rock. Non è fatto per il successo globale, quello si chiama Pop.
Detto questo, comunque il Rock si è insinuato ovunque per cui i confini sono labili e anche in molte produzioni Pop o Elettroniche è indubbia l’influenza del Rock.
Nei vostri testi c’è una grande attenzione terminologica. Le parola sono importanti?
Sono fondamentali.
E’ una cosa cui teniamo particolarmente e facciamo molta attenzione a quello che diciamo e a come lo diciamo.
Crediamo il modo in cui si dice una cosa è spesso importante quanto il concetto stesso.
Quando concetto, frase e musica riescono a supportarsi (come una freccia che la mano lancia tramite l’arco) l’effetto può essere deflagrante.
Nel suono e negli interventi delle chitarre si sentono moltissime influenze. Quali sono i chitarristi di riferimento?
Sicuramente, a livello di chitarre, le radici musicali affondano nel periodo tra metà anni 90 e anni 2000; nei gruppi groove metal e Nu metal con chitarristi quali Head e Monkey dei Korn, Wes Borland dei Limp Bizkit, Tom Morello dei Rage against the machine e il compianto Diamond Darell dei Pantera.
Uomo è però figlio dei tempi moderni, quali il Djent Metal e le sonorità di Periphery, Tesseract, Kadinja in primis addolciti per sposarsi con il suono dei Versozero.
Il vostro concetto di underground?
Passione, indipendenza, tenacia e ottima musica
L’underground è la musica fatta per la passione di farla quindi ha ancora una purezza, un’energia e una ricerca che inevitabilmente si perde nel mainstream
La sua ‘malattia’ peggiore? La cura?
La chiusura che si cura guardandosi intorno, restando curiosi e approciandosi in maniera positiva a questo mondo e alle mille ottime band che ci circondano
Una band underground che consigliereste?
Una sola, impossibile ?
Solo per citarne alcune e riferendosi alla scena italiana consigliamo Psychoanalisi, Cyrax, Shivers Addiction, Chrysarmonia, Messa e Demikhov
Una mainstream che ancora vi stupisce?
Purtroppo le band Mainstream solitamente quando lo diventano non stupiscono più ma allargando un po’ il campo potremmo citare Mike Patton (in tutte le sue forme), i Beatles (che ad oltre 50 anni dal loro scioglimento stupiscono ancora) e i Voivod
Ieri l’idea, oggi il disco, e domani…
Altre idee e un altro disco, anzi … probabilmente due.
Stiamo infatti chiudendo la pre-produzione dei nuovi brani che hanno preso una direzione
interessante e un disco solo potrebbe non bastare.
Se foste voi ad intervistare, ipotizzando di avere a disposizione anche una macchina del tempo, chi intervistereste e cosa gli chiedereste?
Domanda molto complicata visto le innumerevoli possibilità che comporta.
Ne approfitteremmo quindi per tornare nel 1970 ed introdurci tra i ‘The Hollywood Vampires’ (un club nato al Rainbow di Los Angeles dove si trovavano personcine quali John Lennon, Alice Cooper, Keith Moon, Ringo Starr, John Belushi, Marc Bolan, Jim Morrison e Jimi Hendrix) e stare ad ascoltarli prendendo appunti
Un saluto e una raccomandazione a chi vi legge/guarda/ascolta
Vogliamo ringraziare Tempi Dispari per questa intervista e invitare tutti a venirci a trovare sui nostri canali social e sugli store digitali dovete potrete conoscerci ed ascoltarci.
La raccomandazione è quella di supportare la scena underground ascoltando, cercando, diffondendo e restando sempre curiosi perché c’è davvero tanta musica interessante di qualità la fuori e ai giorni d’oggi non ci sono scuse per non approfittarne.
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La notte è fatta per pensieri che non hanno un filo conduttore, per l'insonnia. È fatta per formulare domande a cui mai troveremo risposte, la notte è un buco nella realtà che ci permette di esplorare un mondo più grande e più complesso di quello in cui viviamo: noi stessi.
Francesco Borrasso - Le Regole di Kaliel
#quella frase l'ho sottolineata 10 anni fa#ci si evolve ma in fondo siamo sempre noi#Francesco Borrasso#Borrasso#Le regole di Kaliel#scrittori emergenti#scrittori campani#quotes#notte#mondi
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Quella timidezza che si evolve in dolcezza
Ho bisogno di raccontarlo perché mettere per iscritto quello che mi è accaduto ieri, raccontare la naturalezza con cui è avvenuto, non può che fare bene a me, ma anche a tutti coloro i quali credono che la dolcezza e gli uomini attenti non esistano più, che siano rari o peggio ancora “estinti”.
Invece vi devo smentire, esistono eccome, ci vuole solo un pochino di pazienza per imparare a farli uscire dal loro guscio fatto di timidezze e insicurezze che noi donne spesso non sappiamo cogliere, accettare. Mi ci metto pure io, perché noi donne spesso corriamo, vogliamo che loro vadano al nostro andamento, quando in realtà è più bello rallentare appena e godersi il panorama a passo sincronizzato.
Si fa fatica, lo ammetto, ma vi assicuro che portare pazienza a volte serve eccome. Lungo il percorso ci troveremo a perdere un pochino la pazienza, ad essere stufe di aspettarlo, a volergli dare un bello scossone per provare a svegliarlo; ma se facciamo un lungo respiro e proseguiamo a passo lento, staremo pur certe che in un qualche modo lui, se davvero ci terrà, proverà ad affrettarsi per raggiungerci.
È estenuante, lo confesso, io stessa spesse volte mi sono ritrovata a dire “ora lo metto con le spalle al muro e poi vediamo cosa ha da dirmi”; ma se lo avessi fatto, sicuramente lo avrei fatto scappar via.
E già, perché da uno che mi dice che ho una sicurezza e una fermezza spiazzante, non mi meraviglierei di assistere ad una sua fuga.
A quanto pare B. pensa che io abbia una sicurezza in me, una forza di volontà, una determinazione che io però non ho mai pensato di avere. Mi vede forte e decisa, quando la verità è che io mi fingo così, solo per non soccombere alla vita, per non essere schiacciata dal peso della realtà. Lui mi vede come “una leonessa pronta a lottare per difendersi con le unghie e con i denti”, quando in realtà io mi sento solo un “cucciolo inesperto, alle prime esperienze con la cruda realtà”.
Lui ha ammesso di sentirsi attratto dalla mia sicurezza, ma al contempo spaventato. Mi chiedo davvero che immagine abbia di me, perché io non sono così, se lo fossi stata non mi sarei fatta mille paranoie e oggi probabilmente non sarei qui a sognare ad occhi aperti, rivivendo nella mia mente una coccola rara che ieri lui mi ha donato.
Stavamo camminando l’uno di fianco a all’altra parlando del più e del meno, quando ad un certo punto mi ha guardata ed è scoppiato a ridere. Io avevo capito il perché e, mordendomi le labbra imbarazzata, gli ho mormorato un “e daii” a cui lui ha risposto, senza farsi pregare, abbassandosi e sussurrandomi un “Ila lo sai che puoi chiedermi di sistemarti quando vuoi, vero?” seguito subito dopo da una carezza leggera sul mio volto per spostarmi un ciuffo di capelli finitomi sugli occhi e sulle labbra. Praticamente a causa di un piccolo dosso ero crollata un pochino di lato e lui notandolo, si era subito reso conto che avessi bisogno di aiuto per sistemarmi, sapendo benissimo che avrei faticato a chiederglielo.
Oramai sa che il mio più grande difetto è proprio chiedere aiuto, sa che se siamo al bar a bere un caffè, aspetto sempre che lui finisca per chiedergli una mano e allora lui mi anticipa sorridendomi e avvicinandomi la tazzina senza che glielo chieda, passandomi un fazzolettino sulle labbra per asciugarmele in automatico, o ancora facendomi bere un sorso di acqua semplicemente guardandomi negli occhi.
Io ero dunque pietrificata dalla sua dolce attenzione, non sapevo cosa fare; eppure lui mi ha anticipata, sapendo benissimo che avrei faticato a dirgli di aiutarmi e, posizionandosi dietro di me, sussurrandomi un “posso?” da me risposto con un cenno del capo, mi ha sistemata sussurrandomi un “okay Ila?” ed un bacio leggero fra i capelli.
Vi assicuro che in tutti questi anni, raramente ho trovato qualcuno così attento alle mie necessità, neppure chi mi conosce da una vita spesso riesce a capirmi solo guardandomi; eppure B., dopo appena un anno di conoscenza, è riuscito a capirmi così tanto, a sapermi leggere oltre le parole. Lui riesce a guardare oltre la mia disabilità con una naturalezza tale da lasciarmi ogni volta stupita.
Ho deciso di non voler più correre con lui, voglio solo godermi questi attimi di tenerezza, assaporarli fino all’ultima goccia, viverli e basta. Perché in fondo, è proprio questo il bello della vita: sapersi godere l’attimo senza la fretta del domani.
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La malinconia di una giornata di pioggia.
Abbiamo cominciato questo martedì allo scattare della mezzanotte seduti su una sedia in balcone, fissando le luci della baia con addosso una copertina e un sacco di lanterne intorno. Tu bevevi il tuo succo e io il mio decimo caffè della giornata quando abbiamo cominciato questa corrispondenza silenziosa con le stelle e la tranquillità delle onde leggere che cullavano l'atmosfera.
Ad un certo punto io crollo, come succede sempre poi, e ammetto di essere triste. Partiamo così con quelli che sono i discorsi sui massimi sistemi che ci accomunano così tanto. La tristezza evolve in rabbia accentuata ancor di più dalla pioggia che si stava preparando a cadere.
Avevamo bisogno di parlare, entrambi, ma tu di più e così ti ho lasciato dar sfogo a tutte quelle ansie e frustrazioni che solitamente tieni represse. Abbiamo parlato di persona Y che sfortunatamente accomuna il passato di entrambi avendo lei usato me per arrivare a te. Era da tanto che non parlavo di lei, che non la pensavo, che non la facevo soggetto principale dei miei discorsi. "Lei è stata davvero subdola perché ti ha illusa fin dall'inizio" mi dici con aria comprensiva. Riesco solo a risponderti con un "Dio vacca". Avrei voluto piangere perché esattamente in questa casa 4 anni fa, lei era qui con me, con noi e io mi sentivo dire "Sei solo una persona inutile, non capisci un cazzo".
Mi stupisco di quanto la vita cambi in 4 anni, di quanto io sia cresciuta da un lato ma peggiorata da un altro.
Ci distraiamo, la tua rabbia si discioglie, si sono fatte le 6:30 e facciamo colazione mentre fuori comincia a spuntare l'alba.
Questa è l'ennesima volta che vediamo l'alba da questo balcone, da questa casa, da questo posto.
Siamo euforici e restiamo ad ascoltare la melodia del giorno che prende vita.
Dormiamo qualche ora, giusto un paio e ci svegliamo che fuori diluvia.
Per quanto io possa amare la pioggia ci sono giorni, come questo, in cui quelle goccioline mi abbattono come se fossero fucilate.
L'euforia dell'alba è ora un nodo di malinconia misto a mal di testa e magone che cerco di soffocare perché non posso piangere in continuazione. Puliamo tutta casa da cima a fondo e cerchiamo di distrarci mettendo canzoni allegre.
Sto crollando, sto per avere il secondo mental breakdown in meno di 24 ore.
Salgo le scale con un solo pensiero "L'ultima volta che ho visto l'alba ero con Persona X" e successivamente mi ripeto "avrei dovuto dirglielo ieri sera, avrei dovuto parlargli di Persona X". A distanza di quasi un anno, lui ancora non sa di come sia andata finire con lei perché non ho mai avuto il coraggio di dirgli nulla. Mi salgono dentro una serie di rimpianti legati a questo e mi sale in testa anche un pensiero fisso nei suoi confronti. Esco di casa sotto al diluvio con la scusa dell'andare a buttare il pattume, nella speranza di far tacere questo pensiero, seppur consapevole che con "Ambra era nuda" in sottofondo gli avrei solo dato modo di sfogarsi ancora di più.
A quel "Saremo io e la mia malinconia" io crollo.
Passo i successivi kilometri camminando sotto al diluvio pensando a come fossero le cose un anno fa, con lei che mi diceva che non vedeva l'ora di andare a Venezia, di vedermi. Mi parlava del fatto che avrebbe preso un gatto, mi mandava video di lei mentre suonava Star Wars al pianoforte. Le dicevo che era bellissima e che non ci avrei di certo provato con lei a Venezia. Mentivo sapendo di farlo e lei ne era perfettamente consapevole.
Mi siedo sopra la banchina e rileggo la chat con persona X. Piango ma tanto piove così tanto che mica si nota.
Comincia il mio monologo interiore che mi spacca più di quanto non sia già rotta "Non riesco a lasciarla andare. Non riesco a fare come se nulla fosse. Non riesco a dire 'non me frega un cazzo di lei'. Non riesco a dimenticare quello che mi ha detto perché io sono una persona sensibile, troppo e non riesco a metabolizzare la cosa nonostante la distanza, il tempo, la lontananza e la fine".
Passeggio per quella baia desolata mentre la pioggia mitraglia il mare che rimane tranquillo e pacato.
Mi rimbombano in testa le sue parole "Ma allora cosa sei venuta a fare? Ma allora cosa sei venuta a fare? Ma allora cosa sei venuta a fare?".
Mi stringo la testa e mi dico che non voglio tornare a casa.
Piove tantissimo, la baia affonda come Venezia e così come affonda il mio cuore.
Mi chiedo se meritassi davvero una fine così, se meritassi davvero tante di quelle frasi pesanti che ancora oggi mi abbattono come se le stessi sentendo per la prima volta.
"Tu non sei le tue difficoltà" mi dice sempre lei (una lei di cui forse un giorno vi racconterò). Mi dice che non sono la mia malattia e che io sono stata sincera e non potevo fare nulla più di questo. Le persone a volte si spaventano e hanno le reazioni più disparate ma questo non significa che siano cattive ma che semplicemente non sono pronte per affrontare determinate cose.
Salgo il sentiero per tornare a casa. Sono completamente fradicia e penso che "lei" aveva ragione: "Persona X non era cattiva. Ha detto cose poco carine perché ha avuto paura, perché non era pronta, perché io non sono una persona semplice e avere a che fare con me non è per niente facile" .
Abbiamo acceso le candele anche stasera. C'è Gazzelle in sottofondo come ogni serata deprex che si rispetti.
Riempiamo il buio con le parole e il silenzio con la luce delle lanterne.
Benvenuti nelle nostre vite altrimenti dette autosabotaggio...
#cronache del viaggio della speranza episodio 12#'saremo io e la mia malinconia'... come è poi sempre stato#mental breakdown in corso#l'alba di un nuovo giorno a volte inganna#ma le cose belle dove sono finite?#vasto insieme di emozioni discordanti che mi portano in parte ad odiarmi più di quanto già non faccia solitamente
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L'illusione di non sbagliare più
di Paolo Ercolani A cosa servono, in fondo, tutte le app, gli algoritmi e, più in generale, le strabilianti tecnologie che sempre più pervadono le nostre vite, se non a illuderci che sia possibile non sbagliare più?! Del resto, esistono app per trovare con precisione il luogo in cui dobbiamo arrivare, come anche per trovare l’uomo o la donna della nostra vita, le informazioni e le risposte di cui abbiamo bisogno in una determinata situazione o, al limite, il modo di «conoscere» persone, giocare, vivere emozioni o financo fare sport senza mettere il becco fuori di casa. O senza staccare gli occhi dallo schermo piatto del nostro apparecchio digitale. La società degli algoritmi, in buona sostanza, ci racconta di una dimensione, quella virtuale, in cui proprio grazie al meccanismo impersonale e rigidamente aritmetico degli algoritmi stessi, possiamo attingere a risorse che ci forniscono di volta in volta, molto velocemente e con notevole facilità, la risposta giusta, l’informazione corretta, l’uomo o la donna ideale, il divertimento pieno di possibilità e intensità che la vita reale non sarà mai in grado di garantirci con la stessa sicurezza e precisione. Di fronte a tutto questo, quella creatura fragile e costantemente bisognosa di tutele superiori (e improbabili salvezze) che è l’essere umano, finisce col comportarsi come Pinocchio di fronte al mondo dei balocchi: cede immancabilmente alla tentazione inconsapevole di dover pagare un prezzo altissimo, che è quello di essere ridotto a burattino del burattinaio di turno. Uno dei più forti elementi di business rappresentato dalle nuove tecnologie, del resto, consiste proprio nella straordinaria «offerta commerciale» di eliminare le incertezze, le responsabilità, il peso e certamente l’errore che costellano l’esistenza di tutti noi. (...) A pensarci bene, quale elemento di business più straordinario e prolifico di quello di riuscire a «vendere» all’essere umano la sicurezza, la protezione, la tutela e la garanzia di raggiungere gli obiettivi che gli sono drammaticamente sfuggite per secoli, nonostante tutti i totem, i riti, le magie e le divinità che esso si è di volta in volta inventato per illudersi di risolvere la questione?! Il discorso sarebbe troppo ampio e impossibile da affrontare in questa sede, ma su un aspetto specifico vale la pena concentrare la nostra attenzione. Tale cosa riguarda il fatto che quella dell’errore (a cui si lega strettamente la capacità di riconoscerlo, l’errore stesso) è una delle situazioni più importanti che consentono all’essere umano di cadere e rialzarsi, di crescere consapevole dei limiti propri e altrui, di fare tesoro dall’esperienza per costruirsi una personalità più strutturata ed equilibrata, di capire che il dialogo e la collaborazione con gli altri (poiché tutti siamo fallibili) è fondamentale nell’avanzamento di qualunque conoscenza e progetto. In tal senso, un impianto tecnologico finalizzato a risolvere problemi, trovare soluzioni e sollevare l’essere umano dalla fatica del vivere, si rivela non soltanto (e non tanto) come un imponente elemento di guadagno economico per chi quella tecnologia la progetta e possiede, ma anche e soprattutto un efficace modo per depotenziare e alla lunga annullare le facoltà specifiche dell’essere umano. (...) Sì, perché meno gli individui pensano e più funzionano secondo i dettami stabiliti da chi tira i fili. Meno gli individui socializzano (disimparando il dialogo, il confronto con l’opinione avversa, etc., in quella dimensione artificialmente «social» resa possibile dalla rete tecnologica in cui tutto in realtà è monologo o tutt’al più insulto) e più si riducono a monadi sole e concentrate esclusivamente sul proprio interesse egoistico, risultando in questo modo indeboliti (perché soli) e funzionali alla logica del mercato. Meno l’essere umano evolve attraverso prove ed errori, più lo sviluppo della società e della comunità, nonché degli individui stessi, è governato dalle macchine, dal mercato e da quei pochi soggetti che controllano e possiedono i gangli del sistema tecno-finanziario. Averci privato di tutto questo, insieme all’aver eliminato la dimensione dell’errore e della riconoscibilità dello stesso dall’orizzonte esistenziale dell’essere umano, sta comportando dei prezzi altissimi che soltanto un’umanità abbrutita e depotenziata cognitivamente può tollerare senza battere ciglio. Se solo, infatti, avessimo ancora la facoltà di renderci conto degli errori che abbiamo fatto e facciamo, capiremmo quanto essi sono gravi e drammatici quando lasciamo che il mercato diventi il fine di ogni cosa (con l’uomo ridotto a mezzo) nonché il generatore dei valori e degli scopi per cui vivere, o quando sembriamo accettare con inquietante ignavia la violenza che il sistema produttivo e commerciale sta operando sull’eco-sistema del nostro pianeta, oppure ancora quando fingiamo di non renderci conto che il continuo progresso tecnologico, se privo di un senso e una direzione individuati attraverso lo strumento dell’etica (e non della sola economia), distruggerà l’umanità come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi, conducendoci dritti verso un mondo post-umano. Sarebbe utile e ormai perfino necessario rendersi conto con la massima urgenza che illuderci di eliminare l’errore dalla nostra esistenza, non ci impedisce affatto di commetterne. Anzi, proprio quell’illusione potrebbe rivelarsi l’errore più grave con cui l’umanità si sia mai trovata a fare i conti.
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Supereroi con gli occhi a mandorla II
Kyashan il ragazzo androide
Se Tekkaman, il Cavaliere dello spazio era drammatico, Kyashan, il ragazzo androide (o meglio, Shinzo ningen Cashern) è quanto meno tragico. Nei suoi 35 episodi cambia radicalmente l’impostazione. Il Dottor Azuma è il più grande scienziato del mondo per quanto riguarda la costruzione di robot. Nel castello in cui abita, ne sta realizzando quattro da utilizzare per scopi benefici. La Terra, infatti, non è più il verde pianeta di un tempo: bisogna decontaminarla. Come nel romanzo Frankenstein di Mary Shelley, di cui la serie condivide le atmosfere, parte tutto da un fulmine. Il cervello dell’androide più potente, BK-1, va in tilt. Le motivazioni che lo spingono ad agire sono insolite. Avete costruito gli androidi per servirvene come schiavi, sostiene, ma noi ci siamo liberati e ora l’uomo è il nostro nemico. Dopo che Azuma e la sua famiglia sono scappati dal castello, BK-1 si ribattezza Briking e attiva gli altri tre: il massiccio Barashin, capo dell’esercito; l’allampanato Akubon, responsabile della costruzione di nuovi androidi; il piccolo Sagure, coordinatore dei servizi d’informazione. Nell’organizzazione, nei metodi e nella simbologia, si richiamano al Nazismo. L’emblema adottato è una specie di svastica modificata. Lucky, l’adorato cane di Tetusya, figlio dello scienziato, viene ucciso da un robot. Azuma trasferisce lo spirito dell’animale nel corpo di Flender, cane-robot capace di trasformarsi in quattro diversi veicoli: Jet, moto, aliscafo e carro armato. Il procedimento dà un’idea al ragazzo. Chiede al genitore di “trasformarlo” nel cyborg Kyashan. Non è un sacrificio da poco, perché, così facendo, rinuncia alla sua umanità e a tutto ciò che essa comporta: tatto, olfatto, gusto. Del resto, è l’unica maniera per contrastare gli androidi impazziti. Il nuovo corpo è alimentato dall’energia solare. La visiera di cui dispone costituisce al tempo stesso la sua arma segreta e il suo limite: grazie ad essa, infatti, può lanciare un micidiale raggio luminoso, che lo lascia, però, del tutto privo di energia. Terminata la trasformazione, i quattro robot catturano Azuma e la moglie Midori, portandoli nella loro ex dimora. Lo scienziato ha tempo per un’ultima mossa. “Rinchiude” la consorte nel cigno meccanico Swanee. Madre e figlio possono comunicare soltanto di notte, quando l’immagine della donna viene proiettata dagli occhi dell’animale. Ma non è facile: il volatile, infatti, viene adottato da Briking quale animale da compagnia. Eludere la sorveglianza e lasciare il castello diventa ogni volta più complicato. Nel terzo episodio conosciamo Luna, l’amica del cuore di Tetsuya. Il rapporto fra i due non è chiarissimo, ma si capisce che un po’ di tenero c’è. Lei non sa cosa sia successo al ragazzo, ma quando lo scopre decide di seguirlo e diventare la sua compagna di battaglie. Con sé porta la pistola MC a campo magnetico, inventata dal padre, Dottor Nezuki, grande amico di Azuma. Gliela affida poco prima di morire, ucciso da un robot. È un’arma formidabile: distrugge gli androidi, ma è innocua per gli esseri umani. Possiamo dirlo: Luna è una delle innumerevoli ragazzine che amano l’eroe senza alcuna speranza di veder coronato il proprio sogno. Altro che Romeo e Giulietta. Qui si tratta davvero di un amore impossibile. A Tetsuya, infatti, non è più permesso amare, nemmeno nel senso fisico della parola. Niente figli, e quindi nessuna famiglia. Nessun futuro da costruire insieme. I due ragazzi e Flender iniziano la loro lotta contro le armate di Briking. Viaggiano di città in città, affrontando ogni sorta di pericoli, incontrando sempre nuove persone con un passato per lo più difficile alle spalle. Il finale è ricco di colpi di scena. Briking scopre due cose interessanti. La prima è che Kyashan è un androide pure lui. La seconda è che Swanee è una spia e racchiude in sé Midori. Succede tutto negli ultimi due episodi. Tetsuya libera il padre, consapevole che da solo non può vincere la guerra. Azuma, infatti, ha avuto un’idea per salvare il genere umano: un’arma potentissima, da distribuire in tutto il mondo, capace di distruggere ogni automa. Compreso Kyashan, però. Una volta messa in funzione, sopravvivono solo cinque robot: Kyashan, Briking, Warugadar (una pantera che il capo degli androidi impazziti si era fatto costruire nell’ottavo episodio), Swanee e Flender. È il momento dello scontro finale. Flender fa a pezzi Warugadar. Ma Tetsuya è in gravi difficoltà. Gli resta un’ultima, disperata mossa: colpire l’avversario con il suo raggio distruttore. L’azzardo funziona: Briking è soltanto uno sgradevole ricordo. La guerra è finita. Azuma riporta la moglie Midori alla sua forma umana e converte Briking in un robot servizievole che sovrintende alla ricostruzione del nostro pianeta. Solo per Tetsuya la situazione non cambia. Ma lo scienziato continuerà a studiare per scoprire il modo di far tornare umano il pargolo. Sacrificare il proprio futuro per il bene degli altri è il duro destino di ogni Eroe. La regola (non scritta) vuole che la Via del Guerriero sia solitaria e irta di ostacoli. Gli ingredienti qui ci sono tutti. Luna e Flender a parte, Kyashan è solo. Anche se è uno dei rarissimi personaggi nipponici che può contare sulla presenza di entrambi i genitori, la sua famiglia è dispersa: il padre è prigioniero del nemico, mentre la madre si ritrova rinchiusa in un cigno meccanico. Non ha una base d’appoggio, e non c’è nessuno che possa “riparare” lui o Flender in caso di danni gravi. Come se non bastasse, il ragazzo ha due nemici: Briking e l’umanità stessa che ha giurato di proteggere e per la quale ha scelto di non essere più umano, consapevole di imboccare una strada a senso unico. Quando la gente scopre che è un androide (la notizia si sparge nell’episodio 26), mostra diffidenza e paura: lo temono perché è diverso. Gli sono grati, certo, ma non muovono un dito per aiutarlo. Potremmo dire che questo è un anime fondato sulla diversità e sui drammi che essa comporta. Non c’è posto per la spensieratezza. Tetsuya stesso ci ha rinunciato. Tanto è vero che mancano completamente gli intermezzi umoristici. Non c’è nessuna delle creature buffe o delle macchiette cui si solito si affida il compito di alleggerire la tensione. L’atmosfera è cupa e pesante, come in poche altre serie. Le truppe di Briking uccidono senza fare distinzioni di razza, sesso, età. La guerra è una condizione permanente. Non c’è un momento di tregua. Ovunque vadano, Luna e Kyashan si trovano davanti morte e distruzione. Le devastazioni provocate dalle armate meccaniche sono rese con inaspettato realismo. Le città, ridotte a cumuli di macerie, non hanno un aspetto nipponico. Non sembra, cioè, di essere in Giappone. Se non lo sapessimo, diremmo che i due protagonisti si muovono tra le capitali europee durante la Seconda Guerra Mondiale. A dispetto del cambiamento cui ha volontariamente deciso di sottoporsi, Tetsuya è molto più “umano” di quanto non possa sembrare. È senza dubbio molto più forte di qualunque altra persona, ma non è invincibile. La sua energia non è illimitata. Quando la esaurisce diventa cieco, e deve aspettare la luce solare per ricaricarsi. Se poi piove, sono guai. Sconfigge Briking, ma per un pelo, e grazie all’aiuto determinante di suo padre. La battaglia che intraprende è superiore alle sue forze, anche se può contare sul suo fedele cane-robot Flender, su Luna e sulla madre, che vivendo a stretto contatto con i robot può fornirgli preziose indicazioni. La fanciulla dimostra una inaspettata forza d’animo. È tutto, tranne che una bimbetta fragile e tremebonda. Sceglie di rimanere al fianco del ragazzo che ama. Proprio per amore suo accetta una vita da nomade, satura di pericoli. Quanto ai nemici, tra loro spicca Briking. Il boss è lui. È il primo a “svegliarsi”. Idee chiare e mancanza di scrupoli. Vuole conquistare il mondo e non lascia nulla d’intentato per raggiungere il proprio scopo. Impone ai sottoposti e alle truppe un look simil-nazista (che ritroviamo in parecchie serie fantascientifiche e robotiche). Anche lui possiede un’arma finale: è un potentissimo raggio bianco che emette dalla bocca. Con un vantaggio, rispetto a Kyashan: una volta utilizzato, non subisce alcuna diminuzione di energia. Nonostante la sua crudeltà, mostra un sincero – e inaspettato – affetto nei confronti di Swanee, il cigno nel quale Azuma ha momentaneamente parcheggiato la moglie. Kyashan il ragazzo androide non è composto di episodi autoconclusivi o, comunque, slegati tra loro. Qui si racconta una vicenda vera e propria. Senza l’impiego, oltretutto, dei soliti elementi seriali, come ad esempio la trasformazione dell’eroe, mosse di combattimento, frasi rituali di presentazione, e via dicendo. L’unica sequenza ripetitiva è la conversione in veicolo di Flender. Il filo narrativo che lega tutta la serie è il viaggio di due persone, legate da un affetto fortissimo, che lottano contro un manipolo di automi impazziti. Ogni episodio costituisce una tappa, durante la quale Luna e Tetsuya conoscono nuove persone e cercano di aiutarle per quanto possibile. E, come in Tekkaman, alla fine la voce del narratore tira le somme, ne ricava l’eventuale lezione, e formula l’ineluttabile domanda retorica: chi altri potrà salvare l’umanità, se non lui? L’accento è posto sul dramma personale di un ragazzo che rinuncia a tutto per il bene di una umanità la quale non gli è affatto riconoscente per il suo sacrificio. Per quanto riguarda il protagonista, non credo sia lecito parlare di maturazione o di crescita. In fondo, Tetsuya non è un guerriero “professionista”: la sua è una decisione indotta dalla mancanza di scelta. Il cambiamento c’è, ma è irreversibile, dato che potrà mai più tornare umano. Quella di Tetsuya è una condizione statica: non cambia, non evolve, non migliora. Forse è il Dottor Azuma che impara qualcosa da tutta questa vicenda. Come scienziato non può fare a meno di riflettere sui rischi derivanti dalla tecnologia, buona o cattiva secondo l’uso che se ne fa. Nel 2004 viene realizzata una versione cinematografica live action dell’anime, intitolata Kyashan – la rinascita. La vicenda non è proprio uguale a quella della serie animata. Anzi, ne diverge in molti punti. Però la coreografia è spettacolare, e ne è stato mantenuto intatto lo spirito, con un Kyashan ancora meno imbattibile rispetto alla serie e un Briking di cui si approfondiscono le motivazioni. Segnalo anche il lungometraggio animato Kyashan – Il mito, una sorta di remake che riprende la storia da zero, modificandola.
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Il pasto gratis
18 novembre 2017
Immaginate di scegliere per voi e per la vostra famiglia un ristorante rinomato e notoriamente molto caro. Immaginate di ordinare, per voi e per i vostri congiunti, i piatti più prelibati e più costosi. E siccome un buon pasto va accompagnato con un’adeguata libagione, immaginate di chiedere al cameriere di portare i migliori vini disponibili nella cantina del locale.
Immaginiamo, sempre in questo presunto scenario, che vostra moglie vi bisbigli costernata che avete esagerato e che una tale spesa è assolutamente fuori luogo per le vostre finanze.
Ed immaginiamo che voi tiriate fuori una carta di credito, rispondendo sogghignando alla vostra coniuge: “Non paghiamo noi! Paga la ditta!”.
Vostra moglie fa spallucce, nascondendo un sorriso malizioso dietro il bicchiere, mentre voi vi preparate ad addentare il vostro tanto atteso hors-d'oeuvre.
Subito dopo il caffè chiedete al cameriere di addebitare tutto sulla prestigiosa carta di credito, e uscite con il compiacimento dei commensali.
Come potrebbe essere definito un gesto del genere? Un premio alla furbizia? Un furto? Un gesto deprecabile?
Prima di sperticarsi in qualsiasi giudizio, andrebbe fatta un’analisi basata su un’unica e vera grande domanda: di chi è la ditta? Chi sono i presunti soci?
Se la titolarità della carta fosse attribuibile ad una ditta individuale di cui siete detentori (e quindi pagate voi), avreste soltanto perso una grande occasione per fare i brillanti agli occhi di vostra moglie, ma sarebbe tutto legittimo.
Se l’azienda vedesse coinvolti altri soggetti e voi non foste titolati a spendere per ambiti personali, l’utilizzo sarebbe invece del tutto fraudolento.
Se la società fosse in serie difficoltà, il gesto sarebbe comunque irresponsabile al di là o meno della legittimità.
Qual è il legame fra questo presunto aneddoto e le crisi bancarie?
È noto che fino ad oggi (vedremo come evolve la situazione in Carige), tutte le crisi bancarie si sono risolte senza troppi drammi: non è scattato il bail-in, bene o male i soggetti più deboli sono stati trattati con maggiore riguardo, e la sensazione generale è che si sia fatto molto rumore per nulla.
Chi ha goduto di alti rendimenti se li è visti riconoscere e ha ricevuto indietro il capitale investito (andrebbe fatto un discorso a parte per gli azionisti, ma è un contesto a sé stante).
Nel frattempo, tuttavia, le perdite sono state contabilizzate. Chi le paga? Gli amministratori delle banche? Senza dubbio, no.
Queste perdite sono state assorbite dallo Stato, dalla “ditta” di cui siamo tutti “soci”. E pensare che la famigerata legge sul bail-in è nata proprio per evitare che le colpe dei singoli (malversazioni e scelte gestionali sbagliate e scellerate, come quelle viste purtroppo in epoche recenti) ricadessero sulla collettività. Nel nostro bel paese, in un modo o nell’altro (fino adesso) lo Stato ha messo mano al portafogli.
Il che non significa che non ci siano stati problemi, o che tutto era in fondo tranquillo o solido. Significa, molto semplicemente, che qualcuno ha “mangiato” a spese di qualcun altro. Significa anche che qualcuno ha rischiato molto più di quello che era propenso a rischiare. Quanto accaduto, è molto serio per due ordini di motivi. In primis, perché a pagare saranno anche soggetti che tecnicamente non hanno magari “goduto” di rendimenti fuori mercato. In secondo luogo, è passato il concetto che comunque vada, non accadrà nulla di devastante.
E allora via, tutti a cercare il rendimento più alto sui conti di deposito, purché si stia sotto la soglia dei 100.000 Eur!
Anzi no. Perché la BCE sta portando avanti il progetto per il blocco delle disponibilità delle banche in crisi (in modo da evitare la corsa agli sportelli).
In poche parole viene a meno il concetto “sto sotto i centomila e se sento puzza di bruciato, porto via tutto!”.
La vera questione, tuttavia, rimane questa: perché continuare a lavorare su questo fronte se da più parti arrivano rassicurazioni sullo stato di salute delle Banche?
Va ricordato che il nodo centrale della crisi, i famosi NPL, sono stati semplicemente spostati da qualche altra parte. Siccome non sono belli a vedersi, sono stati impacchettati e nascosti in attesa che una qualche forma di ripresa consenta di riassorbirli in qualche modo.
Con buon margine di approssimazione si può dire che molto difficilmente in Italia si vedranno banche assoggettate a procedure di risoluzione, e forse tanto meno verranno mai bloccati i saldi dei conti correnti (sopra o sotto i 100.000 Eur, poco importa). Resta comunque vero che quello che non “pagheremo” noi, verrà pagato da qualcun altro o resterà comunque sul conto delle generazioni future, ai “soci” in divenire.
Pertanto, sarebbe opportuno (oltretutto anche per senso civico) cercare di scegliere controparti solide e serie. E dovrebbe essere fuori di ogni dubbio che la ricerca spasmodica del rendimento più alto, può essere del tutto fuori luogo. Ricordandosi, come si dice da tempo, che “non esistono pasti gratis”.
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