#così siamo messi
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curiositasmundi · 21 days ago
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[...] Una sentenza che rischia di inasprire ancora di più i rapporti già tesi tra governo e magistratura. Negli ultimi mesi Salvini ha ripetutamente attaccato i “giudici comunisti” per le decisioni dei tribunali di Catania, Roma e Bologna che hanno disapplicato i decreti del governo sui migranti, oltre al caso del centro di accoglienza in Albania. Se il verdetto sarà una condanna, la colpa ricadrà ancora una volta sui giudici e sul complotto dei togati “rossi” contro il centrodestra e Salvini avrà buon gioco a passare per vittima. Nel caso in cui invece si arrivasse a un’assoluzione, si potrà parlare di processo “farsa” e di uno spreco di tempo e risorse. In entrambi i casi, la sentenza sarà usata per rafforzare la tesi sulla riforma della giustizia e del maggior controllo su magistrati e giudici. [...]
Open Arms, il giorno della sentenza: Salvini aspetta il suo “regalo”
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firewalker · 4 months ago
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L'incoerenza di genere sfida la filosofia interpersonale
Post ad alto contenuto di imbarazzanti ovvietà da boomer e strafalcioni dettati da ignoranza becera dell'argomento riguardo i quali sono contento di discutere per saperne di più e per migliorarmi. Ne scrivo proprio per avere una discussione proficua. Abbiate pietà, sono nato e cresciuto negli anni ottanta del secolo scorso.
Seguitemi un attimo. Io sono Firewalker, ho una certa altezza, un certo peso, una certa capigliatura. Se cambio capigliatura, se ingrasso o dimagrisco, sono sempre Firewalker.
Ho avuto un incidente anni fa e ho cambiato il legamento crociato anteriore sinistro. Nonostante quel cambio, sono sempre io. Se perdo l'intera gamba continuo a essere io. Se perdo tutti gli arti sono comunque io. Se mi cambiano il cuore sono sempre io.
La leggenda vuole che ogni sette anni cambiamo tutte le cellule del nostro corpo (che poi dubito sia vera questa cosa, soprattutto per alcuni tipi di cellule, ma facciamo finta che). Comunque a 14 anni siamo sempre la stessa persona di quando avevamo 7 anni, giusto?
C'è una vecchia storiella che racconta che nel corso della manutenzione a una barca, questa piano piano vede sostituito tutto il suo legno con del legno nuovo.
E allora, quanti pezzi di me devo cambiare, quanto legno della barca devo sostituire, per fare sì che quella persona non sia più io, che quella barca non sia più la stessa barca?
Non so per le barche, ma la mia idea è che io risiedo nel mio cervello. Il mio cervello (la mia mente... la separazione tra cervello e mente è un altro paio di maniche. Per me sono la stessa cosa, facciamo finta che sia così per tutti per semplicità di discussione) decide come mi muovo, cosa faccio, come reagisco, decide il mio carattere, decide i miei interessi, decide le mie passioni, i miei amori, le mie antipatie. Io sono il mio cervello.
Probabilmente, se guardiamo la questione in maniera egoriferita, è lapalissiano, ed è per tutti così. Il problema è quando guardiamo gli altri. Se io conosco Marco, lo conosco con la sua altezza, col suo peso, con la sua capigliatura, oltre che con i suoi modi di fare e con i suoi interessi. Lo riconosco per il suo aspetto, e magari ho piacere a stare con lui per il suo cervello, ma non è quello che mi indica la sua identità, non è quello che me lo fa riconoscere. Per me Marco è un corpo esterno da me, per Marco lui è il suo cervello.
Ecco il punto del discorso.
Ci vuole un salto qualitativo da parte mia per riconoscere che Marco non è il suo braccio o il suo collo messi insieme a tutto il resto. Marco è il suo cervello. Questo salto qualitativo non è fatto da tutti, forse perché non ci pensano, forse perché non sono d'accordo con la mia affermazione "è così per tutti", ci hanno ragionato sopra e per loro ha importanza anche la corporeità. Forse è un problema culturale (inteso proprio come conoscenze delle varie sfaccettature di questo argomento).
Il fatto è che se Marco ha una incoerenza di genere e il suo cervello gli dice di essere Angela, ecco che potrebbe non accettare più le parti del corpo che ha, perché vive la sua realtà, il suo cervello, non è allineato. Qui si sfocia nella disforia di genere, che è un malessere generato da questa incoerenza di genere.
In qualunque modo la viva Angela, il fatto è che non vive da sola. È circondata da persone che gli dicono che si chiama Marco, che ha il corpo di Marco, e che magari non accetta il fatto che sia Angela a "pilotare" il corpo che vedono.
Gli altri devono far caso al fatto che Angela non è il suo corpo, ma il suo cervello. Devono improntare il rapporto con gli altri ad un livello superiore per poter notare questa cosa e, come detto, non tutti lo fanno. Anzi, per molti non è pensabile che Angela esista, esiste solo Marco, che è quello che loro vedono. E se Marco dice di essere Angela, allora ha un problema mentale (per alcuni è il demonio, per altri è una moda...), perché non è possibile che non si accorga di essere Marco, deve fare finta per forza.
Senza contare poi che, magari, la situazione è anche più complicata. Me li immagino pensare "sei Marco, cosa significa che non ti senti ne maschio né femmina?"
Non ho ancora trovato il modo migliore per rapportarmi con queste persone (quelle che non riconoscono Angela), so solo che la divulgazione è spesso osteggiata o marginalizzata in settori di nicchia, perché per capire certe cose (anche solo vagamente, come penso e spero di fare io) bisogna sbatterci la testa contro più e più volte, e non tutti c'hanno voglia di faticare su questo.
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ragazzadalsorrisonero · 4 months ago
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«ho raccontato di te, il mio primo amore, al mio vero amore» dissi di punto in bianco.
si girò di scatto a guardarmi, il bicchiere di vino quasi cadde dalle sue mani tremanti, eppure non pensavo che tale frase avesse potuto portare così tanto stupore.
«mi odia?» i suoi occhi vacillarono per una frazione di secondo.
«no, ti ringrazia» dissi sorridendo.
«perchè mai?» stupore e curiosità nel suo sguardo fecero capolinea.
«non sarei la donna che sono adesso grazie a te» ed era veramente così.
chissà se mai avesse pensato a quanto la nostra cosiddetta “prima storia d'amore”, ci avesse cambiato cosi tanto nel corso degli anni, portandoci a quelli che siamo ora.
«sono felice che tu abbia trovato la tua persona, ti brillano gli occhi quando sei con lui o semplicemente parli di lui. e poi vedo come ti guarda, come se fossi la sua luce. ti merita davvero» fece un cenno al soggiorno indicando il mio compagno, nel mentre quest'ultimo giocava con i bambini dell'uomo di cui un tempo, da ragazzina, ero innamorata.
«lo so, per questo lo amo» risposi in tutta sincerità e trasparenza.
se dovessi dire il nome dell'amore, come ci si sente ad essere amati, ma soprattutto amare, direi il nome del mio compagno senza esitazione.
«perchè hai raccontato di me, la persona che ti ha fatto solo stare male?»
«se tu incontrassi una persona in grado di mettere a posto pezzi di un puzzle messi in disordine da qualcun altro, credi davvero che le importerebbe soltanto di comporre il puzzle? o che soltanto ci provasse? o che addirittura si fermi un attimo ad osservare il tavolo in cui sono cosparsi tutti i pezzi, solo per cercare di capire perché lasciare tutto lì senza nemmeno averlo finito?» ammetto che come paragone non aveva alcun senso, eppure un filo logico dietro tutto ciò era ben evidente.
«per i puzzle con tanti pezzi ci vogliono ore ad assemblarlo»
«esatto, così come il cuore rotto di una persona»
«perchè mi stai dicendo tutto questo?» sembrava ferito, o forse semplicemente si rese conto delle mie parole e ciò che intendessi dire.
«per ringraziarti. per dirti quanto mi hai fatto bene, ma allo stesso tempo tanto male. per ringraziarti di avermi fatto capire cosa voglio, ma soprattutto cosa merito. per dirti che sono diventata forte, e non sono più l'ingenua di un tempo»
«se questo nostro amore ti ha reso una persona migliore nonostante il dolore, sono davvero felice che tu stia bene. questo è l'importante»
[...]
«grazie per la cena, è stata davvero una bellissima serata. e soprattutto ringrazia tua moglie, le sue doti culinarie sono strepitose»
«grazie a te di essere venuta, era da un po' che non chiacchieravamo come ai vecchi tempi»
il primo e ultimo abbraccio dopo sette anni di puro silenzio.
un capitolo chiuso.
un nuovo capitolo da scrivere.
ecco il potere del primo amore, farti crescere e capire che il vero amore deve ancora arrivare.
[...]
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raffaeleitlodeo · 1 year ago
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La controrivoluzione delle élite di cui non ci siamo accorti: intervista a Marco D’Eramo - L'indipendente on line
Fisico, poi studente di sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi, giornalista di Paese Sera, Mondoperaio e poi per lungo tempo de il manifesto. Marco D’Eramo ha di recente pubblicato il saggio Dominio, la guerra invisibile contro i sudditi (ed. Feltrinelli, 2020), un libro prezioso che, con uno stile agevole per tutti e dovizia di fonti, spiega come l’Occidente nell’ultimo mezzo secolo sia stato investito di una sorta di rivoluzione al contrario, della quale quasi nessuno si è accorto: quella lanciata dai dominanti contro i dominati. Una guerra che, almeno al momento, le élite stanno stravincendo e che si è mossa innanzitutto sul piano della battaglia delle idee per (ri)conquistare l’egemonia culturale e quindi le categorie del discorso collettivo. Una chiacchierata preziosa, che permette di svelare il neoliberismo per quello che è, ovvero un’ideologia che, in quanto tale, si muove attorno a parole e concetti chiave arbitrari ma che ormai abbiamo assimilato al punto di darli per scontati, ma che – una volta conosciuti – possono essere messi in discussione.
Ci parli di questa rivoluzione dei potenti contro il popolo, cosa è successo?
Nella storia i potenti hanno sempre fatto guerra ai sudditi, se no non sarebbero rimasti potenti, questo è normale. Il fatto è che raramente i sudditi hanno messo paura ai potenti: è successo nel 490 a.C., quando la plebe di Roma si ritirò sull’Aventino e ottenne i tribuni della plebe. Poi, per oltre duemila anni, ogni volta che i sudditi hanno cercato di ottenere qualcosa di meglio sono stati brutalmente sconfitti. Solo verso il 1650 inizia l’era delle rivoluzioni, che dura circa tre secoli, dalla decapitazione di re Carlo I d’Inghilterra fino alla rivoluzione iraniana, passando per quella francese e quelle socialiste. Da cinquant’anni non si verificano nuove rivoluzioni.
E poi cosa è successo?
Con la seconda guerra mondiale le élite hanno fatto una sorta di patto con i popoli: voi andate in guerra, noi vi garantiamo in cambio maggiori diritti sul lavoro, pensione, cure, eccetera. Dopo la guerra il potere dei subalterni è continuato a crescere, anche in Italia si sono ottenute conquiste grandiose come lo statuto dei Lavoratori, il Servizio Sanitario Nazionale ed altro. A un certo punto, le idee dei subordinati erano divenute talmente forti da contagiare le fasce vicine ai potenti: nascono organizzazioni come Medicina Democratica tra i medici, Magistratura Democratica tra i magistrati, addirittura Farnesina Democratica tra gli ambasciatori. In Italia come in tutto l’Occidente le élite hanno cominciato ad avere paura e sono passate alla controffensiva.
In che modo?
Hanno lanciato una sorta di controguerriglia ideologica. Hanno studiato Gramsci anche loro e hanno agito per riprendere l’egemonia sul piano delle idee. Partendo dai luoghi dove le idee si generano, ovvero le università. A partire dal Midwest americano, una serie di imprenditori ha cominciato a utilizzare fondazioni per finanziare pensatori, università, convegni, pubblicazioni di libri. Un rapporto del 1971 della Camera di Commercio americana lo scrive chiaramente: “bisogna riprendere il controllo e la cosa fondamentale è innanzitutto il controllo sulle università”. Da imprenditori, hanno trattato le idee come una merce da produrre e vendere: c’è la materia prima, il prodotto confezionato e la distribuzione. Il primo passo è riprendere il controllo delle università dove la materia prima, ovvero le idee, si producono; per il confezionamento si fondano invece i think tank, ovvero i centri studi dove le idee vengono digerite e confezionate in termini comprensibili e affascinanti per i consumatori finali, ai quali saranno distribuiti attraverso giornali, televisioni, scuole secondarie e così via. La guerra si è combattuta sui tre campi della diffusione delle idee, e l’hanno stravinta.
Quali sono le idee delle élite che sono divenute dominanti grazie a questa guerra per l’egemonia?
La guerra dall’alto è stata vinta a tal punto che non usiamo più le nostre parole. Ad esempio, la parola “classe” è diventata una parolaccia indicibile. Eppure Warren Buffet, uno degli uomini più ricchi del mondo, lo ha detto chiaramente: «certo che c’è stata la guerra di classe, e l’abbiamo vinta noi». O come la parola “ideologia”, anche quella una parolaccia indicibile. E allo stesso tempo tutte le parole chiave del sistema di valori neoliberista hanno conquistato il nostro mondo. Ma, innanzitutto, le élite sono riuscite a generare una sorta di rivoluzione antropologica, un nuovo tipo di uomo: l’homo economicous. Spesso si definisce il neoliberismo semplicemente come una versione estrema del capitalismo, ma non è così: tra la teoria liberale classica e quella neoliberista ci sono due concezioni dell’uomo radicalmente differenti. Se nel liberalismo classico l’uomo mitico è il commerciante e l’ideale di commercio è il baratto che si genera tra due individui liberi che si scambiano beni, nel neoliberismo l’uomo ideale diventa l’imprenditore e il mito fondatore è quello della competizione, dove per definizione uno vince e l’altro soccombe.
Quindi rispetto alle generazioni che ci hanno preceduto siamo diventati un’altra specie umana senza accorgercene?
L’idea che ogni individuo è un imprenditore genera una serie di conseguenze enormi. La precondizioni per poter avviare un’impresa è avere qualcosa da investire, e se non ho capitali cosa investo? A questa domanda un neoliberista risponde: «il tuo capitale umano». Questa è una cosa interessantissima perché cambia tutte le nozioni precedenti. Intanto non vale l’idea del rapporto di lavoro come lo conoscevamo: non esiste più un imprenditore e un operaio, ma due capitalisti, dei quali uno investe denaro e l’altro capitale umano. Non c’è nulla da rivendicare collettivamente: lo sfruttamento scompare, dal momento che è un rapporto tra capitalisti. Portando il ragionamento alle estreme conseguenze, nella logica dominante, un migrante che affoga cercando di arrivare a Lampedusa diventa un imprenditore di sé stesso fallito, perché ha sbagliato investimento. Se ci si riflette bene, la forma sociale che meglio rispecchia questa idea del capitale umano non è il liberalismo ma lo schiavismo, perché è lì che l’uomo è letteralmente un capitale che si può comprare e vendere. Quindi non credo sia errato dire che, in verità, il mito originario (e mai confessato) del neoliberismo non è il baratto ma lo schiavismo. Il grande successo che hanno avuto i neoliberisti è di farci interiorizzare quest’immagine di noi stessi. È una rivoluzione culturale che ha conquistato anche il modo dei servizi pubblici. Per esempio le unità sanitarie locali sono diventate le aziende sanitarie locali. Nelle scuole e nelle università il successo e l’insuccesso si misurano in crediti ottenuti o mancanti, come fossero istituti bancari. E per andarci, all’università, è sempre più diffusa la necessità di chiedere prestiti alle banche. Poi, una volta che hai preso il prestito, dovrai comportarti come un’impresa che ha investito, che deve ammortizzare l’investimento e avere profitti tali da non diventare insolvente. Il sistema ci ha messo nella situazione di comportarci e di vivere come imprenditori.
Ritiene che l’ideologia neoliberista abbia definitivamente vinto la propria guerra o c’è una soluzione?
Le guerre delle idee non finiscono mai, sembra che finiscano, ma non è così. Se ci pensiamo, l’ideologia liberista è molto strana, nel senso che tutte le grandi ideologie della storia offrivano al mondo una speranza di futuro migliore: le religioni ci promettevano un aldilà di pace e felicità, il socialismo una società del futuro meravigliosa, il liberalismo l’idea di un costante miglioramento delle condizioni di vita materiali. Il neoliberismo, invece, non promette nulla ed anzi ha del tutto rimosso l’idea di futuro: è un’ideologia della cedola trimestrale, incapace di ogni tipo di visione. Questo è il suo punto debole, la prima idea che saprà ridare al mondo un sogno di futuro lo spazzerà via. Ma non saranno né i partiti né i sindacati a farlo, sono istituzioni che avevano senso nel mondo precedente, basato sulle fabbriche, nella società dell’isolamento e della sorveglianza a distanza sono inerti.
Così ad occhio non sembra esserci una soluzione molto vicina…
Invece le cose possono cambiare rapidamente, molto più velocemente di quanto pensiamo. Prendiamo la globalizzazione: fino a pochi anni fa tutti erano convinti della sua irreversibilità, che il mondo sarebbe diventato un grande e unico villaggio forgiato dal sogno americano. E invece, da otto anni stiamo assistendo a una rapida e sistematica de-globalizzazione. Prima la Brexit, poi l’elezione di Trump, poi il Covid-19, poi la rottura con la Russia e il disaccoppiamento con l’economia cinese. Parlare oggi di globalizzazione nei termini in cui i suoi teorici ne parlavano solo vent’anni fa sembrerebbe del tutto ridicolo, può essere che tra vent’anni lo sarà anche l’ideologia neoliberista.
Intanto chi è interessato a cambiare le cose cosa dovrebbe fare?
Occorre rimboccarsi le maniche e fare quello che facevano i militanti alla fine dell’Ottocento, ovvero alfabetizzare politicamente le persone. Una delle grandi manovre in questa guerra culturale lanciata dal neoliberismo è stata quella di ricreare un analfabetismo politico di massa, facendoci ritornare plebe. Quindi è da qui che si parte. E poi bisogna credere nel conflitto, progettarlo, parteciparvi. Il conflitto è la cosa più importante. Lo diceva già Machiavelli: le buone leggi nascono dai tumulti. Tutte le buone riforme che sono state fatte, anche in Italia, non sono mai venute dal palazzo. Il Parlamento ha tutt’al più approvato istanze nate nelle strade, nei luoghi di lavoro, nelle piazze. Lo Statuto dei Lavoratori non è stato fatto dal Parlamento per volontà della politica, ma a seguito della grande pressione esterna fatta dai movimenti, cioè dalla gente che si mette insieme. Quindi la prima cosa è capire che il conflitto è una cosa buona. La società deve essere conflittuale perché gli interessi dei potenti non coincidono con quelli del popolo. Già Aristotele lo diceva benissimo: i dominati si ribellano perché non sono abbastanza eguali e i dominanti si rivoltano perché sono troppo eguali. Questa è la verità.
[di Andrea Legni]
https://www.lindipendente.online/2023/11/01/la-controrivoluzione-delle-elite-di-cui-non-ci-siamo-accorti-intervista-a-marco-deramo/?fbclid=IwAR0J1ttaujW9lXdoC3r4k5Jm46v3rQM_NMampT4Sd_Q-FX4D-7TFWKXhn3c
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gregor-samsung · 3 months ago
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Dopo l'attacco di Hamas del 7 ottobre, ho ricevuto un messaggio dagli organizzatori [di una conferenza sulla lingua francese che si sarebbe tenuta a Innsbruck], in cui mi si chiedeva di rendere noto il titolo del mio discorso, di « astener[mi] dal fare riferimento alla situazione attuale e di lasciare la dimensione politica fuori dal [mio] discorso per evitare qualunque scompiglio». Ho risposto che a queste condizioni non avrei potuto partecipare, poiché tutto il mio lavoro e la mia vita sono sono costantemente messi in discussione da quanto sta accadendo nel mio paese. L'organizzatrice ha insistito nel volermi chiamare per spiegarmi che «la situazione attuale» - un eufemismo - le sembrava molto confusionaria e complicata, una sorta di campo minato, e per questo voleva solo assicurarsi che quello che avrei detto sarebbe stato appropriato.
«Mi rendo conto », ha aggiunto, « che non diresti nulla di orribile. Voglio solo accertarmene ». Nelle settimane successive ho ripensato a questa conversazione e a quanto ci racconti del modo in cui noi palestinesi siamo trattati come esseri viventi, che respirano, che scrivono, che agiscono politicamente. Che io non abbia partecipato a un evento letterario è una conseguenza minima, ridicola, di quanto sta accadendo. Ma può indicare una cornice, una forma, per ciò che ancora fatico a nominare per paura che si avveri, e che in effetti sta accadendo ora a Gaza e in Cisgiordania. «Cerchiamo di trovare una risoluzione positiva», mi ha suggerito l'organizzatrice al telefono.
[…] La voce al telefono, come tanta parte del mondo che ci circonda, chiedeva la stessa cosa: per favore, cerchiamo di trovare una risoluzione positiva. Se solo voi poteste svanire, o - ancora meglio - se solo non foste proprio mai esistiti, e se solo poteste risparmiarci l'orrore, le espulsioni, i bombardamenti, le uccisioni, la fame di un popolo che ci costringete a scatenare su di voi. Il mondo intero risuonava in questa voce al telefono che mi diceva: c'è una soluzione, se solo tu non fossi così ostinato, c'è una soluzione, che è dissolverti nelle contraddizioni che ti sono state cucite addosso; se solo tu potessi disinvitarti dal mondo, se solo tu non complicassi il mondo con la tua esistenza, se solo non dovessi parlare con te, se solo non dovessi ascoltarti, se solo.
---------
Brano tratto dall'articolo dello scrittore palestinese Karim Kattam pubblicato sul sito The Baffler il 31 ottobre 2023 , quindi tradotto e pubblicato in:
ARABPOP - Rivista di arti e letterature arabe contemporanee, N. 6 / Palestina - Primavera 2024, Tamu Edizioni, Napoli.
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men4de · 1 year ago
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sono due giorni in cui non parlo con i miei genitori perché loro sono arrabbiati perché io mi sono arrabbiata con mia madre dopo che ho sentito il messaggio in segreteria che ha lasciato per sbaglio e in cui diceva di non poterne più di me
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all'alba dei 30 anni siamo messi così. ne ho parlato con la mia amica e le ho detto che a cambiarla non ci si riesce e comunque il trauma rimane. non ho avuto una buona madre, come la maggioranza delle persone e ho avuto un padre nella pratica assente ed emotivamente distante. all'alba dei trent'anni forse ho capito che devo farmi io da madre e provare ad amarmi come se fossi la mia stessa figlia. non so se ha senso, ma al momento è l'unica idea che mi è venuta per cercare di salvarmi
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occhietti · 9 months ago
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Non ho mai pensato che l'amore
fosse qualcosa di facile.
Non l'ho mai pensato perché, tutto ciò che mi ha reso felice nella vita (e non solo per ciò che riguarda i rapporti e i sentimenti), ha richiesto impegno, determinazione, costanza.
Quasi nulla mi è arrivato subito... per magia.
Sarà che le più grandi soddisfazioni, le più immense gioie, sono il risultato di un percorso dove vince chi non molla.
"Vincere" magari non è sempre quello che più vorremmo (si vince anche accettando una sconfitta!), ma se ci siamo messi in gioco e non ci siamo risparmiati... beh... siamo già l'orgoglio di noi stessi.
Anche quando ci si innamora...
beh... non è mica un traguardo!
Tutt'al più è una partenza.
Una partenza del cuore,
dove tutto è un incognita e dove accettare che noi non bastiamo a noi stessi è già di per sé non facile traguardo.
Anche nei meravigliosi casi di reciproco riconoscersi, il piccolo miracolo è solo inizio.
Così non pensate che "facile" sia una situazione più di un'altra, una storia più di un'altra, una vita più di un'altra...
Anche a chi la felicità è caduta dal cielo, poi se l'è dovuta conservare. Accettarlo è presupposto per vivere nella realtà in piena consapevolezza.
Se facile e felice fossero sinonimi,
non avrebbero una lettera di differenza.
- Letizia Cherubino, Se non t’incontro nei sogni, ti vengo a cercare
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t-annhauser · 24 days ago
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sciences po
Vedi come si sono messi tutti d'accordo a rimandare indietro i profughi siriani ora che la Siria è stata liberata, ora che al potere ci sono questi specchiati democratici che ci hanno solennemente garantito che non torceranno un capello alle donne: quand'è così, siamo a posto con la coscienza. La Siria è diventata dall'oggi al domani "paese sicuro", per comune accordo dei paesi occidentali che appena hanno intravisto l'opportunità di lavarsene le mani salvando le apparenze non hanno trovato nessun impedimento, mentre per accoglierli si sono dovute fare le conferenze internazionali. L'umanità è sempre quella degli altri vista coi lontanissimi binocoli dell'École libre des sciences politiques (il nostro razzismo è così ben camuffato dietro il mito dell'istruzione che manco più ce ne rendiamo conto).
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spettriedemoni · 8 months ago
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Imparate a fare gli idraulici
La situazione è questa: da circa 3 mesi sto combattendo con un bidet che si è letteralmente spaccato nel punto in cui si attaccava al muro. Cioè la ceramica si è spezzata. Di seguito la diapositiva del danno.
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Dopo aver parlato con il titolare di un negozio di arredi per bagno abbiamo appurato che sarebbe stato meglio, per ragioni estetiche, cambiare anche il WC. Restava solo da chiamare l’idraulico per mettersi d’accordo su quando venire a montare i due pezzi. È passato più o meno così il primo mese con l’idraulico che non trovava tempo. Alla fine ha trovato il modo di mandarci un suo collaboratore che è passato dal negozio di arredo bagno a prendere WC e bidet per poi venire da me a montarli.
Il casino più grosso è stato smontare il rubinetto del bidet un pezzo di design elegante che poi l’idraulico si è portato nel suo negozio per sistemarlo visto che perdeva e andava sostituita la cartuccia. Trattandosi di un rubinetto particolare le cartucce sono difficili da trovare. Ragazzi non fatevi prendere dal fascino del design: comprate rubinetti stupidì o banali. Pure se li prendete a Mondo Convenienza va benissimo!
Ma sto divagando, perché poi va detto che il rubinetto è stato sostituito provvisoriamente da un miscelatore normale. Poiché quando il dipendente dell’idraulico ci è venuto a sostituire il bidet era un sabato, non è stato facile trovare questo rubinetto quindi il tempo è passato ed è stato possibile montare solo il bidet mentre per il WC c’è ancora il precedente.
Nel frattempo il pezzo di ricambio dell’altro rubinetto non era ancora arrivato quindi sono passati altri giorni e siamo arrivati a fine aprile con la festa della Liberazione e quella dei lavoratori che hanno rallentato ulteriormente la ripresa dei lavori. Questo idraulico ha tra le sue abilità anche quella di fare impianti di climatizzazione ma ancora si riesce a parlarci per farsi fare un preventivo.
Circa due settimane fa ci eravamo finalmente messi d’accordo per finire i lavori. Sarebbe dovuto venire di giovedì. La sera stessa, poco prima dell’appuntamento, mi contatta il titolare dicendomi che il suo collaboratore non sarebbe potuto venire perché aveva una scheggia in un occhio. Doveva andare in ospedale a farsela togliere. Altro rinvio.
Ieri mi contatta il collaboratore dicendomi che verrà domani ed eventualmente sabato per montare il WC e per altri lavoretti minori.
Cosa può andare storto? Non lo so…
Però domani è venerdì… 17!
Volete un consiglio? Non studiate. Imparate a fare gli idraulici, perché avrete molto lavoro.
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magicnightfall · 6 months ago
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IN MY ERAS ERA: LONG LIVE ALL THE MAGIC WE MADE
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Our song is the slamming screen door
Un pomeriggio di circa quindici anni fa ho acceso la tv a caso su MTV e sono rimasta folgorata da una chitarra sbrillucicosa che faceva bella mostra di sé nel video di Our Song. Della proprietaria della chitarra ricordo di aver pensato “Carina ‘sta ragazza”. In quel momento devono essersi ricablati tutti i fili, i cavi e gli ingranaggi del mio cervello, perché Taylor Swift, da quella volta, io non l’ho più mollata.
“You know, it's been thirteen years since I got to see you in Milan..."
Quando ho preso i biglietti per lo Speak Now World Tour, che faceva tappa al forum di Assago il 15 marzo 2011, era febbraio. Altro che gli Hunger Games un anno prima. Eravamo pochi, è vero, soltanto metà palazzetto, ma posso dire che eravamo entusiasti. In fila, prima che aprissero i cancelli, si cantava a squarciagola e persino ci si spintonava. 
To live for the hope of it all
Nonostante ciò (e nonostante Taylor stessa in un’intervista in un programma americano ci avesse definiti fantastici), il Belpaese è stato cancellato dalle mappe. Siamo spariti dai radar come una nave nel triangolo delle Bermude, e di conseguenza abbiamo passato i successivi tredici anni a sperare che tornasse in Italia, a chiedere che tornasse in Italia, un po’ pure a insultarla perché non tornava in Italia. Fast forward al 2023 quando, così de botto senza senso, siamo stati messi di fronte alla più improbabile delle evidenze: sarebbe tornata in Italia, con l’Eras Tour. 
First reaction sciok.
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“Welcome to the Eras Tour”
Il The Eras Tour è figlio, tra le altre cose, di un momento storico peculiare: la pandemia. Il Lover Fest, che avrebbe dovuto fare da supporto all’album Lover, era stato annullato, e negli anni delle restrizioni, Taylor, siccome è so productive, ha sfornato folklore, evermore, Midnights, Fearless Taylor’s Version e Red Taylor’s Version. 
Tornati finalmente alla vita normale, tutto ciò non poteva che tradursi in un tour che riflettesse a pieno, e più di ogni altro, quel bisogno di aggregazione e di condivisione che solo la musica può soddisfare. 
L’Eras Tour, infatti, non nasce per promuovere, come normalmente accade, un album specifico, ma per celebrare un viaggio lungo diciotto anni, in compagnia di chi c’era dall’inizio (it’s me, hi) e di chi si è aggiunto strada facendo. Un effetto farfalla, se vogliamo, nato da circostanze irripetibili, e che ha condotto a un tour irripetibile a sua volta. Sono convinta che non staremmo qui a fare questi esatti discorsi se quattro anni fa le cose fossero andate diversamente. 
Si tratta di una premessa necessaria da fare, perché già questa sola dovrebbe bastare a inquadrare l’Eras Tour e a spiegare le ragioni dell’esaltazione di massa che gli sono ruotate attorno da quando è iniziato, a marzo dell’anno scorso, e gli ruotano attorno tuttora. Insomma, è evidente che sia qualcosa di più di una semplice tournée come ce ne sono sempre state e sempre ce ne saranno (sebbene difficilmente di queste dimensioni colossali), e qualcosa, per noi fan (a maggior ragione per noi italiani, dimenticati per tredici anni), di davvero speciale: di condivisione, di aggregazione, di comunità, di una sorta di “riconoscersi”, e di cui i friendship bracelets, che ormai ne costituiscono il simbolo, non sono che la mera e tangibile estrinsecazione. Nella recensione di TTPD accennavo proprio a questo, a come Taylor sia capace di unire persone di età, genere, etnie, nazionalità le più diverse tra loro, e di creare una bolla in cui ognuno riesce a essere se stesso e a suo agio, e a Milano ho avuto modo di rendermene conto di persona: dalla ragazza col velo e il braccio pieno di braccialetti che ho superato all’uscita della metro a quei ragazzi latini davanti a noi sulla strada del ritorno, alla coppia di Toronto con cui mi sono scambiata i braccialetti alla fine del concerto. E, ovviamente, tutti noi italiani provenienti dall’Alpe a Sicilia.
Ora, su questo tour hanno detto e stanno dicendo di tutto: la maggior parte dei giornalisti si sofferma sull’enorme indotto economico generato; per altri è l’occasione per l’ennesimo, banalissimo, servizio di costume; altri ancora, da profani, cercano di cogliere (e pretendono di spiegare a tavolino) il Taylorismo (spesso e volentieri cannando in scioltezza addirittura i titoli delle canzoni: ho già avuto modo di incrociare “Love Song” e “The Moment You Know”: che siano delle vault track?). E poi ci sono loro, i veri eroi dei nostri tempi: i Gianfranchi e le Patrizie nei loro abiti della domenica che insistono e giurano che proprio non sanno chi cazzo sia (who’s Taylor Swift anyway? Ew). Nel dubbio, comunque gli fa cagare (e si sforzano di ribadirlo con quanta più violenza verbale possibile, tanto verso di lei quanto verso i fan), perché vedi te che degrado culturale questi giovani d’oggi, signora mia, dove andremo mai a finire.
Così sono arrivata a un’incontrovertibile verità: mi sento di dire, con buona approssimazione, che su questa materia l’unica opinione che conta è la mia. La mia, e quella degli altri centotrentamila swiftie che insieme a me hanno fatto esplodere San Siro il 13 e il 14 luglio (per non parlare di quelli fuori nel parcheggio). 
E siccome è mia abitudine fissare qui sul blog le cose che vorrei poter ricordare anche quando sarò vecchia e rinco in casa di riposo, questo è il resoconto delle varie e delle eventuali della seconda serata milanese dell’Eras Tour. 
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Silenced as the soul was leaving
Ora che scrivo queste righe è passata una settimana esatta, e in tutta onestà sembrano trascorsi contemporaneamente sia ottantaquattro anni sia tredici minuti. In realtà è quasi come se non ci fossi stata. Secondo me, ed è un fenomeno che andrebbe studiato dalla scienza, la mia anima ha lasciato il corpo appena Taylor è comparsa sul palco. Allora riguardo i video che ho fatto e sentendomi starnazzare in sottofondo mi dico che sì, non solo c’ero, ma mi sono pure divertita un casino, nonostante adesso mi paia di star facendomi gaslighting da sola.
“Piacere di conoscervi”
In ogni caso, anche se dal secondo anello verde la vedevo alta suppergiù due micron e poco più, averla lì davanti è quanto di più affine alla trascendenza che abbia vissuto in tutta la mia stinfia esistenza: l’energia che emana, la sua mostruosa presenza scenica e l’altrettanto mostruosa padronanza del palco e di ogni singolo istante di spettacolo sono cose che non si vedono tutti i giorni e che non si vedranno ancora per molto tempo, checché ne dica l’ultima strofa di Clara Bow.  Ugualmente, il modo che ha di interagire con la folla rendono quella enorme macchina che è l’Eras Tour qualcosa di intimo e, pur seguendo delle formule prestabilite, qualcosa di unico, come se fosse tagliato a misura di ogni singolo pubblico. 
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Sono convinta, and I’ll die on this hill, che chiunque fosse al concerto non da fan ne sia uscito conquistato, se non proprio convertito. 
Per non parlare, poi, del modo sciolto e disinvolto con cui gestisce i contrattempi.
“You know what — we finally broke it. We have finally broken this thing”
Perché sebbene l’Eras Tour sia un meccanismo dagli ingranaggi perfettamente oliati, non per questo è esente da quei momenti da “bello della diretta” tipici dei live. Sui social e su YouTube è pieno di compilation di video denominati Errors Tour, che comprendono malfunzionamenti vari della strumentazione, inciampi, insetti ingoiati, lyrics dimenticate, problemi coi cambi d’abito, e che a me fanno sempre spisciar dal ridere. La night 2 milanese non è stata da meno, con la tastiera elettronica surriscaldata al punto da smettere di funzionare (un po’ come il mio cervello durante tutte le tre ore, se devo dirvi la verità). E quindi è stato sia divertente sia speciale (e, appunto, in qualche misura intimo) assistere a un blooper.
“Did I choose correctly, Milan?”
Ora, giusto per rendere l’idea di quanto poco il mio cervello funzionasse in quel momento, lì per lì mi ero completamente scordata che doveva ancora arrivare il set acustico e le surprise song (a mia discolpa, è perché non vedevo l’ora di sentire Anti-Hero; sennonché, arrivata poi proprio Anti-Hero, non ne avevo riconosciuto l’intro. Avete presente quando sul cruscotto della macchina si accendono tutte le spie e non funziona niente e non avete la minima idea di cosa stia succedendo? Ecco, benvenuti nella mia testa quel 14 luglio). 
Per quei fan presenti a loro stessi e che quindi si ricordano cosa sta per succedere, le surprise song sono uno tra i momenti più attesi della serata. Noi, anche per merito della folla spettacolare del giorno prima, quella che le ha cantato Sei Bellissima (si può dire una sorta di surprise song all’inverso) e che le ha fatto decidere di ripensare l’intero set, ci siamo beccati delle signore canzoni a sorpresa: Getaway Car — una tra le mie preferite di sempre — in mashup con Out of The Woods al piano, e poi Mr. Perfectly Fine in mashup con Red alla chitarra. Peraltro, e voglio credere che sia voluto, tutte canzoni facenti parti di Ere con le quali non è venuta in tour da noi (reputation, 1989, Fearless e Red). È stato un po’ come ricevere il trattamento da figli preferiti.
The crowds in stands went wild
Anche perché siamo stati belli e rumorosi. Mi perdonerà Stanis La Rochelle, ma siamo stati… italiani, ecco. Il fragore della standing ovation prima e dopo champagne problems sarà qualcosa che porterò con me per il resto della vita. Che tra l’altro, e questo le lobby dei proprietari delle palestre non ve lo dicono, un paio di sessioni di applausi così e ti tiri fuori dei bicipiti da supereroe Marvel. Poi vabbè, è toccato smettere quando Taylor è riuscita a riprendere la parola (“Vi amo tutti”), perché si stava facendo ‘na certa.
As the crowd was chanting “More!”
Già da aprile in macchina cantavo I Can Do It With A Broken Heart come se ne andasse della mia vita, e avere l’occasione di cantarne il ritornello a pieni polmoni, con particolare insistenza su quel “More!”, insieme a uno stadio stracolmo di gente che faceva altrettanto è stata l’esperienza più bella, elettrizzante e liberatoria della mia vita. Così come il bridge di Cruel Summer, il “Fuck the patriarchy” di All Too Well (cantata quasi con la mano sul cuore come un inno nazionale), il “1, 2, 3, let’s go bitch” come intermezzo in Delicate, il “What a shame she's fucked in the head” di champagne problems, e poi il ritornello di Who's Afraid Of Little Old Me e il bridge di The Smallest Man Who Ever Lived e, da bimba di Anti-Hero, l'iconico “It’s me, hi”. Per non parlare dei cuori durante Fearless e il battito di mani in You Belong With Me, una tradizione così inveterata che ormai mi viene naturale quanto respirare (pure quando guido: due colpetti sul volante e sto).
Il sovraccarico di emozioni mi avrà pure lasciato coi ricordi annebbiati — mi consola vedere come sia un’esperienza comune a parecchie altre persone — ma ‘sta roba ce l’avrò impressa a fuoco nel cervello in saecula saeculorum. Magari per far spazio a questi ricordi, stante la ram limitata della mia testa, come Peter Griffin dimenticherò come ci si siede, ma ne varrà la pena.
“And I don't even want you back, I just want to know — Aiudade lei per favore — If rusting my sparkling summer was the goal — Aiudar… — And I don't miss what we had, but could someone give — Please, some help over there, please — a message to the smallest man who ever lived?”
Un altro momento degno di nota della night 2 — in uno spettacolo che in fin dei conti è tutto degno di nota — è stato quando, durante The Smallest Man Who Ever Lived, qualcuno nel parterre si è sentito male e Taylor ha attirato l’attenzione della sicurezza chiedendo di intervenire. Non è la prima volta che accade durante l’intero tour, e ogni volta mi colpiscono l’attenzione e la responsabilità che dimostra verso i fan (a Rio de Janeiro il caldo e la gestione criminale degli organizzatori brasiliani hanno portato alla morte di una ragazza, e credo che la cosa un pochino l’abbia segnata), così come il fatto che riesca a portare avanti l’esibizione senza perdere un colpo. Io, che riesco si è no a respirare e contemporaneamente a formulare un pensiero senza perdere un colpo, non posso che guardarla ammirata anche sotto questo aspetto.
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I counted days, I counted miles, to see you there
Mi sono preparata per questo Eras Tour con una cura per il particolare che non ho mai messo e che non intendo mettere in nient’altro nella vita (prossimi concerti di TS esclusi): dal b&b prenotato il giorno stesso dell’acquisto dei biglietti alle Vans con ricamato sul tallone sinistro Anti e sul destro Hero; dalla t-shirt ufficiale che mi sono regalata a Natale alle caramelle per contrastare gli eventuali cali di zuccheri (comprati: quattr’etti — stavano in offerta – mangiate: nessuna); dai palloncini per chiudere la bottiglia in caso di sequestro del tappo al ventaglio (finalmente i matrimoni a cui sono andata sono serviti a qualcosa), e fino alla quantità strabocchevole di friendship bracelets preparati nel corso di sei mesi. Sebbene, ovviamente, l’attesa del concerto non fosse essa stessa il concerto, e un anno è davvero un fracco di tempo da far trascorrere, l’aver avuto qualcosa da progettare e da pianificare ha reso l’intera esperienza ancora più intensa.
Slipped away into a moment in time
Se non fosse, però, che quelle tre ore e un quarto di spettacolo — che pure sono tante — sono volate via in un niente. Un niente, raga, n i e n t e.  Quando, prima di Karma, Taylor ha detto “We had the most amazing time with you, Milan, you have given us so much. Would you possibily give us… one more song? Andiamo!” ho pensato no, fermi tutti, one more song cosa che saran venti minuti appena che è iniziato il concerto, suvvia non facciamo scherzi. A me di ore ne sarebbero servite almeno diciotto, tipo maratona Mentana Swift edition. E che dire delle quarantasei canzoni in scaletta? Sebbene siano oggettivamente un bel po’, per una che è in astinenza da tredici anni quelle quarantasei canzoni sono la quantità minima che userebbe una nonna per farti capire se il concerto è cotto.
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So make the friendship bracelets, take the moment and taste it
Da questo concerto sono tornata con la testa vuota e il cuore pieno. A parte aver visto Taylor, a cui io comunque voglio proprio bene (lo so che è la mia relazione parasociale con lei che parla, ma questo è) ed è sempre un onore e un privilegio poter passare una serata in sua compagnia, le interazioni che ho avuto con tutti gli altri fan sono alcuni dei ricordi più belli che conservo di quei due giorni a Milano. Menzione d’onore all’interazione più improbabile di tutte, con quel “Ma tu sei quella che ha scritto l’articolo su Tumblr?” sparato così de botto senza senso all’ingresso del stadio (ciao Mariano, scusa se in quel momento devo esserti sembrata completamente inabile alla vita ma proprio non me l’aspettavo). Ben più probabile, ma altrettanto appagante, la reunion del gruppo whatsapp composto di amiche vecchie e nuove, provenienti da regioni, province, città diverse e che conosco ognuna per ragioni differenti ma accomunate tutte dall’entusiasmo per Nostra Signora dei Sold Out: è stato anche grazie a loro, con gli scleri e i meme girati nell’etere, che l’anno di attesa in fin dei conti è volato.
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E poi i braccialetti, il cui scambio sembrava un po’ un’edizione di Giochi senza frontiere, visto che li ho regalati a persone provenienti da ogni angolo del globo, a partire dalla ragazza che in zona Duomo mi ha bussato su una spalla e mi ha offerto il suo (“Would've, Could've, Should've”), per passare a quelli scambiati in metro, nel parcheggio dello stadio (dove ho beccato, tra gli altri, un glorioso “Minnesota Soccer Mom” — io ne avevo preparato uno con “This Dang Deer”), sulle gradinate, e poi il giorno dopo in stazione e sul treno del ritorno. 
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You like like Clara Bow
È buffo come, usciti dalla bolla della perfezione dell’Eras Tour, ci siamo dovuti confrontare subito con questo paese di musichette: l’unica metro aperta dopo il concerto guasta, la pula locale che sì, boh, forse, quelli dell’ATM che andate a Cadorna e poi da lì siete nelle mani di Dio (che, ochéi, ho capito l’onnipotenza e tutto, ma pretendere che riesca addirittura a cambiare le sorti del trasporto pubblico italiano mi pare francamente eccessivo. E comunque era scesa dal palco mezz’ora prima, credo avesse altro da fare). 
Io e la mia compare ci siamo quindi ficcate su un tram a caso — e qui c’è da sottolineare per forza il senso di tranquillità che si prova a stare in mezzo agli swiftie all’una di notte inoltrata nella periferia milanese, roba che neanche a casa mia mi sento così scialla — su cui è salita un’anziana signora tanto elegante e distinta quanto scafata. Dopo qualche convenevole e averle detto perché il tram fosse pieno di gente decorata coi glitter (“Ah, il concerto di quella ragazza che canta…” vi prego, proteggete questa signora a tutti i costi) non solo ci ha spiegato le linee, le coincidenze e il senso della vita ma, scesa alla nostra stessa fermata, ha anche aspettato che salissimo sul tram che ci aveva consigliato di prendere e intanto, all’angolo della strada, faceva da palo per vedere se arrivasse prima l’autobus. La sua gentilezza e disponibilità mi hanno commossa al punto che le ho detto di pescare un braccialetto dal sacchetto. “Ma così se ne priva lei…” mi ha risposto. Quando le ho raccontato della tradizione sottesa al concerto, e che per me sarebbe stato solo un piacere potergliene regalare uno, ha tirato fuori quello con scritto “Clara Bow” (attratta dal fatto che fosse nero e oro, che a detta sua conferiva un tocco di eleganza). Ed è stranamente e cosmicamente appropriato: non essendoci presentate e non sapendo come si chiamasse, ad uso e consumo dei miei ricordi lei la chiamerò proprio Clara Bow. (L’aneddoto sarebbe stato un po’ meno poetico se avesse preso il braccialetto con scritto “No its Becky”)
Leaving me bereft and reeling
Lavorando in ragioneria credevo di essere ferratissima sugli argomenti “notte oscura dell’anima” e “morte spirituale”, ma questo era prima di sperimentare il lutto post concerto. Che tragedia incommensurabile essere stati for a moment heavenstruck e poi dover tornare alla vita stinfia di tutti i giorni. Oh, è anche vero che col corpo sarò pur in ufficio, ma con la testa sto ancora al ristorante.
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Bring you peace
Non saprei dire se sono io strana, o se invece sia successo anche a qualcun altro, ma quel che mi ha lasciato questo concerto è stata una sensazione di assoluta serenità e pace interiore. Una roba così zen che Buddha stesso ha detto “Ma famme prende appunti, toh”. Il fatto è che quando in giro leggevo di gente che ha dato fondo a tutte le lacrime, al netto delle iperboli tanto care alle narrazioni internettiane, oppure che è rimasta preda di euforia incontenibile, di quel tipo che pensi che potresti andare a scalare l’Everest senza ossigeno, necessariamente mi veniva da pensare: “Ma è così che dovrebbe essere? Mi sarebbe dovuto venir da piangere — almeno una lacrimuccia — durante marjorie, considerando che quattro anni fa durante il primissimo ascolto mi ci son quasi disidratata? Oppure mi sarei dovuta sentire carica a pallettoni?”. In realtà, più prendevo coscienza, anche nei giorni immediatamente successivi, di quell’inusitata assenza di perturbazioni mentali, più mi rendevo conto che in altre circostanze in quello stesso momento sarei stata attanagliata dalla tachicardia che appare dal nulla, dall’agitazione, dal mio solito cortocircuito di pensieri che spiralizzano fino ad arrivare, puntuali, alle conclusioni più negative nella storia delle conclusioni negative. Perché, davvero, io non mi ricordo mica quando è stata l’ultima volta che ho provato un tale senso di così pura quiete, col cuore che batte a velocità congrue, i pensieri che per una volta non fanno a gara a immaginare gli scenari più catastrofici possibili e nessuna vocina che ti dice che in fin dei conti stai buttando via l’esistenza. In generale non dovrebbe stupirmi, perché la musica di TS ha sempre avuto su di me un effetto rasserenante, eppure mi sono stupita lo stesso, perché a un livello tale di pace non ci ero mai arrivata.
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I hate it here so I will go to secret gardens in my mind
Ora, mi rendo conto che sessioni settimanali di concerti live di Taylor Swift non siano una terapia sostenibile, però già il fatto di poterci tornare con la mente aiuta. Anche il sentirmi starnazzare senza pietà e cannare tutte le note di Anti-Hero, paradossalmente, aiuta. Un po’ imbarazza, ochèi, ma per lo più aiuta. 
Hold on to the memories, they will hold on to you
E allora, cara me del futuro vecchia e rinco in casa di riposo, quando rileggerai questo post (o magari qualche gentile infermiere lo leggerà per te) spero ti sovverrà alla mente che for a moment I knew cosmic love e che, anche se solo per una manciata di ore, il mondo è stato davvero bello.
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vintagebiker43 · 8 days ago
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Buon anno dalla Siria. Buon anno da 600.000 morti. Buon anno da 14.000.000 di profughi e sfollati interni. Buon anno da una Terra che, dopo 14 anni di orrore, finalmente sogna la Pace.
L'algoritmo di Meta penalizzerà questa Missione. È inevitabile. La Siria in questo momento è il Paese più imprevedibile del pianeta. È ancora in vigore un embargo economico devastante. Il governo non è ancora ben strutturato. Non si conoscono i connotati che assumerà. Nel giro di tre settimane si è passati dal totalitarismo alla promessa di una libertà ancora troppo caotica.
Lo sappiamo perché noi ci siamo.
Ci siamo da cinque anni. Cinque anni nella Siria di nord-ovest, quella ribelle, quella che ora ha preso il Paese. Gli unici a offrire Scuola di qualità mentre tutti gli altri si ritiravano, l’ONU chiudeva gli accessi umanitari, gli Stati membri tagliavano i fondi. Il mondo aveva gettato la spugna. Noi no.
Lo sappiamo perché siamo rimasti.
E abbiamo bisogno di te per rompere il silenzio e raccontare la Siria a partire dalla sua gente.
Diamo il benvenuto al 2025 dalla Siria, proprio come il 2024 dallo Yemen, un altro Paese squassato da una crisi umanitaria ignorata dai media, dalla politica e dalle realtà internazionali, un Paese oscurato dagli algoritmi dei social, ammantato di silenzio e profonda indifferenza.
Non è colpa tua. È un sistema di manipolazione sociale e indottrinamento mediatico quello in cui viviamo. Va capito. Soprattutto, va contrastato.
È per questo che è necessario agire.
Il 2024 ci ha messi a dura prova. Ma noi non ci siamo mai arresi. Subito a gennaio, abbiamo dovuto fronteggiare un’inondazione epocale presso la nostra Scuola Internazionale in Kenya. L’abbiamo affrontata, e pochi giorni dopo eravamo già pronti a riaprire. A fine mese, dopo due anni di lavoro abbiamo inaugurato la nostra sesta Scuola nel mondo, a Bogotà, in Colombia.
A febbraio abbiamo sostenuto l’ispezione finale per erogare il Baccalaureato Internazionale, il percorso scolastico più rinomato, in Kenya.
A marzo abbiamo inaugurato la nostra prima struttura residenziale per i bambini vulnerabili.
Ad aprile abbiamo ricevuto l’esito dell’ispezione: ce l’abbiamo fatta! Siamo diventati la prima Scuola al mondo a ricevere il titolo di “IB World School” offrendo il Baccalaureato gratuitamente ai bambini vulnerabili in una baraccopoli. Stiamo facendo la Storia dell’istruzione mondiale!
A maggio, dopo un tentativo di estorsione da parte delle autorità in Kenya, abbiamo alzato la voce, denunciando e facendo una marcia pacifica insieme ai nostri studenti, e innescando così un meccanismo di protezione diplomatica internazionale che ha portato all’arresto del poliziotto corrotto: un altro momento epocale!
A giugno abbiamo iniziato il lavoro preparatorio per la nostra settima Scuola nel mondo: in India.
A luglio ho vinto due premi importantissimi: il primo dal mondo cattolico, il Premio per la Leadership e la Benevolenza Navarro-Valls; il secondo dal mondo musulmano, l’Ahmadiyya Peace Prize. Quello che facciamo riconcilia!
Ad agosto siamo stati invitati a IC3, una delle conferenze sull’istruzione più importanti del globo. Nel 2025 ospiteremo l’edizione dell’Africa Orientale presso la nostra Scuola in Kenya.
A settembre abbiamo raggiunto un traguardo in-cre-di-bi-le: il 100% degli studenti delle nostre Scuole di Emergenza in Siria, Congo e Yemen sostiene e passa l’esame finale con successo.
A ottobre la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato definitivamente la Grecia per trattamento disumano degli studenti da noi legalmente rappresentati: un altro traguardo storico nella lotta per i diritti umani in Europa.
A novembre abbiamo concluso le riprese del film-documentario su Still I Rise e sulla mia vita, in uscita con Rai Cinema ovunque quest’anno!
A dicembre abbiamo iniziato a preparare l’apertura della nostra Scuola in Italia nel 2026.
E ora siamo in Siria, finalmente, dopo anni ad aspettare questo momento inimmaginabile. E, nonostante gli orrori di cui siamo testimoni, stilare un bilancio dell’anno appena concluso mi ha infuso l’energia necessaria ad andare avanti e adempiere alla mia Missione: raccontare la verità, non secondo i dettami della propaganda ma per come i miei occhi la vedono veramente.
Il 2025 inizia con una Missione imprescindibile, promessa da prima della nascita di Still I Rise. Siamo in uno dei Paesi più devastati del mondo.
E non abbiamo paura.
ATTENZIONE! Come da prassi nelle Missioni più delicate, pubblicherò gli aggiornamenti con uno scarto di almeno 48 ore per tutelare me e i miei colleghi. Abbiamo bisogno di te. Resta con noi!
Nicolò Govoni
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mucillo · 6 months ago
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La poesia che non ho scritto
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"Ecco la poesia che volevo scrivere
prima, ma non l’ho scritta
perché ti ho sentita muoverti.
Stavo ripensando
a quella prima mattina a Zurigo.
Quando ci siamo svegliati prima dell’alba.
Per un attimo disorientati. Ma poi siamo
usciti sul balcone che dominava
il fiume e la città vecchia.
E siamo rimasti lì senza parlare.
Nudi. A osservare il cielo schiarirsi.
Così felici ed emozionati. Come se
fossimo stati messi lì
proprio in quel momento".
(Raymond Carver)
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soulacheron · 6 months ago
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𝐋𝐨 𝐒𝐩𝐞𝐭𝐭𝐫𝐨 - 𝐂𝐡𝐚𝐩𝐭𝐞𝐫 𝟐
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Here we go, chapter 2! This took me longer than expected and... I'm kinda not too happy with it, I tried my best, and I'll definitely make other chapters more interesting! We are still at the start. I hope it's still good enough and that some of you will like it! ^ ^
◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇◆◇
Santino didn't have to wait too long for his security to return for him. And their worried gaze was the first thing he noticed.
But he has to admit. He was pissed off. He actually couldn't believe they just left him to die. 
“Siamo così spiacenti- (We are so sorry)” One of his bodyguards started, but Santino didn't want to listen to it right now. “Basta!” Santino snapped as he got in the back seat. 
Ares just looked at him through the rearview mirror. Her expression seemed more emphatic. She felt bad, especially seeing all that blood on his suit. Santino made eye contact with her, and his gaze softed. He can't be mad at her. 
He felt so embarrassed. How did this even happen? He doesn't even remember most of what happened before he blacked out due to blood loss. He just really wanted to get home and try to figure out what to do with his demon wolf.
During the whole car ride, he seemed like he zoned out quite often. ‘How will I explain… that there's a demon wolf who will serve me? They're gonna think I fucking lost it.’ He talked to himself in his mind through the whole ride.
Finally, they got home. But just now he realized how stupid he looked. His suit was covered in blood, and he just looked messy. “Is that your blood?” One of his bodyguards asked when they entered his mansion. 
Fuck. Well, it is his, but he doesn't have wounds anymore. 
Santino sighed in annoyance, “No,” He replied, obviously lying about it. “It doesn't matter.” He just wanted to get this suit off already. 
“Later, I would love to hear why everyone left. You have an hour to think of an excuse,” He told them and walked away before any of them could say anything. 
Oh, he's gonna have to get the wolf to appear again. 
He got into his bedroom, immediately taking off his tie and suit jacket. “Fuck! It's fucking ruined!” He complained to himself, actually frustrated that his suit is completely ruined. 
“Master.” 
Santino flinched when he heard that voice behind him. “Cazzo! Don't do that!” He snapped, sighing in relief when he saw it was just the wolf. “My apologies for scaring you, Master,” Wolf apologized and bowed his head.
“It's okay… but don't sneak up on me like that,” Santino said and sighed heavily. He paused and realized he was talking out loud. What if someone heard him and wanted to check up on him? He's supposed to be alone in his bedroom.
“Just talk quietly. I don't want anyone to hear us. Or you,” He looked at the wolf who just sat and nodded. “Alright,” Wolf nodded again. “And how am I supposed to explain who you are?” Santino asked, wanting to pace around because seriously… how is he supposed to do this?
“Well, maybe just say that I'll be at your service. Just like they are. You don't have to go into details,” Wolf said, trying to help his Master the best way he can. “I'll see. Fuck… Okay…” Santino murmured to himself, pinching his eyes close. 
“They're worried for you. At least Ares is,” Wolf said and moved closer to Santino, wagging his tail slowly. “You think so?” Santino raised an eyebrow. Yeah, it would make sense. She is the only person he considers a friend. She's his best bodyguard, his right hand. 
“Yes. I can sense it. So, I believe you can trust her the most,” Wolf looked up at him, as if he was studying Santino's body language.
“Of course I can, I know that. Just…” Santino paused and sighed, “It doesn't matter. I want to hear why they left, and after that I'm introducing you. Okay?” 
“Whatever you say, Master,” Wolf bowed his head in respect.
Before anything, Santino had to take a shower to wash off all the dried blood, and he just felt so disgusting. But he was still amazed how he had no wounds, no scars. That wolf seriously healed him well.
Wolf waited patiently outside, in his bedroom for his Master to return. 
Once Santino was done, he dressed up in his other clothes, something more simple since he's staying at home now. A white shirt, first two buttons unbuttoned and dark black pants. 
“Alright. Don't show yourself just yet. Wait for my signal,” Santino turned to look at him. “Alright,” Wolf nodded. 
Going downstairs, few of his bodyguards and Ares were kinda discussing how to explain themselves. They immediately straightened up when they saw him. 
“So?” He asked, glancing at everyone. 
‘We thought you got taken hostage. You were nowhere around, and one of the assassins said something about that,’  Ares explained, her expression and movements were more emphatic. ‘We went after them, and then you called.’ 
Santino nodded, he believed her. She's the only one he can fully trust. 
Of course, his other bodyguards chose Ares to explain everything. She is the only one he is willing to listen to. 
“We can still go after them, if you want to, boss,” Another bodyguard said. “Leave them be. For now,” Santino nodded at them. “We can go after them tomorrow or some other time… now I just,” Santino paused, thinking how to actually introduce this demon wolf.
“We will have another… member. Consider him like another bodyguard-”
“What the- a wolf!” 
They all pointed their guns at the wolf when he walked from behind Santino and stood next to him.
“Don't shoot!” Santino ordered and stepped forward. “He will be joining you as another bodyguard! This… wolf will be at my service.” Santino kinda didn't know how to explain this. “Lower your guns!”
They listened and lowered their guns, but they all looked unsure of this. “He is not an ordinary wolf… he can talk. Please just… everyone calm down,” Santino sighed, trying to calm them down.
“My apologies for causing you distress… I have the same intentions as you all. To protect Santino,” Wolf said, standing confidently. 
“Boss… no way a wolf can talk…” another bodyguard commented. “I said he is not an ordinary wolf. He is… some kind of a demon. That's all I'll say. But you heard him, and I expect from you all to get along with him,” Santino glared at them.
‘Whatever you say,’ Ares signed. She decided to be the first one to accept this. Everyone else kinda looked at the wolf like they couldn't believe it.
“Good. Now, if you'll excuse me, I have to discuss something with him,” Santino nodded at the wolf to follow him. 
They went to the living room, and a lot of art was on the walls. Most of them are from his family, his father's collection, and some were more mythological. 
“Master, you did well,” Wolf praised, wagging his tail. “Thank you. You have no idea how stressful that was,” Santino sat on the couch, leaning against the recliner and closing his eyes for few seconds. 
Today was a weird way, he really needs rest. 
“What do you want to discuss with me?” Wolf asked and waited patiently. 
“The contract,” Santino looked over at him. “Ah, yes. What about it?” 
“It said you have to obey me, yes? You will actually serve me? Do whatever I ask you to?” Santino asked. “Yes. Anything.” Wolf said and the contract appeared on the small table in front of the couch.
“You can read everything more detailed now, if you'd like to,” Wolf said and walked towards him. Santino hummed and took the contract to read it.
He realized that he still didn't name him, and there was a space to officially write down the name for him. 
Santino looked around. The art, some of his books. He wanted to give him a mythological name, it would fit him. But which one?
Apollo? Achilles? Fenrir? 
Until he noticed one of his favorite books. 
Acheron River of Pain.
It sounded nice. And it fits him. Fits the wolf's aesthetic, and something about “river of pain” just sounds satisfying. 
“Acheron,” Santino said quietly.
“Hm?” Wolf hummed and titled his head in curiosity. 
“That will be your name. Acheron. It means river of pain. It's from Greek mythology,” Santino explained. 
“I like it, Master. It fits me,” Wolf, well, Acheron said and happily wagged his tail.
Santino smiled softly, “I'm glad, Acheron. I think we will get along well.”
“I think so, too, Master.”
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ross-nekochan · 1 year ago
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9-10 Settembre 2023
Ho scalato il monte Fuji.
C'era chi ce lo ha raccontato come niente di che e normale e chi con strazio e difficoltà.
Beh, i primi hanno chiaramente mentito.
Non ho mai scalato una montagna, sono solo andata sul Vesuvio e un'altra volta sono stata sul monte Takao qui in Giappone, ma non sapevo chiaramente cosa aspettarmi dallo scalare una montagna. Ero in parte preoccupata e in parte pronta perché mi aspettavo una passeggiata terribile di ben 8 ore, ma comunque una passeggiata. E invece non è stato niente di tutto questo.
Il monte Fuji è alto quasi 3800 metri e le stazioni totali per raggiungere la cima sono 9. Il bus ti lascia alla quinta stazione e da quel momento in poi inizia la vera scalata. La sesta stazione era abbastanza vicina e per raggiungerla si è trattato di una passeggiata in pendenza. Il bello è arrivato dopo.
Infatti dalla sesta in poi le stazioni sono divise da 1h o 1h30min di scalata, non passeggiata. Più si sale e più quello che ti trovi sotto i piedi sono rocce, non terreno. Rocce ovviamente enormi quindi devi capire dove mettere i piedi e le mani per poter andare avanti, essere coordinato e stare attento. Alla settima stazione io e un mio amico italiano abbiamo lasciato la coppia indiana indietro perché oggettivamente molto lenta e affaticata. Il progetto era di arrivare in cima per vedere l'alba che era intorno alle 5:00 del mattino e alle 22:00 eravamo già a metà strada. Così abbiamo deciso di prenderci una pausa di un'oretta.
Peccato che la montagna giapponese non è come quella italiana. Non esistono baite, ma solo luoghi per sostare a dormire (e che noi abbiamo deciso di non fare per risparmiare) e qualche sorta di chiosco con lo sportello per poter mangiare qualcosa. I prezzi al limite della denuncia: un caffè sporco o qualsiasi altra bevanda 4€ e un ramen istantaneo che in un supermercato normale costerebbe tra 1-2€ lì ne costava 8€. Per non parlare dei bagni: in Giappone i bagni non si pagano mai eppure lì 2€. L'ho trovato un comportamento schifoso e approfittatore a livelli estremi.
Quindi io e il mio amico abbiamo aspettato circa 1h al freddo con la sola fortuna di esserci messi in un angolino dell'entrata dei bagni dove il vento arrivava meno forte. A un certo punto, abbiamo cominciato a tremare con foglie e siamo stati costretti a continuare.
L'ottava stazione non era migliore. C'era una sorta di piazzale e i luoghi per ripararsi almeno un pizzico dal vento, che si faceva sempre più forte e freddo, erano quasi nulli. Lì mi sono lasciata tentare da un caffè latte caldo che mi ha aiutata un pochino a scaldarmi.
L'ultimo pezzo è stato quello più duro. Le rocce erano leggermente meno ma il sentiero era più stretto, il vento era fortissimo ma gelato e non smetteva nemmeno un secondo. Sapevo che sarebbe stato molto freddo, ma quando sei a 30°C non riesci a immaginare quanto freddo possa essere stare sotto lo zero. Non sentivo più nessuna parte del mio corpo, avevo addosso 2 maglie, un maglione, 2 felpe pesanti e non erano abbastanza nonostante mi stessi muovendo scalando, anche perché ci si fermava ogni minuto perché le persone continuavano a farsi foto ricordo bloccando la fila. Dato il poco ossigeno si faceva sempre più fatica, la testa faceva male anche perché era esausta e io ogni volta che ci fermavo mi appoggiavo la testa al braccio del mio amico pregando che finisse tutto il prima possibile. Continuavo solo perché non avevo altra scelta, non potevo rimanere lì in mezzo alle rocce quando già morivo di freddo muovendomi.
Quando siamo arrivati in cima non ci potevamo credere. Ci siamo messi un attimo dentro un edificio che vendeva souvenir per riprendere un po' di calore. L'alba stava già iniziando quindi siamo usciti fuori e di nuovo ci siamo messi a tremare perché il vento continuava a soffiare freddo e forte.
Siamo riusciti a vedere il sole che, al contrario di quanto ho visto spesso, invece di scendere, saliva minuto dopo minuto. Di nuovo faceva talmente freddo che cominciare a scendere era impossibile. Ci siamo riuniti con la coppia indiana e ci siamo rintanati prima in un angolo nel negozio di souvenir (che poi ci ha cacciato) e poi siamo stati nel ristorante a porte aperte dove abbiamo preso giusto dei caffè latte per poter restare finché ci sarebbe stato meno freddo.
La discesa non è stata meno complicata. Non era la stessa strada e non c'erano rocce ma era un percorso sdrucciolevole dove era difficile non scivolare e in continua pendenza. Era un percorso che durava la metà del tempo ma sembrava comunque infinito. Il sole ha cominciato a battere forte e mi sono anche bruciata la faccia nonostante il berretto. Le ginocchia mi hanno fatto male tutto il tempo e i piedi non stavano meglio. Quando finalmente siamo arrivati a destinazione io e il mio amico italiano non ci potevamo credere (la coppia indiana era rimasta di nuovo indietro).
Nel complesso è stata un'esperienza tremenda, che non penso rifarò mai più. È stato bellissimo vedere il cielo pulito e pieno di stelle, non l'avevo mai visto così. Come non avevo mai visto un paesaggio notturno da così in alto, ad un'altezza tale che la luna pareva starmi di fronte. Stare sopra le nuvole e poter vedere mezza regione del Kantō è stato bellissimo... ma nonostante tutto questo, la fatica messa non vale tutto quello che ho visto.
Quello che rimane è la soddisfazione di avercela fatta, di aver sfidato te stesso, il tuo corpo e il monte più alto di tutto il Giappone e di aver vinto. Per il resto: mai più.
一昨年と昨日は富士山を登り���した。
ほぼ半ばの関東の夜景色も中日景色、そしてご来光を見れるなんてとても嬉しかったんたげど、非常に辛くて、二度としない経験だと思う。
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gregor-samsung · 5 months ago
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“ Disteso sul pagliericcio del carcere, mi sentivo a casa mia, dissi a Chiellino, nel sogno ora stavo bene, ma lui mi svegliò veramente dal bel torpore dell’ultimo sonno con le parole “La campagna si fa lunga”. Il carcere era per lui, come quella della Libia e del fronte italiano, un’altra campagna. Caddi dalla branda. Volli prendere lo straccio, non so se mi spettava, e se pure mi spettava, Chiellino in mia vece era già accoccolato e così, piegato sulle ginocchia, indietreggiava man mano che con lo straccio puliva il pavimento e la striscia bagnata arrivava ai suoi piedi. «No, no, deve venire uno specchio, tu lo lisci, devi calcare; calca forte» mi diceva Chiellino. Calcavo forte e nello sventagliare lo straccio due opposti pensieri, a destra e a sinistra, mi salivano in capo: perché dobbiamo pulirci noi il pavimento? Ecco l’origine della schiavitù. Giappone, perciò, non si abbassa mai, è lì che fischietta e sorveglia, da padrone: lui, ed anch’io, faremmo crescere la polvere dei mesi e degli anni, lui per protestare e chiedere il colloquio e dire al procuratore di provvedere con uno spazzino o con una guardia, io per richiudermi nello sdegno e nell’isolamento, per non darla vinta ai boia, ai comandanti, ai giudici: essi non ci hanno soltanto messi in galera per scacciarci dalle strade, ma così ottengono che ci avvezziamo all’umile ordine interno e che ricreiamo tra noi la gerarchia dei servizi, la necessità di una legge. Loro ci volano sopra, sorridenti e beati come il generale passa a cavallo a dire col mento, col mento suo e con quello del cavallo: “Bravi, voi siete il mio ordine e la mia volontà, il mio regolamento. Fra poco morirete da cani in battaglia; anche questo è previsto”. Noi siamo le pecore e i buoi dei macellai e dei proprietari di bestiame. Così essi mantengono la loro ragione sugli operai, sui contadini, sui pezzenti e il sempre nuovo annuncio del vangelo, ogni giorno e ogni domenica, ripete la legge degli uomini e ognuno dice a se stesso: “Io sono la via, la verità, la vita” e subito corre a comandare alla moglie, ai figli, al fratello più piccolo, al più debole di sé. Il pavimento si bagnava, potevo vedermi la faccia dentro e mi arrestai nel vederla. “
Rocco Scotellaro, L' uva puttanella-Contadini del Sud, Laterza (collana Universale, n° 4; prefazione di Carlo Levi), 1977⁴, pp. 79-80.
[Prime Edizioni originali, postume: Laterza (collana Libri del tempo), 1956-1954]
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chouncazzodicasino · 1 year ago
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Un mio pensiero felice.
I pensieri felici sono quelli che ti fanno cambiare delicatamente l'umore, che ti fanno fare un accenno di sorriso senza che te ne accorgi, che ti tolgono ragnatele dagli occhi e massaggiano un po' il petto. Il mio pensiero felice del momento è il ricordo di una sera d'estate di credo otto anni fa, metà agosto, è il compleanno di zio e come al solito per i grandi compleanni viene organizzata una festa nella "piazzetta" tra la casa e la legnaia, vengono messi dei tavoli da osteria, si tirano fuori tutte le sedie e le panche, zia cucina le fettuccine al sugo di fianchetto, l'altra zia porta tre quattro casatielli, zio apre la sua riserva di vino che millanta ogni anno come il più buono di sempre e tutti parlano, ridono ad alto volume, i bambini giocano e c'è una bella atmosfera da inizio festa, l'aria è tiepida nonostante sia metà agosto, non fa tanto caldo. Sul gradone sul fondo della piazzetta ci sono i fratelli di mia zia che suonano, sono bravissimi, la batteria, il sax, le chitarre, le voci, sono cresciuta con loro che suonano rock, blues, canzoni napoletane, rock progressivo e non mi stancherei mai di sentirli. Ad un certo punto succede, parte zio Augusto alla batteria e cominciano a suonare lei. Io sono da un lato della piazzetta con il mio bicchiere di carta con un po' di vino dentro e, come ci fosse una calamita, incrocio lo sguardo di mio cugino, appoggiato al muro dalla parte opposta alla mia con la sua camicia bianca di lino da artista, i capelli arruffati in tanti riccioli ribelli e una sigaretta in bocca, che con un sorriso complice e cretino mi guarda. E' una sorta di richiamo il nostro: inevitabile e naturale. Cominciamo a muoverci, spalle lui, fianchi io, ogni movimento è un passo l'uno verso l'altro. Ed è così che in pochi secondi siamo al centro della piazzetta a ballare, sinuosi, buffi e seducenti, un ballo di quelli che ti vengono spontanei quando segui la musica e vuoi solo divertirti, è viscerale, è bellissimo. Mentre ballo scendo lenta sulle ginocchia come fosse un passo di danza, poso il bicchiere a terra, mi alzo e gli rubo la sigaretta, lui apre le braccia e canta. Dietro le sue spalle vedo mia cugina che si avvicina ballando, si tiene la gonna ampia arrotolata con una mano alla vita, è bellissima, poi arriva mia madre col suo modo buffissimo di ballare che le scompiglia i capelli, mio zio con i suoi passi avanti e indietro veloci con le braccia aperte, si aggiunge anche Barba (è il suo battesimo di fuoco), tutti cantiamo e balliamo. E' una serata come tante ed è unica allo stesso tempo, gli zii suonano tutte le nostre canzoni preferite e noi facciamo i cretini, c'è tanto casino ma anche tanta calma.
Il mio pensiero felice del momento.
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