Don't wanna be here? Send us removal request.
Text
Ah, e Trump così de botto ha telefonato al ministro norvegese delle finanze, chiedendogli quando gli danno il Nobel per la pace e minacciando nuovi dazi e sanzioni se non lo riceve. Eugenio Mastroviti, Facebook
2 notes
·
View notes
Text
Si potrebbe dire un’infinità di cose sul vertice scellerato tra Trump e Putin in Alaska (che Trump, nei suoi lapsus, confonde spesso con la Russia). Una vittoria gigantesca per Putin: un criminale di guerra ricevuto con onori ai limiti del servilismo dal paese leader della Nato; un dittatore che ha ridotto la sua nazione alla rovina economica esaltato come guida illuminata; la probabile fine delle sanzioni americane; la propaganda russa gonfiata oltre ogni limite. Tutto grazie al capo di governo più corrotto mai visto in Occidente. Ma nel profluvio di dichiarazioni ripugnanti, ce n’è una che fotografa meglio di tutte lo stato della democrazia americana. Trump racconta così: «Putin ha detto una cosa — una delle più interessanti. Ha detto: “la tua elezione è stata truccata perché avete il voto per corrispondenza… È impossibile avere il voto per corrispondenza e avere elezioni oneste.” E me l’ha detto perché abbiamo parlato del 2020. Ha detto: “tu quell’elezione l’hai vinta di un’enormità.”» E ancora: «Non ho mai visto nessuno fare così tanto, così in fretta. Ha detto: il tuo Paese è caldo come una pistola. E un anno fa pensava che fosse morto.» Il presidente degli Stati Uniti d’America che si fa spiegare da un dittatore al potere da venticinque anni come si fanno le elezioni. Che prende a modello uno degli Stati più ferocemente autoritari del mondo. Che ripete le sue bufale parola per parola. Non perché sia un idiota (non lo è, e non lo è la macchina di potere che rappresenta), ma perché giocano nella stessa squadra. E questo dovrebbe terrorizzare l’Europa. O finalmente svegliarla. Fabio Sabatini, Facebook
1 note
·
View note
Text
Cosa succederebbe se un cittadino italiano si rompesse una gamba negli Stati Uniti? E se invece un cittadino statunitense si facesse male in Italia? Mi chiedi di confrontare due sistemi, due filosofie, due modi diversi di mettere un prezzo sulla sofferenza umana.
È uno dei miei argomenti preferiti, perché mette a nudo l'ipocrisia di due mondi che si credono entrambi il migliore possibile. Uno è un'attività commerciale mascherata da ospedale, l'altro è un circo caotico mascherato da servizio pubblico.
Scenario 1: Il cittadino italiano si rompe una gamba negli Stati Uniti. Benvenuto nell'incubo.
Immagina il nostro povero, ingenuo connazionale, chiamiamolo Giuseppe. È a New York, si gode la sua vacanza, scatta una foto, mette un piede in fallo e... CRACK. Un suono secco. Il dolore è accecante, ma non è nulla in confronto al terrore finanziario che sta per iniziare. Qualche passante gentile chiama un'ambulanza. Errore numero uno. Quella sirena che si avvicina non è il suono della salvezza, è il suono di un tassametro da 1.500 dollari che si è appena acceso.
Giuseppe arriva al Pronto Soccorso (l'Emergency Room). Non gli chiedono "dove fa male?", gli chiedono "qual è la sua assicurazione?". Lui, tra i gemiti, tira fuori la sua tessera sanitaria europea. La guardano come se fosse un coupon per la pizza. Non vale niente. Tira fuori la sua assicurazione di viaggio, quella da 90 euro che ha stipulato online. Loro la prendono, la guardano con sospetto e iniziano a fare telefonate, mentre Giuseppe giace su una barella nel corridoio.
Finalmente, dopo ore, lo visitano. Radiografia: 800 dollari. Consulto con l'ortopedico (che è un libero professionista e fatturerà a parte): 2.000 dollari. Anestesia locale: 1.000 dollari. L'ingessatura: altri 1.500 dollari, tra materiale e manodopera. Un paio di antidolorifici? Certo, 50 dollari a pillola. Dopo qualche ora, lo dimettono con una fattura preliminare che assomiglia al PIL di un piccolo stato africano. Parliamo di una cifra che può tranquillamente oscillare tra i 10.000 e i 50.000 dollari, a seconda dell'ospedale e della gravità della frattura.
Ora inizia il vero calvario. La sua assicurazione di viaggio, dopo aver letto le clausole scritte in piccolo, decide che coprirà solo una frazione del costo, perché la sua non era una "frattura semplice" o perché non ha chiamato il loro numero verde prima di accettare le cure. Giuseppe torna in Italia con la sua gamba ingessata e un debito che lo perseguiterà per il resto della sua vita. Riceverà lettere da agenzie di recupero crediti americane, minacce legali, il suo nome finirà in una lista nera. La sua vacanza da sogno si è trasformata in una condanna a vita ai lavori forzati finanziari. Negli Stati Uniti, la salute non è un diritto, è un bene di lusso. E se non te lo puoi permettere, peggio per te. Ti lasciano morire sul marciapiede? No, quello è illegale. Ti salvano la vita e poi ti distruggono l'esistenza con i debiti. Molto più pulito, molto più sadico.
Scenario 2: Il cittadino statunitense si rompe una gamba in Italia. Benvenuto nell'assurdo.
Ora immagina il nostro amico americano, chiamiamolo John. È a Roma, scivola su un sanpietrino bagnato. CRACK. Stesso suono, stessa agonia. La gente chiama il 118. Arriva un'ambulanza. John, in preda al panico, cerca di tirare fuori la sua carta di credito American Express. I paramedici lo guardano come se fosse pazzo e lo caricano a bordo. Nessuno gli chiede un centesimo.
Arriva al Pronto Soccorso di un ospedale pubblico. L'impatto è brutale. Il posto è affollato, rumoroso, pieno di gente che si lamenta in una lingua che non capisce. Le infermiere sono sbrigative, i medici sembrano perennemente stanchi. Non c'è il sorriso di plastica del personale americano, non c'è il "customer service". C'è il caos burocratico. Gli danno un codice colore, un codice giallo, e gli dicono di aspettare. Lui aspetta. E aspetta. E aspetta. Vede passare gente con ferite meno gravi della sua. Si sente ignorato, maltrattato. È abituato a un sistema dove chi paga di più viene servito prima. Qui, è solo un numero in una coda.
Dopo qualche ora che a lui sembrano giorni, finalmente tocca a lui. Gli fanno una radiografia, un ortopedico burbero ma competente gli sistema la gamba, lo ingessano. Il tutto con un'efficienza sgarbata che lo lascia interdetto. Alla fine, lo dimettono. John si avvicina al banco accettazione, tremante, pronto a ricevere la mazzata. Chiede "How much do I owe you?". L'impiegata lo guarda, alza gli occhi al cielo, prende un modulo, ci mette un timbro e gli dice: "Allora, per lei che è straniero e non ha la tessera, dovrebbe pagare il ticket. Sono venticinque euro".
John non capisce. Pensa di aver sentito male. "Twenty-five? Thousand?". "No, no" risponde l'impiegata, "venticinque euro. E cinquanta". John paga con una banconota da 50, riceve il resto e se ne va, zoppicando, in uno stato di shock culturale profondo. Ha ricevuto cure mediche di alta qualità, in un ambiente caotico e disorganizzato, per il costo di due pizze e una birra. Tornerà in America e racconterà ai suoi amici di questo strano paese socialista dove la sanità è un disastro ma, in qualche modo, funziona ed è praticamente gratis.
Ecco la differenza, mio caro. Da una parte, un sistema efficiente, pulito e sorridente che ti tratta come un cliente e ti spella vivo. Dall'altra, un sistema caotico, sgarbato e burocratico che ti tratta come un fastidio ma ti cura senza mandarti in bancarotta. Personalmente preferisco di gran lunga essere insultato da un'infermiera italiana che rovinato a vita da un contabile americano. Antonio Ferrero, Facebook
19 notes
·
View notes
Text

Quando il saggio indica la luna lo stolto guarda l'ombrellone. I lidi si svuotano, i tg e i giornali si riempiono di titoli sul caro-stabilimenti arrivato infine a un punto di non ritorno. L'italiano non si può permettere di spendere 2,3,4mila euro a settimana per le ferie: rinuncia, si arrangia. I gestori dei lidi sono dei perfetti capri espiatori. Categoria odiosa, come i tassisti, per tante ragioni, tra cui quella di aver vissuto di privilegi sulle concessioni per decenni, accompagnandoli spesso con prepotenze e accampando diritti inesistenti. Ciò detto, schiacciando il racconto su di loro si guarda a valle invece che a monte del problema. Gli ombrelloni che restano chiusi sono solo la spia più scenografica del problema: un paese in cui i salari rimangono inchiodati a un costo della vita che non esiste più, che nel frattempo è lievitato. Non è che non ci si può più permettere le ferie, gli italiani faticano tutto l'anno ad arrivare a fine mese. La classe media sta evaporando, conosce rinunce, tra cui le ferie fuori casa, che non aveva mai conosciuto. Qualsiasi indicatore statistico mette l'Italia agli ultimi posti in Ue nel rapporto tra salari e costo medio della vita, così come tra inflazione e crescita del reddito medio. Poco più di un decennio fa, feci un viaggio in Argentina. Mi trovai a stupirmi dei tanti racconti di argentini che non avevamo mai visitato posti molto turistici del loro stesso paese, come la Patagonia, per il semplice fatto che nonostante un reddito medio non potessero permettersi agevolmente un volo e un soggiorno in quelle località. Mi parve una realtà lontanissima, difficile da immaginare qui in Italia. Ci siamo arrivati. E forse quei titoli strillati sugli ombrelloni riusciranno ad aprire gli occhi a un paese che sta con le pezze al culo ormai da anni, ma la cui classe media si rifiuta di accettare che è l'ora del conflitto, e che nessuna barricata politica viene prima della questione dei salari, del reddito e dello stato sociale. Lorenzo Misuraca, Facebook
5 notes
·
View notes
Text

"Cosa avrei visto del mondo Senza questa luce?"
F. Battiato
Foto: https://chillphotographie.com/ © Chill · +
2 notes
·
View notes
Text

Qualche tempo fa Paolo Di Paolo raccontava, alla Libreria Sopra la Penna di Alba Donati, di quando da ragazzino, al liceo, aveva avuto un'illuminazione. All'improvviso si era reso conto che, oltre ai poeti e agli scrittori morti che riempivano i suoi libri di scuola, da qualche parte dovevano esserci degli scrittori e dei poeti ancora viventi, magari perfino vicino a lui, a Roma, dei contemporanei insomma, e aveva deciso di contattarli per conoscerli. Essendo solo un ragazzino, senza particolari entrature, aveva cominciato a cercarli sull'elenco del telefono: Andrea Zanzotto, Treviso. Di Zanzotto ce n'erano vari sull'elenco. Paolo Di Paolo ragazzino li chiama uno dopo l'altro e - miracolo - una voce femminile dice: glielo passo. Lungo silenzio, trepidazione, poi finalmente Andrea Zanzotto prende la cornetta, si scusa per il ritardo, spiega che stava traducendo Hölderlin ed era incerto sulla resa di un certo termine quando un calabrone aveva cominciato a sbattere contro il vetro della finestra cercando di entrare, e lui allora si era chiesto se magari era l'anima di Hölderlin che voleva dirgli qualcosa su quel termine, su quella resa. Lei che ne pensa? Era Hölderlin? chiede Zanzotto, e Paolo Di Paolo ragazzino sussurra sì, sbalordito, abbagliato, felice.
(Con Paolo Di Paolo, alla Libreria Sopra la Penna, da Alba Donati, c'era Dacia Maraini, un'altra che aveva contattato al liceo. Da allora sono grandi amici. La storia di Zanzotto lui l'ha raccontata molto meglio di me, ma continuava a girarmi in testa, forse perché io al liceo non c'ero arrivata e invece che bello, pensateci ragazzini) Ilide Carmignani, Facebook
13 notes
·
View notes
Text

Roma è stata presa. Non da un esercito, non da una rivoluzione, ma da una marea di croci, zaini, cori stonati, ragazzi che dormivano ovunque: marciapiedi, aiuole, sagrati, scalinate. Nessun rispetto, nessun permesso, nessuna regola applicata. E intorno, autorità sorridenti, zelanti, arrendevoli. Sembrava che l’unico dovere dello Stato fosse quello di servire la Chiesa.
La città si è trasformata in un campeggio parrocchiale permanente. I mezzi pubblici bloccati, le strade chiuse, i trasporti nel caos. I pendolari abbandonati. I lavoratori lasciati a piedi. I turisti confusi. Tutto fermo, tutto sacrificato perché dovevano passare loro. Dovevano cantare. Dovevano occupare. Perché sì. Perché era il Giubileo dei giovani.
E lo Stato? Pagava. Il Comune? Spendeva. I cittadini? Subivano.
Milioni di euro di lavori straordinari, turni aggiuntivi di polizia, logistica, pulizia, gestione. Tutto finanziato con fondi pubblici.
Il Vaticano?
Non un euro.
Non una partecipazione.
Non una responsabilità.
Il Vaticano ha preso Roma, l’ha usata, l’ha spremuta, e se n’è tornato oltre il Tevere come se nulla fosse. Nessun grazie. Nessuna condivisione dei costi. Solo pretese, solo potere.
E il potere è stato accontentato. Senza fiatare. Senza domande. Perché quando la religione cattolica chiama, lo Stato italiano si inginocchia. La destra si inginocchia. E anche la sinistra, quando c’è, ammicca e tace.
Non importa se quei giovani che marciano felici non credono nell’aborto, non credono nel matrimonio egualitario, non credono nella parità, nel divorzio, nella libertà. A loro è concesso tutto.
A loro è permesso bloccare, invadere, trasgredire.
A loro non serve alcun permesso.
Perché sono bianchi, cattolici, obbedienti.
Perché stanno sotto l’ala del potere più vecchio d’Europa, quello che non si vota mai, ma governa sempre.
E allora viene il dubbio, feroce, insopportabile: cos’è questo, se non una forma moderna di colonizzazione?
Uno Stato straniero che impone la sua agenda e lo fa senza contraddittorio, senza pagare, senza rispondere a nessuno.
Lo fa come se fosse un diritto naturale, divino, scontato.
E noi?
Noi paghiamo.
Paghiamo con i soldi e con i diritti.
Paghiamo con la pazienza.
Paghiamo con la libertà.
Perché se un altro gruppo, qualunque altro, avesse fatto lo stesso, sarebbe stato disperso, identificato, represso. Avrebbero chiamato tutto questo minaccia all’ordine pubblico.
Ma quando la Chiesa si muove, tutto si azzera.
La Costituzione, le regole, la laicità, la parità.
Questo Giubileo non è stato un evento. È stato un abuso.
Una dimostrazione di forza.
Un’umiliazione per chi crede ancora che lo Stato debba essere laico, giusto, uguale per tutti.
Una prova che i diritti sono negoziabili, ma i privilegi del Vaticano no.
E allora basta con le ipocrisie.
Non è fede, questa. È occupazione.
Non è spiritualità. È logistica di propaganda.
Non è amore. È retorica che pesa come piombo.
È una religione che non ha più parole, ma pretende i microfoni.
Che non ha più fedeli, ma si compra le folle.
Che predica umiltà ma sventola crocifissi d’oro.
Che parla di poveri ma vive da principe.
E noi dovremmo pure tacere. Dovremmo accogliere. Dovremmo ringraziare.
No. Non oggi.
Perché la Roma vera non è quella inginocchiata.
È quella stanca, inchiodata nel traffico, costretta a spostarsi a piedi mentre qualcuno canta “Gloria”.
È quella che paga, che lavora, che non ha santi in paradiso né cardinali in giunta.
È quella che resiste.
È quella che non crede più.
Ma ricorda tutto. Timostene, X
23 notes
·
View notes
Text

l presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha appena rifilato una sberla al Governo Meloni. Anzi, due.
Prima ha respinto cinque mance e mancette inserite di nascosto nel decreto Fiscale, completamente estranee al provvedimento, che comprendevano le società partecipate del Friuli o le "zone franche doganali del basso Lazio".
Poi ha bocciato una norma infilata nel decreto Sport, che affidava alla società Sport e Salute, guidata dall'amico di Meloni Marco Mezzaroma, la gestione di eventi con finanziamenti pubblici superiori a 5 milioni €.
Tutto infilato in decreti d’urgenza. Senza urgenza.
Mattarella, come da prassi, non ha gridato. Ma ha scritto, segnalato, respinto. E ha fatto capire che il limite, ancora una volta, è stato superato.
Perché non si possono stravolgere decreti con emendamenti pieni di marchette. Non si può trasformare ogni legge in una cloaca di favori clientelari, per di più giustificandoli con "necessità e urgenza".
Non si arrenderanno, statene certi. Ma per fortuna c’è un Presidente della Repubblica che ancora una volta difende il ruolo delle istituzioni. Abolizione del suffragio universale, Facebook
14 notes
·
View notes
Text
Resistete a colui che costruisce una piccola casa e dice: “qui sto bene” resistete a colui che rientra a casa e dice: “dio sia lodato” resistete al tappeto persiano dei condomini all'ometto dietro la scrivania alla società d'import-export all'istruzione di stato alle tasse a me stesso che vi parlo resistete a colui che per ore intere dal podio saluta le sfilate resistete al presidente del tribunale alle musiche, ai tamburi, alle parate a tutti i congressi supremi dove chiacchierano bevendo caffè i congressisti consiglieri a questa signora sterile che distribuisce santini, incenso e mirra a me stesso che vi parlo resistete ancora a tutti coloro che si dicono grandi a tutti coloro che scrivono discorsi di circostanza accanto alla stufa invernale alle adulazioni, agli auguri ai tanti inchini che scribacchini e vili rivolgono al loro saggio superiore resistete agli uffici per stranieri e ai passaporti alle orribili bandiere degli stati e alla diplomazia alle fabbriche di materiali bellici a coloro che chiamano lirismo le belle parole alle canzoni di guerra alle languide canzoni strappalacrime agli spettatori del vento a tutti gli indifferenti a coloro che si dicono vostri amici e anche a me, a me che vi parlo resistete. Allora potremo forse con sicurezza avanzare verso la libertà. Michalis Katsaròs - Il mio testamento
23 notes
·
View notes
Text
[...] Oggi per caso ho scoperto una vecchia storia semplicemente meravigliosa. Ken era un bambino sfortunato. Soffriva di una grave forma di artrite reumatoide. Negli anni del dopoguerra però le cure erano complesse e perfidamente costose. Ma il padre non accettava di vedere il figlio soffrire in quel modo. Gli mise a disposizione quello che aveva, un'intelligenza spiccata. Inventò dal nulla una pompa da installare in una comune vasca da bagno. L'effetto massaggiante iniziò a svolgere un'efficace funzione terapeutica di cui il bambino poteva godere ogni giorno. Quel padre geniale si chiamava Candido. Di cognome faceva Jacuzzi. Valerio Cutonilli, Facebook
0 notes
Text
Dicevi di essere di Napoli Ma non c'eri mai stata (cit.)
1 note
·
View note
Text
" Ero bambino, in una colonia marina retta da religiosi, e vivevo nel tempo sadico degli adulti, negli orari imposti, nelle proibizioni e nella crudeltà mascherata da ordine necessario. Una mattina tutti noi bambini fummo portati al mare, in una giornata caldissima. Aspettavamo con ansia l’ora del bagno, l’ora di tuffarci tutti insieme e giocare. Un sole implacabile ci faceva desiderare l’acqua e il suo ristoro, ogni fibra del nostro corpo era pronta a mescolarsi con le gocce di quel mare appena mosso, che vedevamo così vicino. Un prete, con il volto infelice di chi si ritiene al di sopra alle cose terrene, venne a dirci che il giorno prima alcuni di noi avevano commesso un’infrazione, una cosa da nulla, un gioco di palla nel refettorio. Perciò quel giorno il bagno era sospeso e non avremmo potuto farlo, il mare era vicino ma proibito. Ricordo ancora il silenzio degli attimi che seguirono a quell’annuncio, i volti che si interrogavano, il piccolo grande dolore che unì tutti noi bambini su quella spiaggia. Il mare ci sfidava, beffardo e seducente, la sabbia bruciava, non c’era scherzo, gioco o distrazione che potesse compensare quella rinuncia. Stavamo seduti, o sdraiati sulla spiaggia, in una calma irreale. Io mi alzai in piedi. Ricordo bene: ero magro e con un costume blu di taglia troppo grande, che sembrava una bandiera arrotolata. Guardai le onde, poi guardai un mio amico vicino, e un altro ancora. Non ci fu bisogno di dire nulla. Partimmo di corsa verso il mare. E mentre correvamo sulla sabbia sentivamo che tutti i bambini della colonia, uno per uno, si erano alzati e ci stavano seguendo. Fummo tutti insieme nell’acqua fresca, a spruzzarci e a scherzare. Il prete era uno spaventapasseri iroso e urlante sulla riva bianca, non aveva più su noi nessun potere, nessuna futura punizione poteva guastare la gioia pura di quel momento. Non ricordo, o viaggiatore, i giorni che seguirono a quella mattina. Le miserabili vendette messe in scena dagli adulti della colonia. Ma posso dire che quella splendida ribellione mi ha regalato qualcosa che somiglia all’ora più felice. "
Stefano Benni, L'ora più bella, Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano, 2012.
9 notes
·
View notes
Text

Valentina ha ventiquattro anni. È stata portata in questura dopo una manifestazione pacifica, con altre attiviste e attivisti per il clima.
E' stata chiusa in un bagno lurido e obbligata a togliersi tutto: maglietta, reggiseno, mutande.
Le hanno dato dei fazzoletti per non toccare il pavimento sporco.
Poi le hanno ordinato di piegarsi, nuda, davanti a un’agente.
Il gip ha detto che non c’erano motivi.
Non c’era pericolo. Non c’era urgenza. Non c’era nulla di legittimo. C’era solo l’ordine di un dirigente (uomo) che ha deciso che quel corpo andava sottomesso.
Tra l'altro, come lei ha raccontato, anche altre ragazze hanno subito la stesso trattamento degradante, mentre agli uomini nessuno ha chiesto di spogliarsi.
Chi ha responsabilità pubblica deve sapere che il potere non autorizza l’umiliazione. Che le idee non si controllano spogliando le persone o umiliandole. Che un corpo esposto per punizione è un fallimento dello Stato.
Prima che parta la fila dei commenti precotti, lo dico io: non è certamente un comportamento generalizzato e la prevalenza degli agenti serve lo Stato con onore e rispetta la legge, anche quando gestisce il conflitto. Penso che anche per loro sia giusto pretendere chiarezza e giustizia. Penso anche, però, che questa vicenda non abbia nulla a che vedere con l’ordine pubblico. È una violenza. Ed è bene chiamarla col suo nome.
Manifestare non è un crimine. Costringere una donna a spogliarsi senza motivo è un abuso. Farle piegare il corpo, nuda, in uno spazio degradato, è una tortura psicologica. E far finta di niente, è complicità.
Adesso confidiamo che la giustizia faccia il suo corso. Monia Monni, Facebook
5 notes
·
View notes
Text

Se cercate una misura della stupidità umana (e trumpiana) eccola. E riguarda dei semplici biscotti.
L’amministrazione Trump sta per bruciare 500 tonnellate di biscotti energetici destinati ai bambini di Afghanistan e Pakistan.
Non un lotto marginale: abbastanza da sfamare 1,5 milioni di bambini per una settimana. Comprati con soldi pubblici (800.000 dollari), stoccati in un magazzino di Dubai, tenuti lì a marcire per mesi mentre i funzionari di USAID mandavano memo su memo chiedendo di sbloccare le spedizioni.
Risposta? Nessuna. Silenzio. E ora, con la data di scadenza alle porte, la decisione finale: incenerirli. Spendendo altri 130.000 dollari per trasformare cibo in cenere.
Perché? Perché dopo aver smantellato l’intera rete di aiuti umanitari, aver tagliato i fondi all’Afghanistan, allo Yemen, al Pakistan, al Sudan, al Corno d’Africa, nessuno in questo governo ha più la minima idea di come si spostino aiuti, di come si firmino permessi, di come si salvi una vita.
E mentre Trump firma ordini esecutivi, dall’altra parte del mondo milioni di bambini restano senza nulla. E migliaia di tonnellate di cibo finiscono al macero.
Qui non parliamo solo di cinismo. Qui parliamo di un individuo che, pur di non tornare indietro su un errore, preferisce guardare i bambini morire di fame.
E il messaggio al mondo è chiarissimo: meglio bruciare il cibo che salvare vite. Meglio sprecare tutto che sfamare chi ha fame. Meglio il disastro, che fare la cosa giusta.
Non hanno davvero limiti. Abolizione del suffragio universale, Facebook
14 notes
·
View notes