#codice Rocco
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Perché prendersela con la Digos?
Appena caduto il fascismo, l’Italia mussoliniana si intreccia con quella antifascista. La formazione tecnica della polizia finisce in mano a Guido Leto, ex capo dell’OVRA, i magistrati che avevano inflitto secoli di galera e confino gli oppositori non sono epurati, ci teniamo il codice Rocco, i docenti fascisti, persino gli sciagurati del Manifesto della razza e in attesa di libri repubblicani…
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#Aldo Garosci#Altiero Spinelli#Anfuso#Carlo Rosselli#Carofiglio#codice Rocco#Digos#Enzo Tagliacozzo#Ernesto Rossi#Fausto Nitti#Gaetano Azzariti#Gobetti#Guido Leto#Joice Lussu#Manlio Magini#Marisa Tulli#Massimo Salvadori#No al fascismo#OVRA#Tranchiani
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"STATO PENALE DI POLIZIA
Ieri sera la camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza il Ddl 1660, col quale senza troppi giri di parole, si istituisce in Italia lo stato di polizia.
🔴 Il blocco stradale e quindi gli scioperi diventano reato penale con condanne fino a 2 anni di carcere;
🔴 le proteste in carcere o nei Cpr possono essere punite col carcere fino a 20 anni;
🔴 idem per chi protesta contro le grandi opere;
🔴 Anche la "propaganda" delle lotte è punibile fino a 6 anni, essendo considerata "terrorismo della parola";
🔴carcere fino a 7 anni per chi occupa una casa sfitta o solidarizza con le occupazioni;
🔴 Fino a 15 anni per resistenza attiva
🔴 Fino a 4 anni per resistenza passiva (nuovo reato, ribattezzato "anti-Ghandi")
🔴 Facoltà per forze dell'ordine di detenere una seconda arma personale al di fuori di quella di ordinanza e al di fuori del servizio.
🔴 Carcere immediato anche per le madri incinte o con figli di età inferiore a un anno
🔴 Dulcis in fundo, si vieta agli immigrati senza permesso di soggiorno finanche l'uso del cellulare, vincolando l'acquisto della SIM al possesso del permesso.
Tutto ciò col silenzio complice delle "opposizioni parlamentari", le quali al di là di un voto contrario puramente di bandiera non hanno mosso un dito per contrastare realmente le nuove leggi "fascistissime", peggiorative rispetto allo stesso codice Rocco.
Anzi: su circa 160 parlamentari, al momento del voto a Montecitorio l'"opposizione" ne aveva in aula soltanto 91!!!
Non solo: prima della votazione finale del Ddl, PD e 5 stelle hanno presentato alcuni ordini del giorno (recepiti dal governo) che impegnavano quest' ultimo ad incrementare la spesa per assumere nuovi agenti di polizia e di guardie penitenziarie: l'ennesima riprova di come, al di la di qualche sfumatura, nella sostanza siano tutti uniti nella direzione di un inasprimento dei dispositivi repressivi, funzionale alla guerra e all'economia di guerra, cioè di fatto all'introduzione di una vera e propria legge marziale!
Ora la parola passa al senato, il quale sicuramente approverà in tempi brevi questa ignobile ed infame legge.
Sosteniamo la Rete Liberi di Lottare- fermiamo insieme il Ddl 1660."
Nadia Urbinati
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Gli esecratori del brutto pestaggio del Quarticciolo, ai danni di uno scippatore straniero, non si credano poi tanto cristiani. Bernardo di Chiaravalle scrisse: “Chi uccide un malfattore, non deve essere reputato un omicida ma un malicida”. E Bernardo di Chiaravalle era un Santo. Leone XIII scrisse: “L’arrendevolezza dei buoni aumenta l’audacia dei malvagi”. E Leone XIII era un Papa. Vittorio Mathieu scrisse: “Attribuire la giustizia sommaria solo a ignoranza, e la vendetta solo a un meschino desiderio di rivalsa, significa non vedere in essi tentativi che, per quanto difettosi, mirano già alla giustizia”. E Mathieu era un filosofo cattolico. Gli esecratori del brutto, evidentemente brutto, pestaggio del Quarticciolo, sappiano di essere soprattutto hegeliani. Anni fa Carlo Nordio ricordò che i fortissimi limiti all’autodifesa contenuti nel nostro codice penale sono stati inseriti nel 1930 per assicurare allo Stato (lo Stato etico di Hegel) il monopolio della violenza. Da Vincenzo Manzini e Alfredo Rocco: giuristi fascisti e dunque hegeliani, o forse hegeliani e dunque fascisti.
Assolutamente senza forse (retorico): idealisti, provincia della provincia tedesca che assieme al liberalismo traviato di Croce, han mandato completamente fuori strada il "moderatismo laico" in Italì, tenendolo cinquant'anni indietro; via https://www.ilfoglio.it/preghiera/2023/09/09/news/non-si-creda-tanto-santo-chi-esecra-il-brutto-pestaggio-del-quarticciolo-5659578/
Chissà perché rilancio sempre più frequentemente e sempre più volentieri gli articoli di CAMILLO LANGONE: ma perché il suo è normale buon senso, spiegato con quel garbo ed eleganza che la cultura vera non i salotti ti dà; elegante ma diretto dirompente spiazzante senza sconti; nel panorama di penoso pensiero debole diffuso oggi, diviene manifesto di autentica ANTROPOLOGICA SUPERIORITA'.
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Recensione "Codice Infranto" di Fabrizio Valenza
Rocco Costanzo, Angelo Tiraboschi e Gustavo Nicolis sono insegnanti e colleghi presso una scuola di Verona. Nascondono un segreto tremendo: tutti e tre hanno commesso tremendi delitti proteggendosi con un codice di comportamento creato appositamente. Ma quando una domenica pomeriggio Angelo Tiraboschi infrange le regole per soddisfare i propri istinti, uccidendo un ragazzo che si prostituiva, il…
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Antimafia, Colosimo: «Alle elezioni amministrative 32 impresentabili»
Antimafia, Colosimo: «Alle elezioni amministrative 32 impresentabili». Per la Commissione Antimafia sono 32 i candidati impresentabili alle prossime elezioni amministrative. Oltre a loro, la Commissione ha segnalato anche la presenza di 13 nomi nelle liste che hanno già ricoperto il ruolo di sindaco o di componente della giunta in sette comuni sciolti per infiltrazioni mafiose. A comunicare i nomi è stata la presidente della Commissione Chiara Colosimo, nel corso dell'audizione a Palazzo San Macuto. La Direzione nazionale antimafia aveva segnalato 71 nomi. Tuttavia, di questi, sono in totale 45 quelli che sono stati ritenuti dalla commissione in "conflitto" con il codice. Tra questi figurano 3 esponenti di Fratelli d'Italia: Sabatino Andreelli, candidato per il comune di Pescara e con un procedimento per accesso abusivo ad un sistema informatico; Luigi De Nittis, candidato al comune di Bari e accusato di bancarotta fraudolenta; Antonio Di Giuseppe, anche lui candidato al comune di Potenza, con un procedimento per autoriciclaggio e con la prossima udienza fissata per il 28 giugno prossimo. Tra i nomi comunicati dalla commissione, inoltre, figura anche un esponente di Forza Italia: Palmiro Ruggiero, candidato al comune di Vibo Valentia, per cui risulta emessa una sentenza di condanna per bancarotta fraudolenta. E anche Andrea Giudo, candidato al comune di Lecce per la lista "UDC - Puglia Popolare", con un procedimento per corruzione. Infine, per quanto riguarda i 13 candidati in violazione del codice nei comuni sciolti per infiltrazioni mafiose, si tratta di: Fabio Ramundo, assessore al comune di Neviano; Rocco Luglio, sindaco del comune di Portigliola e Domenico Musolino, assessore nello stesso comune; Luigi Cirillo, assessore del comune di Torre Annunziata; Emanuele Pio Losapio, sindaco del comune di Trinitapoli, insieme a Francesco Di Natale, vicesindaco, e Maria Michela Montuori, assessora; Tommaso Andreoli, assessore del comune di San Giuseppe Vesuviano, insieme agli assessori Silvia Annunziata, Enrico Ghirelli, Marica Miranda e Nunzio Zurino.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Nello studio della legislazione antiebraica italiana, una delle questioni più dibattute è l’individuazione delle ragioni che hanno portato alla sua
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Fuori legge: a proposito del 41 bis - Carmilla on line
Tracciare la storia del 41 Bis, a partire dall’originario codice Rocco e dalle leggi speciali varate negli anni settanta per far fronte alle lotte diffuse e alle pratica della lotta armata, significa perciò indagare lo sviluppo di pratiche inquisitoriali che hanno progressivamente cercato non soltanto di annullare la personalità e l’individualità del detenuto, ma di sostituirla con un’altra, «plasmata allo scopo di servire la causa dei torturatori» (p.57).
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Censura politicamente corretta
Dopo che il parlamento europeo ha messo sullo stesso piano nazismo e comunismo dove quest’ultimo era il vero bersaglio della questione, il mondo dei benpensanti liberisti di casa nostra ha prodotto una sua versione del controllo delle opinioni visto che il Senato ha votato a maggioranza per l’istituzione di una commissione contro “odio, razzismo e antisemitismo” proposto dalla senatrice Liliana…
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regaaaa si può firmare online per il referendum sull’eutanasia !
#un servizio pubblico che neanche la rai#e modifichiamolo questo codice rocco di epoca f*scista#che poi ok non è la proposta di legge sull’eutanasia ma lo sappiamo che in questo paese andiamo avanti a mezzi passetti alla volta#e serve anche questo !#ci vuole lo spid (ma ci sono anche altre modalità di firma digitale) ma è una cazzata !
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Comunicato Sezione ANPI "Lenuccia", Napoli
Il Senato ha approvato il disegno di legge governativo in tema di sanzioni per la distruzione o il deturpamento di beni culturali o paesaggistici (il cosiddetto ddl Eco-vandali, n.693). Si mettono così in discussione la libertà di assemblea e di protesta pacifica, fino a questo momento garantite dal nostro ordinamento e tutelate comunque a tutti i livelli, internazionali, regionali ed europei,…
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“ Quella domenica del carcere, se fosse venuto il procuratore per la rivolta contro il prete, avremmo potuto fargli sentire il codice del pazzo cavalier Carritelli, sicuri che avrebbe riso. Articolo 1: È proibito condannare innocenti. Il procuratore: «Perché?». Carritelli: «Perché io sono in carcere e sono innocente». Il procuratore e noi a ridere e Carritelli a dire: «Sono innocente io con tutti i miei colleghi». Articolo 2: Non arrestare mai donne. «Perché puoi chiudere tutti gli uomini, meno uno, quell’uno basta per tutte le donne; ma se arresti una donna, come fa a far figli? L’umanità se ne muore.» Articolo 3: È vietato cavalcare porci. «Perché il porco si getta per terra dove c’è acqua e fango e tu cadi, ti fai male e ti sporchi l’abito.» Articolo 4: Non fumare mai all’aperto. «Perché all’aria il fumo se ne scappa, dentro resta e anche chi non ha sigarette può fumare.» Articolo 5: Le banche sono abolite. «Perché ci sono molti disoccupati e gente che muore di fame senza soldi. I soldi che non hanno i disoccupati e la gente che muore di fame li tengono chiusi nelle banche, perciò le banche si devono aprire e abolire.» Noi avremmo battute le mani e il procuratore sarebbe andato correndo a dire alla moglie e agli amici il codice del cavaliere. Perché era domenica. Ma Carritelli aveva avuto uno scoppio di nervi, non era uscito a sentire la messa, dicevano i suoi compagni della quarta che da due giorni passeggiava sulla branda avanti e indietro, notte e giorno, si affacciava alla finestra e gridava: «O pasta asciutta bella, ti desidero veder!». “
Rocco Scotellaro, L' uva puttanella-Contadini del Sud, Laterza (collana Universale, n° 4; prefazione di Carlo Levi), 1977⁴, p. 110.
[Prime Edizioni originali, postume: Laterza (collana Libri del tempo), 1956-1954]
#Rocco Scotellaro#L' uva puttanella#antifascismo#Carlo Levi#narratori italiani del XX secolo#letture#libri#narrativa#Sud#Italia meridionale#Lucania#Basilicata#leggere#umorismo#letteratura italiana del '900#poeti#citazioni letterarie#carcere#romanzo autobiografico#anarchici#socialismo#Mezzogiorno#intellettuali italiani del XX secolo#meridionalismo#reclusione#intellettuali meridionali#Mezzogiorno d'Italia#domenica#fame#disoccupazione
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IL SIGNORE DELLE FORMICHE
“Il signore delle formiche” in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, è l’ultimo film di Gianni Amelio, liberamente tratto da una oscura vicenda italiana. È inutile nascondere che il titolo “Il signore delle formiche” è vagamente fuorviante, quantomeno rispetto al vero tema trattato, e il pensiero (almeno quello di chi scrive), corre immediatamente a un altro grande film, “Il signore delle mosche” diretto da Peter Brook e tratto dal romanzo di William Golding. Invece, come si è detto il film di Gianni Amelio, tratta di tutt’altra questione e le formiche sono solo il passatempo scientifico-sociologico di Aldo Braibanti, mirmecologo un po’ per diletto, drammaturgo e poeta italiano, a dire il vero non molto considerato, che nel 1965 venne accusato di aver plagiato e sottomesso sessualmente un allievo, Ettore (per altro maggiorenne e consenziente). Quel che colpisce (almeno colpisce me), è che i fatti non risalgono alla notte dei tempi, ma alla metà degli anni Sessanta, quando io andavo a scuola e poco prima che l’uomo mettesse piede sulla luna. Il racconto cinematografico ha, sul tema omofobico, un po’ lo stesso impatto che ebbe “Green Book” su quello razzista: sono fatti impensabili avvenuti nel tempo della gioventù di molti di noi e non in remoti ed oscuri secoli passati. A cercare di difendere il malcapitato Braibanti solo un coraggioso giornalista, Ennio Scribani de “L’Unità” allora organo del Partito Comunista Italiano che tuttavia, qualche imbarazzo verso la “pederastia”, come allora comunemente veniva chiamata l’omosessualità, lo nutriva e lo dimostrò con l’allontanamento del giornalista dal quotidiano, se non caldeggiato, quanto meno non ostacolato dall’allora direttore Maurizio Ferrara. Va detto tuttavia e purtroppo nel film non se ne fa cenno, che il giornale comunista qualche anno dopo, nel 1968, difese a spada tratta Braibanti dalla infamanti accuse che gli mosse la giustizia italiana modellata sul Codice Rocco. Il film di Gianni Amelio è crudo e raffinato al tempo stesso, con una fotografia quasi bertolucciana costruito su ritmi pacati pur nella convulsione degli accadimenti. È il classico film che vuole tentare di scuotere le coscienze e che smuove i sentimenti, sia per la palese ingiustizia subita dalle vittime (ricordiamo che anche Ettore magistralmente interpretato dall’esordiente Leonardo Maltese, viene considerato un malato psichico e sottoposto all’elettroshock), sia per la tenerezza e la compassione che suscita nei confronti della coppia. Da vedere? Naturalmente da vedere per poetica e messaggio, ma soprattutto da non dimenticare troppo in fretta.
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Le bestemmie sono illegali? Le bestemmie italiane più diffuse accostano l’epiteto “porco”, “cane” o “boia” al nome della divinità che si vuole ingiuriare: ma ce ne sono molti altri, di epiteti, che dipendono dai dialetti e dalle consuetudini locali e in molte regioni funzionano come un intercalare, con percezioni, reazioni e abitudini molto diverse. In alcuni paesi del mondo bestemmiare non è un reato, in altri è punibile con la pena di morte; in alcuni la legislazione parla esplicitamente di bestemmie, in altri di “insulti religiosi” o di blasfemia. In Italia chi bestemmia vìola una legge dello Stato e può dunque essere punito: ci sono però dei requisiti perché la bestemmia possa essere riconosciuta come tale. (...) La legge in Italia Nell’ordinamento giuridico italiano la bestemmia è rimasta un reato per molto tempo, inserita nella sezione del codice penale che si occupa delle contravvenzioni «concernenti la polizia dei costumi». L’articolo 724 del codice Rocco del 1930 prevedeva però che la bestemmia fosse un reato solo se riferito alla religione cattolica: per le altre religioni si parlava semplicemente di turpiloquio. La legge prevedeva anche che le offese contro tutte le figure venerate dal cattolicesimo – e solo dal cattolicesimo – fossero considerate bestemmia. E diceva: «Chiunque pubblicamente bestemmia, con invettive o parole oltraggiose, contro la Divinità o Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato è punito con l’ammenda da lire ventimila a seicentomila». La legge includeva tra le bestemmie anche le pubbliche manifestazioni oltraggiose verso i defunti. Nel 1984, quando al governo c’era Bettino Craxi, venne firmato il nuovo Concordato tra Stato e Chiesa che prevedeva, tra le altre cose, l’abolizione della clausola che riconosceva alla religione cattolica la condizione di religione di Stato. L’intervento dei legislatori per adeguare l’articolo 724 alla nuova situazione tardò però ad arrivare, così nel 1995 intervenne la Corte Costituzionale con la sentenza n. 440 che dichiarò illegittimo il riferimento alla frase «i Simboli o le Persone venerate nella religione dello Stato», mantenendo invece solo il riferimento alla “Divinità”, che comprendeva genericamente anche le altre religioni. Nel 1999, quando al governo c’era Massimo D’Alema, la bestemmia venne depenalizzata e trasformata in un illecito amministrativo: le parole «Alla stessa pena soggiace chi» vennero sostituite con la frase «La stessa sanzione si applica a chi». Per la Madonna e i santi non vale Ma nello specifico e per legge, però, cosa si intende per bestemmia? Si intende l’offesa pronunciata pubblicamente ��� dunque in un luogo pubblico o aperto al pubblico, e davanti a testimoni – al dio della religione cattolica e agli dei di ogni credo, ma anche l’oltraggio contro i defunti. La Madonna della religione cattolica non è in alcun modo citata dalla legge, quindi l’oltraggio alla Madonna a termini di legge non è una bestemmia e non è perseguibile. Nel 1996, la Pretura di Avezzano assolse per esempio un uomo che era stato denunciato per avere bestemmiato contro Dio e contro la Madonna. La prima bestemmia cadde in prescrizione, la seconda non venne considerata poiché la Madonna, diceva la sentenza, «è per la religione cattolica persona venerata, strettamente collegata alla divinità come madre di Dio, ma non confondibile con essa». Insomma, l’apertura della bestemmia ad altre religioni e l’uso della parola generica “divinità” hanno escluso una serie di figure oggetto di culto nel cattolicesimo: oltre alla Madonna, anche i santi e le sante. Che cosa si può fare, dunque, a termini di legge È legale bestemmiare la Madonna, i santi e le sante, sia pubblicamente che in privato. È legale bestemmiare ciò che è considerato “divino” dal cattolicesimo, dalle altre religioni e i defunti soltanto a casa propria o in un luogo privato. Che cosa non si può fare, a termini di legge È illegale bestemmiare ciò che è considerato “divino” dal cattolicesimo, dalle altre religioni o i defunti in un luogo pubblico o aperto al pubblico, e davanti a dei testimoni. Per la legge, il fatto che in certi ambienti bestemmiare possa essere una consuetudine culturale è irrilevante. Se si bestemmia, se si viene denunciati e poi condannati, la sanzione va da 51 a 309 euro. Tutto questo si applica anche ai social network, che la giurisprudenza considera dei luoghi pubblici: è del 2017 una delle condanne più recenti. (...) Il Post
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Bologna, picchia la compagna e prende a pugni la porta dove si era rifugiata. Arrestato 30enne marocchino
Bologna, picchia la compagna e prende a pugni la porta dove si era rifugiata. Arrestato 30enne marocchino. I Carabinieri della Tenenza di Medicina (Bologna) hanno arrestato un 30enne marocchino per maltrattamenti contro familiari o conviventi. È successo nella notte, quando i Carabinieri della Centrale Operativa di Imola hanno ricevuto la richiesta d'aiuto di un cittadino, preoccupato dalle urla e dalle richieste d'aiuto che aveva udito da un appartamento condominiale. Appresa la notizia, i Carabinieri si sono diretti sul posto e quando si sono presentati al portone di casa, sono stati accolti da una ragazza sulla ventina che stava piangendo. Tranquillizzata dai militari, la giovane ha riferito che il compagno, colto da un raptus di gelosia notturna, dopo averla picchiata e spinta a terra, aveva preso a pugni la porta della camera, dove la malcapitata e la madre di quest'ultima, convivente, si erano rifugiate per sfuggire all'attacco del 30enne. Questi, resosi conto che stavano arrivando i Carabinieri, ha tentato la fuga, ma senza successo ed è stato arrestato poco dopo. Ferito sulla mano utilizzata per sfondare la porta, il 30enne è stato medicato dai sanitari del 118, chiamati dai Carabinieri. Anche la ragazza è stata soccorsa, ma si è rifiutata di andare in ospedale. Su disposizione della Procura della Repubblica di Bologna che ha attivato il "codice rosso" per tutelare la vittima, il 30enne arrestato dai Carabinieri, è stato tradotto presso la Casa circondariale – Rocco D'amato di Bologna.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Il nostro 25 Aprile è diverso - Osservatorio Repressione
Da decenni ormai il 25 Aprile si divide tra qualche pranzo rituale e le manifestazioni ufficiali, in poche città eventi alternativi tra cortei e presidi o momenti di contestazione rivolti a politici non proprio coerenti con i dettami antifascisti e della Costituzione.
Panorama a dir poco desolante, soprattutto i pranzi rituali nei circoli Arci (non ce ne vogliano i circoli e gli organizzatori ai quali va riconosciuto il merito di dedicare tempo libero a eventi collettivi), biciclettate o camminate (meteo permettendo) ma quest’anno abbiamo perso una grande occasione, quella di costruire dei momenti di discussione attorno alle due guerre, quella che si combatte in Ucraina e il conflitto condotto contro i lavoratori, le lavoratrici e le classi sociali meno abbienti in nome dell’economia di guerra.
E, volenti o no, anche gli eventi rituali hanno allontanato questa opportunità come se il 25 Aprile fosse solo una data di memoria da non attualizzare nel presente, anzi è proprio l’attualizzazione che fa paura a sinistra.
La presa di posizione dell’ Anpi è stata coraggiosa pur anche con quale scivolone (non c’è bisogno di condannare, come fa Pagliarulo, la censura stalinista basterebbe guardare al silenzio dei media occidentali verso l’estradizione di Assange per coniare un nuovo termine , più moderno e appropriato: la dittatura mediatica mainstream), contro l’Anpi è in corso una campagna denigratoria (si veda a tal riguardo l’articolo di Davide Conti di qualche giorno fa su Il Manifesto) ma anche l’Anpi ha le sue responsabilità prima tra tutte avere fatto da stampella per decenni a quel centro sinistra che la Costituzione ha stravolto con il pareggio di Bilancio.
La verità taciuta è scomoda, a sinistra è partito il revisionismo storico, dallo sdoganamento dei Ragazzi di Salò a una vasta pubblicistica di memorie spesso oggetto di parziali ricostruzioni.
Non si capisce cosa sia accaduto dopo il 1945 se non si guarda all’amnistia Togliatti, all’uso fatto di questa sorta di libera tutti che ha permesso ad esponenti di primo piano del Fascismo di riciclarsi nella Italia repubblicana. Ricordiamo quando Sandro Pertini interrogava in Parlamento De Gasperi sui tanti processi a carico dei partigiani, sulle sentenze che assolvevano i torturatori fascisti riammettendoli nei loro incarichi, potremmo menzionare Carlo Levi con il suo romanzo l’Orologio che descriveva lo sconcerto degli antifascisti e dei partigiani che si ritrovavano, nell’Italia repubblicana, i dirigenti ministeriali e delle forze dell’ordine dell’epoca fascista.
Quella amnistia venne approvata in nome della pacificazione ma fu anche gestita in modo assai contraddittorio e l’Italia ha perso l’occasione per fare i conti con il suo passato fascista, ha lasciato al suo posto il Codice Rocco poi rafforzato dalle legislazioni d’emergenza e oggi ci ritroviamo un utilizzo improprio dello stato di Emergenza, dalla pandemia alla guerra.
Ha ragioni da vendere Mimmo Franzinelli (da cui dissentiamo sulla analisi della guerra in Ucraina) quando scrive (Il fascismo è finito il 25 Aprile 1945 editore Laterza 2022) quando parla di sedimenti fascisti ereditati dalla Italia repubblicana o quando critica i giudici formatisi sotto il fascismo e alla dipendenze dello stesso chiamati a giudicare sui fatti commessi nei 20 anni del Regime. Dovremmo leggere molte delle sentenze di assoluzione dei fascisti e confrontarle con il carcere che continuò ad ospitare molti antifascisti dopo il 1945 per reati commessi nello svolgimento delle loro attività di oppositori a Mussolini.
Analogo discorso andrebbe fatto per il Colonialismo italiano, gli Italiani brava gente assolti e mai portati sui banchi del Tribunale nonostante esistessero documenti inappuntabili a testimoniare gli eccidi nei paesi occupati.
Non si fa i conti con la storia attraverso le omissioni e le eredità fasciste nell’Italia repubblicana sono innumerevoli, quella Amnistia è stata funzionale ad una rimozione di massa del fascismo e alla riabilitazione dei quadri amministrativi che la Italia repubblicana eredità dal ventennio mentre al contempo cacciava dalle forze dell’ordine gli antifascisti.
Se oggi in Italia, a sinistra, si mette in discussione l’art 11 della Costituzione, dovremmo chiederci perchè da decenni l’Italia partecipa alle guerre Usa e Nato e per farlo occorre guardare alla storia recente e agli scenari futuri della Bussola europea.
Per altri il 25 Aprile avviene con la celebrazione del ruolo della Nato o del fin troppo taciuto metodo Giakarta nel nome del quale sono stati uccisi milioni di persone nei paesi che si ribellavano agli Usa e alla loro pretesa di controllare il Globo.
Il nostro 25 Aprile è quindi diverso perchè vuole guardare al rimosso, alle pagine della storia occultate, alla continuità tra fascismo e Italia repubblicana, alla riabilitazione di tanti nazi fascisti avvenuta in funzione anti comunista.
E senza questa premessa non si capisce perchè oggi qualcuno celebra la Nato e ritiene l’Alleanza Atlantica paladina della pace.
Allo stesso tempo urge fare i conti con la guerra, alla economia di guerra con l’attacco spietato alle classi subalterne, ai diritti dei lavoratori e delle lavoratrici da decenni sotto attacco come dimostra la debacle dei diritti sociali, la perdita del potere di acquisto e di contrattazione.
E qui entra in gioco un altro antifascismo, quello che individuava nel fascismo non solo una espressione del totalitarismo ma lo strumento con cui sono stati attaccate le istanze delle classi subalterne.
E l’antifascismo di classe la vittima sacrificale della rimozione dei fatti storici e della esaltazione della Nato oggi.
Federico Giusti

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Il soldato ruffanese Rocco Gnoni e le fucilazioni sommarie nella Prima Guerra Mondiale
di Paolo Vincenti*
Giovani soldati che verranno cancellati dal tempo
e dimenticati come cenere dispersa nel vento
figli di una terra che non vuole più tenerseli accanto
cosa rimane dopo un sacrificio inutile
di questa vita già finita in un istante soltanto il mio onore
il bene più importante
(Enrico Ruggeri, Il mio onore)
Una dolorosa pagina di storia nazionale, una delle più inquietanti della Prima Guerra Mondiale, è quella delle fucilazioni sommarie, che vide alcune centinaia di soldati morti per repressione interna, ovvero uccisi sul fronte dallo stesso esercito italiano per episodi di insubordinazione o resistenza agli ordini, diserzione o altro ancora. Nella Prima Guerra Mondiale non si moriva solo di fame, di freddo, di stenti, di malattie contratte nelle trincee, o sotto i colpi dell’esercito nemico.
In migliaia di processi sommari a discapito di soldati italiani, mandati alla sbarra per futili motivi, molti di questi soldati con estrema superficialità vennero condannati. Soldati innocenti, con un banale pretesto, venivano accusati di gravi misfatti e passati alle armi, assolvendo alla funzione di capro espiatorio, secondo la più classica concezione di derivazione ebraica.
E anzi se la guerra stessa, secondo l’interpretazione antropologica abbondantemente sviluppata da Renè Girard della violenza fondatrice della nazione, sta alla base della odierna società[1], a maggior ragione, il sacrificio di un drappello di soldati, per giunta giovani, si presenta come una specie di macabra sineddoche, pars pro toto, cioè, della guerra, che è essa stessa sacrificio di massa, secondo Roger Caillois[2]. Le motivazioni spesso addotte dai tribunali erano del seguente tenore: «il tribunale non ritiene di dover concedere le attenuanti generiche nell’interesse della disciplina militare per la necessità che un salutare esempio neutralizzi i frutti della propaganda demoralizzatrice». Ossia, le condanne venivano comminate anche «in chiave di ammonimento e di prevenzione generale», fedelmente al motto di Mao Zedong “colpirne uno per educarne cento”, poi fatto proprio dalle Brigate Rosse italiane negli anni del terrorismo. L’arroganza del Generale Cadorna, il senso di sfiducia e di sospetto da parte del Comando Supremo nei confronti dei soldati, generato dalla consapevolezza della palese impreparazione del nostro esercito rispetto alle forze nemiche, portarono alle sanguinose repressioni di militari sui militari. Queste repressioni avvenivano per i più svariati motivi, quali diserzione, comportamenti indisciplinati, atti di autolesionismo. Quello che è peggio è che questi severi provvedimenti venivano lasciati all’arbitrio degli ufficiali sul campo, i quali erano costretti ad assumere delle decisioni fatali senza il giusto discernimento, turbati dalla grave tensione del momento o dal timore di essere essi stessi oggetto di provvedimenti disciplinari per mancato decisionismo. Il tragico conto finale delle fucilazioni è di 750 soldati con processi dei tribunali militari e oltre 300 vittime di giustizia sommaria, come approfondiremo in questa trattazione.
Il problema era anche dovuto alla vetustà della normativa militare italiana in vigore nella Prima Guerra Mondiale. Infatti, il codice penale militare risaliva al 15 febbraio 1870 e questo, a sua volta, riproduceva, con solo lievi modifiche, quello dell’esercito sardo dell’ottobre 1859. Dobbiamo le notizie che riportiamo in questo saggio a due libri fondamentali: Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, di Enzo Forcella e Alberto Montico ne[3], e Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, di Marco Pluviano e Irene Guerrini[4].
«L’edizione del 1914 del codice penale per l’Esercito del Regno d’Italia prevedeva la pena di morte per un’ampia casistica di reati commessi in tempo di guerra, quali lo sbandamento o l’abbandono di posto in combattimento, il tradimento, la diserzione, lo spionaggio, la rivolta, le vie di fatto contro un superiore, l’insubordinazione in faccia al nemico, la mancata consegna o l’abbandono di posto da parte di vedetta o di sentinella di fronte al nemico; la sollevazione di grida allo scopo di obbligare il comandante a non impegnare un combattimento, a cessare da esso, a retrocedere o arrendersi; inoltre lo spargimento di notizie, lancio di urla per incutere spavento o provocare il disordine nelle truppe, nel principio o nel corso del combattimento. La pena capitale era riservata anche ai comandanti, per reati particolarmente gravi, quali ad esempio la resa di una fortezza senza aver esauriti gli estremi mezzi di difesa e l’abbandono di comando in faccia al nemico»[5].
E l’Italia non era nemmeno la nazione ad avere il codice penale più obsoleto, in quanto, «ad esempio, l’esercito tedesco impiegò nella Grande Guerra il codice penale militare del 20 giugno 1872, mentre quello austro-ungarico risaliva al 1868 (modificato nel 1869 e nel 1873)»[6]. Agli ufficiali era conferito il potere di emanare dei bandi, in base all’articolo 251 del codice penale militare, ai quali tutti dovevano rigidamente attenersi. Tali bandi prevedevano delle norme di comportamento draconiane e delle pene durissime per i trasgressori. Queste pene, poi, data l’ampia facoltà discrezionale dei comminatori, si potevano trasformare in definitive, capitali. Gli inferiori erano tenuti ad ubbidire senza pensare, a dimostrarsi forti, coraggiosi, sprezzanti del pericolo in ogni circostanza.
Si può capire come questi episodi contribuiscano a smontare del tutto i luoghi comuni sulla “guerra gloriosa” che l’enfasi patriottarda ha stratificato per anni nell’immaginario collettivo che sempre si alimenta di esempi edificanti quanto edulcorati. La guerra perde così qualsiasi aura di “guerra giusta”, perde ogni legame con l’aggettivo “grande”, che la pubblicistica le ha cucito addosso, per rivelarsi ai nostri occhi per quello che essa è, cioè guerra, anzi «Guerra! Guerra!», come grida la Norma di Bellini (“guerra, strage, sterminio”), maledetta, come tutte le guerre.
La dura repressione partì da una Circolare del Generale Cadorna che nel maggio 2015 stabiliva: «Il Comando Supremo vuole che, in ogni contingenza di luogo e di tempo, regni sovrana in tutto l’esercito una ferrea disciplina». Per mantenerla, era scritto, «si prevenga con oculatezza e si reprima con inflessibile vigore»[7]. Nel settembre di quell’anno, venne emanata un’altra Circolare, col n. 3525, secondo la quale, al verificarsi di atti di «indisciplina individuale o collettiva nei reparti al fronte», bisognava rispondere con un immediato intervento di repressione, che prevedeva anche la fucilazione, come giustizia sul campo, sommaria, se i sintomi di tale insubordinazione fossero stati gravi[8]. Si lasciava cioè ai militari superiori, ufficiali e Regi Carabinieri, una enorme discrezionalità nelle decisioni da adottare e, in buona sostanza, il diritto di vita e di morte sui loro sottoposti. Se poi non fosse stato il caso di intervenire immediatamente con la condanna capitale, questi atti di insubordinazione sarebbero stati giudicati dai tribunali militari e ad essi deferiti i soldati che se ne fossero resi colpevoli. «Il superiore ha il sacro diritto e dovere di passare immediatamente per le armi i recalcitranti e i vigliacchi. Per chiunque riuscisse a sfuggire a questa salutare giustizia sommaria, subentrerà inesorabile quella dei tribunali militari. Ad infamia dei colpevoli e ad esempio per gli altri, le pene capitali verranno eseguite alla presenza di adeguate rappresentanze dei corpi. Anche per chi, vigliaccamente arrendendosi, riuscisse a cader vivo nelle mani del nemico, seguirà immediato il processo in contumacia e la pena di morte avrà esecuzione a guerra finita»: così il testo della Circolare[9].
Facendosi più cruente le fasi della guerra, anche l’autorità statale diventava più stringente e pervasiva; di pari passo con i poteri speciali del Comandante di Stato Maggiore Cadorna, aumentava la severità delle sue disposizioni, mentre veniva quasi esautorato il ruolo del Parlamento. Tutte le funzioni ricaddero progressivamente nella competenza dei tribunali militari e le pratiche autoritarie imposte dalla legislazione di guerra si facevano aberranti. «Al culmine dello sforzo bellico funzionavano complessivamente 117 tribunali militari in Zona di Guerra, marittimi, nel Paese e in Colonia»[10]. Tutto ciò, oltre ad indebolire lo stato democratico, «era funzionale alle sempre più forti pulsioni autoritarie che percorrevano la nazione. Queste, sostenute da larga parte della stampa e in particolare dal Corriere della Sera trovavano nel Generale Cadorna uno dei punti di riferimento più autorevoli»[11]. E non solo gli ufficiali che dovevano mantenere la disciplina venivano costretti ad essere inflessibili con i loro sottoposti, ma anche i giudici dei tribunali militari erano continuamente richiamati ad una maggiore severità nella comminazione delle condanne; il Generale Cadorna riteneva che molti di essi fossero troppo teneri e che la procedura concedesse troppe garanzie ai processati[12]. Al tempo stesso, se gli atti di insubordinazione si erano resi così frequenti, Cadorna era convinto che ciò fosse dipeso proprio dalla debolezza degli ufficiali superiori e poi dei giudici e propose di istituire un maggior numero di tribunali militari con una distribuzione capillare sul territorio, sicché essi, come si può capire, finirono con l’avocare a sé anche le competenze di quelli civili. In pratica, nulla di minimamente rilevante, sia civilmente che penalmente, in Italia, soprattutto nelle zone di guerra, poteva sfuggire alla giustizia militare[13]. Per l’effetto contrario di ogni inasprimento legislativo, però, i reati che si volevano colpire aumentavano. «Dall’analisi di Giorgio Mortara sull’operato della giustizia militare risultò che i reati più frequenti furono: diserzione volontaria per 162.563 casi, indisciplina per 24.601, cupidigia per 16.522, mutilazione volontaria per 15.636, resa o sbandamento per 5.325 e violenza per 3.510»[14].
Anche Bruna Bianchi, nel suo libro La follia e la guerra, riporta i dati dell’Ufficio Statistico del Ministero della Guerra pubblicati da Giorgio Mortara nel 1927, dai quali si evince che «le denunce per renitenza dal 24 maggio 1915 al 2 settembre 1919 furono 470.000 (di cui 370.000 italiani residenti all’estero); le denunce per diserzione furono 189.425», ma indica che «nell’arco del conflitto si conclusero 162.563 processi e furono emesse 101.685 condanne»[15].
Leggere la pubblicistica sulla materia ci fa capire come ai concetti alla base dei reati sopradetti fosse data dai tribunali militari una interpretazione estensiva, su sollecitazione del Generale Cadorna, in modo da colpire quanti più soldati possibile.
Pluviano e Guerrini spiegano come, fra le carte d’archivio, sia avvenuto il fortunoso ritrovamento della Relazione sulle fucilazioni sommarie durante la Prima Guerra Mondiale, redatta nel 1919 dall’Avvocato Generale Militare Donato Antonio Tommasi, sulla quale torneremo. Questa relazione, insieme agli Allegati, ritrovati da Giorgio Rochat (che firma la Prefazione del loro libro) il quale li ha messi a disposizione, hanno costituito la base del volume[16]. Nel mentre gli autori proseguivano nell’indefesso lavoro di ricerca negli archivi, essi hanno presentato una prima ricognizione del loro studio nella relazione Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la Grande Guerra[17]. Prima di questi lavori, le cifre sui fucilati di guerra erano piuttosto vaghe, certamente discordanti. Gli studiosi si barcamenavano fra le cifre fornite dalla politica che indicavano le vittime della giustizia sommaria in poche centinaia e quelle fornite dal giornale socialista «L’Avanti» che parlava di più di 1000 morti. Pluviano e Guerrini si sono invece basati sulla Relazione del Generale Tommasi, integrandola con le risultanze della istituita Commissione d’inchiesta parlamentare del 1919[18], e poi con molte altre fonti emerse durante il lavoro di ricerca, fra queste anche le dichiarazioni dei parlamentari durante i lavori della Commissione.
Fra le varie fonti dirette, una delle più accreditate «è la relazione “Dati di statistica giudiziaria militare” del giugno 1925. Si tratta della statistica delle sentenze e dei procedimenti penali dei tribunali militari presso l’esercito operante e di quelli territoriali fuori e dentro la zona di guerra. Secondo questa relazione, furono comminate nel corso del conflitto 4.028 condanne a morte, delle quali 2.967 in contumacia, 311 non eseguite e 750 eseguite. Di queste ultime, 391 riguardarono il reato di diserzione, 5 la mutilazione volontaria, 164 la resa o sbandamento, 154 atti di indisciplina, 2 la cupidigia, 16 per violenza, 1 per reati sessuali, le rimanenti per reati diversi. Un’altra fonte importante ai fini della quantificazione è una tabella del Reparto disciplina, avanzamento e giustizia militare del Comando Supremo dal titolo “Specchio dei giudizi durante la campagna” datata 24 dicembre 1917 e relativa al periodo giugno 1915 – settembre 1917, conservata presso l’archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito. Tale tabella è importante perché è l’unica a contenere anche il dato dei giudizi sommari: 112, che coincidono in buona parte con quelli riportati da Forcella e Monticone, fino all’agosto 1917. Nel settembre 1919 il ministro della guerra Generale Albricci, in sede parlamentare, ammise 729 condanne a morte eseguite durante tutta la guerra, mentre “le tristi esecuzioni sommarie superano di poco il centinaio”»[19]. Nel maggio-giugno 1916, a seguito dell’offensiva austro-ungarica, il regime disciplinare fu inasprito con l’ordine di ricorrere alle fucilazioni sommarie con ampia libertà, fino a colpire anche gli ufficiali. Dopo lo sfondamento austro-ungarico della nostra resistenza, il Comando Supremo ordinò al comandante delle truppe operanti sull’altopiano di Asiago di prendere le più energiche ed estreme misure: «faccia fucilare, se occorre, immediatamente e senza alcun procedimento, i colpevoli di così enormi scandali, a qualunque grado appartengano. […] L’altopiano di Asiago va mantenuto a qualunque prezzo. Si deve resistere o morire sul posto»[20]. Inoltre, di fronte «alle diserzioni, che sempre più numerose si manifestavano sia presso i reparti schierati in zona di guerra che all’interno, nel dicembre 1916 il Ministero della guerra decise di togliere il sussidio economico ai famigliari dei colpevoli del grave reato, i cui nomi furono pubblicati nei loro comuni natii»[21]. La pena capitale, specie per i soldati che si erano macchiati del reato più grave, la diserzione, avveniva con fucilazione alla schiena. «Altre norme legislative emanate durante la permanenza di Cadorna alla carica di capo di Stato Maggiore dell’Esercito furono il bando del 28 luglio 1915 del Comando Supremo contro la diffusione di notizie sulla guerra e la denigrazione dell’esercito o della guerra stessa ed il decreto luogotenenziale del 19 ottobre 1916 n. 1417 per la repressione dell’autolesionismo»[22].
Di fronte al numero spropositato di esecuzioni, si avvertì l’esigenza di istituire una commissione interna che vagliasse le tante condanne comminate ed i metodi usati nella spregiudicata gestione Cadorna. Questa commissione venne affidata all’Avvocato Generale dello Stato Donato Tommasi, sul modello della già costituita “Commissione d’inchiesta sugli avvenimenti militari che hanno determinato il ripiegamento al Piave”, comunemente definita “Commissione d’inchiesta su Caporetto”, di nomina regia, istituita nel 1918, su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri, che era nata in seguito all’ondata di paura e malcontento generatasi dopo la clamorosa sconfitta di Caporetto[23]. Già dalla Commissione d’inchiesta «il ricorso alla decimazione[24] fu stigmatizzato … e definito “provvedimento selvaggio, che nulla può giustificare” tra l’altro per via della pena di morte così ingiustamente comminata a numerosi innocenti»[25].
Il Generale Tommasi[26] stilò una Relazione, in base alla quale i fatti vennero così suddivisi: Esecuzioni sommarie che appaiono giustificate; esecuzioni sommarie che appaiono ingiustificate; esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile; esecuzioni sommarie per le quali manca nei rapporti ogni elemento di giudizio[27]. Dei vari tipi, riportiamo alcuni esempi.
Per le esecuzioni sommarie giustificate: Brigata Messina, 93°reggimento, 30 giugno 1915, numero imprecisato di vittime, diserzione in complotto al nemico; Brigata Verona, 85° reggimento, 31 ottobre 1915. 1 fucilato. Abbandono del posto in faccia al nemico; Brigata Acqui, 18° reggimento, 22 aprile 1916. 3 fucilati, rivolta; Brigata Ancona, 69° reggimento, 13 giugno 1916. 3 fucilati. Sbandamento e mancata possibile difesa: Brigata Pavia, 27° reggimento, 11 novembre 1916. 1 fucilato. Insubordinazione e omicidio; Brigata Verona, 85° reggimento, 6 agosto 1916. 1 fucilato. Abbandono del posto e rifiuto di obbedienza in presenza del nemico: Brigata Catanzaro, 141° e 142° reggimento, 16 luglio 1917, 28 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie ingiustificate: Brigata Ravenna, 38° reggimento, 21- 22 marzo 1917, 7 fucilati, rivolta. Per le esecuzioni sommarie per le quali l’azione penale è improcedibile: Brigata Salerno, 89° reggimento, 2 luglio 1916, numero imprecisato di morti. Diserzione al nemico, 3 luglio 1916, 8 fucilati, istigazione alla diserzione. Per le esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati: Brigata Catanzaro, 141°reggimento, 27 maggio 1916, Altipiano d’Asiago, 12 fucilati, sbandamento di fronte al nemico; Brigata Lazio, 131° reggimento, 15 giugno 1916, basso Isonzo, 1 fucilato, minacce e vie di fatto o rifiuto di obbedienza; 14° reggimento Bersaglieri, XL battaglione,16 giugno 1916, Altipiano d’Asiago, 4 fucilati, sbandamento; 5° reggimento Genio, 31°compagnia minatori, 26 luglio 1916, luogo imprecisato, 1 fucilato, vie di fatto a mano armata contro superiore; XLVII battaglione Bersaglieri, 5 agosto 1916, quota 85 Monfalcone, 3 fucilati, diserzione; Brigata Regina, 9° e 10° reggimento, 13 maggio 1917, vallone di Doberdò, 6 fucilazioni non confermate, diserzione; Brigata Toscana, 77° reggimento, 23 giugno 1917, retrovie di Monfalcone, 2 fucilati, rivolta. Alla fine, “caddero vittime della giustizia sommaria 262.481 soldati e di essi 170.064, cioè il 62%, subirono una condanna. Furono comminati 15.345 ergastoli, dei quali 15.096 per diserzione. Le percentuali sono impressionanti: il 6% dei mobilitati fu rinviato a giudizio e quasi il 4% subì una condanna penale. Dei 262.481 processati, 177.648 passarono dai tribunali dell’esercito operante, mentre gli altri 84.883 furono giudicati dai tribunali territoriali. Sebbene i primi fossero più severi (ritennero colpevole il 66,3% dei processati), anche i tribunali territoriali condannarono il 61,8% dei giudicati”[28].
Fra le vittime della giustizia sommaria, anche un soldato salentino. E veniamo così all’oggetto della nostra trattazione.
Rocco Gnoni, questo il suo nome, era nato a Torrepaduli, frazione di Ruffano, il 6 agosto 1888. Figlio di contadini, Rocco aveva sposato una sua compaesana di nome Giovanna Crudo; il matrimonio fu celebrato l’11 gennaio 1915. Pochi mesi dopo, il 29 maggio 1915, Rocco partì per la guerra, come riportato sul suo foglio matricolare n.31904. Dal foglio matricolare apprendiamo che Rocco Gnoni, di professione contadino, già ritenuto «rivedibile» a causa della «debole costituzione fisica», viene poi arruolato nell’11 Compagnia di Sanità (44° Divisione Sanità) e viene considerato «disperso nel fatto d’armi dell’ottobre 1917»[29].
Dopo quasi due anni di servizio al fronte, Rocco ottenne con ogni probabilità una licenza, durante la quale lui e sua moglie concepirono l’unico figlio, Donato, che venne alla luce il 19 novembre 1917. Gnoni però non poté mai conoscere il bambino, perché morì pochi giorni prima della sua nascita.
Pluviano-Guerrini riportano nel Capitolo «La Relazione Tommasi. Esecuzioni sommarie per le quali manca ogni elemento di giudizio nei rapporti e documenti esaminati»[30], un corpus molto più consistente di esempi. Fra questi, oltre a quelli sopra elencati: Brigata Ivrea, 162° reggimento, 21 febbraio 1917. 2 fucilati. Diserzione; Brigata Palermo, battaglione complementare, 20 maggio 1917. 3 fucilati. Rivolta; e poi 44° sezione di sanità, 4 novembre 1917. 1 fucilato. Accusa sconosciuta. Quest’ultima è quella che a noi interessa, perché il soldato fucilato per motivi sconosciuti è Rocco Gnoni, «un ventinovenne nato a Ruffano, provincia di Lecce. L’ordine di fucilazione fu impartito dal comando della 2°armata il 3 novembre 1917, mentre la ritirata era ancora in corso. L’esecuzione sommaria avvenne presso il Cimitero di Porcia, nel Pordenonese, alle 6.15 del 4 novembre 1917, quando i reparti italiani si apprestavano ad abbandonare la zona. Il plotone di esecuzione era composto da dodici carabinieri della 128° sezione, addetta al comando della 2° armata. La scheda compilata da Tommasi e i documenti allegati non riportano la ragione della condanna, e questo è un fatto di particolare gravità perché la fucilazione avvenne per ordine di un comando d’armata»[31]. Gli autori inoltre riportano in nota che nell’Allegato 40 sono contenute «la lettera di trasmissione del comandante dei carabinieri dell’armata al comando della 2°armata, il processo verbale dell’esecuzione sommaria, a firma del tenente dei carabinieri Nicola Crocesi, comandante del plotone di esecuzione, e l’atto di morte del soldato Gnoni, redatto dal capitano medico Ario Airaghi, sempre il 4 novembre 1917»[32]. Si apre allora una incongruenza nella ricostruzione della vita di Gnoni. L’Albo d’Oro dei caduti della Grande Guerra, infatti, dice di lui che fu disperso in battaglia il 30 ottobre, «nel ripiegamento al Piave», dopo la tragica sconfitta di Caporetto[33]. E anche il foglio matricolare, come già detto, annota «disperso» e «rilasciata dichiarazione di irreperibilità»[34]. Come tale viene ricordato nella targa commemorativa del Monumento ai Caduti del suo paese, la piccola frazione di Torrepaduli. In realtà, egli fu fucilato, come dimostrano inconfutabilmente Pluviano e Guerrini sulla base dei documenti ufficiali. Fu vittima della repressione interna, uno di quei capri espiatori, di cui si diceva all’inizio.
La storia ci insegna che la guerra, come evento straordinario, che sconvolge cioè il regolare procedere del tempo ordinario, frange prassi, codici, norme di comportamento e garanzie. Ogni guerra porta esecuzioni sommarie, decimazioni, pene di morte, e non solo scombina le regole del vivere civile ma sovente calpesta la stessa etica militare. La Prima Guerra Mondiale non fa eccezione: questa fu la grande delusione che già nel 1916 si impossessò dei ragazzi che con entusiasmo e fiducia erano partiti per il fronte. Nihil novi sub sole è il motto tragicamente fatalistico che si potrebbe trarre. E non meno che appropriato ci appare l’aggettivo fatalistico, se pensiamo che ad una vera e propria roulette russa era affidata la vita di questi soldati, nelle parole del Generale Cadorna: «non vi è altro mezzo idoneo a reprimere reato collettivo che quello della immediata fucilazione dei maggiori responsabili, allorché l’accertamento dei responsabili non è possibile, rimane il diritto e il dovere ai comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e punirli con la pena di morte»[35].
Subito dopo la guerra, ci fu molta confusione sul numero esatto delle vittime di esecuzioni sommarie. Questo numero oscillava fra 109, indicato dall’On. Vito Luciano alla Camera dei Deputati il 19 settembre 1919[36], 152, il numero avanzato dall’Avvocatura generale militare, e più di 1000, come sosteneva il giornale del Partito Socialista «L’Avanti». Come già detto, Pluviano e Guerrini, utilizzando le due fonti di segno opposto, ossia quella ufficiale della Relazione sulle esecuzioni sommarie del Generale Tommasi e quella non ufficiale e antimilitarista dell’Avanti, integrandole con i tanti documenti rinvenuti nell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito (USSME) e dalla memorialistica e dai resoconti di guerra, hanno calcolato questo numero in 750 fucilati[37].
Dopo il conflitto, la Relazione del Generale Tommasi restava la fonte più credibile sui fucilati di guerra, anche se il numero che presenta è in difetto e tende a colpevolizzare esclusivamente il Generale Cadorna facendo credere che col Generale Diaz la situazione fosse cambiata e le esecuzioni del tutto cessate (è invece dimostrato che vi fossero ancora dei casi), ma queste erano le pressioni che Tommasi aveva ricevuto dall’alto. In effetti, il Generale Cadorna nel frattempo era stato sostituito da Diaz.
Tuttavia, il destino della Commissione fu di essere insabbiata, analogamente a quella su Caporetto. Le sue risultanze vennero dimenticate e nessuno degli ufficiali colpevoli fu processato per i delitti commessi.
La linea del Parlamento italiano divenne quella di elogiare e ringraziare l’esercito e i suoi vertici per l’alto eroismo (dando avvio alla magniloquenza propagandistica che caratterizzerà tutto il dopoguerra fascista) e sostanzialmente perdonare i responsabili della carneficina, considerando quanto avvenuto come un male necessario, nonostante l’unica voce dissonante in Parlamento, quella del Partito Socialista, si alzasse contro simile conclusione. Di conseguenza, siffatti crimini contro l’umanità rimasero impuniti e un velo di oblio cadde sulla triste vicenda fino quasi ai giorni nostri[38]. Bisognerà attendere la pubblicazione dei libri di Forcella e Monticone del 1968[39] e di Procacci del 1993[40], basati sull’inchiesta del Generale Tommasi del 1919 fino ad allora segretata, per avere chiarezza. Queste ricerche hanno permesso anche di venire a conoscenza della vera fine del soldato Rocco Gnoni.
Nel 2016 è stato anche organizzato dall’Istituto Comprensivo Statale di Ruffano un incontro dal titolo “I fucilati per mano amica nella Grande Guerra: verità e riabilitazione. La storia del soldato ruffanese Rocco Gnoni”. Gli organizzatori di quell’incontro, in primis il prof. Roberto Molentino, referente del progetto “Cento anni fa… la Grande Guerra”, ed i docenti coinvolti, hanno voluto far luce sulle vere cause della morte di questo concittadino. Hanno ricercato il Verbale di esecuzione sommaria del soldato Gnoni Rocco, dal quale risulta che «detto militare venne fucilato il 3 novembre 1917 in Porcia per ordine del Comando della 2° Armata. Non vi è alcun accenno ai fatti che determinarono detto giudizio sommario e pertanto occorrerebbero nuove indagini per poter esaminare se l’ordine del detto Comando fu conforme alla legge». La fucilazione dunque avvenne nei pressi del cimitero di Porcia, paesino in provincia di Pordenone. «Al soldato Rocco Gnoni furono sparati in due riprese complessivamente 12 colpi di moschetto M.1891, che lo resero all’istante cadavere»[41]. Sempre secondo il verbale, il cadavere del soldato fu seppellito all’interno del Cimitero di Porcia.
Per saperne di più, gli studenti del progetto scolastico coordinati da Molentino hanno intervistato il nipote del soldato, Gino Gnoni, il quale ha detto di essere a conoscenza del fatto, anche se non in grado di provarlo.
Gino ha sostenuto che suo padre, Donato, non voleva ricordare e non parlava mai di ciò che era accaduto a Rocco, anche se provò per tutta la vita sentimenti ostili nei confronti dell’arma dei Carabinieri[42]. Nonna Giovanna, vedova di Rocco, raccontava invece che un reduce le aveva riferito quanto accaduto al marito: sembra che mentre si trovava in un’osteria a rifocillarsi dopo le dure battaglie delle settimane precedenti, fosse stato redarguito da un superiore a cui, forse, rispose in modo irrispettoso. Questo segnò il suo destino.
Quanto scoperto trova un riscontro anche nel libro Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione di Sergio Bigatton e Angelo Tonizzo, pubblicato dal Comune di Porcia nel 2010[43]. Il volume, incentrato sulla partecipazione della cittadina del Pordenonese alla Prima Guerra Mondiale, riporta nella seconda parte il Discorso pronunciato dal generale Umberto Pastore a Palse per l’inaugurazione del mausoleo ai Caduti in guerra, l’opera di don Francesco Cum Le memorie di un parroco dell’anno dell’invasione, e gli scritti di Antonio Forniz La prima guerra mondiale nei piccoli ricordi di un friulano adolescente. Sono riprodotti inoltre alcuni passi del diario del pittore futurista e scrittore Ardengo Soffici, scritti dal Castello di Porcia, dove soggiornò durante la ritirata di Caporetto. Infine, alcune memorie di Pietro Masutti e di Luigi Del Ben. In Appendice, sono riportati i nomi dei caduti di Porcia. Fra questi caduti non figura Rocco Gnoni, ma gli autori riferiscono un episodio che a Porcia era ben conosciuto e che ci fa chiaramente pensare al Nostro. Parlano della storia-leggenda di un povero soldato giustiziato di cui a Porcia girava insistente la voce, un «soldato italiano fucilato dai suoi al cimitero di Porcia durante la ritirata», individuato dagli autori grazie al ritrovamento di una planimetria del cimitero dove, fra i morti sepolti, viene ricordato anche un «Italiano fucilato»[44]. Ne parla con un fugace cenno il religioso Don Francesco Cum nel suo discorso (stampato a Udine nel 1920), che gli autori riportano nella seconda parte del libro[45]. Uno degli autori, Sergio Bigatton, contattato dagli organizzatori della manifestazione ruffanese, ha affermato che il soldato cui si accenna nel libro è senz’altro Rocco Gnoni. A maggior conferma, l’episodio dell’uccisione di Gnoni si potrebbe ricavare da un’altra fonte, che è il libro di Ardengo Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata[46], in cui il pittore e poeta futurista narra la sua esperienza nella prima guerra mondiale. Nella notte fra il 3 e il 4 novembre, scrive che, mentre era uscito con alcuni compagni a fare due passi nel paese, nel buio più fitto, avvertì dei rumori nei pressi del cimitero e fu attirato dalla luce di una lanterna. Incontrò alcuni uomini, dei carabinieri, e ai loro piedi un uomo morto, che Soffici ed i compagni scambiarono per una donna, in quanto l’uomo era acconciato in abiti femminili, probabilmente per sfuggire ai suoi assalitori. I carabinieri riferirono a Soffici e compagni che il loro superiore aveva ordinato di ammazzare sul posto quell’uomo, e loro avevano eseguito immantinente l’ordine, fucilando il malcapitato. Si trattava di una punizione esemplare. Anche se Soffici non fa il nome di Gnoni, è facile supporre che si tratti di lui[47].
Non sorprenderebbe che il soldato ruffanese si trovasse in un’osteria a sbronzarsi. Il vino e la prostituzione erano fin dall’inizio della guerra i soli due svaghi consentiti ai soldati nella terribilità del momento. Si trattava di svaghi autorizzati o meglio “istituzionalizzati” dalle autorità[48]. Il vino in trincea era un farmaco potentissimo, ne parla anche Emilio Lussu in Un anno sull’altopiano[49]. Utilizzato in quantità massicce dai soldati per fare fronte alla drammaticità della situazione, esso dava loro sollievo, potenziandone l’audacia e la bellicosità in alcuni casi, fungendo da oppiaceo e quindi anestetizzando la paura e il dolore in altri. Comunque, sia che lo usassero come coadiuvante per darsi forza e coraggio, sia come tranquillante per attutire nei fumi dell’alcol lo shock di un impatto emotivo devastante, tutti i soldati ne diventavano dipendenti. Tanto vero che anche nelle cosiddette Case del soldato[50], circoli ricreativi religiosi, creati dalla chiesa per contrastare le case di tolleranza (e fu una battaglia persa fin dall’inizio di fronte al proliferare delle case chiuse e al massiccio ricorso dei militari al sesso a pagamento), i soldati bevevano[51]. Anzi, una delle voci di spesa più alte negli acquisti delle Case del soldato era proprio quella per il vino, poiché i preti ritenevano che un consumo, sia pure moderato, della bevanda alcolica dovesse comunque essere permesso, anche per contrastare il ricorso alla prostituzione: come dire, si sceglieva il male minore[52]. Mons. Giuseppe Pellizzo, Vescovo di Padova, in una lettera affermava che avevano come unico pensiero quello di svuotare le cantine nei paesi abbandonati ed erano talmente attaccati alla bottiglia che se le montagne fossero state damigiane i soldati le avrebbero custodite meglio, essendo sempre aggrappati ad esse[53]. Questo scritto è anche più importante per quanto il prelato sostiene dopo[54], cioè che proprio a causa dell’ubriachezza, alcuni giorni prima un battaglione aveva rifiutato di andare avanti ed era stata sorteggiata una compagnia e decimata. Importante dappiù, questa lettera di Mons. Pellizzo, per la data in cui viene inviata, ossia il 31 maggio 1916, in un periodo in cui nessuno dei soldati dal fronte osava confessare tale pratica aberrante. L’alcol, dunque, veniva largamente usato nelle trincee e finanche incoraggiato dal Comando supremo. Esso costituiva proprio la benzina dei soldati, come dice Emilio Lussu.Ma poi, fuori dalle trincee, per somma incoerenza, specie con la gestione Cadorna, esso veniva proscritto, quasi demonizzato nelle Circolari del Generale che imponevano ai soldati, negli ambienti civili, assoluta sobrietà ed un severo contegno in ogni circostanza. Gnoni pagò con la vita la sua mancanza di contegno.
Nel 2015, gli Onorevoli Giorgio Zanin e Gian Piero Scanu hanno voluto proporre una legge sulla riabilitazione di questi caduti della prima guerra mondiale. In effetti, nel 2014, nell’ambito delle celebrazioni in occasione del centenario della Grande Guerra, si segnalava l’iniziativa di un gruppo di 50 intellettuali che inviavano un appello al Presidente della Repubblica per la riabilitazione dei soldati fucilati. Essi si costituirono in un Comitato nell’ambito del Ministero della Difesa. All’iniziativa di questo Comitato si unirono i deputati Gian Piero Scanu e Giorgio Zanin, rispettivamente primo firmatario e relatore alla Camera dei Deputati della proposta di legge n. 2741 finalizzata «ad attivare il procedimento per la riabilitazione dei soldati italiani condannati alla pena capitale nel triennio 1915-18, nonché per restituire l’onore militare e riconoscere la dignità di vittime di guerra a quanti furono passati per le armi senza processo con la brutale pratica della decimazione o per esecuzione immediata e diretta da parte dei superiori. Verrà così restituito l’onore militare e la dignità di vittime della guerra a quanti vennero fucilati. Infatti, una volta approvata la legge verranno inseriti nell’Albo d’oro del Commissariato generale per le onoranze I caduti»[55]. Giorgio Zanin venne anche invitato a Ruffano nel già citato Convegno del 2016 e in quell’occasione si è soffermato su questa triste vicenda e ha sottolineato l’alto dovere morale e civile di riaprire una delle pagine più nere della storia d’Italia.
Nella maggior parte dei casi, i sospetti e le accuse di delazione, spionaggio, intelligenza col nemico, diserzione, di cui erano fatti oggetto taluni soldati, rimasero tali, solo frutto di menti paranoiche o soggiogate. Le fucilazioni che ne seguirono furono invece reali, come molta memorialistica conferma e certa stampa dell’epoca andava denunciando. Soprattutto nelle interviste ai reduci, nelle testimonianze orali e in tanti diari pubblicati dopo la guerra, molto vivi e brucianti i ricordi delle esecuzioni sommarie[56]. Non così invece nelle lettere, quelle inviate dal fronte, che erano sottoposte a censura[57].
Alle esecuzioni dei militari, bisogna aggiungere quelle dei civili. Le fonti dimostrano che fin dai primi giorni del conflitto il nostro esercito si macchiò di vari delitti perpetrati a danno delle popolazioni di confine, uccidendo tantissimi abitanti dei territori occupati, con esecuzioni sommarie[58].
Una certa pubblicistica antimilitarista sostiene senza indugio che i veri eroi furono proprio questi, i disertori, i ribelli, i fuoriusciti. Questa pubblicistica porta a sostegno della propria posizione un abolito articolo della Costituzione, per l’esattezza l’articolo 50, poi divenuto articolo 54 che, al secondo comma, poi cassato, recitava: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino»[59]. Ma al di là delle posizioni di un certo pacifismo radicale, tutto l’orientamento dell’opinione pubblica in questi ultimi anni in Italia è stato quello di riabilitare non solo i fucilati di guerra ma anche i renitenti e i disertori, considerati anch’essi vittime della sofferenza procurata dalla guerra. Un articolo pubblicato su «La Repubblica» nel 2014 dà voce al Vescovo Santo Marcianò, Ordinario Militare, il quale parla delle diserzioni come di «un fenomeno che coinvolse tutte le forze in campo, alimentato non tanto dalla paura quanto dalla nostalgia per la famiglia e odio per l’ingiustizia delle autorità militari. Le condanne furono circa centomila. Impossibile sapere con esattezza i fucilati, almeno un migliaio»[60].
Come non vedere, in questi soldati ingiustamente massacrati, come Rocco Gnoni di Ruffano, dei martiri laici? Eroi minori di una beffarda tragicommedia.
Per concludere con le parole di Ardengo Soffici: «sono forse costoro dei vinti, dei disertori, dei rivoltosi, dei traditori? O sono, diciamo la parola, dei vigliacchi? No. Basta vederli. Basta lasciare entrare la loro anima nella nostra. Sono delle vittime. Sono degli incoscienti. Sono degli illusi – e il male non è qui. … il male è nelle radici – il male è laggiù sotto di noi: nell’ignominia di chi divide, di chi baratta, di chi mente, di chi mercanteggia. Di chi abbandona. Il male è dappertutto; ma non è qui. Qui si soffre soltanto. Non è la via dell’infamia, qui. È la via della croce»[61].
* Società di Storia Patria per la Puglia, [email protected]
Vivamente ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino, che mi ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
Note
[1] R. Girard, La violenza e il sacro, Milano, Adelphi, 1980.
[2] R. Caillois, L’uomo e il sacro, Torino, Bollati-Boringhieri, 2001.
[3] E. Forcella – A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza,1968, 2° ed. , 2014.
[4] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie nella prima guerra mondiale, Udine, Gaspari, 2004, p.12.
[5] F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano (1915-1917), p.1, in www.museodellaguerra.it/wp-content/…/09/annali_23_Cadorna-e-le-fucilazioni.pdf. L’autore si rifà al libro di Forcella e Monticone, Plotone di esecuzione cit.
[6] Ivi, p.36.
[7] Circolare n. 1 Disciplina di Guerra in data 24 maggio 1915, conservato presso l’archivio dell’USSME (Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito), repertorio L3, b. 141, fasc. 3, riportato in M. Pluviano e I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.36.
[8] Circolare n. 3525 in data 28 settembre 1915, Disciplina di guerra, USSME, Ivi, p.36.
[9] Ibidem.
[10] Ivi, p.14.
[11] Ivi, p.15.
[12] Ivi, p.20.
[13] Ivi, p.21.
[14] Ivi, p.23.
[15] Ministero della Guerra, Ufficio Statistico, Statistica dello sforzo militare italiano nella guerra mondiale. Dati sulla giustizia e disciplina militare, a cura di G. Mortara, Roma, 1927, in B. Bianchi, La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918, Roma, Bulzoni, 2001,
[16] Ivi, pp.1-6. Sulla copertina del libro è raffigurata un’immagine tratta dal film di Francesco Rosi Uomini contro, del 1970, ispirato al romanzo di Emilio Lussu, Un anno sull’Altipiano.
[17] Letta al convegno “Scampare la guerra”, tenuto a Fogliano Redipuglia nel 1990. Questa relazione è poi confluita nel libro con cui si pubblicarono gli atti: 1914-1918 scampare la guerra : renitenza, autolesionismo, comportamenti individuali e collettivi di fuga e la giustizia militare nella Grande Guerra, a cura di L. Fabi, Ronchi dei Legionari, Centro culturale pubblico polivalente, 1994, pp.63-75. Guerrini – Pluviano sono anche autori di La giustizia militare, in Dizionario storico della Prima Guerra Mondiale, a cura di N. Labanca, Roma-Bari, Laterza, 2014, pp. 137-146.
[18] Commissione d’inchiesta Dall’Isonzo al Piave. 24 ottobre-9 novembre 1917, Roma, Stabilimenti tipografici per l’amministrazione della guerra, 1919. Istituita con R.D.12 gennaio 1918, n.35.
[19] Atti parlamentari, Camera dei Deputati, legislatura XXIV, 1ª sessione, discussioni, tornata del 12 settembre 1919, in F. Cappellano, Cadorna e le fucilazioni nell’esercito italiano cit., p.12.
[20] Lettera in data 26 maggio 1916 del capo di Stato Maggiore dell’Esercito al Generale Clemente Lequio – USSME, in Filippo Cappellano, op. cit., p.6.
[21] Circolare n. 32800 in data 28 dicembre 1916, Conseguenze del reato di diserzione, Comando 3ª Armata. Altre conseguenze di legge del reato di diserzione erano: interdizione perpetua dei pubblici uffici, interdizione legale con la perdita di amministrazione dei propri beni, patria podestà, autorità maritale e capacità di fare testamento: fonte USSME, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[22] Ivi, p.11.
[23] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.41.
[24] La decimazione, che consisteva nel tirare a sorte il nome dei fucilati,come esempio di estrema disciplina militare inflitta ai soldati era una pratica già conosciuta dai Romani ma fu nella Prima Guerra Mondiale che se ne fece largo uso.
[25] Relazione della Commissione d’inchiesta, Dall’Isonzo al Piave 24 ottobre – 9 novembre 1917, vol. II, Le cause e le responsabilità degli avvenimenti, 1919, in F. Cappellano, op. cit., p.7.
[26] Il giurista Donato Antonio Tommasi (1867-1949), tarantino di nascita, era leccese. Stimato magistrato, durante la guerra ricoprì il ruolo di Avvocato Generale presso il Tribunale supremo di Guerra e di Marina e poi dell’Esercito. Fu parlamentare, eletto nelle file del Partito Popolare, negli anni Venti. Strenuo oppositore del Fascismo, in occasione della Marcia su Roma, redasse il decreto per lo stato d’assedio per conto del Presidente del Consiglio Luigi Facta che venne respinto dal Re Vittorio Emanuele III. Per questo, fu ostracizzato dal regime. Partecipò alla Seconda Guerra Mondiale e venne ferito dallo scoppio di una bomba lanciata sul centro militare clandestino che dirigeva a Roma, e fu onorato della medaglia d’argento al valor militare: M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.48.
[27] Ivi, Le fucilazioni sommarie cit., p.47.
[28] Ivi, p.19.
[29]Archivio di Stato di Lecce, Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890.
[30] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., pp.113-130.
[31] Ivi,p.125.
[32]Ivi, p.129.
[33] Albo d’Oro, Volume XVIII, Puglie, N. 902. Nell’Albo d’Oro, giusta circolare del Ministero della Guerra, 8 giugno 1926, sono inclusi tutti i militari del R. Esercito, della R. Marina, della R. Guardia di Finanza, il cui decesso o scomparsa sia avvenuta per causa di guerra dal 24 maggio 1915 al 20 ottobre 1920, data di pubblicazione della pace.
[34] Archivio di Stato di Lecce Vol. 194, Ruoli matricolari soldati appartenenti alla classe 1890. La dichiarazione di irreperibilità veniva rilasciata dal CIFAG (Centro interministeriale per la formazione degli atti giuridici) di Roma, ora soppresso.
[35] Telegramma circolare nr. 2910 del 1 novembre 1916 del Comando Supremo, in Filippo Cappellano, op.cit., p.7.
[36] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p.2.
[37] Ivi, pp.2-3.
[38] Ivi,pp.5-6.
[39] E. Forcella- A. Monticone, Plotone di esecuzione. I processi della prima guerra mondiale, Bari, Laterza, 1968 (poi 2014).
[40] G. Procacci, Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra, Roma, Editori Riuniti, 1993. Sulle punizioni esemplari e le fucilazioni anche: A. Cazzullo, La guerra dei nostri nonni, Milano, Mondadori, 2014, p. 24.
[41] Si veda il Verbale della fucilazione allegato.
[42] Sul ruolo dei Regi Carabinieri: F. Angeletti, Il ruolo dell’arma dei carabinieri durante il primo conflitto mondiale: il fronte interno, in «Eunomia. Rivista semestrale di Storia e Politica Internazionali», a. IV, n. 2, 2015, pp.371-386.
[43] Nel vortice della grande guerra. Porcia nell’anno dell’invasione. Documenti e memorie sulla prima Guerra mondiale, a cura di S. Bigatton e A. Tonizzo, Pordenone, Sage Print, 2010.
[44] Ivi, pp.39-40.
[45] Ivi, pp.81-107.
[46] A. Soffici, La ritirata del Friuli. Note di un ufficiale della Seconda Armata, Firenze, Vallecchi, 1919.
[47]Ivi, pp.192-193.
[48] Sulle case di tolleranza, si veda E. Franzina, I casini di guerra, Udine, Gaspari, 1999.
[49] E. Lussu, Un anno sull’altopiano,Torino, Einaudi, 1964.
[50] Don G. Minozzi, Ricordi di guerra, Amatrice, Vol. I, 1956.
[51] E. Franzina, I casini di guerra cit., p. 192. Sull’argomento, anche P. Vincenti, Tra vergogna e onore: le prostitute di guerra, in L’officina del sentimento. Voci gesti segni femminili in Terra d’Otranto davanti alla Grande Guerra (1915-1924), a cura di G. Caramuscio, in corso di stampa.
[52] M. Pluviano, Le case del soldato, in «Notiziario dell’Istituto Storico della Resistenza in Cuneo e provincia», n.36, dicembre 1989, pp.5-88.
[53]I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di A. Sciottà, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1991, p.73. Mons. Pellizzo, fondatore del giornale cattolico «La difesa del popolo», scrive tra il 1915 e il 1918 ben centocinquantasei lettere a Papa Benedetto XV per informarlo sul drammatico andamento della prima guerra mondiale.
[54] Pubblicato da I. Guerrini – M. Pluviano, in Il memoriale Tommasi. Decimazioni ed esecuzioni sommarie durante la grande guerra, in 1914-1918 scampare la guerra cit., pp.63-75.
[55] Disposizioni concernenti i militari italiani ai quali è stata irrogata la pena capitale durante la Prima guerra mondiale https://www.camera.it › leg18
[56] M. Pluviano – I. Guerrini, Le fucilazioni sommarie cit., p. 239.
[57]Ivi, p. 240. Le lettere dal fronte avevano degli speciali censori che erano spesso gli ufficiali austriaci e tedeschi, incaricati di leggerle, allo scopo di emendarle da eventuali informazioni poco opportune e pericolose. Fra questi ufficiali, Leo Spitzer, il filologo austriaco al quale si deve il primo studio organico di carattere linguistico sulle lettere dei soldati dal fronte. Leo Spitzer, Lettere di prigionieri di guerra italiani: 1915–1918, a cura di L. Renzi, Torino 1976, nuova ed., Milano 2016. Si veda anche D. Octavian Cepraga, Scritture contadine e censori d’eccezione: le lettere versificate dei soldati romeni della Grande Guerra, in Memorialistica e letteratura della Grande Guerra. Parallelismi e dissonanze Atti del Convegno di studi italo-romeno Padova–Venezia, 8–9 ottobre 2015,a cura di D. Octavian Cepraga, R. Dinu e A. Firţa, Quaderni della Casa Romena di Venezia, XI-2016, Istituto Romeno di Cultura e Ricerca Umanistica di Venezia, 2016, p.189.
[58] Ivi, pp. 196 -197.
[59] https://www.nascitacostituzione.it/02p1/04t4/054/art054-011.htm
[60] P. Gallori, Grande guerra, l’ordinario Militare: “Riabilitare i disertori come Caduti”, in «La Repubblica», 6 novembre 2014
[61] A. Soffici, op. cit.,p.202.
Ringrazio gli amici Francesco Frisullo, che per primo ha fatto luce sulla storia del soldato Rocco Gnoni, e Roberto Molentino che ha messo a disposizione alcune fonti documentarie.
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