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"Il Tempo del Riso Glutinoso" di Fiori Picco: Un Viaggio nelle Tradizioni del Sud della Cina. La storia di una giovane donna tra modernità e tradizione, tra ostacoli e scoperta di sé in una società matriarcale.
Nel suo ultimo romanzo "Il Tempo del Riso Glutinoso", Fiori Picco ci porta in un affascinante viaggio culturale nel cuore del Sud della Cina, tra le montagne isolate al confine tra le province dello Hunan e del Guizhou, in un piccolo villaggio abitato dal
Nel suo ultimo romanzo “Il Tempo del Riso Glutinoso”, Fiori Picco ci porta in un affascinante viaggio culturale nel cuore del Sud della Cina, tra le montagne isolate al confine tra le province dello Hunan e del Guizhou, in un piccolo villaggio abitato dall’etnia Kam. La protagonista è una giovane laureata che, dopo aver trascorso gli anni della sua formazione in una grande città, è costretta a…
#Cina rurale#cultura del Sud della Cina#cultura Dong#cultura e società#divinità femminili#donne e potere.#etnia Dong#Fiori d’Asia Editrice#Fiori Picco#Grande Nonna Sama#Il tempo del riso glutinoso#letteratura cinese#lotta femminile#matriarcato#minoranze etniche#narrativa contemporanea#narrazione antropologica#Patrimonio Culturale Nazionale#Recensione libro#ricerca identità#Riscoperta di sé#riso glutinoso#rivalità femminile#romanzi con protagonista femminile#romanzo ambientato in Cina#romanzo etnia Kam#romanzo storico antropologico#società matriarcale#spiritualità e cultura#spiritualità orientale
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stamattina sono sul bus per un paio d'ore e per non pensare alla sete che per ovvi motivi non posso soddisfare e al sonno che mi impedisce di concentrarmi sul mio ebook scriverò dell'esame di ieri. durerà un po'.
ieri sono partita da casa malissimo, ho addirittura ripassato sull'autobus e per sdrammatizzare scherzavo con la collega, che diceva che stava ripassando pure, perché è una cosa che non facciamo mai, ripassare prima dell'esame. appena ho raggiunto l'ufficio dei russisti sono andata nel panico perché non mi ricordavo niente, cosa fosse la boemia in particolare, e ho deciso che avrei accettato non fino al 29 ma anche meno, fino al 27. non lo so perché, comunque, dal primo giorno il mio cervello aveva deciso che assolutamente non avrebbe trattenuto nulla sulla boemia, incredibile. ho iniziato le domande compulsive con le colleghe e il ripasso senza speranza fuori dall'aula, avevo la nausea e mi odiavo perché mi stavo presentando all'esame di una materia bellissima, con un prof che mi piace tantissimo e con cui faccio un percorso da molti anni e avevo studiato solo una settimana. ho ascoltato come un podcast l'audio della mia collega che mi ripeteva il capitolo sulla slavistica e la filologia slava e mi sono buttata subito dopo di lei, volontariamente seconda perché se avessi aspettato oltre penso che mi sarei sentita male o avrei fatto qualche sciocchezza, tipo andarmene. una volta dentro l'esame è iniziato con l'analisi dello slavo ecclesiastico e poi il prof mi ha chiesto come volevo continuare. ha fatto tanto, nella valutazione finale, penso, il fatto che questo argomento che avevo scelto era opzionale fra quelli dettati dal prof ma mi piaceva troppo e quindi se in una settimana ho studiato tipo cento ore cosa mai poteva essere un capitolo in più? ho scelto di parlare della donna e di quella che era, probabilmente, l'organizzazione matriarcale della società dei primi popoli slavi (vorrei approfondire di nuovo anche qui perché è veramente interessante ma risparmio al povero lettore che segue i miei aggiornamenti almeno questo) e poi il prof ha iniziato a farmi una serie di domande, una dopo l'altra, molto velocemente e quasi senza farmi finire il discorso che ogni volta iniziavo, ma sono riuscita a rispondere a tutto. non mi ha fatto domande difficili, credo. mi ha detto che ero un po' imprecisa su alcune cose (devo aver confuso un qualche verbo con un aoristo, non so) ma comunque, a quanto pare, mi sono meritata la lode.
la cosa che sto notando di questi esami della magistrale, diversamente dalla triennale, è che quasi tutti, finora, sono iniziati con un argomento a piacere, così diventa più personale, e la cosa mi piace molto. l'unica che non ci ha chiesto di scegliere un argomento è stata, mi sembra, la prof di letteratura inglese, ma il suo corso era sull'autobiografia e la scrittura delle donne e tutto era il mio argomento a scelta, quindi va bene. invece per esempio per l'esame di letteratura russa eravamo così liberi che quasi la cosa mi ha messo più ansia e confusione del solito. quando l'altro giorno all'esame di linguistica inglese ho iniziato parlando di language and gender e di quel paragrafetto in particolare che iniziava con do women talk more than men? era sì sempre un esame, ma mi sono sentita molto molto a mio agio a discutere di una cosa che avevo studiato perché mi aveva appassionata più del resto anche se ero davanti a un'insegnante che sapevo mi avrebbe valutata. in generale però sono stata così in ansia durante questa sessione e ho studiato così tanto in così poco tempo per recuperare i giorni in cui avevo fatto molto poco che pensavo che l'avrei chiusa male e che avrei portato a casa solo risultati deludenti. ho chiuso invece con tre materie date e due lodi a distanza di una settimana e anche se per tutto il tempo di scrittura di questo post il pensiero della sete non mi ha abbandonata un secondo (me lo merito comunque, ho mangiato pizza e patatine ieri a cena e stamattina a colazione) sono molto molto felice e soddisfatta di quello che sono riuscita a fare. sono felice perché mi sono sempre sentita mediocre nello studio e ci stavo sempre male quando studiavo per mesi una materia e comunque non ottenevo mai il massimo e non riuscivo a capire perché. solo ora sto capendo che forse avevo bisogno di appassionarmi giusto un pizzico di più e fare mio davvero ciò che studiavo. e lo so che il voto finale può dipendere da tante cose, ma la mia prima lode, prima di queste, l'avevo presa solo quando ho fatto la prova finale di letteratura russa su delitto e castigo, un altro argomento che avevo scelto io.
qualche giorno fa giuravo qui sopra che dopo questa sessione mi sarei impegnata a imparare a gestire meglio il tempo, o qualcosa del genere. ogni singolo giorno prima di un esame mi ritrovo sempre a dire e pensare che mi sarebbe bastato un singolo misero giorno in più per arrivare tranquilla, serena e sicura di me il giorno dell'appello. orazio non mi sopporta più perché è un pattern che si ripete e io ho dei seri problemi con la gestione del tempo e le deadline e lui (ammetto pubblicamente) ha ragione ma poi in un modo o nell'altro funziona sempre e riesco a farcela. il costo, certo, è il decadimento della mia salute psicofisica, quindi ribadisco nonostante i buoni risultati: mi impegnerò perché devo essere più gentile e rispettosa verso me stessa
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mentre ero ancora a letto, la mattina dopo il club to club ho pensato allo scienziato cinese che aveva modificato il genoma delle sue figlie per renderle resistenti all'hiv e a come, con le dovute normative e precauzioni, io sarei del tutto favorevole a modificare il dna degli esseri umani per migliorarli o renderli immuni a qualcosa - e tra le cose che modificherei ci sono, oltre alle ovvietà quali resistenza al cancro o all'ahlzeimer, l'immunità all'alopecia o la riduzione dei problemi relegati alla menopausa. da lì mi sono chiesto: ma gli animali vanno in menopausa? quindi ho scoperto che quasi tutto il regno animale può fare figli fino alla morte, e tra le specie esenti ci sono l'orca assassina, che tra parentesi è una società matriarcale, e gli scimpanzè. pochi giorni dopo ho letto su internazionale un articolo che si interrogava sul perché della menopausa, che ad oggi risulta ancora un mistero (triste come le patologie femminili siano così poco studiate) e che negli scimpanzè non trova alcuna logica: se infatti per le orche esiste la cosiddetta teoria della nonna, la cui figura serve a insegnare alla figlia come fare da madre, le femmine di scimpanzè una volta avuta la prole vanno via dal nido famigliare, non necessitando dunque di alcuna figura. ma soprattutto, quanto poco era probabile che io, dopo che al club to club penso ai mammiferi che vanno in menopausa, due giorni dopo trovo, senza volerlo, un articolo su questo argomento?
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I Sarmati: chi sono
I Sarmati sono una popolazione nomade asiatica che dal Caucaso arriva in Europa orientale passando dall'attuale Ucraina. La loro storia non è ben definita e ha un alone misterioso e leggendario. Di loro sappiamo che sono abili nelle tecniche belliche ed equestri (sono infatti proprio i Sarmati ad insegnare ai Romani il combattimento a cavallo, nello specifico la cavalleria pesante e l’uso dei catafratti, armature per il cavaliere e per il cavallo). La loro società è di stampo matriarcale e le donne hanno estrema libertà, sono considerate al pari degli uomini e partecipano alle attività belliche (da cui il mito delle amazzoni). Vivono nei boschi in tende di feltro. Essendo nomadi non coltivano nè allevano, si cibano quindi di frutti spontanei, di selvaggina e di latte di cavalla, tanto da esseri definiti dai Romani i “mangiatori di latte”. La loro pietanza distintiva è il latte fermentato in sacche di pelle, molto simile all’attuale kefir, che anche oggi è un prodotto tipico proprio della zona del Caucaso. Il kefir assomiglia allo yogurt ma è più acido e pungente, con un punta alcolica tanto da risultare quasi effervescente. Quella dei Sarmati, rispetto all’Impero, non è mai stata un’invasione e non sono annoverati tra gli invasori barbarici perché vengono direttamente importati dai romani in quanto utili non solo nel combattimento ma anche per il lavoro nei campi. Si stima che Costantino ne faccia arrivare in pianura padana circa 300.000 proprio perché servono dei coloni (in provincia di Piacenza c’è un comune che si chiama Sarmato).
La cucina romana e le fonti
Siccome i Sarmati hanno lasciato poche testimonianze su come si cibano e non hanno influenzato le nostre abitudini alimentari quanto i Longobardi, quest'anno faremo un'operazione inversa, andremo a scoprire la cucina trovata dai Sarmati quando sono arrivati nella penisola italica, ossia la cucina romana.
Fortunatamente rispetto al medioevo abbiamo a disposizione molti documenti scritti in cui si parla di cucina, alimentazione e tutto ciò che vi ruota attorno, abbiamo anche un dettagliato ricettario, il De Re Coquinaria di Apicio, composto da ben 10 libri suddivisi per argomenti (I segreti dello chef, Le carni tritate, I segreti dell’ortolano, La raccolta gastronomica, I legumi, I volatili, I piatti più prelibati, I quadrupedi, Il mare, Il pescatore): un vero e proprio manuale di gastronomia che conta circa 470 ricette.
Apicio
Apicio più che uno chef è un ricco romano vissuto nel I sec d.C., appassionato del buon cibo che fa della cucina l’unica sua ragione di vita. Seneca lo accusa addirittura di aver avvelenato un'intera epoca con le sue idee perché i giovani fanno a gara ad iscriversi alla sua scuola di cucina anziché frequentare le lezioni di filosofia e retorica. Insomma si scatena un vero e proprio boom come ciclicamente accade anche ai giorni nostri (vedi Masterchef!). Si diffonde l’idea che un cibo è tanto più gustoso quanto più lontana è la sua provenienza e che se un cibo è buono lo si deve pagare caro. Esiste già la figura del “gourmet”, colui il quale non solo è in grado di capire ed apprezzare il valore di quanto gli è offerto, ma di riconoscerne al primo assaggio la provenienza. Viene stilata addirittura una “categoria d’origine“, in base alla quale le tartarughe devono provenire esclusivamente dall’Arabia, le ostriche dalla Britannia, le melagrane dall’Egitto, il prosciutto dalle Gallie e le verdure dalla Spagna. Curiosità: Apicio è solito ingrassare le oche e le anatre con i fichi da cui ricavare il prelibato fois gras. Ed è proprio in questo periodo che il fegato, fino ad allora chiamato icatur, viene definito ficatum, ossia “trattato con i fichi”.
Purtroppo non è semplice replicare le ricette lasciateci da Apicio, perchè spesso sono indicati gli ingredienti senza le quantità e quando ci sono queste sono indicate in unità di misura diverse dalle nostre, come la libbra (327 grammi) e l’oncia (27 gr), oppure molti ingredienti sono diventati introvabili (certe spezie, ad esempio) o non sono per noi commestibili (come gru, pappagalli e ghiri), ma anche perché alcuni ingredienti oggi sono usati in modo diverso (ad es per i romani il riso è un addensante). Ovviamente anche i metodi di cottura moderni sono molto diversi quindi oggi, come l'anno scorso, vedremo alcune ricette di ispirazione romana che saranno riadattate ai gusti, agli ingredienti e ai metodi di cottura attuali.
L'anno scorso abbiamo visto nel dettaglio gli ingredienti base, quest'anno per non ripetermi preferisco concentrarmi sui pasti. Gli ingredienti a disposizione sono circa gli stessi, perchè fino alla scoperta dell'America ci saranno poche novità.
I pasti
Quella romana è una dieta mediterranea quasi vegetariana a base di olio, vino e grano che si evolve nel tempo. In epoca regia e repubblicana la cucina è semplice e povera (parola d’ordine: frugalità, da fruges, prodotti della terra). In epoca imperiale, con lo sviluppo del commercio, arrivano nuovi generi alimentari e la cucina, almeno per i ceti sociali più abbienti, diventa ricca, a volte quasi esagerata (parola d’ordine: lusso), difatti tutti noi se immaginiamo i romani a tavola li vediamo impegnati in pantagruelici banchetti.
I pasti che scandiscono la giornata degli antichi romani sono 3, come oggi: colazione, pranzo e cena (ientaculum, prandium, coena). La colazione è abbondante ed energetica, oggi diremmo “all’americana”, a base di latte appena munto, pane, formaggio (soprattutto ricotta), salumi, avanzi del giorno prima, dolci (ad esempio le adipata, paragonabili alle nostre brioche o meglio ancora ai maritozzi, cucinate dai fornai, pistor, e vendute a pochi soldi). La colazione si consuma sine mensa, ovvero senza apparecchiare la tavola, o per strada. Rispetto alla nostra colazione manca ovviamente il caffè. Il pranzo, si consuma in piedi e velocemente, spesso nelle osterie e taverne, i thermopolia, che potremmo paragonare ai nostri fast food, dove non solo è più comodo e sbrigativo che mangiare a casa, ma spesso anche più economico (dobbiamo anche considerare che non tutte le case avevano una cucina come oggi). Il pasto più importante della giornata è quindi la cena, che si consuma a casa propria o di altri, con familiari e amici, e che riflette il piacere dei romani per lo stare a tavola (ci riferiamo ai ceti più abbienti). I banchetti diventano uno status symbol e un'occasione sociale per accordi politici ed economici, per vedere e farsi vedere, per tessere relazioni sociali e ostentare la propria ricchezza. I romani ricchi organizzano banchetti molto di frequente, ma non è solo un’abitudine, è piuttosto una regola sociale. Col tempo diventano così esagerati che vengono varate addirittura delle leggi, le Leggi Suntuarie o cibarie, proprio con lo scopo di limitare gli eccessi e l’ostentazione anche sul piano alimentare (regole sul numero massimo di commensali, di spesa, di ingredienti, che però non vengono mai rispettate). Lucullo ancora oggi viene ricordato come simbolo di questo sfarzo sfacciato da cui l’aggettivo luculliano.
Il banchetto e il triclinio
Il banchetto si consuma prima del calar del sole, quindi l’ora cambia a seconda delle stagioni, nel triclinium ossia nel locale dedicato al consumo della cena che prende il nome dal suo arredo principale, il triclinium appunto, un letto a 3 posti su cui stanno sdraiati i commensali. I triclini sono disposti a ferro di cavallo e nel centro viene servito il cibo già porzionato su grandi vassoi. Gli ospiti stanno stesi appoggiati al gomito sinistro e si servono con la mano destra. Quella di cenare sdraiati è una moda greca importata nel II sec. a. C. che resta comunque prerogativa dei ricchi, i poveri mangiano seduti. Inutile ricordare che l’alimentazione è fortemente differenziata in base al ceto sociale e alla disponibilità economica (vale il detto del filosofo greco Diogene: “il momento migliore per mangiare è, se uno è ricco, quando vuole, se uno è povero, quando può”). Le ville più sontuose hanno più sale da banchetto, ad esempio triclinium estivo, invernale, esterno o interno, tutti riccamente decorati e impreziositi. Il triclinium rappresenta la gerarchia sociale anche nell'assegnazione dei posti a tavola che non è mai casuale; perfino il cibo o il vino possono essere diversi a seconda dei commensali, il che non è assolutamente considerato discriminatorio, è semplicemente lo specchio della società. I commensali indossano una veste comoda, stanno scalzi ed entrano nella stanza sempre col piede destro (gli antichi romani sono molto scaramantici). Spesso si portano il proprio tovagliolo che serve anche per portare via gli avanzi (una doggy bag ante litteram!). Si mangia con le mani quindi sono previste coppe di acqua profumata per lavarsele tra una portata e l'altra. Sono messe a disposizione anche alcune posate, come cucchiai, coltelli e stuzzicadenti di argento (con un lato appuntito per i denti e uno ricurvo… per le orecchie!) ma non le forchette (ancora non esistono). Il vino è sempre molto abbondante e bevuto in grandi quantità, viene servito in brocche e bicchieri, è corretto con miele, spezie, frutti rossi, petali di rosa, aghi di pino e anche allungato con acqua. Il banchetto può durare dalle 6 alle 8 ore, prevede infatti molte portate, che tra poco vedremo nel dettaglio, e termina con la commissatio ossia un fine pasto di musica, danze, fiaccolate, ancora vino e, a volte, anche orge.
Il galateo
Il galateo è abbastanza disdicevole tant'è che sono concessi, anzi graditi, rutti e flatulenze, che sono considerati salutari. Siccome il banchetto dura molte ore può capitare che i commensali si facciano portare un pitale “a tavola” per fare pipì o che schiaccino un pisolino. Briciole, ossa, gusci, lische e tutte le parti non commestibili vengono buttate sul pavimento che non è mai spazzato, sempre per scaramanzia (lo possiamo vedere in molti dipinti e mosaici). Infine, per poter mangiare il più possibile, a volte ci si provoca il vomito con una piuma per poter ricominciare a mangiare (Seneca nel I sec con disappunto scrive: “mangiano per vomitare, vomitano per mangiare”). Alla lunga queste abitudini non sono affatto salutari infatti soffrono di indigestione, alitosi, ulcere, ittero ma anche tumori e saturnismo ossia avvelenamento da piombo (usato per le pentole e per dolcificare il vino).
La cucina
Il cibo viene preparato e servito dai servi. La cucina è separata dal resto della casa, per sicurezza (incendi) e per gli odori. E' dimensionata in base alla ricchezza e alla dimensione della famiglia. Il fulcro è il banco di cottura di pietra sul quale vengono poste delle tegole, che trattengono il calore, e quindi le braci. Le pentole vengono poste a contatto o su dei treppiedi. Sotto al bancone è posta la legna da ardere. Questa non brucia nel focolare ma in un forno apposito, usato anche per il pane, i dolci e gli arrosti. E' sempre presente anche un bacino circolare con acqua corrente. I corrispondenti dei nostri piccoli elettrodomestici sono una macina manuale ad andamento rotatorio (per legumi e cereali) e il mortaio. Le pentole sono di terracotta o di bronzo e quelle fondamentali sono l'olla con coperchio (un vaso di terracotta dalla forma panciuta, usato soprattutto per bollire le verdure), la pentola (un paiolo metallico di grandi dimensioni) e il tegame, basso e largo spesso rivestito di argilla per renderlo antiaderente. Le cotture sono sempre lunghe e ripetute, passando spesso da una pentola all'altra.
Il cibo viene acquistato nei negozi alimentari attorno al foro, la piazza, nei mercati specializzati (il forum boarium per il bestiame, pescarium per il pesce, olitorium per frutta e verdura) e nei granai (per cereali e legumi). Tra gli esercizi commerciali vale la pena annoverare il pistrinium, il panificio, per pane, focacce e dolci. Il pane è di varie qualità, impastato con varie tipologie di frumento, soprattutto col farro, con aggiunta di semi, frutta secca, miele, latte, ricotta. Il pane ha sempre una forma rotonda a spicchi perchè viene “segnato” prima di essere infornato così da poter essere poi comodamente spezzato con le mani (questo cibo non deve mai essere toccato da una lama tagliente, sempre per scaramanzia). Il pane dura molti giorni quindi viene poi intinto in olio, vino o nella zuppa. Tra i pani più famosi vale la pena ricordare il libum, a base di ricotta e cotto su foglie di alloro, e il panis artolaganus, un pane delle feste molto ricco, con miele, mandorle e uvetta. Una curiosità: esiste anche un pane destinato ai cani, fatto con la crusca, il panis furfureus. Nel foro è presente anche la mensa ponderaria (pesa pubblica) con una bilancia e/o una stadera per verificare i pesi delle merci così da prevenire le frodi commerciali, ma anche sanitarie e alimentari. L'olio, proprio come oggi, è uno dei beni più adulterati: spesso è allungato con lardo liquefatto e “aggiustato” con spezie e radici.
Il menù del banchetto
Roma ha creato la prima grande cultura europea del cibo, ha inventato la ristorazione veloce (l’antenato del fast food coi thermopolia) e l’aperitivo con le gustatio (vedi oltre), ha fatto fiorire la tradizione dei grandi cuochi ponendo le basi della raffinata cucina italiana. Ricostruire oggi un banchetto romano è un’operazione multidisciplinare nella quale rientrano gli scavi archeologici e i loro reperti, le rappresentazioni da affreschi e mosaici, i testi letterari, gli epigrammi e i poemi, i trattati di agricoltura e i ricettari veri e propri, come appunto quello di Apicio.
Il banchetto prevede di norma 7 portate suddivise in antipasti e stuzzichini (gustatio), i primi, le carni e i pesci e quindi i dolci (secunda mensa, così chiamata perché a questo punto si cambia il piatto). Inoltre una cena che si rispetti va “ab ovo usque ad mala” (Orazio), ossia dall'uovo fino alle mele, alla frutta (che è diventato anche un proverbio per dire “dall’inizio alla fine”). Il gusto prevalente è agrodolce, una cucina mimetica, una commistione di sapori, soprattutto aceto e miele. Sono largamente utilizzate le spezie e le erbe aromatiche, per impreziosire e arricchire tutte le pietanze (ma anche per camuffare i sapori di ingredienti mal conservati). E’ una cucina curiosa e sperimentale che sfrutta tutti gli ingredienti commestibili a disposizione, tra i più particolari vale la pena ricordare le tartarughe, le mammelle e le vulve di scrofa, i ghiri e qualsiasi tipo di volatile, cigni, fenicotteri, aironi, pavoni, pappagalli. In questa ottica le salse assumono un ruolo centrale perché con esse si possono ottenere una varietà infinita di pietanze. Le salse vengono chiamate ius, nel significato di mescolanza e guazzabuglio, la stessa parola che viene usata per le leggi (...). Si preparano salse per la carne, per il pesce, per le fritture, salse calde, salse fredde a base di numerosi ingredienti e spezie esotiche, rare e costose. La salsa non ha soltanto lo scopo di stupire per la varietà e la combinazione dei sapori ma anche evidenziare l’agiatezza dell'organizzatore del banchetto. Tutte le salse hanno tre ingredienti comuni: il miele, il pepe e il garum. Il garum è un condimento, l'antenato della nostra colatura di alici, ha origine greca, è prodotto dalla fermentazione del pesce azzurro e delle sue interiora sotto sale (per molti giorni al sole), quindi ha un sapore forte e pungente, molto sapido e intenso. Si utilizza puro o miscelato con acqua, vino o aceto. Viene aggiunto per dare sapidità a tutti gli altri ingredienti.
Le ricette
Dopo questa lunga ma necessaria introduzione arriviamo al dettaglio delle ricette che ho scelto per oggi. Non potendo dilungarmi per 7 ore come in un banchetto romano, ho deciso di illustrare 4 ricette: un antipasto, un primo, un secondo e un dolce.
Come antipasto ho pensato ad un’insalata di uova sode (molto usate e considerate inizio obbligato di ogni banchetto) e cicoria (una della verdure più apprezzate perché considerata curativa) condita con una salsa a base di acciughe (garum), olio di oliva, aceto, miele, pepe.
Come primo le lagane, le antenate delle nostre lasagne, costituite da strati di pasta di farina e acqua tirata molto sottile a mattarello e cotta al forno (simili al pan carasau sardo) poi farcita a strati con verdure e legumi (porri e ceci) e ripassata in forno (a proposito di primi bisogna tener presente che i romani non usano la pasta secca nè la pasta all’uovo bollite in acqua, il primo più diffuso resta la zuppa, puls). Curiosità: in alcune regioni del sud italia il matterello si chiama ancora oggi laganaturo e si cucinano ancora lagane e ciceri (ceci).
Come secondo un volatile, non un pappagallo o un cigno, ma un’anatra accompagnata da una salsa apiciana agrodolce a base di spezie e datteri (l’antenata della Worcester, una salsa dolce e salata che può accompagnare qualsiasi cosa, carne e pesce). I datteri sono i frutti più antichi coltivati dall’uomo, fondamentali perché molto energetici. (Si narra che Alessandro Magno durante la sua spedizione in Asia fu costretto a fermarsi in un’oasi nel deserto con i soldati stremati. Un saggio locale offrì loro dei datteri e questi si sentirono subito rinvigoriti tanto che Alessandro Magno ordinò che palme da dattero fossero piantate in tutte le sue provincie.)
Per finire un dolce con un ingrediente importato dai sarmati. Mi sono divertita a immaginare che nella cucina per il nostro banchetto ci sia un cuoco di origine sarmata che cucina secondo le sue tradizioni una frittella a base di kefir, un pancake ante litteram accompagnato da miele, semi di papavero e mele. Ab ovo usque ad mala!
Con queste parole tratte dalle Satire II 8, il poeta Orazio descrive un banchetto per un’occasione importante, poco prima della fine del I secolo a.C.
“Come antipasto cinghiale lucano:
era stato cacciato al levarsi dello scirocco,
così diceva il padrone di casa;
A far da contorno ravanelli piccanti, lattuga, radici, cose da stuzzicare
Lo stomaco svogliato, raperonzoli, salsa di pesce e vino di Coo.
Sparecchiata questa portata,
Un valletto in veste succinta
Deterse con uno straccio color porpora
Il piano d’acero della mensa…
…. Mangiavamo uccelli, frutti di mare, pesci,
Che nascondevano un gusto diverso da quello consueto…
… come quando mi furono serviti
Filetti di rombo e di pesce passero
Di un sapore per me inusitato…
… Viene allora servita, lunga distesa nel piatto,
Una murena, guarnita di gamberetti in umido.
E subito l’anfitrione: “E’ stata presa gravida,
Perchè una volta deposte le uova,
La sua carne sarebbe peggiorata”.
(Orazio, Satire II 8, Mario Ramous, Garzanti, 1987)
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mi sono posto spesso questo problema e per come sta girando il mondo è un problema che diventa difficile da gestire per chi diventa anziano e per chi deve prendersene cura. Non siamo più la società matriarcale o patriarcale di una volta: è inutile prenderci in giro. Abbiamo mille cose da fare, tanta roba da gestire, il lavoro, i rapporti sociali sempre più esili, la vita che si allunga si ma al prezzo di diventare interminabile perché il tuo fisico non è resistente come la tua vita e quindi finisci col diventare prigioniero di te stesso. Allora il problema si pone: oggi sono figlio e dovrei (non lo faccio come dovrei) prendermi cura di mia madre; un domani sarò così io, una persona di cui prendersi cura e non voglio condannare la mia unica figlia a dover gestire me, che in fondo nel bene e nel male la vita l'ho vissuta. Allora probabilmente vanno messe le basi per nuove forme di aggregazioni familiari, che non siano ospizi o RSA ma case famiglie, co-housing, dove si vive insieme, in maniera autonoma o no, dove si fa coalizione, dove paghi qualcuno per prendersi cura di te ma nel contempo tu resti totalmente autonomo, in grado di fare le tue cose e vivere i tuoi affetti e fare anche accoglienza nel caso dovesse servire. Perché, per quanto ne vogliamo, tutto è idealmente rimasto sul vecchio stampo: gli ospizi sono carceri più o meno dorate dove parcheggiare i propri cari, ed è ovvio che una persona più o meno autonoma come questa signora la vive con sofferenza; le RSA sono prigioni più o meno dorate per malati lungodegenti che nessuno è in grado o vuole assistere, perché il welfare non esiste, perché ti consumi dietro ad una persona che ha smesso di esistere almeno mentalmente e tu non sai proprio da dove iniziare e come curare senza che a tua volta la tua vita si annulli e diventi prigioniero e vecchio prima del tempo. Io me lo pongo il problema, perché di fatto sono solo, le mie relazioni esigue, mia figlia fuori, nel pieno della rincorsa di costruzione della sua vita, alla quale io non vorrei mai mettere alcun freno, perchè ho quasi 60 anni, ho ancora una vita davanti ma una vita che riserva più incognite di quando ne dava 20-30 anni fa. E allora è meglio pensarci ora che sono lucido e autonomo e non quando ormai sarò incapace di prendere decisioni da solo e diventare come questa signora, prigioniera dei suoi ricordi e di uno ospizio
Ho 82 anni,
4 figli, 11 nipoti, 2 pronipoti e una stanza di 3 x 3 in una casa di riposo dove mi hanno lasciato da sola.
Non ho più la mia casa né le mie cose amate, ma ho qualcuno che sistema la mia stanza, prepara il mio cibo e il mio letto, mi misura la pressione e mi pesa.
Non ho più le risate dei miei nipoti, non li vedo più crescere, abbracciarsi e litigare; alcuni vengono a trovarmi ogni 15 giorni; altri, ogni tre o quattro mesi; altri, mai...
Non faccio più crocchette, né uova ripiene, né polpette, né maglia né uncinetto.
Ho ancora un passatempo: fare Sudoku, che è un po' divertente. Non so quanto tempo mi resta, ma devo abituarmi a questa solitudine; vado alla terapia occupazionale e aiuto chi sta peggio di me per quanto posso, anche se non voglio avvicinarmi troppo.
Scompaiono spesso.
Dicono che la vita si allunga sempre di più.
Perché?
Quando sono sola posso guardare le foto della mia famiglia e alcuni ricordi di casa che ho portato con me.
E questo è tutto.
Spero che le prossime generazioni capiscano che la famiglia si forma per avere un domani (con i figli) e restituire ai nostri genitori il tempo che ci hanno dedicato crescendo noi.
"Prendersi cura di qualcuno che si è già preso cura di noi è il più grande onore."
(dal web😢)
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LAURA C'E'!
Ci sono molti miti da sfatare riguardo i capelli lunghi.
Internet è diventato luogo in cui si trova ogni informazione che, più che esserlo, è una serie di opinioni...opinabili.
Herman Huarache Mamani,
medico e sciamano peruviano (di fama mondiale i suoi libri La Profezia della Curandera e Negli Occhi dello Sciamano) sosteneva che i capelli lunghi hanno un significato profondo, poiché essi sono considerati il mezzo per inviare al cervello umano l'immagine che induca a far emergere il proprio lato femminile, sia che siamo donne che uomini.
Perché proprio il capello lungo?
Poiché è la rappresentazione della Donna che, nel suo significato arcaico dovrebbe rappresentare accoglienza - amorevolezza - affettività - la Madre.
Il capello lungo viene adottato dai popoli andini e indiani d'America per indicare al maschio che, in questi popoli educati da una società matriarcale, è necessario dare ampio spazio all'intuizione, alla creatività e all'aspetto più femminile delle cose.
La mitologia dei popoli nordici ci ha presentato donne guerriere bellissime con capelli molto lunghi; si sorvola sul fatto che queste donne, per poter meglio manovrare l'arco, si facevano amputare i seni.
Il capello corto, nulla ha a che fare con quanto viene condiviso riguardo a penitenze o castrazioni, bensì viene adottato prevalentemente dalle popolazioni tibetane (anzi, addirittura la testa rasata) in segno di equilibrio, poiché nulla deve essere d'impiccio sulla strada della ricerca del sè.
Saranno gli occhi, indicatori dell'equilibrio dell'anima.
Ecco il motivo per cui il capello corto non sta bene a tutti.
Ad alcune donne conferisce ancor più l'aspetto maschile, segno che necessitano d'imporsi, poiché lavora in loro un'equazione: uomo = potere.
Sono donne che, come tali, si sentono di aver fallito (come madri, come mogli e professionalmente irrealizzate).
Altre a cui il capello corto evidenzia la fronte, lo sguardo amorevole e caritatevole.
Per concludere, un invito: proviamo ad osservare una donna dai lunghi capelli (senza generalizzare, naturalmente) e, spesso, ritroveremo dietro la parvenza femminile... Una personalità autoritaria e impositiva tipica dell'aspetto maschile non evoluto.
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Se avete amato Avatar forse amerete anche questi libri
L’uscita di Avatar la via dell’acqua a così tanti di distanza dal primo film della serie con gli alieni blu di James Cameron ha senza dubbio scosso il mondo del cinema grazie alle sue incredibili visuali. Credo che tutti conoscano il film Avatar (sia il primo che il secondo) e credo anche che tutti sappiano che si tratta di un soggetto originale, non tratto da alcun romanzo (se mai al massimo un poco ispirato a Pochaontas e altre storie), ma anni fa del tutto per caso ho scoperto un romanzo scifi con altri alieni blu, una vera e propria saga che parla sempre di invasioni pianetarie, scontro tra due culture molto diverse, e di un umano che suo malgrado viene educato e cambiato da questi alieni pur non potendosi mai integrare del tutto nel loro popolo....e che si innmaora persino di un’aliena. Vi ricorda qualcosa?
Questa saga scifi ha molti punti in comune con Avatar è vero, ma è anche molte diversità, è molto più violenta, cruenta e crudele. Siete avvertiti
La serie composta da tre libri si intitola IN HER NAME, è inedita in italiano, ed è stata scritta dall’autore Micheal R. Hicks:
Link acquisto: https://amzn.to/3iMKMRw
1. Empire (2009) 2. Confederation (2009) 3. Final Battle (2009)
In realtà i tre volumi sono stati anche poi raccolti in un unico volume di circa 600 pagine intitolato IN HER NAME. E io ho letto questo libro unico in effetti, che è un bel mattone, forse leggere i libri separati sarebbe stato meglio col senno di poi.
e nel caso non ne abbiate abbastanza di questo universo esistono anche tre prequel intitolati:
1. First Contact (2009) 2. Legend Of The Sword (2010) 3. Dead Soul (2011)
Come vi dicevo io ho letto solo la trilogia principale, non i prequel, e la trama di questi libri è questa, molto ma molto succintamente:
Trama: Un bambino umano assiste impotente all'arrivo di enormi astronavi sulla sua fattoria e al massacro di parenti, genitori e amici per mano degli alieni, delle donne alte e muscolose dalla pelle blu cobalto, lunghi capelli neri e occhi completamente neri. Senza pietà e con armi primitive queste sgozzano e fanno a pezzi ogni umano, tranne lui, che in un impeto di rabbia osa ferire una loro sacerdotessa. Essa in lui vede un imporante tassello del proprio futuro e lo rilascia. Quel bambino, Reza, cresce perciò orfano in un campo di lavoro mascherato da orfanotrofio, ma le privazioni e le torture, non riescono a spegnere il suo fuoco interiore. Lui stuidia di nascosto per un giorno diventare un soldato e potersi vendicare. Ma gli alieni, chiamati Kreelans, stanno conquistando pianeta dopo pianeta tutto il sistema e arrivano anche dove Reva sta vivendo. Stavolta viene catturato e rso schiavo. Anni di tortura e prove fisiche al limite del'umano lo cambiano, pur contro il suo stesso volere cresce sul pianeta nemico e assimila la loro brutalità per sopravvivere. Il suo odio per loro si attenua e abbraccia la loro cultura, perchè sopravvivere conta più di ogni altra cosa. Arriva a diventare un membro di quella socità ripettato dagli alieni stessi, l'unico umano sopravvissuto alla loro educazione. Reza si innamora ricambiato di un'aliena e per la prima volta è felice, almeno finchè, come guerriero non gli viene chiesto di guidare un attacco contro i soldati umani. Lui nonostante abbia accettato la cultura aliena, non può tradire i suoi fratelli umani, o sì? Il conflitto interiore lo attanagila e solo….
La mia opinione: questo libro enorme, più di 600 pagine, non è un vero e proprio sci fi romance, è più un romanzo di fantascenza che contiene anche una storia d'amore. Potrebbe essere visto come simile ad Avatar per alcuni versi, solo che qui le aliene blu belle snelle muscolose e dagli occhi allungati sono molto ma molto crudeli, come gli antichi Spartani per intenderci. La debolezza non è accettata nella loro società matriarcale militare. Bello il conflitto interiore del protagonista diviso tra la sua umanità, le sue origini, e la cultura aliena che ha in parte abbracciato.
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CLIMA TROPICALE
PROGETTO A.A. (AGENTI ATMOSFERICI) di Valentina Lombardi
CLIMA TROPICALE - pensieri in rima- ( 29 aprile 2016)
Non vorrei mai recarmi in quei remoti siti
ove regna ed impazza il clima tropicale,
lo devo ammettere ,seppur già l’irreale
paesaggio davvero in qualche modo inviti
chiunque lo conosca almeno per sentito dire
e ,dato il suo fascino, lo inciti a scoprire.
Dell’ecosistema topico lussureggiante
rigoglioso, di impenetrabile verzura, eclatante
esempio dà la foresta silenziosa.
Stranamente isolata ed asettica, ascosa
la sua temperatura permette e favorisce l’esistenza
degli inquietanti gorilla : i più grandi primati. L’esigenza
appaga degli alimenti e svaghi per gli scimpanzé
e per la società degli elefanti matriarcale
che sviluppano e godono la vita anche da sé
senza che l’uomo apporti loro alcun male.
Abitano in comunità rassicuranti
le femmine di questi pachidermi
agilissimi da non sembrar così pesanti
e poderosi, assai sapienti e materni.
La capobranco conforta le malate
assiste al parto delle gravide sorelle.
A volte partono per cercar derrate:
sale ,cibo ma soprattutto acqua per la pelle
oltre che per dissetare i corpi poderosi.
Tengono unita la famiglia con amorosi
gesti teneri che inducono armonia
e con la loro memoria intelligente,
anche se mute, mostrano la via.
Di un dinosauro ,in Congo, narrano leggende
che nella profondità della boscaglia
dovrebbe vivere in solinga esistenza:
un animal che nessun altro eguaglia ,
ma alcun di cercarlo ha la pazienza
o l’impegno ,data l’opinabilità della voce
che in mente mai non resta e se ne va veloce.
Ci son gli ocapi ,bizzarri , multicolori e rari
che vivono in quei frondosi posti
non in immense distese o verdeggianti mari
ove certo non è semplice restar nascosti.
Che cosa dir dei simpatici bonobi
lussuriosi quanto perspicaci
che spesso son considerati probi
per i loro infiniti abbracci e baci?
La selva si rivela però pericolosa
in quanto gravi virus dovuti a deiezioni
che qualche innocuo pipistrello “osa “
spargere ovunque, in tutte le direzioni.
Ciò mi convince a preferire altri itinerari ad un viaggio
in questo luogo ,penso, in modo saggio.
Prediligo onestamente mete più nostrane,
(al massimo le desertiche lande),
che non causino malattie strane
anche dovute a pittoresche vivande
ricercate da insani viaggiatori
alla ricerca di nuovi, eccentrici sapori.
Amo comunque i documentari
che illustrano mete sconosciute :
le piante, i luoghi, gli animali
mai purtroppo da vicin da me veduti.
Vi sprono infine ,amici miei,ad esplorare
e percorrere le innumerevoli vie del Mondo:
è un buon metodo per imparare
e della Vita cercar di cogliere il senso più profondo.
Ho capito così che la diversità in quanto tale
sempre fa del Bene,quasi mai del Male!
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Reggiseni
In un post di qualche giorno fa, @kon-igi mirabilmente e con il suo stile irriverente (in senso “vernacoliere”, citazione non a caso) spiegava il passaggio transgenere sessuale partendo dal mito delle Amazzoni, in particolare dal leggendario scontro raccontato nell’Iliade tra Achille e Pentesilea. Leggetelo per le spiegazioni biologiche, davvero importanti anche in vista di successive discussioni su un tema che è necessario da conoscere e da affrontare, io gli ho promesso che appena avuto un po’ di tempo avrei scritto delle chicche sulle leggendarie guerriere.
Secondo la leggenda e la storiografia di Erodoto, le Amazzoni erano un popolo guerriero formato da sole donne che viveva ai limiti orientali del mondo allora conosciuto, la Scizia, un vastissimo territorio che corrisponde a zone dell’odierna Romania, il Caucaso, espandendosi verso Oriente a parti del Turkemistan, Kazakistan e l’Iran, vivendo in prossimità dei fiumi. Erano famose guerriere che vivevano in società di tipo matriarcale, con due regine, una nei tempi di pace e una nei tempi di guerra. Del loro rapporto con i maschi, ci sono diverse versioni: le più famose raccontano che i maschi erano considerati schiavi e non potevano usare le armi, venendo usati solo a scopi riproduttivi; altre invece, come nella Geografia di Strabone (XI.5.4-5) raccontano che alcune migravano nei territori dei Gargareni (più o meno l’odierna Cappadocia), e si accoppiavano con i maschi di quella popolazione in segreto e al buio, affinchè non si potesse conoscere l'identità dell'altro.
Ma arriviamo al punto divertente: è verissimo che l’etimologia della parola Amazzone significa “senza un seno”, pratica che lo stesso Ippocrate nella Medicina descrive venisse effettuata bruciando la mammella con un disco incandescente di rame, per favorire il tiro con l’arco, e successive tradizioni seguono in parte questa idea, come Virgilio nell’Eneide (I, 466-496) che descrive la bellissima Pentesilea con l’elmo frigio e una cinta d’oro a comprimerle il seno (milibus ardet, aurea subnectens exsertae cingula mammae, bellatrix, audetque viris concurrere). Ma c’è un grande problema: in tutta l’iconografia delle Amazzoni, non c’è mai prova di questa amputazione, anzi spesso sono dipinte e scolpite con un florido seno; esempio più eclatante è il fregio della Amazzonomachia del Mausoleo di Alicarnasso. Questo perchè probabilmente ci fu un errore di traduzione: il termine di origine armene mazon, guerriera, si confuse con mastos, mammella; masa in altre lingue del territorio indica la luna, e nell’iconografia le Amazzoni avevano un piccolo scudo con disegnata una mezzaluna, probabilmente legata ad antichissimi culti lunari. Altra versione ancora fa derivare amazzone da ha-mazan, persiano per donna guerriera.
Rimangono altre piccole curiosità:
- vero che Achille nell’Iliade uccide tutte le 12 guerriere amazzoni accorse in aiuto dei Troiani, e il suo scontro con Pentesilea è una delle scene più memorabili del poema: Omero fa vincere Achille, tra l’altro Achille ferisce Pentesilea al seno (punto centrale della questione dal punto di vista simbolico) e si innamora della bellissima guerriera mentre cade esanime a terra, ma la vittoria era chiara dato che l’Iliade è il poema “dell’Ira di Achille”; versioni successive davvero raccontano di fantasie necrofile del Pelide, altre che fu ferito a Morte dalla guerriera e solo l ‘intervento di Teti presso Zeus portò all’epilogo conosciuto; tutte però confermano che fu Achille a consegnare emozionato alle Amazzoni la salma della loro regina, e lo era così tanto che alcuni guerrieri achei lo derisero, e ne ebbe la peggio Tersite, ucciso a pugni dall’eroe;
- le gesta delle Amazzoni erano uno dei fulcri di un altro poema epico, all’epoca dell’Iliade altrettanto famoso, l’Etiopide, attribuita da fonti antiche ad Arctino di Mileto, d cui però non ci rimangono che dei piccoli frammenti;
- le Amazzoni erano famose per l’abilità a cavallo, tanto che ancora adesso si usa amazzone per una donna che cavalca, e per le armi: Pentesilea usò durante lo scontro probabilmente una sagaris, scure d'arcione utilizzata dalle popolazioni nomadi che abitavano le steppe euro-asiatiche;
- la zona delle foreste equatoriali sudamericane si chiama Amazzonia perchè nel 1542 il cappellano della spedizione comandata da Francisco de Orellana, Gaspar de Carvajal, descrivendo lo scontro tra i soldati e gli indigeni, che probabilmente erano della popolazione conosciuta come Tapuyas, notò che presero parte alle scontro anche le donne; nella “Relacion del nuevo descubrimento del famoso Rio Grande que descubrió por muy gran ventura el Capitan Francisco de Orellana" il cappellano descrisse l’attraversamento del Capitano Orellana di un immenso fiume, che in un primo momento fu chiamato Rio De Orellana, ma poi cambiò in Rio delle Amazzoni proprio in ricordo delle donne guerriere che tendevano imboscate ai bordi del fiume.
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Gli uomini vogliono soltanto sesso?
Quante volte avete sentito una donna affermare che gli uomini ragionino con il pisello e che vogliano solamente sesso? Quante volte avete letto queste posizioni sui social media? Ma è davvero così?
Intanto bisogna fare una profonda riflessione storica e sociologica, la rivoluzione sessuale del 1968 è nata per sdoganare il sesso libero al di fuori del matrimonio, il problema è che lo sdoganamento del femminismo non ha assolutamente portato ad una libertà mentale, in particolare nel mondo femminile; la donna oggi è emancipata e libera solamente a parole, ma non lo è a livello psicologico in quanto legata a dogmi sociali e di costume imposti nel corso degli ultimi 50 anni.
La donna è mobile qual piuma al vento, muta d'accento e di pensiero, cantava il duca di Mantova nell'ultima aria del rigoletto di Giuseppe Verdi; questa peculiarità femminile si è sempre saputa, motivo per il quale il maschio ha sempre tenuto - nei limiti del possibile - a freno l'infiammabilita delle donne, sino a quando i tempi non siano stati considerati maturi per offrir loro più spazio.
Stante che nel corso dei millenni donne importanti e di potere ce ne sono state miriadi, come dimenticare ad esempio Elisabetta I di Tudor figlia di Enrico VIII e di Anna Bolena (altra pessima persona, donna arrivista e subdola)? Elisabetta I è nota innanzitutto per non avere avuto figli, pare fosse sterile e che comunque diversi nobiluomini erano soliti andarla a trovare nelle sue camere in orari a dir poco inopportuni ( se qualcuno volesse approfondire mi chieda la bibliografia da consultare), la regina vergine ( questo era il suo soprannome) però non viene ricordata per le oltre 80.000 persone che ha fatto ammazzare, tra cui sua madre.
Peraltro c'è da dire che la maggior parte delle donne stessero bene nei loro cliché, difatti la società occidentale - fatte salve sporadiche situazioni - è stata per due millenni a carattere matriarcale, oggi le virago strillano e pestano i piedini parlando di patriarcato da estirpare, patriarcato che appunto, fatte salve isolate e sporadiche situazioni, è esistito solo nei loro cervelli bacati.
Difatti il movimento femminista è di ispirazione massonica inglese, creatasi dal governo di Napoleone Bonaparte durante la rivoluzione francese ( questo passaggio può suonare strano, per cui a beneficio di chi non conoscesse alcuni retroscena della rivoluzione francese, invito a consultare il mio articolo al riguardo, lo potete trovare sulla piattaforma Twitter sul link a fondo articolo ), sempre in Francia lo scrittore Alexander Dumas inventò il neologismo "femminismo". Quanto spiegato si traduce facilmente in una situazione ben precisa; ergo, le donne hanno avuto questa evoluzione per precisa volontà degli uomini di potere.
Si può quindi beatamente affermare che la rivoluzione sessuale ha rivoluzionato solamente il modo di porsi delle donne, ed è qui che arriva il bello ( per così dire), ovvero la disinibizione ha fatto emergere i lati repressi del carattere femminile: spocchia, arroganza, aggressività, competizione, alterigia, diffusa maleducazione e ipocrisie varie.
L'uomo al contrario essendo sempre stato se stesso, non ha fatto altro che adeguarsi alla situazione, ci sono uomini che piuttosto di rivolgere la parola a certe donne, preferiscono spendere soldi per andare a puttane, per sfogare quella che è una necessità fisiologia come dormire o mangiare e, attenzione, lo sfogo sessuale è una necessità fisiologica anche delle donne, le quali tuttavia spesso vi rinunciano per i suddescritti retaggi e dogmi, adducendo che possano tranquillamente farne a meno, in realtà l'organismo e la psiche ne risentono, e non poco, una donna inappagata sessualmente avrà sempre e comunque un pessimo carattere e soventi scatti di ira o nevrosi di pianto.
La situazione in soldoni è questa, la rivoluzione femminista ha fatto sì che all'uomo le donne piacciano sempre meno e che ne possano tranquillamente fare a meno, tuttavia la fica non ha mai smesso di piacere, ragione per la quale sempre più uomini, da una donna, vogliono e vorranno solo ed esclusivamente del sesso.
I veri fortunati del secolo sono, appunto, tutti coloro i quali instaurano rapporti di tromboamicizia, attività grazie alla quale entrambe le parti si godono il meglio dell'altra persona.
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Esiste un villaggio sull’Himalaya in cui comandano le donne e non esistono i mariti. Stiamo parlando della popolazione dei Moso, una minoranza etnica che vive nello Yunnan, una zona sud-occidentale della Cina, ai confini con il Tibet e ai piedi della grande montagna.
In questo villaggio le donne non si sposano mai, ma questo non vuol dire che rinunciano ai figli e alla presenza di un compagno o di un padre. Durante le feste popolari sono le donne a scegliere il proprio partner. Se una ragazza si avvicina ad un uomo e gli solletica il palmo della mano vuol dire che vorrebbe stare con lui. Dopo il breve corteggiamento il prescelto può vivere una notte d’amore con la donna, arrampicandosi sino alla sua finestra.
Lei però potrà cambiare idea sino all’ultimo secondo e l’uomo potrà raggiungerla solo se vedrà una cintura appesa alla finestra, in caso contrario dovrà parlare apertamente con la ragazza per poter prendere accordi. Dopo il parto, i figli rimangono a vivere nella casa della madre, insieme alle nonne e alle zie. Le donne vivono e dormono in stanze private, mentre gli uomini riposano in camerate comuni. Quando una coppia Moso si separa lo fa in modo naturale, senza bisogno di litigi o conflitti a causa della gestione dei figli o della spartizione dei beni.
Il ruolo del capofamiglia è ricoperto dalla donna più anziana, la Dabu, che ha il compito di proteggere e guidare la famiglia.
Nonostante sia una società matriarcale, quella dei Moso non opprime gli uomini che, al contrario, sembrano molto felici.
Si prendono cura dei figli, ma anche delle sorelle e delle madri, costruiscono le case e le rendono sicure.
Di fatto nei villaggi di questa popolazione c’è una perfetta distribuzione dei ruoli e un bilanciamento delle responsabilità tale da azzerare qualsiasi conflitto possibile.
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“ Il mondo dei Peanuts è un microcosmo, una piccola commedia umana per tutte le borse. Al centro sta Charlie Brown: ingenuo, testone, sempre inabile e quindi votato all’insuccesso. Bisognoso sino alla nevrosi di comunicazione e “popolarità”, e ripagato, dalle bambine matriarcali e saccenti che lo attorniano, col disprezzo, le allusioni alla sua testa rotonda, le accuse di stupidità, le piccole malvagità che colpiscono a fondo. Charlie Brown impavido ricerca tenerezza e affermazione da ogni parte: nel baseball, nella costruzione di aquiloni, nei rapporti con Snoopy, il suo cane, nei contatti di gioco con le ragazze. Fallisce sempre. La sua solitudine si fa abissale, il suo complesso di inferiorità pervasivo (colorato dal sospetto continuo, che prende anche il lettore, che Charlie Brown non abbia alcun complesso di inferiorità, ma sia veramente inferiore). La tragedia è che Charlie Brown non è inferiore. Peggio: è assolutamente normale. È come tutti. Per questo marcia sempre sull’orlo del suicidio o quanto meno del collasso: perché cerca la salvezza secondo le formule di comodo propostegli dalla società in cui vive (l’arte di conquistare gli amici, come diventare intrattenitore ricercato, come farsi una cultura in quattro lezioni, la ricerca della felicità, come piacere alle ragazze... lo hanno rovinato, ovviamente, il dottor Kinsey, Dale Carnegie e Lyn Yutang). Ma poiché lo fa con assoluta purezza di cuore e nessuna furbizia, la società è pronta a respingerlo nella persona di Lucy, matriarcale, perfida, sicura di sé, imprenditrice a profitto sicuro, pronta a smerciare una sicumera del tutto fasulla ma di indubbio effetto (sono le sue lezioni di scienze naturali al fratellino Linus, una accozzaglia di improntitudini che a Charlie Brown danno male allo stomaco, “I can’t stand it”, non posso sopportarlo, geme lo sciagurato, ma con quali armi si può arrestare la malafede impeccabile quando si ha la sventura di essere puri di cuore?...) Charlie Brown è stato così definito “il bambino più sensitivo [sic] mai apparso in un fumetto, capace di variazioni di umori di tono shakespeariano” (Becker) e la matita di Schulz riesce a rendere queste variazioni con una economia di mezzi che ha del miracoloso: il fumetto, sempre pressoché aulico, in una lingua da Harvard (raramente questi bambini scadono nel gergo e peccano di anacoluti) si unisce così a un disegno capace di dominare, in ogni personaggio, la minima sfumatura psicologica. Così la quotidiana tragedia di Charlie Brown si graffisce ai nostri occhi con una incisività esemplare. “
Tratto da Il mondo di Charlie Brown, saggio breve raccolto in:
Umberto Eco, Apocalittici e integrati. Comunicazioni di massa e teorie della comunicazione di massa. (Libro elettronico Bompiani; edizione originale 1964)
#Umberto Eco#Il mondo di Charlie Brown#Peanuts#libri#fumetti#semiotica#citazioni#saggistica#saggi#letture#leggere#cultura di massa#mass media#società umane#culture umane#linguaggio umano#XX secolo#cultura del XX secolo#Snoopy#Linus#serie a fumetti#nevrosi#bambini
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Una roba che mi irrita terribilmente è la scemenza che gira intorno al concetto di maternità. E il fastidio parte da me, che in un momento di particolare rigore nell'analizzarmi, ho capito di essere a disagio con le donne che non esprimono una qualche forma di senso materno.
Mi sono reso conto di cercarlo nella relazione, di impegnarmi molto per sollecitarlo in modi più o meno manifesti. Mi dico che è comprensibile: io ho adorato mia madre ogni secondo e il rapporto con lei ha stabilito, prevedibilmente, un canone. Però è sbagliato. Come spesso succede, sono una vittima che è diventata carnefice. Una società matriarcale come quella italiana impone che dalla donna, emancipata o meno che sia, ci si aspetti che sia materna. E siamo soprattutto noi uomini ad aspettarcelo. E così una donna che materna non è - e ne ha il pieno diritto - è vissuta come un corpo estraneo, come una nota stonata, sotto un'apparente accettazione.
Ho anche pensato che questo spiega il lieve disagio indottomi dalle donne androgine o vestite in modo androgino che, per una analogia stupida e distorta, vivo come non accoglienti nel mondo in cui una mamma (e dunque ogni donna) dovrebbe essere. No, no e ancora no. Questa è una dittatura e ha fatto un sacco di danni, perché vede il ruolo, la maschera e perde di vista la persona e la relazione. Ho tanti amici figli di madri sommariamente qualificate come "anaffettive" che magari erano solo ragazze con un destino diverso dalla maternità, ma non sono sfuggite al canone maledetto. Il risultato è che hanno preso le distanze da sé e il rapporto con i figli ne ha sofferto le conseguenze.
Allo stesso modo mi innervosisce che ritiene che la condizione di madre, realizzandosi, comporti una specie di illuminazione rispetto a sensazioni, esperienze che "chi non è madre non può capire". Sciocchezza pura, miope e violenta. Madre è chi si sente madre, che abbia figli o meno. Conosco donne senza figli che sono madri così potenti da tenere in grembo il mondo. E diffido delle madri che fanno della maternità un segno distintivo, se non addirittura una professione.
La verità è che bisognerebbe finirla di mettere il naso in quello che le donne sono e vogliono. C'è una sopraffazione enorme nell'interessarsi a cosa debbano/possano fare del loro apparato riproduttivo. Loro sanno cosa vogliono. Loro sanno cosa sono. Ed è tutta loro la gioia o la sofferenza.
Sono pensieri banali, magari imprecisi, ma sono le mie scuse manifeste per una soverchieria invisibile che non ha (più) cittadinanza, almeno in me.
#ninoelesirene#pensieri#frasi#persone#sentimenti#letteraturabreve#aforismi#gente#amore#emozioni#maternità
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Angela Yvonne Davis è una figura fondamentale per il movimento femminista nero degli anni Settanta.
Nata il 26 gennaio da una coppia di insegnanti, relativamente benestante (il padre prese in gestione un distributore di benzina), visse i drammi del razzismo del profondo Sud. Abitava in una zona chiamata Dynamite Hill perché spesso, lì, le case dei neri che vi si trasferivano venivano fatte saltare con la dinamite; con la dinamite fu fatta saltare una chiesa dove morirono tre sue amiche.
Laureata con lode in letteratura francese, passò poi agli studi di filosofia e visse a Parigi e Francoforte dove fu allieva di Adorno, per ritornare poi negli Stati Uniti, dove fu allieva di Herbert Marcuse. In California continuò la sua attività di lotta politica aderendo al SNCC, un comitato di coordinamento della lotta non violenta degli studenti, e successivamente al movimento delle Black Panthers. Dopo l’assassinio di Martin Luther King aderì al Partito Comunista. Conseguita la laurea in filosofia, ottenne la cattedra all’Università di Los Angeles, che le venne dapprima revocata in quanto comunista, ma la revoca fu dichiarata incostituzionale e poté continuare ad insegnare. Tuttavia venne espulsa dall’università quando nel 1970 si adoperò in difesa dei Soledad Brothers, tre detenuti neri accusati di aver ucciso una guardia, e anche in seguito alla sua partecipazione al movimento delle Black Panthers, che andava assumendo sempre più carattere di lotta, anche armata.
Successivamente fu accusata di cospirazione, rapimento e omicidio in relazione al fallito tentativo di un gruppo di attivisti delle Black Panthers, di liberare il detenuto nero George Jackson in un’aula di tribunale: la pistola utilizzata era intestata a suo nome, e Jackson era il grande amore della sua vita (non risulta infatti che Angela abbia avuto altri legami importanti e duraturi); fu quindi arrestata e processata.
L’appassionata difesa che condusse personalmente ed efficacemente nel corso del processo, le consentì di diffondere le sue idee in tutto il mondo, diventando così popolare da mobilitare a suo favore un gran numero di persone che si riunirono in comitati e organizzazioni, non solo negli Stati Uniti ma anche in molti altri paesi.
La sua vicenda portò alla ribalta la sua figura di donna che aveva sempre combattuto per i diritti civili e per i diritti delle donne, scontrandosi talvolta anche con altri appartenenti al Movimento. Sin dagli inizi della sua attività infatti, le sue qualità intellettuali e le sue grandi capacità organizzative l’avevano portata ad assumere responsabilità e ruoli direttivi. Angela venne criticata molto pesantemente dai maschi del movimento perché “svolgeva un lavoro da uomo” e si vide contestare perfino il fatto che le donne volevano impadronirsi dell’organizzazione.
La Davis si rese conto di essere venuta così a contatto con un complesso assai diffuso e radicato tra certi attivisti neri che consideravano la mascolinità nera come qualcosa di separato dalla femminilità nera, e l’impegno diretto delle donne una minaccia all’affermazione della loro virilità. Questa mentalità affermatasi soprattutto con l’islamismo di Louis Farrakhan, contribuì certamente a determinare l’uscita della Davis dal Movimento stesso.
Attraverso il suo intenso lavoro, scritti, conferenze, lezioni universitarie e interviste, Angela Davis condusse un’intensa campagna per interpretare e smontare quello che lei indicava come un mito creato dalla cultura e dalla letteratura dei bianchi per dividere la razza nera e ostacolare il movimento di liberazione, il mito della società matriarcale nera. Da qui la necessità per la Davis di combattere il carattere oppressivo del ruolo attribuito alla donna nella società americana in generale.
Angela Davis ha dedicato la sua vita alla soluzione politica dei problemi del razzismo e dei diritti civili, e le sue vicende personali e il rilievo che ebbero in tutto il mondo la portarono ad essere, in quanto donna e afroamericana, un simbolo sia del femminismo che dell’uguaglianza razziale. La Davis aveva fatto capire alle donne che il lavoro fuori casa non solo rappresentava un importante sostegno economico e motivo di indipendenza, ma anche l’importanza di avere una vita all’esterno della famiglia, con l’opportunità di svolgere un lavoro interessante e realizzare le proprie aspirazioni. Angela insieme ad altre figure, quali Shirley Chisholm, prima donna afroamericana eletta al Congresso americano, hanno mostrato alle donne afroamericane la strada e la possibilità di modificare la propria vita.
Attualmente la Davis insegna Storia della Coscienza all’Università della California, dove dirige anche il Women Institute. Non è più iscritta al Partito Comunista statunitense, ma continua a sostenere gli ideali e i principi di sempre, con quel senso critico che l’ha portata a scagliarsi anche contro la degenerazione del movimento afroamericano verso il fondamentalismo islamico, rappresentato da Nation of Islam di Louis Farrakhan, movimento islamista e maschilista, che ha riempito il vuoto lasciato dalla scomparsa delle laiche e progressiste Pantere Nere.
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Perché il 13 è un numero sfortunato?
Il numero 13 è notoriamente un numero di sventura, che genera molta preoccupazione nelle persone più superstiziose.
Non è raro che le nostre nonne si siano preoccupate dei “13 posti a tavola” o del venerdì 13.
Ma da dove nasce questa atavica paura nei confronti di un numero di due cifre?
Tale tradizione vede i suoi natali nell’antica, anzi, antichissima Grecia. In quel periodo di tempo che possiamo collocare intorno al secondo millennio a.C.
In un tempo così lontano, così remoto, la società era profondamente diversa da quella che conosciamo noi oggi.
Ciò che salta subito all’occhio è il ruolo delle donne: erano loro che detenevano il potere assoluto.
La società matriarcale si reggeva in piedi grazie al fatto che non era ancora noto il ruolo del coito nella fecondazione, si pensava infatti che le donne venissero fecondate dal vento e dai fiumi. Il ruolo maschile, quindi, era secondario, limitato al mero piacere femminile, le quali cambiavano partner ogni qualvolta ritenevano necessario.
L’uomo aveva compiti ben precisi: la caccia e la difesa, ma erano sempre sottoposti alla regina, nonché sacerdotessa.
La religione, ovviamente, subiva lo stesso fascino femminile: esisteva un’unica dea, la Dea Luna, che, come proprio il Dio cattolico, era una e trina, in quanto si impersonificava nelle tre fasi dell’anno (la Dea vergine, la Dea nubile e la Dea vetusta).
La divisione annuale, con il passare dei secoli, divenne sempre più accurata, fino ad arrivare ad un anno composto da 13 mesi.
Il tredicesimo mese era il più importante, in quanto si doveva omaggiare la Dea Luna, affinché il raccolto fosse prosperoso.
Ma chi è che veniva sacrificato? Ovviamente l’uomo, o, per essere più precisi, il re, il consorte della regina, su cui essa si appoggiava per mantenere l’ordine.
Il re non aveva un vero e proprio potere, bensì la regina ne delegava alcuni compiti.
Ogni 13 mesi il re veniva sacrificato, immolato per la Dea. O, in epoca più vicina a noi, castrato.
Con il passare dei secoli al re venne sostituito un fanciullo, poi un animale, ma la paura del tredicesimo mese è rimasta ben impressa ai nostri antenati, che hanno provveduto a tramandarla alle generazioni future.
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Lezione del 9/11/2019
AUTORE: Sconosciuto
NOME: Anello di Isopata
DATA: 1500 a.C.
MATERIALE E TECNICA: Oro fuso
LUOGO DI CONSERVAZIONE: Museo Archeologico Nazionale di Heraklion
CONTESTO ORIGINALE: Il sigillo ritrovato in un corredo funerario, aveva un forte valore prestigioso-amministrativo. Il soggetto, molto comune nella realtà micenea, alcune sacerdotesse con il vestito tipico e con la testa da insetto (mantide religiosa o ape) aveva portato Evans a credere la società minoica una società matriarcale.
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