#romanzo storico antropologico
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pier-carlo-universe · 29 days ago
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"Il Tempo del Riso Glutinoso" di Fiori Picco: Un Viaggio nelle Tradizioni del Sud della Cina. La storia di una giovane donna tra modernità e tradizione, tra ostacoli e scoperta di sé in una società matriarcale.
Nel suo ultimo romanzo "Il Tempo del Riso Glutinoso", Fiori Picco ci porta in un affascinante viaggio culturale nel cuore del Sud della Cina, tra le montagne isolate al confine tra le province dello Hunan e del Guizhou, in un piccolo villaggio abitato dal
Nel suo ultimo romanzo “Il Tempo del Riso Glutinoso”, Fiori Picco ci porta in un affascinante viaggio culturale nel cuore del Sud della Cina, tra le montagne isolate al confine tra le province dello Hunan e del Guizhou, in un piccolo villaggio abitato dall’etnia Kam. La protagonista è una giovane laureata che, dopo aver trascorso gli anni della sua formazione in una grande città, è costretta a…
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/02/22/la-letteratura-di-viaggio-e-viaggiatori-stranieri-in-puglia-fra-settecento-e-ottocento/
La letteratura di viaggio e viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento
DUE INGLESI ED UN TEDESCO
di Paolo Vincenti
Gli inglesi e il tedesco del titolo sono tre viaggiatori che nei secoli scorsi hanno raggiunto le nostre contrade. Ora, la letteratura di viaggio è un campo sterminato e anche sui viaggiatori stranieri in Puglia fra Settecento e Ottocento vi è una bibliografia talmente vasta che non appesantirò questo articolo, riportandola.
Mi sia concesso solo fare una brevissima introduzione su quell’importante fenomeno che va sotto il nome di “Grand Tour”, e poi mi intratterrò sui tre personaggi che, dei tanti, mi sembrano fra i più interessanti. Il Grand Tour è un fenomeno culturale tipicamente settecentesco.
Con questa espressione si è soliti definire il viaggio di istruzione e di formazione, ma anche di divertimento e di svago, che le élites europee intraprendono attraverso l’Europa fra Settecento e Ottocento. Protagonisti indiscussi del Grand Tour sono i giovani che hanno appena concluso gli studi, e in generale quegli intellettuali che specie nel Romanticismo erano imbevuti di cultura classica e dunque desideravano venire in Italia, come dire alla fonte di quella enorme ricchezza culturale che dal nostro Paese si era irradiata in tutta Europa.
Per i rampolli dell’aristocrazia francese, inglese, tedesca, pieni di cultura libresca ma poco pratici del mondo e degli uomini, il viaggio in Italia si presentava come un’esperienza irrinunciabile, certo indispensabile al fine di perfezionare la propria educazione. Essi vedevano nell’Italia la culla dell’arte e per esteso della civiltà mediterranea, grazie alla storia gloriosa di Roma, a sua volta tributaria della Grecia. E così si mettono in viaggio non solo i giovani, ma anche diplomatici, filosofi, collezionisti, romanzieri, poeti, artisti. Ciò dà origine ad una sterminata produzione, epistolari, diari, reportages di viaggio, romanzi, poesie, e non solo di carattere letterario ma anche artistico, pensiamo al famoso “Voyage pittoresque ou description du Royaume de Naples et de Sicile”, in cinque volumi, che realizzò l’abate francese Richard de Saint-Non tra il 1778 e il 1787, su incarico degli editori Richard e Labord.
Uno dei primi viaggiatori inglesi ad arrivare in terra salentina è Crauford Tait Ramage,1803-1878. Egli dimorava a Napoli come precettore dei figli del console Henry Lushington e, nel 1828, intraprese il suo viaggio nelle province meridionali, visitando il Salento. Rimane affascinato dalla bellezza di Otranto, poiché egli, come moltissimi inglesi dell’epoca, associava il nome di Otranto al romanzo di Horace Walpole ( il quale però non era mai stato ad Otranto)[1].
Nella sua opera “The nooks ad by-ways of Italy”, presso l’Editore Howell, Liverpool, del 1868[2], egli annota tutto quello che vede, catturato dall’irresistibile fascino dei nostri paesi e paesini, e per questo osserva anche la vita quotidiana, gli usi e le abitudini della nostra gente, anche se non sempre si dimostra preciso ed attento, come sottolinea Carlo Stasi a proposito del suo passaggio nel Capo di Leuca[3].
Il suo libro, dedicato al Generale Carlo Filangeri, è un resoconto di viaggio, sotto forma di lettere scritte ad un parente. Le lettere che riguardano la Puglia vanno dalla XXIII alla XXIX.
Come spiega bene il sottotitolo dell’opera, “Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni”, il Ramage, pur essendo spirito illuminista, è attirato dalle stranezze, o per meglio dire è attirato dalla suggestione che queste stranezze sembrano esercitare sul nostro popolo. Egli, che si professa materialista, e in effetti è uno storico serio e puntiglioso, trova grande meraviglia e interesse antropologico nel notare la creduloneria, le supersitizioni, l’ignoranza che allignano fra i salentini. Si ferma di fronte al fenomeno delle tarantate, che fa discendere dai culti orgiastici della dea Cibele. Tuttavia, ama la bellezza classica di questi posti. Infatti rimane molto colpito da Lecce e dalla sua architettura barocca, anche se, come già Swinburne, non apprezza la Chiesa di Santa Croce.
Anche il grande poeta Henry Swinburne, infatti, venne nel Regno delle Due Sicilie e visitò la Puglia da Foggia fino a Lecce. Nel suo libro “Travels in the Two Sicilies” del 1783, passa in rassegna tutte le città e i paesi che visita. Parla delle donne che danzano sfrenatamente delle danze bacchiche, a Brindisi, e che egli crede morsicate dalle tarantole, e parla anche di Lecce. Di particolare interesse, il suo disappunto di fronte al barocco leccese e a quello che ne è il monumento simbolo, la Chiesa di Santa Croce, che derubrica a pessimo esempio di commistione fra stili diversi. Lo Swinburne detesta la città di Lecce e la sua architettura, d’accordo in questo con un altro celebre intellettuale, il Riedesel, che è il secondo protagonista del nostro pezzo.
Il tedesco Johann Hermann von Riedesel, barone di Eisenbach, 1740-1785, è un appassionato archeologo che vuole descrivere ai suoi connazionali le antichità classiche dell’Italia. Il suo libro, “Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, è, come dice il titolo, un’opera epistolare, diretta al famoso archeologo Winckelmann[4].
Diplomatico e ministro prussiano, Riedesel aveva conosciuto a Roma e frequentato il Winckelmann, il quale gli aveva fatto da guida nella esplorazione dei monumenti della città. Infatti, e non potrebbe essere diversamente, nella descrizione che il Riedesel fa dell’Italia Meridionale, in particolare della Regione salentina, si avverte l’influenza del Winckelmann. Come detto, in fatto di architettura egli non ama lo stile barocco, che definisce “il più detestabile”, mentre apprezza molto la semplicità delle architetture mediterranee e in particolare delle pajare e dei muretti a secco. “Non restano però estranee al tedesco, acuto osservatore di uomini e cose, la vita economica e quella sociale delle contrade visitate”, come scrive Enzo Panareo[5].
Il suo libro divenne un punto di riferimento in Germania e fu molto letto, anche da Goethe, che lo elogia nella sua opera “Viaggio in Italia”, in cui sostiene di portarlo sempre con sé, come un breviario o un talismano, tale l’influenza che quel volume, per la puntigliosità e l’esattezza delle notizie, esercitava sugli intellettuali.
Janet Ross ,1842-1927, giornalista, storica e autrice di libri di cucina, arriva nel Salento nel 1888. Memorabile il suo incontro con Sigismondo Castromediano, che le racconta la storia della sua vita. Janet Ross pubblicò nel 1889 in Inghilterra le sue relazioni di viaggio in Puglia, in “La terra di Manfredi, principe di Taranto e re di Sicilia. Escursioni in zone remote dell’Italia Meridionale”, successivamente tradotto e pubblicato in Italia col titolo “La terra di Manfredi”[6].
Un racconto davvero interessante, fra lo storico-artistico e l’antropologico, impreziosito dai disegni di Carlo Orsi, compagno di viaggio della Ross, e ripubblicato ancora nel 1978 in Italia col titolo “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”.[7] Bisogna dire che la figura del Re Manfredi, come tutti gli Svevi, suggestionava fortemente la viaggiatrice inglese. Nella mentalità dei britannici, infatti, questa era una dinastia eroica, avendo lottato contro il papato.
Nei luoghi visitati – nell’ordine: Trani, Andria, Castel del Monte, Barletta, Bari, Taranto, Oria, Manduria, Lecce, Galatina, Otranto, Foggia, Lucera, Manfredonia, Montesantangelo, Benevento – , la Ross cerca le antiche vestigia di una civiltà, quella appula, ricca di gloriose tradizioni.
Determinante fu il suo incontro con Giacomo Lacaita. Come scrive Nicola De Donno, recensendo il libro curato da Vittorio Zacchino, “L’autrice, che era stata a Firenze, la capitale italiana degli inglesi, ed in Puglia anche l’anno precedente, ci informa che non avrebbe composto il suo libro senza l’incoraggiamento di Giacomo Lacaita, o meglio di sir James Lacaita, come sempre lo chiama. A Leucaspide, presso Taranto, che era la residenza di campagna dei Lacaita, ella rimase ospite per alcuni giorni e di lì il Lacaita le preparò escursioni ed in alcune l’accompagnò, le dette consigli e le suggerì riferimenti culturali. Egli era, al tempo del viaggio, senatore del regno d’Italia ed aveva settantacinque anni.
Nativo di Manduria, laureato in giurisprudenza a Napoli ed introdotto nella buona società cosmopolita della capitale dalla principessa di Leporano, di cui suo padre era stato amministratore, fu impiegato come legale dal consolato inglese, ove strinse relazioni importanti, fece da guida al Gladstone nella sua famosa visita a Napoli, ebbe, probabilmente per ciò, noie dalla polizia borbonica. Riuscì, nonostante tutto, ad ottenere da Ferdinando II un passaporto per l’Inghilterra nel 1851 e non tornò più a Napoli. A Londra fece un nobile matrimonio che gli aprì molte porte, si convertì all’anglicanesimo e naturalizzò, ebbe incarichi presso diplomatici.
E’ quasi certo che venne agganciato dalla diplomazia segreta di Cavour; da vecchio si vantò, a nostro giudizio poco credibilmente, di avere scongiurato lui che l’Inghilterra nel ’60 impedisse a Garibaldi di passare lo stretto e invadere la Calabria e tutto il Napoletano. Dopo l’unità tornò in Italia, fu candidato governativo alla Camera, si riconverti al cattolicesimo e venne fatto senatore.
Acquistò la tenuta di Leucaspide, la restaurò e vi si stabilì. Grandi e piccoli personaggi passavano dalla masseria, la quale divenne un nodo significativo di quei legami post-risorgimentali fra la buona società inglese e il turismo in Italia, di cui il viaggio della Ross fu una manifestazione.
In questo filone si inserisce anche, nel libro, l’incontro a Lecce con il Castromediano e la scoperta che questi era stato assistito in Inghilterra, quando evase dalla nave che lo deportava in America, dalla nonna della Ross. (Il racconto di galera che gli mette in bocca non è però originale: è una parafrasi dell’articolo Da Procida a Montefusco, che il Castromediano stampò nella strenna « Lecce 1881 » dell’editore Giuseppe Spacciante).
Il libro riporta molte annotazioni etniche e demografiche, sull’abbigliamento, su usi e costumi dei pugliesi, sulle fiere e i pellegrinaggi, le superstizioni soprattutto, i riti pasquali, le danze e i canti, ecc. Parla della pizzica pizzica facendo delle descrizioni puntuali ma anche coinvolgenti, nel puro spirito romantico da cui questa viaggiatrice era sostenuta”[8].
Janet Ross è una studiosa davvero attenta. Il contributo demo etno antropologico del suo libro è rilevante, perché ella, nella nostra Terra d’Otranto, annota tutto, fiabe, racconti popolari, superstizioni, riti magici, riporta tre canzoni, “Riccio Riccio”, “Larilà” e “La Gallipolina”, e poi si sofferma sul fenomeno del tarantismo, distinguendo fra “tarantismo secco ” e “tarantismo umido”, sottolineando per il primo l’importanza della presenza dei colori e per il secondo l’importanza dell’acqua nel cerimoniale.
Molto belle e coinvolgenti le descrizioni del ballo della pizzica pizzica che fa alla masseria Leucaspide con i lavoranti di Sir Lacaita. Una personalità davvero interessante, insomma. La Ross, corrispondente del Times, grande viaggiatrice, nel 1867, insieme al marito Henry Ross, un ricco banchiere, si stabilì in Toscana, dove continuò la sua carriera di scrittrice.
In Puglia, ella trova un mondo che non pensava potesse esistere, e se ne innamora. Ecco perché riesce a rendere con tanta efficacia usi e costumi della gente dell’antica Terra d’Otranto.
  [1] Vasta la letteratura su Horarce Walpole, 1717-1797, e sulla sua opera “Il castello di Otranto”, primo romanzo gotico della storia.
[2] Pubblicata in Italia col titolo “Viaggio nel regno delle due Sicilie”, a cura di Edith Clay, traduzione di Elena Lante Rospigliosi, Roma, De Luca Editore, 1966, e poi anche in Crauford Tait Ramage, Vagando in cerca dei suoi antichi resti e delle moderne superstizioni, contenuto in Angela Cecere, “Viaggiatori inglesi in Puglia nel Settecento”, Fasano, Schena, 1989, pp. 37 e segg., e successivamente in Angela Cecere, La Puglia nei diari di viaggio di H. Swinburne, Crauford Tait Ramage, Norman Douglas, contenuto in “Annali della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Bari”, Terza serie, 1989 -90/X, Fasano, 1993, p. 63.
  [3] Carlo Stasi, Uno straniero dal nome strano ed un contadino dall’aspetto sveglio, in “Annu novu Salve vecchiu”, n.9 , Edizioni Vantaggio, Galatina, Editrice Salentina, 1995, pp.72-76.
[4] Johann Hermann von Riedesel ,“Un viaggiatore tedesco in Puglia nella seconda metà del sec. XVIII. Lettere di J.H.Riedesel a J.J.Winckelmann”, Prefazione e note di Luigi Correra, Martina Franca, Editrice Apulia, 1913, poi ristampata in Tommaso Pedio, “Nella Puglia del 700 (Lettera a J.J. Winckelmann)”, Cavallino, Capone, 1979
[5] Enzo Panareo, Viaggiatori in Salento, in “Rassegna trimestrale della Banca agricola popolare di Matino e Lecce”, a.V, n.2, Matino, giugno 1979, p.54.
[6] Janet Ross, “La terra di Manfredi”, Vecchi Editore, 1899.
[7] “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, a cura di Vittorio Zacchino, Cavallino, Capone Editore, 1978.
[8] Nicola De Donno, “La Puglia nell’800 (La terra di Manfredi)”, in “Sallentum”, Anno I, n.1, sett.-dic. 1978, Galatina, Editrice Salentina, 1978, p.138.
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nardonews24 · 3 years ago
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FIGLI DEL TABACCO, IL NUOVO ROMANZO DI SALVATORE TUMA
FIGLI DEL TABACCO, IL NUOVO ROMANZO DI SALVATORE TUMA
Domani, martedì 12 aprile, alle ore 19 la Biblioteca del Centro Servizi Culturali (chiostro dei Carmelitani, corso Vittorio Emanuele II) ospita Salvatore Tuma, voce molto interessante nel panorama letterario italiano, che presenta il suo ultimo libro, Figli del tabacco (edito da I Libri di Icaro). Si tratta di un romanzo storico-antropologico sulla società contadina salentina che racconta fatti e…
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pablitomonamour · 4 years ago
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Pagina ibs : commenti dei lettori
la pagina Ibs del romanzo con i commenti dei lettori
http://www.ibs.it/code/9788889155509/golin-davide/pablito-mon-amour.html
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emanuele (31-08-2012) Ironico e struggente. Antropologico e dissacratorio. Romanzo che ti prende per mano e ti porta in soffitta a rovistare nei vecchi scatoloni ingombri di ricordi, mirabilie, sensazioni ed emozioni legate all'infanzia e all'adolescenza. Uno scatolone capace di contenere tutto ciò di cui si ha bisogno per emozionarsi. Voto: 5 / 5 
vincenzo [email protected] (05-07-2012) Che bravo questo scrittore. Nella cronaca di una vita, c'è una densità di gloria, ironia, umorismo viscerale, tristezza e sfacciata sincerità. Unica incertezza, non sempre preciso il collante tra autobiografia "normale" e vissuto di Pablito. Ma che importa? Voto: 4 / 5
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furio [email protected] (14-06-2011) Se vi piace il calcio, non lasciatevelo sfuggire. Se non ve ne frega niente del calcio, non perdete l'occasione di leggere un bel libro che usa il pallone come pretesto. Scritto con mano sicura, ripercorre i migliori anni della nostra vita come poche altre volte è stato fatto: senza retorica, ma con un piacere del racconto che trova il giusto equilibrio nel paesaggio dell'anima che ci segnerà per sempre, quel momento magico che ci ostiniamo a chiamare adolescenza. Voto: 5 / 5
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filippo r. [email protected] (30-04-2011) Paolorossi icona della nostra generazione, paolorossi uno di noi. In questa frase di Davide Golin c'è lo spirito del libro, che ha la forza e il merito di riportare in superficie ricordi e sensazioni, di oltre 30 anni fa, che giacevano sopiti nella nostra memoria. Come quando torni in una casa dove hai vissuto tanti anni prima e toccando il corrimano della scala ti piomba addosso un'intensa pioggia di emozioni, flash della tua esistenza passata che credevi perduti per sempre. Pablito mon amour è un libro splendido e scritto benissimo, con un linguaggio fluido e cadenzato ai ritmi e al clima della nostra adolescenza, e con questa grande capacità di mescolare il calcio alla vita e a tutto il resto, quando "il calcio ce lo portavamo dentro da sempre, come una seconda pelle". E poi il piacere di tifare una squadra provinciale, una/due annate di sole in mezzo a tanta amarezza. Ma una super squadra, il Lanerossi del 1977-78, di quelle che restano nella storia. Perdere vincenti, vincere perdendo, dice l'autore. Noi siamo l'Olanda. Voto: 5/5 
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stefano (15-04-2011) Un omaggio sincero ad uno dei più grandi calciatori di sempre. Al contempo, un romanzo di costume e anche "di formazione" (non solo calcistica). A chi era giovane negli anni '70 e '80 farà ricordare dei veri e propri must: programmi televisivi, marchi famosi, giochi, gruppi musicali, situazioni tipiche del tempo. Quando i canali televisivi erano 2 o 3, non c'erano né il computer né il cellulare e ci si doveva accontentare di "ciò che passava il convento" e qualcuno a fatica veniva fuori dalla massificazione. Uno spaccato storico/sociale preciso di quegli anni così lontani ma così attuali. Quindi, utilissimo anche per chi era troppo piccolo o non era ancora nato. Le oltre 300 pagine si leggono con un'irrefrenabile voglia di continuare. Libro frizzante e dettagliato. Colto e pop. Profondo e leggero. Con un tocco di nostalgia ma lucidamente ironico. A volte sardonico, come un Irvine Welsh nostrano. Superlativo !! Voto: 5 / 5
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pangeanews · 5 years ago
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Paolo Di Paolo, porca miseria, sbilanciati un po’ di più! Matteo Fais legge & commenta l’ultimo romanzo dello scrittore che tutti vorrebbero sposare (pare Morandi da giovane)
Premessa. Mettiamo le mani avanti: a scanso di equivoci, quanto segue non costituisce una critica a Luca Doninelli, verso il quale non ho alcun rancore personale e sulle cui doti di narratore e critico letterario non ho niente da eccepire. (Qui l’articolo di Luca Doninelli, comparso su “Il Giornale”, il 23/11/2019)
Motivi per cui concedere a Di Paolo il beneficio del dubbio. Devo ammettere che Paolo Di Paolo si è, per così dire, guadagnato uno spazietto nel mio cuore. Non che sia improvvisamente diventato il mio autore preferito, ma quel bravo ragazzo – ha proprio la faccia del fidanzato ideale da portare a casa, un po’ come Gianni Morandi a inizio carriera – un qualche merito ce l’ha rispetto alla pletora progressista che lo circonda e di cui comunque fa parte. Almeno lui non è un invasato. Non grida ogni due per tre al fascista e non ammette fascistometri. Non è neppure il solito femministo che si prende a pugni sui coglioni dicendo che tutte le donne sono brave, belle e buone e i maschi tutti patriarchi mafiosi. Ha inoltre curato diverse raccolte di testi montanelliani. Sembrerà poco, ma di questi tempi in cui la ragionevolezza a sinistra latita, Paolo Di Paolo quasi assurge a esempio di sana e democratica contrapposizione dialettica. Ergo, non si poteva fare a meno di concedergli il beneficio del dubbio e leggere il suo nuovo libro, Lontano dagli occhi (Feltrinelli, 2019).
Il testo in breve. Lontano dagli occhi è, in estrema sintesi, la storia di tre maternità difficili, in una Roma del 1983, che vede come protagoniste una liceale, una giornalista e una punkabbestia. Accanto a loro, nei ruoli maschili, un giovinetto sempre del liceo, uno svalvolato, e un dipendente di una rosticceria.
I meriti di Di Paolo. Se dietro la sua modestia – non dico falsa, ma forse da ragazzo troppo ben educato –, Di Paolo desidera essere un grande narratore, allora la scelta del tema da lui fatta – la maternità – è indiscutibilmente giusta. Un vero autore affronta i grandi temi (seppur declinati entro un certo contesto temporale e antropologico, e non in astratto). Rispetto a tutti i vari intrattenitori, il nostro Paolo ha il pregio di scrivere una storia forte e drammatica, da far tremare i polsi. Da questo punto di vista, direi che è anche molto commovente leggere di come nel suo libro, per citare Doninelli, “la vita si afferma come un atto di totale, quasi demenziale libertà”. Non concordo invece con il critico quando asserisce che “non sono le storie e i personaggi in sé a colpire: questo è se mai il punto debole del libro (più tipologie che veri personaggi e vere storie)”. Mi domando francamente cosa vorrebbe leggere Doninelli: duecento pagine in più, in cui si accumula carta affastellando particolari che diano spessore psicologico ai protagonisti? Che palle! Con rispetto parlando, risponderei alla sua notazione citando il Houellebecq di Estensione del dominio della lotta: “Tutta questa mole di dettagli realistici, questo dar vita a personaggi plausibilmente differenziati, m’è sempre sembrato, scusate l’ardire, una grande stronzata […] invece, occorre sfrondare. Semplificare. Smantellare a uno a uno un’infinità di dettagli. In questo, peraltro, mi aiuterà il semplice meccanismo della progressione storica. Sotto i nostri occhi, il mondo si uniforma; i sistemi di telecomunicazione progrediscono; l’interno degli appartamenti si arricchisce di nuovi congegni. I rapporti umani diventano progressivamente impossibili, e questo riduce in proporzione la quantità di aneddoti di cui si compone una vita”. Inutile precisare che, negli anni Ottanta in cui è ambientato il romanzo, tale processo di uniformazione era già ampiamente e tragicamente avanzato – lo sviluppo tecnologico, nel giro di pochi decenni, ci avrebbe portato all’appiattimento mondiale odierno. Tra parentesi, vorrei precisare che, pur provenendo dall’area progressista, che del femminismo e della lotta al maschio ha fatto la sua bandiera, i personaggi di Di Paolo sono tutto fuorché una riproposizione dei soliti abusati stereotipi di genere. Il narratore ha il coraggio di tracciare profili psicologici di donne che, tra le altre cose, sono anche delle colossali stronze egoiste. E i maschi – anche questo bisogna riconoscerglielo – manifestano non poca umanità, almeno nella maggior parte dei casi. Insomma, grazie al cielo, spesso tornano sui loro passi, sentono il legame del sangue, non picchiano le loro compagne, e non si limitano a farsi una sborrata – scusate il francesismo.
Di Paolo narratore non narrativo? Ma quando mai! Sempre secondo Doninelli, il problema di Lontano dagli occhi starebbe nel fatto che “la fabula rimane sullo sfondo quasi come un pretesto”. A fare la differenza in Di Paolo sarebbe la “cifra catalogatrice, il vero tratto originale”, data la bravura dell’autore nel ricreare tutta la congerie di quegli anni. La sua “forza”, in sostanza, “non sta nel testo così come appare ma nel lavoro che lo produce” ed egli sarebbe “un narratore originale per ciò che ha di non-narrativo”. Insomma, “Di Paolo costruisce romanzi come fossero saggi, perché questa è la sua natura: quella del critico e, più ancora, dello studioso, del teorico della letteratura”. Adesso, se c’è una riserva che non si può avanzare sui libri di questo autore è proprio quella di non basare tutta la loro forza sull’incalzare della narrazione. Casomai, quello in questione è proprio il grande limite di Di Paolo. Per chiarirci: va molto bene che lui racconti delle storie, ma non si può certo dire che faccia una narrativa di contenuti, che prenda posizione su quel periodo storico, che si arrischi a dire cosa è meglio e cosa peggio. Se l’avesse fatto, non sarebbe stato Paolo di Paolo ma Michel Houellebecq. Diversamente da quest’ultimo, il primo si guarda bene dal dare al suo libro quella struttura a metà tra il romanzo e il saggio, al mescolare sociologia e colpi di scena. Francamente, ci vorrebbe ben altra faccia tosta – o da cazzo, decidete voi. Non è nel suo stile e nelle sue corde, e questo infatti fa un po’ saltare i nervi. Penso per esempio alla vicenda dei due liceali. Un tempo, soprattutto in determinati luoghi dello Stivale, chi avesse messo incinta una ragazza se la sarebbe anche dovuta portare all’altare, o in alternativa prendersi una fucilata in petto dal padre di lei. Di Paolo non fa paragoni di questo tipo, però, non dice mica cosa è meglio dal canto suo, se essere una ragazza madre o ricorrere a un matrimonio riparatore. Più in generale, su quello spartiacque in cui la famiglia tradizionale stava già mestamente venendo giù a pezzi non ci sono prese di posizione nette da parte sua. Che poi lui ricostruisca bene certi suoni, sapori e situazioni di un’epoca che oramai sembra distante anni luce sai quanto me ne fotte! Quella è proprio una cornice narrativa che resta sullo sfondo e fa folclore, ma certo non si risolve in un’analisi dei disgraziati anni ’80.
Per concludere. Doninelli ha ragione: Di Paolo sa scrivere, anche se non direi che “scrive benissimo” – simili elogi li riservo a pochissimi tra i viventi e i morti. Sottoscrivo inoltre il consiglio di non abbandonare “l’austera prosa”, ma aggiungo: Paolo, porca puttana, sbilanciati un po’ di più e, soprattutto, parla dell’oggi, di fecondazione assistita e uteri in affitto, che gli anni ’80, a paragone, sono un’epoca felice e da rimpiangere. Forse, per valutare il presente, serve più un romanzo che un articolo su “La Repubblica”.
Matteo Fais
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nardonews24 · 3 years ago
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“FIGLI DEL TABACCO”, MARTEDÌ LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI SALVATORE TUMA
“FIGLI DEL TABACCO”, MARTEDÌ LA PRESENTAZIONE DEL LIBRO DI SALVATORE TUMA
Martedì 12 Aprile 2022, alle ore 19:00, la Biblioteca del Centro Servizi Culturali di Nardò ospita Salvatore Tuma, voce molto interessante nel panorama letterario italiano,  per presentare il suo ultimo libro, “Figli del tabacco” (Edizioni I Libri di Icaro). Romanzo storico-antropologico sulla società contadina salentina, “Figli del tabacco” racconta fatti e vicende, in massima parte realmente…
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pangeanews · 6 years ago
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Patriota, indologo, avventuriero: la storia (rimossa) di Francesco Lorenzo Pullè e del suo “Museo Indiano”. Che è risorto a Bologna
Chi si sognerebbe, oggi, dopo un intenso viaggio nel sudest asiatico, di creare, con gli oggetti rastrellati sul posto, una mostra all’università? Un nostalgico, o un originale, nel peggiore dei casi, uno un po’ suonato, dall’animo globetrotter. Tutt’al più, al rientro dal viaggio, lo strambo viaggiatore scriverebbe un bel reportage, mostrerebbe i selfie agli amici, farebbe girare (brevi o eterni) filmati tramite whatsapp. Perché in fin dei conti, la sabbia finissima e i pregiati fossili, i cocci di un’anfora decorata, il Buddha decollato che (forse anche noi) siamo riusciti a rubare e ad infilare nel sottofondo della valigia, al ritorno a casa, li mettiamo in camera, in bella vista (ma solo per i più intimi), sotto il sacro fuoco dell’abat-jour. Meglio non correre guai.
Perciò, quando sento l’amico, lo storico bolognese, Luca Villa parlarmi di Francesco Lorenzo Pullè, e del suo Museo Indiano a Bologna, mi sembrano passati secoli, anzi un’eternità. Per intenderci, il nobile Francesco Lorenzo Pullè, a sessantacinque anni compiuti, si arruolò volontario allo scoppiare della Prima Guerra Mondiale e partì soldato semplice per il fronte del Podgora, per poi congedarsi con il grado di tenente colonnello. Il suo diario di guerra – che è stato recuperato dalla nipote Lina, che in passato si laureò in storia contemporanea con una tesi a riguardo – inedito. Francesco Lorenzo non era primogenito, ma il terzo dei nove figli di Carlo Augusto Dionigi e di Virginia Ricci ed era nato a Modena, il 17 maggio 1850. Il padre, fervente ufficiale delle guardie del duca Francesco IV, dalle idee risorgimentali, veniva dall’antica nobiltà originaria delle Fiandre belghe, dalla quale il giovane Francesco Lorenzo prendeva il titolo di conte di San Florian. Tornato dal fronte, il conte studia a Firenze e si appassiona al sanscrito – suo maestro è l’indianista Angelo De Gubernatis – tanto da pubblicare una Piccola crestomazia sanscrita. Quindi non le solite lingue classiche.
La sua carriera è votata all’orientalistica e alla glottologia, tanto che fonda, nel 1890, all’Università di Pisa, il primo Istituto di glottologia d’Europa. Fondatore e promotore della scuola indianistica bolognese, forma valenti sanscritisti della levatura di Ambrogio Ballini e Luigi Suali. A sue spese fa stampare a Firenze la rivista Studi italiani di filologia indo-iranica. Non certo tutti potevano permettersi il lusso dello studio e dei viaggi esotici, quindi, si dedica anche alle classi sociali meno abbienti e vede nell’istruzione un mezzo di elevazione del popolo e di unione della nazione, lui animato da profondo patriottismo. In tale prospettiva, da una parte, si dà da fare come membro del Consiglio superiore della Pubblica Istruzione tra il 1902 e il 1913, dall’altra, patrocina la fondazione e la diffusione delle università popolari, prima fra tutte quella di Bologna intitolata a Giuseppe Garibaldi, che inaugura l’11 febbraio 1901.
Ammiratore di Carlo Cattaneo, discepolo e corrispondente del Graziadio Isaia Ascoli – per capirci, lo studioso celebre per aver polemizzato col Manzoni nella questione della lingua – da socialista radicale, qual era nei primi tempi, diventa acceso fascista. Sempre interventista, persino alla tenera età di sessantacinque anni, quando si imbarca come volontario, insieme ai suoi due figli, uno tenente, l’altra crocerossina. Aristocratico, animato da un patriottismo risorgimentale anche dopo il Risorgimento, la grande eredità del conte Pullè si trova (quasi) tutta a Bologna, dove da poco è stata inaugurata una piccola mostra, I volti del Buddha. Dal perduto Museo Indiano di Bologna, al Museo Civico Medievale, visitabile fino al prossimo 28 aprile. Al secondo piano del Palazzo dell’Archiginnasio, sede oggi di alcuni degli uffici dell’omonima biblioteca, dal 1907 al 1935, il conte Pullè aveva infatti aperto il suo Museo di Indologia. Una storia affascinante e senza tempo. Chi oggi, al ritorno da un viaggio di studio tra Vietnam, Sri Lanka e India farebbe come aveva fatto Pullè tra il 1902 e il 1903? Chi si sognerebbe oggi di aprirne un museo? A parte le pastoie burocratiche, la storia di Pullè mi sembra un luminoso esempio della rovina dei nostri tempi.
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Francesco Lorenzo Pullè, Conte di San Florian (1850-1934)
A Bologna incontro Luca Villa, curatore della mostra I volti del Buddha, che mi apre le porte dell’esposizione e mi racconta un po’ della storia del Museo Indiano. Ma come gli è venuto in mente di fare una mostra indiana? “L’idea di creare un museo indiano era già stata messa in pratica dal maestro di Pullè nello studio del sanscrito, Angelo De Gubernatis. Anche lui, infatti, dopo un lungo viaggio in India, aveva avuto modo di organizzare il Museo Indiano di Firenze, primo esempio di museo tematico di tal genere, il cui patrimonio dopo pochi anni entrò a far parte della collezione del Museo di Antropologia ed Etnologia della stessa città, dove già era depositata una raccolta di materiali di provenienza indiana appartenuta all’antropologo Paolo Mantegazza, fondatore di quel museo e all’epoca animatore degli studi antropologici in Italia, che, nella sua rivista, ospitò peraltro nel 1897 una Memoria di Pullè, il Profilo antropologico dell’Italia, premiata dalla Società Italiana d’Antropologia ed Etnologia, da cui era stato indetto un concorso per la stesura di una carta etnografica nazionale. La storia dell’interesse riguardo all’India nato a Firenze nella seconda parte dell’Ottocento, ben raccontata in un volume della studiosa portoghese Filipa Lowndes Vicente, vede citato Pullè fin dalla prima esposizione di materiali indiani organizzata in Italia in ambito orientalistico, sempre da De Gubernatis, nel 1878, ancor prima che fosse aperto il suo Museo. La città toscana ospitò infatti quell’anno l’edizione del Congresso Internazionale degli Orientalisti, durante la quale furono messi in mostra reperti archeologici e calchi in gesso di analoghi materiali provenienti principalmente da scavi effettuati da W. G. Leitner nell’attuale Pakistan, tramite i quali erano stati recuperati alcuni rilevanti nuclei di reperti relativi all’arte buddhista del Gandhāra. L’attenzione di Pullè per documentare la fioritura e la diffusione del buddhismo in Asia è dimostrata, nella collezione del Museo Indiano di Bologna, grazie alla cospicua raccolta di fotografie, molte delle quali erano esposte nella stanza dedicata all’Arte e Scultura di cui conosciamo l’esistenza oggi grazie alla pianta del Museo ritrovata soltanto nel 2016. Tra le oltre 700 fotografie una significativa raccolta di immagini di reperti archeologici del Gandhāra, oggi visibili anche online grazie al lavoro che abbiamo svolto lo scorso anno insieme alla collega Marta Magrinelli per il progetto Città degli Archivi promosso dalla Fondazione Del Monte (qui il link). Nella stessa stanza era anche esposto un frammento architettonico proveniente dal complesso buddhista di Sanchi, nell’India centrale (I sec d. C.), presente tra i materiali che ho selezionato per l’allestimento della mostra I volti del Buddha, così come un calco in gesso raffigurante il Buddha storico Śākyamuni, descritto nelle pagine di un breve romanzo di Riccardo Bacchelli del 1911, che era stato portato in Italia da Pullè da Lahore, al pari del nucleo fotografico legato all’archeologia del  Gandhāra, e che è stato restaurato in occasione dell’esposizione in corso al Museo Civico Medievale grazie ai laboratori dell’Accademia delle Belle Arti di Bologna. In riferimento all’archeologia, infatti, bisogna ricordare che Francesco Pullè era stato nominato presidente del comitato italiano dell’Indian Exploration Fund pochi anni prima del suo viaggio in Asia, quando ancora appariva possibile collaborare con le autorità britanniche in India al recupero di materiali archeologici, obiettivo frustrato dall’evolversi delle politiche coloniali inglesi in ambito culturale. Un paio di lettere di Pullè riferite al comitato italiano dell’Indian Exploration Fund conservate tra i carteggi di Graziadio Ascoli, dimostrano comunque che in Italia lo studioso di sanscrito non aveva trovato interesse a impegnarsi nel far prosperare l’iniziativa, né da parte dei colleghi orientalisti, né tantomeno fra gli archeologi italiani”.
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In mostra cosa troviamo? “La raccolta di Francesco Lorenzo Pullè, composta da oggetti, fotografie e manoscritti acquistati in Vietnam, Sri Lanka e India tra il 1902 e il 1903, rappresenta il nucleo fondativo del Museo Indiano, che al suo interno aveva in effetti anche una stanza riservata alla conservazione dei manoscritti e dei testi a stampa, oggi entrati in larga parte nel patrimonio della Biblioteca dell’Archiginnasio. Una prima esposizione di parte della raccolta fu organizzata nel 1904, quando il Ministero della Pubblica Istruzione, ormai concluso l’acquisto della collezione, che sarebbe poi stata ripartita tra Comune e Università di Bologna. All’epoca della chiusura del Museo Indiano, intorno al 1935, tuttavia, una cospicua parte della raccolta di oggetti ritorno alla famiglia Pullè e, tramite il lascito del figlio Giorgio, è ora conservata presso il Museo di Antropologia dell’Università di Padova. L’intera collezione di oggetti e fotografie acquisita durante il viaggio nel continente asiatico da Francesco Pullè, prevalentemente composta da manufatti indiani, si contraddistingue per l’interesse mostrato non soltanto nei confronti dell’arte religiosa, ma anche per la scelta di materiali che appartengono all’ambito delle arti applicate, nel tempo scomparsi dalle esposizioni dei grandi musei, benché all’inizio del Novecento trovassero ampio spazio negli stessi contesti. È bene sottolineare, tra l’altro, che fin dal primo anno di attività del Museo Indiano la raccolta originale fu incrementata, grazie all’impegno delle autorità comunali e universitarie. Risale al 1908, infatti, l’acquisizione della significativa collezione di statue raffiguranti divinità del pantheon buddhista cinese, in gran parte esposte anche nella mostra I volti del Buddha, acquistate da un collezionista privato di cui sappiamo oggi soltanto il cognome, Pellegrinelli. Pare dunque evidente che Pullè volesse, nel tempo, far conoscere l’evolversi delle religioni asiatiche in senso storico e geografico, ma i suoi obiettivi erano persino più ambiziosi. Senz’altro entrarono infatti nella collezione permanente del Museo Indiano altre statue provenienti da Cina e Giappone, oltre altri oggetti di uso comune e mobilio, sempre acquisiti in Asia Orientale, che diedero forma compiuta al Museo ben prima della sua chiusura. In un articolo apparso su un quotidiano nel 1926, addirittura, a proposito dei mobili si affermava che provenissero dallo spoglio del Palazzo Imperiale di Pechino, avvenuto in seguito alla cosiddetta rivolta dei Boxer, quando anche un contingente militare italiano fu inviato in Cina. Difficile, se non impossibile, pensare che quanto scritto all’epoca possa essere vero, in ragione delle ricerche compiute in merito, ma di certo, anche grazie agli affidamenti temporanei di oggetti di cui siamo a conoscenza, a cominciare dai materiali di provenienza asiatica lasciati in eredità al Comune di Bologna dal conte Agostino Sieri Pepoli, nel complesso i visitatori del Museo Indiano potevano avere l’opportunità di conoscere gli aspetti peculiari delle forme culturali e artistiche dei principali paesi asiatici. All’epoca non mi risulta che in Italia ci fosse un’istituzione museale simile”.
Insomma, un patrimonio storico e artistico di prim’ordine; ma perché la figura (e l’opera) del conte Pullè non viene adeguatamente celebrata in Italia? “Rispetto al Museo Indiano, è corretto dire che gli allievi di Pullè, alcuni dei quali si rivelarono essere tra i migliori studiosi di lingue indiane in Italia, come Ambrogio Ballini, altri persino tra i più validi interpreti della materia a livello europeo, se non mondiale, penso qui a Luigi Suali, erano già stati avviati all’insegnamento, anche grazie all’impegno del loro comune maestro, e avevano ormai da anni lasciato Bologna, divenuti a loro volta docenti di sanscrito in altre università italiane. La chiusura del Museo pare quindi essere avvenuta in primo luogo a causa dell’assenza di studiosi capaci di rilevare l’eredità del fondatore, deceduto solo un anno prima rispetto alla cessazione dell’attività del Museo Indiano. Certo, il clima politico e culturale, che si viveva in Italia a metà degli anni Trenta, non favorì in alcun modo una soluzione diversa, ma è opportuno osservare che, negli stessi anni in cui nasceva il Museo Indiano, Pullè fu oggetto di aspre polemiche in ambito accademico. Ricevette attacchi da colleghi orientalisti e da linguisti di varie università italiane, per motivi che si è potuto stabilire essere più che discutibili. Sebastiano Timpanaro, capace filologo e critico, ha saputo infatti ricostruire le vicende che contribuirono a escludere Pullè dagli studi etno-linguistici riferiti all’Italia, vista la forte opposizione di alcuni influenti colleghi, messa in atto con mezzi che fecero esprimere parole di netta censura dei loro metodi allo stesso Timpanaro. In ambito orientalistico, poi, l’opposizione a Pullè si servì di mezzi altrettanto spiacevoli, sanzionati perfino da un tribunale dell’epoca, a cui il fondatore del Museo Indiano si rivolse affinché gli fossero indirizzate pubbliche scuse, come in effetti avvenne. Ben conosciuto e assai apprezzato in contesti europei, come testimoniano i molti incarichi di prestigio ricoperti nel contesto delle varie edizioni del Congresso Internazionale degli Orientalisti, Pullè aveva forse ingenerato più di qualche sentimento d’invidia tra  i colleghi italiani, anche in virtù di una tempra piuttosto vivace, grazie alla quale si dimostrò essere un abilissimo organizzatore di iniziative culturali rivolte a un vasto pubblico, oltre al Museo Indiano, a tal proposito va ricordato anche l’impegno in favore della nascita dell’Università Popolare di Bologna, che senza dubbio lo fecero apprezzare assai poco da quei colleghi che erano più concentrati sui loro ottenimenti personali e meno inclini quindi a dedicarsi all’innalzamento culturale degli italiani di quanto non fossero impegnati ad accrescere il loro prestigio e le loro carriere. Anche per queste ragioni ritengo sia importante oggi far rivivere, anche se solo per qualche mese, la memoria di un italiano come Francesco Lorenzo Pullè. Mi auguro che in un prossimo futuro si possa procedere alla catalogazione delle sue corrispondenze, conservate oggi presso la Biblioteca Nazionale di Firenze. Forse si potrebbe iniziare già dal materiale disponibile, il diario di guerra, in cui si trovano note, non solo sulla vita militare, ma anche sulla sua attività accademica e politica di Pullè, essendo stato nominato da Giolitti senatore del Regno d’Italia nel 1913, oltre a riferimenti all’Università Popolare. La pubblicazione del diario potrebbe significare l’inizio di un nuovo capitolo negli studi sulla storia della cultura italiana del primo Novecento. Se venisse poi accompagnata da ricerche sulle corrispondenze conservate a Firenze, l’opera sarebbe davvero completa”.
Linda Terziroli
*In copertina: Frammento di altorilievo, pietra, Sanchi (India),inizio I sec. d.C. Uno dei reperti visibili a Bologna, presso il Museo Civico Medievale, nell’ambito della mostra “I volti del Buddha”
L'articolo Patriota, indologo, avventuriero: la storia (rimossa) di Francesco Lorenzo Pullè e del suo “Museo Indiano”. Che è risorto a Bologna proviene da Pangea.
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