#racconto di formazione
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“ A volte penso di appartenere a un’altra specie; questo pensiero che avanza in me assurdo come una mostruosità, contraddetto dall’apparenza ordinaria dei miei tratti e dalla mappa fantastica dei cromosomi, ha il potere di rasserenarmi. Nelle rare lezioni che ascoltai quando vagabondavo per le università, le uniche che ebbero il potere di incatenare la mia attenzione, richiamandomi alla coscienza strane e diverse emozioni, mostravano il mirabile codice della specie. Di esso rimanevo stupita come se la spirale della vita fosse un’altra possibile versione della chiave musicale del violino; una sorta di vibrazione sfuggita alla deflagrazione originaria da cui ogni cosa prese forma. Non volli imparare la catena di formule che, intrecciandosi in una magica danza, non ripeteva mai se stessa e con certezza assoluta custodiva l’identità unica di ogni nuova vita. Mi sembrò sempre che la riduzione di un simile prodigio all’apprendimento sterile del nome scientifico, la sua evocazione dotta e assurda nelle luce morta dei laboratori, avrebbero aperto, attirandola su noi, la catena infinita e ottusa del dolore. Bisogna essere molto ciechi per aggiungere nuove sofferenze all’eredità di dolore lasciata da chi è passato prima di noi!
Così, quando in un paese qualunque, forse nell’emisfero australe o nel silenzio dimenticato degli Incas, qualcuno ha trovato serbata la chiave della vita nel cuore indifferente di una pietra, come se questa fosse la cellula di un corpo o la memoria atomizzata dell’unica esplosione, io ho avuto la conferma di ciò che sempre pensai. Nello spartito della vita, risuoniamo tutti con un’unica nota le cui vibrazioni mutano impercettibilmente per la materia che ci accade di essere. Allo stesso modo, ho orrore dell’onnipotenza feroce, della dogmatica sordità, che traccia il confine fra ciò che è sano e il suo contrario. Tremo di fronte all’arroganza impietosa dei corpi sani, all’oscena prepotenza della loro forza; alla sicumera gloriosa con cui avanzano nell’universo pretendendo di esserne i padroni invulnerabili. Niente è più vano e folle di questa illusione: bisogna essere un po’ di pietra e d’albero; un po’ di mare e di tuono per ricordarsi la nota originaria; bisogna essere un po’ mostri per sentire risuonare la meraviglia e l’orrore di altri mondi lontani. In me vive il dubbio che l’errore genetico, da cui prendono vita creature mostruose e tenerissime; piccoli tartari con gli occhi all’insù, dalla memoria prodigiosa di Pico della Mirandola che suonano a volte come angeli, o vecchi-bambini destinati a vivere un quarto di secolo, nascosti come ragni nelle case per non offendere la proterva salute dei normali, incarni un’altra razza. O forse creature di altri spazi; abitanti di pianeti lontani, i cui frammenti vitali caddero errando, nel luogo sbagliato. Questo spiegherebbe la malinconia commovente di certi occhi fissati nel vuoto, che guardano mondi perduti e sorridono solo a essi, resistendo a tutte le seduzioni della nostra inutile umanità. La follia infine; non so se i suoi segni siano iscritti nell’abbraccio elicoidale della vita e neanche se appartenga al codice segreto di un’altra specie precipitata sulla terra. Credo piuttosto che essa sia un tramite; un sesto senso rimasto aperto per vocazione o per destino, dove le mostruosità svelano la propria origine autentica. In altri luoghi, lontani dagli orridi tavoli vivisettori che in nome della scienza profanano oscenamente i misteri della vita e della morte; in altri tempi da quelli in cui l’angoscia ci stringe a vivere, i folli furono celebrati come creature divine, nelle quali circolava libera la sapienza onnisciente. Erano tempi e luoghi dove la sadica struttura normativa che ci conculca non aveva ancora vinto, né aveva ancora sedotto l’intera umanità al peccato originario dell’invidia e alla pestilenza della sua vanità coattiva. Così essa non tollera che una creatura fugga al giogo delle rivalità fra uguali e, attraverso i mondi della follia, scelga l’identità eversiva a cui lo destinava l’unicità della sua nascita. Con un ukàse che non ammette eccezioni, l’alieno viene piegato all’annientamento dei suoi mondi e il veleno sottile dell’invidia raggiunge il suo centro creativo distruggendone le centraline. Ridotto a un’oscurità senza mostri e a un silenzio senza presagi, finalmente appartiene alla specie. “
Mariateresa Di Lascia, Passaggio in ombra, Feltrinelli (collana I Narratori), 1995¹; pp. 116-117.
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"Hanno Ucciso l’Uomo Ragno": La Leggendaria Storia degli 883 Diventa una Serie TV
Sydney Sibilia porta sullo schermo l’epopea musicale degli 883, tra sogni, amicizie e un’epoca che ha segnato un’intera generazione
Sydney Sibilia porta sullo schermo l’epopea musicale degli 883, tra sogni, amicizie e un’epoca che ha segnato un’intera generazione. “Hanno Ucciso l’Uomo Ragno”: La Leggendaria Storia degli 883 Diventa una Serie TV Sottotitolo: Sydney Sibilia porta sullo schermo l’epopea musicale degli 883, tra sogni, amicizie e un’epoca che ha segnato un’intera generazione Articolo: La serie “Hanno Ucciso…
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Una volta avevo un cane. Era un piccolo incrocio, la parola bastardo mi fa venire più in mente il mio attuale vicepreside, piuttosto che Paco. Il nome glielo avevo dato io. Ricordo la gioia bambinesca quando, trovato l’animale in un fosso in campagna, i miei acconsentirono a farmelo tenere in casa. Dopo le prime settimane di novità, Paco scivolò via dalle mie attenzioni. Mi pesava portarlo fuori a far pipì sino a tre volte al giorno, dovendomi svegliare mezz’ora prima tutte le sante mattine, e poi le visite dal veterinario, e il collare, l’antipulci, la cuccia, il cambio del pelo, la pappa… Insomma quel piccolo amore era diventato in breve tempo un peso insopportabile. Ci pensava poi mamma ad accudirlo, fino a che non fu mamma ad aver bisogno di cure. Io mi limitavo a giocare con Paco quando ne avevo voglia, o a portarlo fuori quando i suoi guaiti si facevano più insistenti. Avevo preso ad accompagnarlo giù in cortile, poi lo liberavo dal guinzaglio e lui da solo si faceva tutti i suoi giri annusando e alzando ogni tanto una zampa a intervalli più o meno regolari. Io mi sedevo su uno dei muretti limita aiole che il condominio aveva fatto installare, e mi perdevo nel mio fumetto preferito, quasi sempre di Charlie Brown. Dopo qualche minuto chiamavo Paco. Aggiungevo alle volte un fischio ed eccolo lì trotterellare allegro e svuotato verso di me, mezza lingua di fuori, ansioso di tornare al calduccio della mia stanza dove andava a nascondersi per la gioia di mamma. Una volta, sotto la pioggia, avevo freddo e decisi di chiamarlo a me prima del tempo. Di solito gli davo sempre venti minuti abbondanti di libera uscita. Quella sera mi limitai a meno della metà. Chiamai il suo nome una volta e poi un’altra. Allora fischiai come meglio potevo, dovendo anche reggere l’ombrello (so fischiare solo con gli indici in bocca, alla pecorara). Mi venne fuori uno dei più belli e potenti richiami, da far invidia a un vero pastore. Ma di Paco, neanche l’ombra. Scocciato, guadagnai il cancello del cortile e guardai verso la piazzetta, sulla destra, e poi verso il viale, a sinistra. Fu lì che vidi una donna, tutta bagnata sotto la pioggia scrosciante, che non cercava riparo, eppure si stava rovinando la messa in piega appena pagata. Anzi, si metteva le mani in testa, in un atteggiamento che, man mano che m’avvicinavo, capii essere di disperazione. Era lei a guidare la Y10. La Y10 che aveva schiacciato Paco sull’asfalto per forse cinque metri. Era lì, chiazze rosse senza più senso e difficile da riconoscere come una volta cane. Come una volta vivo. Ora non c’era più, era corso via, lontano dalla mia indolenza di ragazzino troppo impegnato per accompagnarlo con un guinzaglio. Mai come da quel momento Paco lasciò un vuoto in me. Sentii subito il desiderio di sprimacciargli la capoccia tra le mie mani, di grattarlo sul ventre, facendolo impazzire dal solletico, giocare a tirargli la sua palla o afferrandogli l’osso di gomma e tirare, tirare, tirare, in una grandiosa e finta lotta a chi sarebbe stato il più forte, a chi avrebbe vinto l’osso di gomma. Ora, proprio ora che avevo perso per sempre il mio cane, desideravo il mio cane. Ora che era troppo tardi. Fu lì che capii che amavo il mio Paco, come tutti quelli che convivono con un cane sanno. Ma il mio sentimento aveva preteso troppo da quel batuffolo peloso: volevo che crescendo diventasse autosufficiente, senza più darmi fastidi ma solo momenti di gioia e divertimento. Paco non ha mai più passeggiato tanto con me, legato col suo elegante guinzaglio rosso, come da quando ha terminato la sua corsa tra le ruote di quella utilitaria. Non sono mai stato bravo a conservare le cose più belle senza perderle. Ma con Lele, sarà diverso. Voglio fermamente che sia diverso.
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Storia di Musica #335 - The Clash, Sandinista!, 1980
Il punto esclamativo finale di questa piccola carrellata tra i dischi che lo hanno nel titolo arriva ad uno dei più famosi dischi degli anni ’80. Protagonista una band che nasce dal calderone del punk britannico della seconda metà degli anni ’70, ma che grazie ad un percorso per molti versi unico e virtuoso, è arrivata ad essere, giustamente, considerata come una delle più importanti rock band d tutti i tempi. Joe Strummer è figlio di un alto funzionario del Ministero degli Esteri Britannico, tanto che nasce in Turchia nel 1952. Quando ha 20 anni, fonda un gruppo, i 101’ers con Clive Tiperlee e Richard Dudanski. Suonano con discreto successo nei pub londinesi e registrano persino qualche canzone. Nel loro giro c’era un altro gruppo, I London SS, che erano noti poiché non suonavano quasi mai con la stessa formazione, in una sorta di gruppo aperto: tra coloro che più spesso ne facevano parte c’erano Mick Jones, Paul Simonon, Tory Crimes e Nicky “Topper” Headon. I primi tre si uniscono a Strummer e per qualche mese al chitarrista Keith Levine (che suonerà pochi anno dopo nei PIL di Johnny Rotten) e fondano un proprio gruppo, che prima si chiama Heartdrops, e poi The Clash. La prima, storica, esibizione è allo Screen On The Green di Islington, il 26 Agosto 1976. Inizia qui la loro storia: agli esordi sono una delle punte di diamante del punk di quegli anni, espressione più matura e politicamente sensibile del periodo storico economico di quei tempi. Ne è esempio il primo grande successo, White Riot, uscito nel Marzo 1977, ispirato agli scontri tra polizia e giovani neri al carnevale di Notting Hill nel 1976. Sono il punto di incontro della visione politica più matura e curiosa, lontano dall’anarchismo furbetto dei Sex Pistols o dall’apatia politica disinteressata dei Damned. Il loro esordio discografico è fragoroso: The Clash esce nell’anno Uno del Punk Britannico, il 1977, e piazza canzoni mito come I Fought The Law e (White Man) In Hammersmith Palais, unendo i ruvidi stilemi del punk a ritmi giamaicani del dub e del reggae. Il successo li carica, e il successo lavoro è leggenda: London Calling (1979) è il primo disco in studio cui Topper Headon prende posto dietro i piatti della batteria (dopo aver suonato già nel tour post primo disco), ma soprattutto è il racconto del rapporto odio-amore con gli Stati Uniti, fonte delle musiche vitali per loro stessi ma anche dell’ipocrisia, dei complotti. È un doppio disco che mostra la personale e infinita voglia di contaminare la musica di suoni e colori differenti: album pietra miliare per le musiche (l’incandescente title track), i temi (la violenza urbana di Guns Of Brixton, il terrorismo basco di Spanish Bombs), la copertina (che riprende la grafica dei primi dischi di Elvis con la foto di Simenon che distrugge il basso sul palco).
L’idea successiva, dopo un tour che li portò in mezzo mondo a suonare e una ormai consolidata fama di band impegnata, era piuttosto bizzarra: dopo aver imposto alla CBS il prezzo politico per London Calling di disco singolo pur essendo doppio, la band progettò la pubblicazione di 12 singolo uno per mese. Negata l’idea, ottenne di poter registrare per una settimana i mitici Electric Ladyland Studios di New York. Registrano di tutto, e tornano con una montagna di materiale a Londra. Inclusi vari remix dub di idee e canzoni. Mettono un po’ a posto tutto, e decidono di pubblicare tutto quello che avevano registrato, 36 canzoni, un triplo disco. La CBS non vorrebbe pubblicarlo, poi si accorda con la band: se volete anche stavolta il prezzo “politico imposto” dovete rinunciare ai diritti per le prime 200 mila copie. La band accettò.
Sandinista! è un omaggio al Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale, un movimento rivoluzionario e partito politico nicaraguense protagonista nel 1979 del crollo del regime dittatoriale di Anastasio Somoza Debayle: deve il suo nome all’ispirarsi alle teorie di Augusto César Sandino, rivoluzionario nicaraguense, nonché uno dei conduttori della resistenza rivoluzionaria alla presenza militare statunitense in Nicaragua tra il 1927 e il 1933. Tra l’altro leggenda vuole che Margareth Thatcher odiasse profondamente il termine e avesse avuto l’idea di proibirlo in Gran Bretagna. Il disco allarga a dismisura l’osservazione del mondo, proprio perché, e le interviste dopo la pubblicazione lo confermeranno, i concerti li avevano portati dove non erano mai stati, potendo così vedere quello che non avevano mai visto. La musica non è mai stata così piena di influenze, di idee, tanto che i fan della prima ora lo criticarono aspramente, accusandolo di aver perso tutta la spontanea violenza del punk. Ma a ben vedere, i nostri non hanno affatto perso lo sguardo critico e potente sulle cose, lo hanno solo voluto esprimere in modi diversi. Bastano i 6 monumentali, e storici, minuti di The Magnificent Seven per spiegare tutto: primo brano di rap bianco, Mick Jones a New York rimase ipnotizzato dai primi lavori della Sugarhill Gang e dei Grandmaster Flash & The Furious Five, è il viaggio nella testa di un operaio che si alza alle sette di mattina per andare al lavoro, che lavora per comprare regali alla sua fidanzata, ma che è anche un grande affondo alla realta del consumismo contemporaneo. Hitsville Uk è un brano che sa di gospel e di soul (il titolo è un omaggio alla Motown). C’è il Blues di Junco Partner e la sua versione dub in Version Pardner. Ivan Meets G.I. Joe è la cronaca surreale dell'incontro-scontro a ritmo di disco music tra un soldato americano e uno sovietico su una pista da ballo, in un tripudio di suoni da videogioco. The Call Up si apre con i cori dei Marines statunitensi, perché la chiamata del titolo è proprio un riferimento al servizio militare, dato che nel 1980 il Congresso ripristinò l'obbligo per gli uomini di età compresa tra 18 e 25 anni di registrarsi al Selective Service System. C’è persino un valzer, Rebel Waltz, Charlie Don't Surf è tratto da una celebre battuta del film Apocalypse Now, Police On My Back, divenuta famosissima, è una cover di un vecchio brano di Eddy Grant contro il regime dell'apartheid in Sudafrica. Il tutto con remix, versioni dub, riferimenti alle rivoluzioni in America Latina, perfino la voce di una bimba, Maria, figlia di Mick Gallagher che dà una bella mano a suonare nel disco, che canta in modo stentato alcune strofe di Guns of Brixton accompagnata al pianoforte dal padre.
Ridondante, eccessivo, imperfetto, eppure spargerà fertilità ovunque e per decenni. Ricordo un ultima curiosità: non si sa se per caso o perché i Clash lo imposero, ma il numero di catalogo del triplo era 'FSLN1', stesso acronimo di Frente Sandinista de Liberación Nacional. Un ultimo riferimento magico ad un disco leggendario.
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Tina Modotti L'Opera
Roberto Costantini
Dario Cimorelli Editore, Milano 2023, 256 pagine, 200 illustrazioni b/n, 23x28cm, ISBN 9791255610243
euro 30,00
Rovigo, Palazzo Roverella,, 23 settembre 2023 - 28 gennaio 2024
Il volume che accompagna la mostra è la più completa edizione dedicata all'opera di Tina Modotti (1896- 1942), una delle principali protagoniste della storia della fotografia del XX secolo: dagli anni della sua formazione come assistente di Edward Weston fino ai suoi ultimi scatti. Oltre 300 opere tra immagini, filmati e documenti raccontano il suo lavoro, che spazia dalla rappresentazione delle architetture alle nature morte, dal racconto della quotidianità dei ceti popolari, dei contadini, degli operai, dei bambini e delle donne, alle nuove forme della modernità. Accanto al repertorio iconografico, un vasto apparato di saggi di Giuliana Muscio, Gianfranco Ellero, Amy Conger, Federica Muzzarelli, María de las Nieves Rodríguez Méndez, Patricia Albers, Carol Armstrong, Emily M. Hinnov, Fabiane Taís Muzardo, completa il volume. Il lavoro di ricerca, volto alla più completa ricostruzione, a oggi, del corpus della produzione fotografica di Tina Modotti, portato avanti dal curatore Riccardo Costantini con la collaborazione di Gianni Pignat e Piero Colussi, rende dunque questo volume uno strumento fondamentale per approfondire e conoscere l'artista e le sue opere.
30/10/23
#Tina Modotti#photography exhibition catalogue#Palazzo Roverella Rovigo 2023#storia fotografia#Riccardo Costantini#Edward Weston#fashionbooksmilano
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Alberto Angela: Un divulgatore nell'Antica Roma
(Spunto per un racconto di fantasia)
Immaginatevi se Alberto Angela, con la sua solita passione e il suo inconfondibile stile, si trovasse catapultato indietro nel tempo, nell'antica Roma. In quell'epoca del passato che tanto lo affascina e rapisce.
Immaginiamo il nostro amato divulgatore cortese, con la sua barba curata e i capelli con quel disordine ordinato, in mezzo ai Fori Imperiali, ma invece di spiegare ai telespettatori, di ritrovarsi a dover interagire con i romani dell'epoca.
Tutto inizia quando, durante la ripresa per una nuova puntata di Stanotte sul Grande Raccordo Anulare, Alberto si avvicina troppo a una strana macchina del tempo nascosta che sbuca dal terreno, dopo l'ennesima ricognizione archeologica in merito ai lavori della nuova metropolitana, la Linea Legio XV.
Alberto inavvertitamente calpesta la parte appena sporgente, un bagliore improvviso e... ecco fatto! Si ritrova in toga, con i capelli raccolti in un elegante nodo, e una pergamena in mano invece degli appunti di Stanotte a.
"Salve, cittadino romano!" - lo saluta un centurione, guardandolo con aria perplessa.
Alberto, pur cercando di mantenere la calma, non può fare a meno di balbettare - "Ehm... salve! Io sono... Alberto Angela, un umile studioso del vostro tempo".
Il centurione lo osserva attentamente, poi esclama - "Un umile studioso? E cosa mai studierai, cittadino? Forse la filosofia? O forse la retorica?"
Alberto, con un sorriso imbarazzato, risponde - "Beh, diciamo che studio un po' di tutto dalla storia all'archeologia, passando per la paleontologia".
Il centurione, con gli occhi spalancati, lo interrompe - "Paleontologia? Ma chi è mai questa paleontologia? Forse una nuova divinità?"
Il centurione trovando alquanto strano questo Albertus Angelus (io quando ero in Spagna negli anni '80 parlavo in italiano mettendo sempre la "s" finale, così come con il latino metto "us" e vado da dio... anzi da Giove) decide di portarlo in Senato.
Da quel momento in poi, Alberto davanti ai senatori, cercherà di spiegare cosa sia un documentario ma viene scambiato per un mago; tenta di analizzare un reperto archeologico con una lente d'ingrandimento ma viene accusato di spiare; per non parlare del momento in cui cerca di spiegare la teoria dell'evoluzione.
Mentre cerca di spiegare il concetto di "evoluzione" ai senatori romani, Alberto si ritrova a disegnare un albero genealogico che parte da un pesce e arriva fino all'uomo moderno. L'assemblea scoppia in una risata fragorosa - "Un pesce che diventa un uomo? Cittadino, forse hai bevuto troppo vino!"- esclama un senatore con aria di sufficienza.
Per nulla sconfortato, Alberto cerca un modo per dimostrare le sue teorie e decide di organizzare una sorta di "lezione pratica" nei Fori Imperiali. Raduna un gruppo di bambini romani, i quali si dimostrano entusiasti della novità, iniziando a mostrare loro fossili e reperti archeologici. Ma le cose non vanno come previsto, un bambino affascinato da un teschio, lo scambia per una maschera e inizia a usarlo per giocare.
Nel frattempo, a palazzo imperiale, l'imperatore Tito, incuriosito dalle strane voci che circolano sulla presenza di un "mago" che parla di pesci che diventano uomini, decide di incontrare personalmente Alberto.
Alberto viene invitato a una cena sontuosa e, durante il banchetto, l'imperatore gli chiede di eseguire una dimostrazione delle sue capacità. Alberto, ricordandosi i consigli di Paco Lanciano, improvvisa una sorta di "esperimento scientifico" con del vino, dell'acqua e un uovo sodo, cercando di simulare la formazione della Terra.
L'imperatore, pur non capendo nulla, rimane affascinato e lo nomina "mago ufficiale" della corte.
Ma l'avventura non finisce qui. Alberto infatti verrà da prima coinvolto in una rissa tra gladiatori, poi tenterà di introdurre l'uso della carta igienica nel mondo romano e, per sbaglio, attiverà un meccanismo all'interno del Colosseo, facendo uscire tutte le fiere ingabbiate nei sotterranei dell'anfiteatro.
Per rabbonirle e permettere la loro cattura, Alberto imposterà la voce come quando narra i documentari della BBC durante Noos. I felini così incantati, con tanto di fusa, rientreranno docilmente nelle gabbie.
Alla fine, esausto ma felice, Alberto riuscirà a tornare nel presente, portando con sé un'esperienza unica. Con tanti spunti per scrivere un nuovo libro: Magus Scriptor - Come si divulgava cultura nell'antica Roma. Prossimamente solo nella libreria di casa mia.
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"Mi aveva colpito, al culmine dell'isteria social sul fatto del giorno, la dedica di una donna tra i miei contatti al suo compagno ovvero quanto si ritenesse fortunata ad averlo incontrato, perché lui, fra tutti i degni (cioè indegni) rappresentanti del patriarcato, si distingueva per probità e virtù. Naturalmente mi aveva fatto sorridere l'ingenuità della dichiarazione e mi aveva un po' indispettito l'arroganza, la presunzione manichea di riconoscere e sapersi accaparrare il grano, mentre il loglio toccherebbe alle altre. Queste altre, chi sarebbero. Io, per esempio. Credo di potermi dire emancipata, sono indipendente economicamente, non soffro di deficit affettivi conclamati, e vengo considerata persona dal carattere forte, a torto o a ragione. Questo anche anzi soprattutto vent'anni fa, quando ero in formazione come studiosa, cominciavo a guadagnare da poterci vivere certo senza fasti e avevo una famiglia ancora integra, genitori vivi etc. Eppure. Eppure avevo un fidanzato ossessivo, geloso, qualche volta violento. Per lo più con le cose, che usava sbalestrare sul pavimento o scaraventare contro il muro, ma qualche volta anche contro di me. Mi strattonava, per lo più. Piatti rotti, ogni tanto. Mi controllava il telefono? Sì. Mi permetteva di avere accesso al suo? No. Una volta finse di essere a Roma (abitava in un'altra città) intimandomi di tornare a casa (ero a cena con due amiche). Io gli obbedii. Non c'era nessuno ad aspettarmi al portone. Invece c'era, eccome, la volta in cui mi prese a calci. Uno solo, per la verità, ma con vistoso ematoma, formularmente. Perché lo racconto? Perché questo fidanzato non era affatto un troglodita paracadutato nella civiltà direttamente dalle caverne. Era un intellettuale, colto, raffinato, con una educazione affettiva nutrita di classici e poesia contemporanea. Ora ha un lavoro, una famiglia, figli, vedo dai social. Ma io perché sopportavo le sue scenate, ne subivo il controllo, le scariche di rabbia? Perché ero fragile, debole, vittima del patriarcato insieme a lui? La risposta è molto banale, e anche, mi rendo conto, pericolosa. Perché ero innamorata di questa persona. Non della violenza, logicamente. Non del controllo, che mi esasperava. Ma di tutti gli altri aspetti della sua vita e della nostra relazione che violenti non erano, e tutt'altro. Bianco bianco no, e nero nero nemmeno. Mi avrebbe potuto uccidere, in un accesso di ira? Non lo so, chi può dirlo. Posso dire perché me ne sono andata. Non per istinto di sopravvivenza, ma perchè le cose alle volte si aggiustano da sole, alle volte serve una spinta (una persona a me vicina con diplomazia churcilliana parlò con entrambi e ci convinse ad allontanarci perche insieme eravamo "un sistema instabile"). Lui trovò subito un'altra (che vidi, spero per puro accidente, con una stampella, in un'occasione pubblica). Con questo non voglio sostenere e rappresentare nessuna posizione e nessuna idea definita meno che mai assiomatizzare. Solo riflettere sul fatto che nessuno può dire se non in falsa coscienza ''io no''. Perché io sì, invece, e quasi tutti, nella vita affettiva, abbiamo avuto a che fare con la violenza (controllata, certo, ma forse è anche peggio perché se si ha questo potere, di tenerla sotto la soglia di rischio, si avrebbe anche quello di non lasciarle alcun margine, penso) e non necessariamente in un contesto estremo, retrogrado o patriarcale. La passione è violenta, le relazioni hanno sempre qualcosa di terrificante e patologico (citofonare Groddeck). Io, mio, tuo: moratoria anche su aggettivi e pronomi possessivi? Tutto da rifare, nel discorso soprattutto. La scompostezza, l'egolalia, l'accoramento emotivo e compulsivo. E togliersi i sassetti dalla scarpa, con la trave nell'occhio."
Gilda Policastro
Sempre bravissima.
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https://jacobinitalia.it/berlinguer-la-grande-rinuncia/?sfnsn=scwspmo
Berlinguer, la grande rinuncia
Giulio Calella
11 Novembre 2024
Il film di Andrea Segre sul segretario comunista cede alla nostalgia e cerca di rappresentare il compromesso storico come una grande ambizione. Mentre l’eredità di quegli anni andrebbe interrogata in modo radicale
«Qualcuno era comunista perché Berlinguer era una brava persona» cantava Giorgio Gaber all’indomani dello scioglimento del Pci nel 1991, elencando con ironia, e autoironia, i tic e le contraddizioni di chi per decenni in Italia si è definito «comunista».
Guardando Berlinguer. La grande ambizione, il film di Andrea Segre interpretato dallo strepitoso Elio Germano, si ha l’impressione che più di trent’anni dopo lo scioglimento del Pci, e a quarant’anni dalla morte del segretario comunista, non si riesca ancora a procedere più in là di quella rivendicazione. E che questa sia rimasta nella testa non solo dei suoi legittimi eredi (oggi maggioritariamente nel Partito democratico), ma anche di chi – come Segre e Germano – ha un’esperienza politica e una produzione culturale ben più di sinistra. «Berlinguer era una brava persona», un assunto che sembra poterne giustificare ogni scelta politica, anche quelle che hanno influenzato l’involuzione successiva della sinistra italiana.
La grande nostalgia
La beatificazione sembra il destino del segretario comunista fin dal giorno del suo enorme funerale, mostrato con le immagini d’archivio in coda al film. Andrea Segre ed Elio Germano però, in ogni presentazione della pellicola, sottolineano che il loro intento non è santificare Berlinguer ma mostrare l’attualità politica del suo messaggio.
La volontà di non cedere a un’eccessiva retorica sul personaggio è in effetti evidente, portata avanti anche a costo di fare un film meno coinvolgente di quel che avrebbe potuto essere. Gli sceneggiatori e gli attori hanno fatto una rigorosa ricerca storica, attenendosi in gran parte a discorsi e dialoghi effettivamente avvenuti e documentati, alternando anche le scene di finzione con immagini di archivio. Del resto Andrea Segre è soprattutto un bravissimo autore di documentari, e anche La grande ambizione, pur essendo fiction, procede in modo quasi documentaristico.
Va anche riconosciuto al film di Segre il coraggio di affrontare proprio gli anni in cui Berlinguer ha teorizzato e provato a praticare il «compromesso storico» con la Democrazia cristiana. Si concentra su cinque anni della sua vita, quelli che vanno dal colpo di Stato in Cile del 1973 al sequestro di Aldo Moro del 1978, senza indugiare nel racconto della sua formazione politica giovanile in Sardegna, e senza nemmeno citare gli ultimi anni della sua vita politica quando, dopo il fallimento del compromesso storico, si ritrova nel 1980 davanti ai cancelli della Fiat a fianco degli operai in sciopero per 35 giorni, o quando pone la «questione morale» alla politica italiana diventando il nemico politico numero uno di Bettino Craxi e del Partito socialista italiano. Eventi, questi ultimi, che hanno reso Berlinguer davvero amato, ma che a guardar bene ne definiscono meno la cifra e soprattutto l’eredità politica.
Il film però comunica senza dubbio una grande nostalgia. La nostalgia per un tempo che Segre e Germano non hanno mai vissuto, visto che nel 1984, quando Berlinguer morì, erano due bambini di 8 e 4 anni.
Che il sentimento nostalgico possa essere utile alla ricostruzione politica della sinistra, e non solo un esercizio consolatorio, è discutibile. È però comprensibile lo sguardo malinconico verso un tempo di grandi passioni politiche, di milioni di persone in piazza e alle Feste dell’Unità, di dirigenti con una solida formazione culturale e dei vincoli sociali incomparabili all’attuale teatrino della politica-spettacolo sganciata da qualsiasi spazio di partecipazione della società.
Il problema è che, con questa carica di nostalgia, la pellicola non riesce a sfuggire alla santificazione. Fin dalla scelta del titolo: presentare il compromesso storico come una «grande ambizione».
La grande rinuncia
«Secondo me se Andrea Segre ed Elio Germano avessero avuto vent’anni nel 1973, avrebbero odiato il compromesso storico», ha esordito in mondo provocatorio Nanni Moretti alla presentazione romana del film al Nuovo Sacher.
Il film inizia con le immagini del colpo di Stato orchestrato da Henry Kissinger in Cile con cui viene spazzato via il governo socialdemocratico di Salvador Allende che, dopo aver vinto le elezioni, stava portando avanti concrete riforme sociali. Da quel momento Berlinguer esplicita una strategia che era in realtà in elaborazione già da qualche anno: non solo non è possibile nessuna rivoluzione socialista in Italia, ma non è nemmeno pensabile nessuna alternativa politica di governo.
Nonostante le attese generate dall’enorme crescita elettorale del partito e dalle conquiste dei movimenti sociali nell’onda lunga post-Sessantotto, la via democratica al socialismo che propone Berlinguer è a dir poco tortuosa e contraddittoria: non si può governare nemmeno se una coalizione delle sinistre dovesse raggiungere il 51% dei consensi perché si rischierebbe un colpo di Stato orchestrato dagli Stati uniti e reso possibile in Italia da una potenziale alleanza tra la destra democristiana e i neofascisti. E per evitarlo bisogna accettare proprio l’ombrello statunitense della Nato e sostenere un governo guidato proprio dal massimo esponente della destra democristiana: Giulio Andreotti.
Nel film, pur di far apparire Enrico Berlinguer senza macchie, si finisce per sminuirlo nelle poche scene che non potevano essere documentate storicamente: quelle degli incontri riservati con Moro e lo stesso Andreotti. In questi colloqui Berlinguer appare un ingenuo, convinto che la sua linea sia l’unica possibile per mantenere un regime democratico in Italia, ma sostanzialmente preso in giro dai ben più scafati dirigenti democristiani che non concedono nulla in cambio della «non sfiducia» del Pci che permette al Governo Andreotti di stare in piedi. Nulla se non l’inutile presidenza della Camera a Pietro Ingrao.
Ma anche di fronte alla composizione dei ministri e alle concrete politiche di quel governo (che tra l’altro blocca il meccanismo della Scala mobile per adeguare i salari all’inflazione, abolisce ben 7 festività e aumenta l’Iva) Berlinguer persevera nella linea del compromesso. Bisogna rinunciare non solo al socialismo, non solo all’alternativa politica tramite democratiche elezioni, non solo alla difesa degli interessi di lavoratrici e lavoratori ma persino all’opposizione alla peggiore destra democristiana che flirta coi neofascisti. Tutto pur di salvare la democrazia.
A guardar bene è una rinuncia che poi diventerà una ricorrenza per la sinistra dei successivi cinquant’anni.
La grande delusione
A questa rinuncia seguì una grande delusione. Non solo nel movimento studentesco che scoppiò nel 1977 o nella sinistra extraparlamentare. Gran parte del mondo operaio e comunista fu completamente disorientato da questa linea, come mostrò proprio nel 1977 il capolavoro cinematografico di Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni, Berlinguer ti voglio bene, film spesso citato ma in realtà poco visto e soprattutto poco compreso.
Dopo la vittoria nel referendum sul divorzio nel 1974 e la crescita alle elezioni amministrative del 1975, non era più un tabù sognare il sorpasso sulla Dc nelle elezioni politiche del 1976. Il sorpasso poi per poco non ci fu, ma il Pci raggiunse il suo massimo storico in voti assoluti: 12 milioni e 600 mila. Anche il contesto europeo era promettente: nel 1974 c’è la rivoluzione dei garofani in Portogallo, nel 1975 finisce il franchismo in Spagna, nel Regno Unito governano i laburisti, in Germania sono al governo i socialdemocratici, in Francia cresce il cartello elettorale che tiene insieme socialisti e comunisti e che qualche anno dopo eleggerà presidente François Mitterand. La scelta di escludere a priori qualsiasi possibilità di governo di coalizione delle sinistre – che a prescindere dalle possibilità di riuscita avrebbe dato una prospettiva politica ai dieci anni di movimenti del nostro paese – produsse una delusione molto diffusa. Specie quando il Pci finì per sostenere il governo Andreotti. Tanto che nelle successive elezioni politiche del 1979 il Pci perse un milione e cinquecentomila voti, e non tornò mai più ai livelli di consenso del ‘76 (tranne la fiammata alle europee del 1984 segnate drammaticamente proprio dalla morte di Berlinguer).
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Canto di Natale, ultimi ri(n)tocchi
È certamente un racconto molto antiquato in certe sue parti ma ha tutta la sua grande forza espressiva nella parte soprannaturale, nei fantasmi e nel personaggio di Scrooge che è forse uno dei migliori villain che sia mai stato inventato, non a caso prototipo del Grinch e di Zio Paperone. C'è un'abbondanza di "Dio vi benedica", di "mia cara" e di altre formule tipicamente vittoriane, ma il Natale, in fondo, per come si presenta anche oggi, mantiene intatto il suo aspetto ottocentesco, negli addobbi, nell'albero di Natale, nei pacchetti e nei nastrini, nei rametti di vischio, insomma, quello di Dickens è il Natale per come lo conosciamo, al di là dei suoi aspetti commerciali (manca Babbo Natale vestito di rosso, che è un'invenzione pubblicitaria della Coca-Cola, e in effetti lo Spettro del Natale Presente, la cosa che gli somiglia di più, indossa una vestaglia verde bordata di pelliccia).
Insomma, Canto di Natale è talmente un classico che ha fatto scuola, e non importa se l'ultimo capitolo sembra scritto frettolosamente quasi per chiudere sbrigativamente la pratica, le sue diverse parti sono assolutamente delle pietre miliari nella formazione del vero spirito natalizio. E quindi, come diceva sempre Tiny Tim: che Dio ci benedica, tutti quanti!
[qui sotto, Scrooge e lo Spettro del Natale Presente]
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Agatha All Along: Agatha Harkness è una rockstar!
“Avviso ai Lettori questa è una recensione generale e quasi priva di spoiler, a parte uno su l’identità di un personaggio.”
Quella dedicata al personaggio introdotto in WandaVision è una delle serie più stralunate e divertenti dell'Universo Marvel. E Kathryn Hahn è una forza della natura. In streaming su Disney+.
Agatha, perché sei Agatha? E soprattutto: lo sei stata per tutto il tempo! Nel finale di WandaVision c'è la grande rivelazione: la vicina di casa impicciona Agnes, che Wanda Maximoff si è ritrovata accanto nella - apparentemente - tranquilla cittadina di Westview, in New Jersey, altri non era che la strega Agatha Harkness. A interpretarla un'esplosiva Kathryn Hahn, talento comico versatilissimo, in grado di spaziare dal musical al dramma. Se avete amato il suo personaggio in piccole dosi, preparatevi a una vagonata dell'"Harkness style": la serie Marvel Agatha All Along, disponibile su Disney+, è interamente dedicata a lei.
Kathryn Hahn in Agatha All Along
Ideata da Jac Schaeffer, già creatrice e showrunner proprio di WandaVision, Agatha All Along ci porta, in 9 episodi, nel mondo colorato della potente strega, sconfitta da Scarlet Witch (Elizabeth Olsen), ma non per questo rassegnata a una vita fatta di candele profumate e lezioni di yoga. Come può un'incantatrice che, a fine '600, ha ucciso tutta la sua congrega di Salem perché voleva condannarla a morte, starsene buona? Agatha ha infatti ceduto da tempo al fascino del lato oscuro, praticando la magia nera.
Anche il miglior Michael Jordan degli anni '90 non avrebbe però potuto vincere così tanto da solo: ad Agatha serve una nuova congrega e la serie ci porta nel vivo della formazione di questo team di streghe. La mitologica Patti LuPone è la centenaria Lilia Calderu: chiaramente una Scottie Pippen. La Dennis Rodman del caso invece è sicuramente Rio Vidal, interpretata da Aubrey Plaza, altro grandissimo talento comico. Sì perché il tono è particolare: ci si potrebbe aspettare un racconto cupo, ma in realtà è tutto molto camp, arrivando perfino al musical. The Ballad of the Witches' Road, eseguita dal vivo dalle attrici anche al D23, resta in testa a lungo.
Agatha All Along: finalmente una novità nel mondo Marvel
La società delle streghe
Se nascondere la personalità di Agatha è difficile, così come quella delle streghe che convince a unirsi a lei, più misterioso è invece Teen (interpretato da Joe Locke): il ragazzo sembra sapere tutto della protagonista e delle arti magiche. Quando però cerca di pronunciare il proprio nome le sue labbra si serrano: qualcuno ha messo un sigillo sull'adolescente, in modo da non farne conoscere l'identità. Gli appassionati di fumetti sanno già di chi possa trattarsi ovvero Billy Kaplan, Wiccan (membro degli Young Avengers). Al contrario delle altre, convinte a fatica a seguire la protagonista, Teen va a cercarla appositamente.
E tanto lui è entusiasta e gentile (anche se, quando qualcuno si presenta come apparentemente perfetto, bisogna fare attenzione due volte, a maggior ragione se parliamo di magia), così è scorbutica, manipolatrice e cinica Agatha. Ma, per quanto ci provi, è impossibile odiarla: in un Marvel Cinematic Universe in cui tutto e tutti sembrano ormai fatti di plastica e zucchero, la strega di Kathryn Hahn è come aria fresca. Certo, non è una villain spietata, ma almeno ha senso dell'umorismo e tempi comici perfetti. Figlia di una fase in cui c'era ancora l'intento di sperimentare e dare un tocco di unicità alle serie Marvel, Agatha All Along ha una sua identità. Se siete stufi e avete perso fiducia nei supereroi, Agatha Harkness potrebbe quindi diventare il vostro nuovo spirito guida.
Kathryn Hahn è una forza della natura
Inutile dire che la forza trainante della serie è la sua protagonista: con pochi minuti a disposizione Kathryn Hahn si era già fatta notare in WandaVision, ma qui può dare sfogo al proprio talento a 360 gradi. È inquietante quando deve esserlo; canta nelle diverse scene musicali; è impareggiabile quando inizia a sparare battute e freddure, dando il meglio di sé. Vederla interagire con gli altri personaggi è il piacere più grande che offre lo show.
Una scena di Agatha All Along
La riflessione su chi siano le streghe contemporanee è però interessante, così come l'analisi della rinnovata paura della società odierna per l'empowerment femminile. E soprattutto quella sul concetto di sorellanza: una strega che ha visto varie epoche come Agatha deve infatti affrontare sul serio questo sentimento, in cui forse non ha mai creduto davvero come oggi. Il tutto abbellito da una confezione che può contare sulla colonna sonora di Christophe Beck (che ha lavorato anche a Buffy - L'ammazzavampiri) e sui costumi di Daniel Selon (che continua il lavoro cominciato con WandaVision). Se amate Hocus Pocus, e lo rivedete ogni anno ad Halloween, Agatha All Along vi piacerà.
Conclusioni
La serie Agatha All Along vede la sua forza trainante nella protagonista: Kathryn Hahn canta, è inquietante quando deve esserlo e soprattutto sfoggia il suo grande talento comico. Nel cast ci sono almeno altri due pezzi da novanta come Patti LuPone e Aubrey Plaza, che vanno a comporre un gruppo variegato e brillante di streghe, quelle della nuova congrega formata dalla protagonista. Camp, ironico e pieno di musica, se amate Hocus Pocus la serie vi piacerà.
👍🏻
Lo stile distintivo della serie, che ha una sua personalità rispetto all'Universo Marvel.
La bravura di Kathryn Hahn, che canta, balla, è brillante e, quando deve, inquietante.
Patti LuPone e Aubrey Plaza.
La canzone The Ballad of the Witches' Road.
I costumi di Daniel Selon.
👎🏻
Se non amate il musical e lo stile camp potrebbe non essere la serie per voi.
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#bibliotecasanvalentino
Ed eccoci di nuovo qui con la rubrica a cadenza mensile e precisamente l'ultimo giorno di ogni mese, curata dalla nostra utente e amica Valentina Pace
Questa rubrica nasce anche e soprattutto da una riflessione che ci accompagna da un po' di tempo: per una "piccola" biblioteca di un piccolo paese non è sempre facile stare al passo con le richieste, i suggerimenti, le necessità degli utenti e non. Per questo motivo, con l'aiuto di Valentina scopriremo nuovi autori e nuove letture, consigli e spunti di riflessione, insieme a curiosità e notizie sui nostri cari libri. E allora, diamo il benvenuto a questo nuovo spazio culturale dove si viaggerà alla scoperta delle case editrici indipendenti: ʟᴇᴛᴛᴜʀᴇɪɴᴅɪᴇ.
La casa editrice di questo mese è: Milieu Edizioni
Buona lettura a tutti!
SUL FONDO DEL BLACK’S CREEK di Sam Millar
In una torrida e sonnolenta giornata d’estate sulle rive del Jackson’s Lake, il quattordicenne Tommy e i suoi amici Brent e Charlie, detto Ferro per la sua fortuna sfacciata, fanno il bagno nudi nel lago, bevono Coca ghiacciata, leggono fumetti della Marvel e, d’improvviso, assistono impotenti al suicidio di Joey Maxwell, un ragazzino di poco più giovane che sceglie di lasciarsi morire nel lago a poca distanza da loro.
La piccola cittadina di Black’s Creek, a nord dello stato di New York, dove i ragazzi vivono da sempre con le loro famiglie, viene scossa da questo tragico evento e in molti pensano di sapere cosa, o meglio chi, abbia spinto il piccolo Joey a togliersi la vita. In città, infatti, gira un losco figuro che lavora come custode part time al cinema Strand e si dice in giro che vada molestando i ragazzini. Jeremiah, il papà del giovane Maxwell con il quale è meglio non scherzare perché “Lui non perdona e non dimentica…”, chiede a gran voce che venga fatta giustizia. Lo sceriffo Henderson, padre di Tommy, si sente sotto pressione ma non ha abbastanza prove per procedere all'arresto del presunto colpevole. La situazione degenera quando a Black’s Creek vengono commessi due omicidi.
Sul fondo del Black’s Creek è un noir coinvolgente, dal ritmo tesissimo e dal linguaggio crudo, che cattura l’attenzione del lettore fin dalle prime pagine, ma è anche un racconto di formazione che descrive la perdita dell’innocenza di un ragazzino e dei suoi amici che si trovano ad affrontare un nemico feroce, malvagio e subdolo e che, pur di sconfiggerlo, sono pronti a commettere atti irreversibili.
COSA MI È PIACIUTO
All'interno del romanzo l’amicizia appare come un elemento fondamentale, ma anche estremamente fragile. Il primo amore è vissuto come un’esperienza memorabile, ma che genera confusione e dolore. Con grande intensità Sam Millar ci descrive il rapporto speciale che Tommy ha con suo padre, lo sceriffo Henderson, un uomo coraggioso, retto, sensibile, che ha una profonda fede nella giustizia: “…È per questo che abbiamo la legge, Tommy. Se consentissimo alle persone di farsi giustizia da sole, avremmo anarchia e linciaggi. Lo capisci questo, vero?”. In alcuni punti del libro l’autore stempera la tensione con situazioni e dialoghi ricchi di umorismo, ad esempio quando Tommy si caccia nei guai, oppure quando viene rimproverato ripetutamente da sua madre, una sorta di generale in gonnella, per le amicizie che frequenta, i continui ritardi e la sua disobbedienza. Del resto, la signora Henderson fa bene a stare in apprensione per quel suo figlio irrequieto. Black’s Creek è un paesino all’apparenza tranquillo, ma quando arriva il buio il pericolo è in agguato; dopotutto, come dice Ferro a Tommy “La notte e le tenebre appartengono ai mostri. Non ai supereroi”.
COSA NON MI È PIACIUTO
Come sempre quando un libro mi appassiona, mi trovo in difficoltà a evidenziarne gli aspetti negativi. Sinceramente, in questo caso, non ne ho trovato nessuno.
L’AUTORE
Sam Millar è uno scrittore e sceneggiatore nato a Belfast e, dopo la lunga militanza nell’IRA, è diventato uno degli scrittori di crime e thriller irlandesi più famosi. I suoi libri sono tradotti con successo in tutto il mondo. Per Milieu ha pubblicato il memoir “On the Brinks. Memorie di un irriducibile irlandese” e “I cani di Belfast”.
LA CASA EDITRICE
Milieu edizioni nasce a Milano come progetto di ricerca sulla storia criminale e sociale del Novecento e, in un secondo momento, si sviluppa come proposta editoriale a partire dal maggio 2012. Nel nome stesso della casa editrice sta il senso di questo percorso, nel fascino verso una mala a suo modo romantica e nella ricerca dei meccanismi “ambientali”, il milieu appunto, che influiscono sulle scelte dei singoli.
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" Il cielo plumbeo di settembre, le voci accalorate degli uomini di sotto, nel bar, le siepi del cortile ronzanti di api: quasi tempo di tornare a scuola. Il futuro. Ho tra i sette e i dieci anni, so di essere nata per fare qualcosa. Nessun fratello mi sbarra la strada con la precedenza del suo destino sul mio. Adesso so che l’atteggiamento di mia madre era anche frutto di un calcolo. Solo perché non apparteneva alla borghesia non significa che bisogna fargliele passare tutte. Voleva una figlia che, a differenza sua, non finisse a lavorare in fabbrica, che potesse mandare tutti a fanculo, che fosse libera, e per lei l’istruzione era quel fanculo e quella libertà. Così, da me, non si pretendeva nulla che fosse d’intralcio alla mia realizzazione, né commissioni né faccende domestiche di quelle che consumano le energie. Ciò che conta: che quella realizzazione non mi sia stata preclusa perché ero una femmina. Diventare qualcuno, per i miei, non aveva sesso. "
Annie Ernaux, La donna gelata, traduzione di Lorenzo Flabbi, Roma, L'Orma editore (collana Kreuzville Aleph), 2021¹, pp. 39-40.
[1ª Edizione originale: La Femme gelée, Paris, Éditions Gallimard, 1981]
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"Il Deserto di Carcosa": Adolescenza e Orrore nel Nuovo Romanzo di Fabrizio Valenza. Recensione di Alessandria today
Un racconto di formazione che si tinge di orrore cosmico, tra segreti familiari e dimensioni aliene
Un racconto di formazione che si tinge di orrore cosmico, tra segreti familiari e dimensioni aliene. Recensione: In “Il Deserto di Carcosa”, pubblicato il 2 ottobre 2024, Fabrizio Valenza ci immerge in un’estate apparentemente tranquilla a Verulengo, dove un gruppo di adolescenti scopre che sotto la superficie della realtà si celano oscuri segreti. Stefano Luschi e i suoi amici, noti come i…
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Ieri sera riflettevo sulle crisi esistenziali quindi ve ne racconto una, ma è una cosa così sopra tutto che la soluzione logica di sbattersene il cazzo prevale qualsiasi altra azione interna del mio cervello e alla fine la crisi non ce l'ho mai. Pensate a quanto è meravigliosa e straordinaria la vita. A tutte le forme di vertebrati, di invertebrati, di piante (mi scusino i botanici per l'inappropriata tassonomia), a tutte le cellule che ci sono. C'è vita, anche se semplice, pure nei luoghi più impensabili del pianeta. È una forza che da quando è nata non ha mai perso la sua fiamma, che si è plasmata sulle regole che guidano questo universo e su tutti i processi che la influenzano in questo mondo. In tutto questo marasma siamo poi nati noi, il nostro cervello è diventato più grosso e abbiamo acquisito capacità quasi infinite. Sul nostro pianeta siamo gli unici che hanno sviluppato una coscienza, una ragione (o come la si vuole chiamare). Abbiamo creato civiltà per rendere più semplice il vivere in branco. Abbiamo esplorato le terre, costruito, e scoperto tantissime cose. Abbiamo dati nomi, catalogato e studiato le altre forme di vita con cui condividiamo questo spazio. Siamo un unicum qui. Ma quanto sarebbe, boh, triste se fossi un unicum non solo qui ma ovunque?
È triste perchè tutta questa bellezza la possiamo percepire e apprezzare solo noi.
È triste perchè qualora mandassimo tutto in malora avremmo danneggiato il bene più grande e prezioso di tutto.
È triste perchè prima o poi la nostra stella finirà il suo ciclo 'vitale' e senza di essa, la vita qui scomparirebbe. E se fossimo soli, di noi e degli altri qui non rimarrebbe traccia. Ma forse la vita per come la conosciamo noi non esisterà già più prima che il sole si spenga.
Se noi, nello specifico, fossimo un unicum nell'universo sarebbe triste.
Si okay, esiste l'equazione di Drake, una funzione matematica che permette di avere una stima del numero delle possibili civiltà intelligenti che possono evolversi nello spazio, che considera la durata media di una possibile civiltà, il tempo di formazione di nuove stelle, i pianeti associati a queste stelle, la probabilità che si sviluppi vita ecc ecc ecc. Ci sono tante ipotesi che cercano di risolvere il paradosso di Fermi e noi non abbiamo altro che congetture.
La vita per come la conosciamo noi esiste da quasi 4 miliardi di anni. Secondo delle stime l'universo esiste da 14 miliardi di anni. C'è voluto quasi un terzo del tempo di vita dell'universo per arrivare ad avere una civilizzazione. Se prendiamo i sumeri come "prima civiltà", ci sono voluti poco più di 5000 anni per la rivoluzione scientifica. Facciamo 5800 anni per la rivoluzione tecnologica. Dopo quasi 6 mila anni abbiamo iniziato ad esplorare il nostro sistema solare. Sembra una marea di tempo ma comparato ai 4 miliardi di anni non è niente, uno sbattito di palpebre. Se la fuori esistessero altre forma di vita intelligenti, dotate di raziocinio, perchè non le abbiamo trovate? Se a noi sono serviti 6000 anni per iniziare a farlo, perchè non abbiamo trovato segni nello spazio? Forse i segnali arrivano ma non riusciamo ad interpretarli?
Da un punto di vista probabilistico, è difficile che noi siamo l'unicum nell'universo. Ma considerando tutte le variabili e tutte le costanti, tutte le sequenze di eventi e combinazioni di processi che hanno fatto si che si generasse vita e poi vita intelligente, sembra altrettanto poco probabile che la fuori ci sia qualcuno come noi.
Sarebbe triste essere soli, ma dall'altro lato della medaglia, quanto può essere malinconicamente speciale quello che siamo? Quello che abbiamo qua? Quello che possiamo vedere tutti i giorni uscendo di casa e andando in un bosco o camminando su una spiaggia?
Potremmo essere l'unicum, tanto vale godersi il viaggio
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Duecento Di Gioia
il 7 maggio del 1824, 200 anni fa al Kärntnertortheater di Vienna (il Teatro di Porta Carinzia), uno dei più belli della capitale dell'allora Impero Asburgico, è in programma una prima sinfonica. L'ultimo lavoro di un musicista che già all'epoca era una leggenda vivente. Ma che era stato lontano ben 12 anni dalle scene. Ludwig van Beethoven ha 54 anni, è quasi completamente sordo, soffre di atroci dolori da ulcere che lo porteranno alla morte di lì a due anni. Nonostante sia benestante, vive in uno stato di profonda malinconia, misoginia, tristezza, solitudine, in una stanza con fogli di musica sparsi dappertutto, cibo nei piatti ad imputridire, bottiglie vuote.
Eppure la sua ultima opera, la Nona Sinfonia in re minore per soli, coro e orchestra op. 125, è un percorso mistico, intrigante, misterioso alla fratellanza, al dialogo, al confronto.
Divisa in quattro movimenti, i primi tre puramente sinfonici, e il quarto che include il coro sui versi dell'ode Alla gioia di Friedrich Schiller.
Già quella sera vi fu un tripudio di pubblico: il compositore, che si racconta fu in tensione nervosa per tutta la durata dell'esecuzione (racconto questo che due professori di controfagotto, che parteciparono all'esecuzione, raccontarono nel 1842 alla formazione della prima orchestra della Filarmonica di Vienna, di cui facevano parte) fu richiamato dal pubblico per 5 volte, e gli furono sventolati fazzoletti bianchi in segno di giubilo.
È così leggendaria che esistono moltissimi miti su di essa: tra i più curiosi, che per "rispetto" tutti i compositori successivi si siano fermati a Nove Sinfonie (un caso a volte fortuito, a volte tragico, come nel caso di Mahler morto mentre stava componendo la sua Decima) oppure che la durata di musica in un cd sia di 75 minuti, come la durata della sinfonia (in verità, secondo le varie esecuzioni, dura un po' di meno, e anche questa è una bella leggenda metropolitana). E non si contano i saggi storici, psicoanalitici, i romanzi, su questo che è, con pochi eguali, uno dei pinnacoli della storia culturale umana, come, per fare qualche esempio, l'opera di Shakespeare, il David di Michelangelo, una cattedrale gotica europea del 1300.
Rimane uno una delle opere più note ed eseguite di tutto il repertorio classico ed è considerata uno dei più grandi capolavori della storia della musica, anche in quanto simbolo universale di unità e fratellanza tra gli uomini: il tema finale, nella nota riedizione del Maestro Herbert von Karajan, è stato adottato nel 1972 come Inno europeo.
Pagina del manoscritto originale della sinfonia, conservato nella Staatsbibliothek di Berlino: la Nona Sinfonia viene conservata in condizioni speciali, nel buio assoluto, ad una temperatura di 18 gradi e a un tasso di umidità del 50%.
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Nei giorni in cui sono state scritte tante parole su Toni Negri, deceduto nella sua casa di Parigi lo scorso 16 dicembre, appare davvero una grande occasione questo docu – film per ripercorrere, partendo proprio dalle vicende dell’Autonomia Operaia di cui lui è stato uno dei protagonisti, cosa sono stati quei giorni, quegli anni. Seppure siano passati oramai diversi decenni da quel 7 aprile del 1979, quando decine di persone, appartenenti o simpatizzanti o considerate vicine alla formazione di sinistra extraparlamentare Autonomia Operaia, furono arrestate in un’operazione che diede inizio a uno dei capitoli più discussi e controversi della storia giudiziaria italiana degli scorsi decenni. Una vicenda che coinvolse centinaia di persone ma che ebbe come protagonisti da una parte proprio il professor Toni Negri, dall’altra il magistrato Pietro Calogero. Siamo nei cosiddetti “anni di piombo” e delle stragi fasciste. Un anno prima c'è stato il rapimento di Aldo Moro e la sua uccisione. Vennero così adottate “leggi speciali” tra cui quella che permetteva di applicare il reato di associazione a delinquere alle organizzazioni politiche, e non solo a quelle mafiose. Negri fu accusato di aver partecipato direttamente al rapimento Moro, e addirittura di essere stato il telefonista delle Brigate Rosse che condusse le trattative. In realtà si dimostrò dopo che la voce brigatista era di Valerio Morucci. A denunciarlo fu un docente dell'Università, iscritto al Pci, che dichiarò di aver riconosciuto la voce di colui che teneva i contatti tra le Br e la famiglia del dirigente democristiano, come quella del collega.
Il processo si svolse con tempi lunghissimi e, secondo Amnesty International, in violazione dello stato di diritto. Gli imputati furono detenuti preventivamente in carcere per anni. Il processo cominciò soltanto nel 1983. A difendere ben 54 imputati di quel processo denominato 7 aprile e che fu diviso in due tronconi tra Padova e Roma, emerge la grande abilità di un giovane "compagno" avvocato: Enrico Vandelli. E proprio attraverso la sua esperienza che nella prima delle tre puntate si affronta la questione degli Autonomi padovani. E per la prima volta sono i diretti protagonisti a raccontare quegli anni. E sono davvero tanti visto quanto popolare era il movimento ai tempi, in pieni anni Settanta, è raro che ne parlino o concedano interviste. C'è una sorta di patto non scritto che da un lato obbedisce a un principio di lealtà, che non può comunque essere tradito anche se la storia si può dire ormai chiusa, un po' perché non la si vuole svendere, svilire, o rappresentare con una sola immagine consapevoli che nessuno ne è il solo custode visto che quanto vissuto è generato da una esperienza collettiva. Hanno sempre lasciato farlo ad altri ed è inevitabile poi che passi una sola fotografia della storia, in cui inevitabilmente c'è per forza una molotov.
Dal punto di vista giudiziario il processo si chiude quasi quattro anni dopo con la sentenza della Cassazione che elargisce pene miti e assolve imputati come Toni Negri perché crollano le accuse più gravi insieme al teorema Calogero. Nel film lo scontro tra due magistrati, Calogero appunto e Palombarini, viene ben illustrato.
La docu serie mette bene a fuoco il fatto che come ogni vicenda è fatta di persone e di vite. E il film, soprattutto nel primo episodio che è completamente dedicato alla vicenda degli Autonomi, rende bene l'idea di cosa fossero quegli anni. Affronta il tema della repressione, della carcerazione e pure della latitanza, che è tutto fuorché una vacanza. Racconta di giovani donne costrette a lasciare i figli per sfuggire a una nuova detenzione, come il caso della docente di scienze politica, Alisa Del Re. Se il racconto della sua fuga e come evita l'arresto ricorda la trama di un film di spionaggio, poi c'è la vita non vissuta, sospesa, che forse colpisce ancora di più. Nel film si sceglie di non parlare dei decessi dopo la carcerazione, come il caso del Professor Ferrari Bravo, ma si sente nelle parole di coloro che vengono coinvolti in questo racconto che le scelte convintamente fatte e portate avanti sono state tutte pagate. Anche alla giustizia.
L'avvocato Enrico Vandelli negli anni di quel processo accresce la sua fama, il suo volto finisce sui giornali e telegiornali nazionali di continuo. E come è ovvio che sia attira le attenzioni soprattutto di chi è malavitoso o detenuto. Tutti quelli che hanno bisogno di un buon avvocato. E lui ha dimostrato di esserlo. Così quando molti anni dopo arriva la chiamata la vede solo come una grande occasione, l'avvocato Enrico Vandelli. Anche economica visto che dal processo 7 aprile non ha certo guadagnato nulla. A rivolgersi a lui è infatti il boss della mala del Brenta, "faccia d'angelo", Felice Maniero. Sono anni completamente diversi in cui l'eroina insieme a un certo diffuso benessere prendono il posto delle contestazioni. E qui comincia una storia, soprattutto umana, completamente diversa. A tenere insieme la banda Maniero sono i soldi, la violenza, i ricatti. Non c'è una figura a lui vicina, madre esclusa, a cui non abbia fatto o procurato del male. Ha tradito chiunque lo ha servito, fino ad arrivare proprio al suo avvocato che di certo errori ne ha commessi ma non quanti gliene sono stati imputati. Eppure ha pagato più di Maniero. La condanna per mafia, l'addio forzato alla toga ma anche la latitanza e la detenzione. Straordinaria la testimonianza del figlio Michele, che racconta con la consapevolezza dell'adulto che è oggi come il passaggio da avvocato dei "rossi" a quello di un mafioso ha cambiato per sempre la sua vita. Nel docu-film il contributo dello scrittore Massimo Carlotto che rende omogeneo tutto il racconto e poi i protagonisti delle due vicende giudiziarie, non solo avvocati ma anche magistrati e procuratori. Una delle contraddizioni che emergono da quella fetta di storia italiana, è che lo Stato che ha trattato centinaia di giovani come criminali solo perché non volevano pentirsi né di ciò che non avevano commesso ma neppure di ciò che praticavano con convinzione, si è invece fidato di uno, Felice Maniero, che non si è fatto problema alcuno nel tradire tutti. Centinaia di persone. Se non fosse che si può comunque scappare da tutto ma non da quel che si è, Maniero in questi anni non l'avrebbe mai vista una cella e si sarebbe potuto godere tutti i giorni in libertà, perfino con una nuova identità.
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