#poesia di denuncia
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“È Natale” di Rosetta Sacchi: Il Natale visto tra luci e ombre. Recensione di Alessandria today
Un viaggio poetico tra le contraddizioni delle feste, il dolore invisibile e la magia effimera.
Un viaggio poetico tra le contraddizioni delle feste, il dolore invisibile e la magia effimera. Recensione: Rosetta Sacchi, con la poesia “È Natale”, ci conduce in un racconto potente e struggente che svela le dualità del periodo natalizio. In un mondo che festeggia e si illumina, dove le vetrine si riempiono di colori e gli alberi brillano di luci, l’autrice sposta il nostro sguardo verso i…
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Jiří Kolář
Gerwald Sonnberger, Egon Schiele Centrum Český Ktumlov
Galleria Nazionale d'Arte Antica Palazzo Barberini, Roma 1998 , 140 pages, 21x29,5cm,
euro 80,00
email if you want to buy [email protected]
Mostra Galleria Nazionale d'Arte Antica Palazzo Barberini Roma 21 maggio-28 giugno 1998 nell'ambito della mostra Jiří Kolář e il Collage Ceco
Jiří Kolář nasce nel 1914 a Protivín in Boemia. Nel 1922 si trasferisce a Kladno vicino a Praga. Dopo un’adolescenza caratterizzata da lavori fortuiti, a sedici anni scopre l’edizione ceca di “Les mots en liberté futuristes” di Filippo Tommaso Marinetti, che lo conduce nel mondo della poesia moderna, fondamentale per la sua futura ricerca artistica. Grazie all’incontro con il Surrealismo inizia a lavorare con la tecnica del collage. Nel 1937 espone per la prima volta al Mozarteum di Praga. Nel 1941, durante l’occupazione tedesca, esce la sua prima raccolta di poesie e l’anno seguente fonda il “Gruppo 42” insieme ad altri artisti. Tra il 1946 e il 1948 compie alcuni viaggi a Parigi, in Germania e in Gran Bretagna e qualche anno dopo esce Il Fegato di Prometeo (1952) nel quale, unendo le immagini alla poesia e alla prosa, denuncia la drammatica situazione cecoslovacca dopo l’avvento del regime comunista; una dura verità che insieme ad altri scritti gli costa il carcere per nove mesi e il divieto di pubblicazione fino al 1964. Verso la fine degli anni Sessanta espone in Germania e in Brasile dove nel 1969 è premiato alla X Biennale di San Paolo quindi in Canada e in Giappone. Nel ‘75, nel ‘78 e nell‘85 il Solomon R. Guggenheim Museum di New York gli dedica tre importanti mostre personali (Kolář e Picasso sono gli unici artisti che, da viventi, hanno avuto l’onore di tre mostre personali presso il Guggenheim di New York). Seguiranno molte altre esposizioni in tutto il mondo. Nel 1983 conclude il “Dizionario dei metodi”, una raccolta con tutte le tecniche utilizzate per la realizzazione delle sue opere: collage, ventilages, chiasmages, confrontages, etc. Le sue opere sono presenti nei maggiori musei del mondo. Nel 1991 riceve il Premio Seifert e viene nominato cittadino onorario di Praga, dove muore nell’agosto del 2002.
É del 2012 un’importante retrospettiva presso il MOCAK di Cracovia, mentre nel 2014 si è tenuta una mostra antologica presso la Kunstforum Ostdeutsche Galerie di Regensburg, in Germania ed una mostra-tributo in onore del centenario della nascita dell’artista (September 23, 2014 – February 8, 2015) presso il Museum Kampa di Praga.
L’anno successivo una mostra antologica con più di 160 lavori gli è stata dedicata a Prato presso la Galleria Open Art ed il museo di Pittura Murale di San Domenico.
14/12/24
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RAI: SERVIZIO PUBBLICO?
M'è capitato per sbaglio di vedere l'altro pomeriggio, "La Vita in Diretta" condotta da un certo Alberto Matano su RAIUNO.
Un programma che ho scoperto va in onda tutti i santi giorni feriali.
Ho messo in moto il cervello.
A chi giova imbastire un programma del genere? Un programma che si onora di sfruculiare in mille modi diversi, la curiosità macabra del pubblico.
Di sollecitare una sorta di perversione sadica nell'apprendere i dettagli feroci e disumani degli assassini che abbelliscono il nostro bel paese. E intendo il numero delle coltellate, il topicida fatto ingerire alla ragazza incinta, la trappola mortale architettata e spacciata per "incontro chiarificatore".
Eccolo allora il festival della pugnalata, del sangue schizzato sul pavimento, androne, scalinata. Un fiorire delle peggiori atrocità sbandierate a destra e manca con l'ausilio del commento della criminologa di turno.
A chi serve un orrore del genere travestito da cronaca del Presente.
Certo, serve a certo Pseudo-giornalismo per fare ascolti. Per scandalizzare, per scioccare, per catturare attenzioni raschiando il fondo del barile della peggiore "cronaca nera" del nostro paese.
Ma questo rimestare, questo intingere continuamente le mani nei delitti della peggiore criminalità e della miseria di certi individui perversi e malati, a chi giova?
È EDUCATIVO ?
È MORALE ?
È QUESTO CHE DEVE ESSERE IL "SERVIZIO PUBBLICO" FINANZIATO COL CANONE DA TUTTI QUANTI?
È SOCIALMENTE ACCETTABILE PRESTARSI A FARSI MEGAFONO E CASSA DI RISONANZA DEL PEGGIO CHE ACCADE NELLA NOSTRA ATTUALE SOCIETÀ?
La cosa che mi lascia di sasso è la SERIALITÀ delle puntate.
Mi spiego: un singolo crimine, delitto, omicidio, viene ripreso quotidianamente.
A volte anche per decine di puntate.
Quasi che un telespettatore dovesse mandare a memoria l'intera sequenza di un assassinio. E questi allora che fanno?
Ti aiutano a memorizzare. Spacchettando l'intero accadimento in tante sequenze da imparare un poco ogni giorno.
Come se fosse una POESIA da imparare a memoria!
...ogni giorno ti offriremo 4 versi dell'intero componimento!
Ci pensavo ieri sera.
Perchè allora, invece di presentarci una serie infinita di femminicidi ormai già avvenuti, non si cambia punto di vista e di osservazione?
Perchè, se ci sta davvero a cuore il problema di questa piaga sociale che è la violenza alle donne, il giornalista, invece che intervistare a bocce ferme, i parenti e le amiche della malcapitata di turno, non va ad intervistare...
una donna ANCORA VIVA, ANCORA RESPIRANTE, ANCORA PENSANTE
che abbia presentato una denuncia per maltrattamenti, violenza, percossse ?
Perchè se si è davvero " servizio pubblico" invece che speculare sul dolore e sulla carneficina in corso ai danni del genere femminile, non si decide di documentare il problema vero, di entrare nella carne viva di questi inferni umani che sono certe relazioni.
Perchè non si decide, invece, quando ancora "si è in tempo" di prendere le parti delle vittime di maltrattamenti, di documentarne le difficoltà, di arrivare a chiedere immediati interventi di ordine pubblico (braccialetto elettronico o carcere) contro gli aggressori, prima ancora che l'irreparabile sia accaduto?
Non sarebbe forse quello il migliore SERVIZIO PUBBLICO che si potrebbe svolgere a difesa delle donne che rischiano ogni giorno di essere le prossime vittime di femminicidio?
Io me lo chiedo.
Meno tv del dolore, e più trasmissioni educative sul tipo di relazioni che vale la pena vivere.
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#CharliePyne#DarioFo#EFGLondonJazzFestival#FilomenaCampus#FrancaRame#JaneFoole#Jazzmusic#LucretiaTheTambler#RodYoungs#stevelodder#ThePantryPizzaExpress#ThomasinaDeParis
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Prosegue a Sassari Ottobre in Poesia, domenica Baba Sissoko in concerto
Baba Sissoko Sassari. La poesia al servizio dell’impegno civile, strumento di denuncia e controinformazione. Sarà il poeta afgano Basir Ahang l’ospite speciale del nuovo appuntamento di Ottobre in Poesia, il festival internazionale poetico della Sardegna, arrivato quest’anno alla sua diciottesima edizione. Prosegue la cavalcata poetica del primo festival letterario di Sassari che sabato 26…
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György Lukács | Budapest 1885 - 1971
Nel saggio La poesia bandita (1942), Lukács osserva come i temi utilizzati dagli stalinisti ungheresi riecheggiavano gli orientamenti letterari ed estetici dettati dai nazisti e che egli denuncia .
Crediti: https://dialektika.org Dopo il suo rientro in Ungheria, Lukács pensò in un primo momento di contribuire alla nascita della democrazia popolare nel suo paese, diversa ai contenuti politici e culturali del fascismo che si voleva abbattere, così come anche dal socialismo in un solo paese di matrice sovietica. Nel saggio La poesia bandita (1942), Lukács osserva come i temi utilizzati dagli…
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Anna Maria Maiolino
“Fortunatamente per mezzo dell’arte possiamo sovvertire repressioni e conflitti. Sovvertire nel senso di porre rimedio alle repressioni cercando di realizzare un’arte anticonformista e di intervento politico, e perciò rivoluzionaria, che renda possibile recuperare ciò che il nostro spirito ha di fondamentale: la dignità. Grazie all’arte ho potuto consegnare un posto nel mondo ai miei sentimenti.”
Anna Maria Maiolino è l’artista brasiliana di origine italiana insignita del Leone d’Oro alla carriera della Biennale di Venezia del 2024, insieme a Nil Yalter.
Nel corso della sua lunga carriera si è cimentata con ogni mezzo espressivo: pittura, incisione, scultura, poesia, fotografia, video e performance.
Sin dagli anni Sessanta, si ispira alla quotidianità femminile per opporre uno sbarramento all’egemonia maschile e a temi come la fame, la povertà, l’ingiustizia. Il suo percorso artistico è un viaggio verso la riappropriazione di un posto nel mondo.
È nata il 20 maggio 1942 a Scalea, in Italia, per poi emigrare con la famiglia a Caracas, nel 1954, ai tempi il Venezuela pagava il biglietto del viaggio in nave alle persone che migravano dall’Italia. Sin da piccola, disegnare aveva rappresentato, per lei, un rifugio e un conforto a una realtà estranea, aiutandola ad allontanare i ricordi di un’infanzia difficile, trascorsa durante gli anni più duri della guerra. Ha studiato alla Escuela de Artes Visuales Cristóbal Rojas fino al loro trasferimento a Rio de Janeiro, nel 1960, dove ha frequentato la Escola Nacional de Belas Artes. Aveva diciotto anni quando ha esposto per la prima volta, al XXI Salón Oficial de Arte Venezolano.
Dal 1967 è stata coinvolta nel movimento della Nova Figuração, che metteva in primo piano la partecipazione attiva del pubblico fruitore e un impegno e una posizione sui problemi politici, sociali ed etici.
Ha partecipato alla mostra Nova Objetividade Brasileira, al Museo d’Arte Moderna e le sue opere sono diventate un manifesto della resistenza al regime, così come delle crescenti disuguaglianze sociali del paese.
In quegli anni ha cominciato a occuparsi di disuguaglianze di genere sul duplice versante corporale e intimistico-spirituale.
I suoi dipinti e incisioni degli anni Sessanta sono piuttosto radicali, combinano l’immaginario pop con il repertorio tipico della Nova Figuração, concentrandosi su personaggi e narrazioni politiche, oltre che su riferimenti personali, corporei e familiari.
Si è sperimentata con tecniche appartenenti alla cultura popolare come i cordels, xilografie accompagnate da brevi poesie o filastrocche d’intrattenimento, come strumento di denuncia sociale.
Questo tipo di rappresentazioni erano ispirate dal Manifesto Antropofago di Oswald de Andrade in cui, l’immagine dell’indigeno cannibale, riportata nei resoconti dei colonizzatori, veniva utilizzata per contrapporre alla cultura europea un’identità completamente diversa, antagonistica, quasi spaventosa, che potesse liberare definitivamente il Brasile da secoli di sudditanza politica e culturale. Una contrapposizione alla politica del regime, sempre più repressiva e autoritaria, un’arte popolare, kitsch e associata spesso al “cattivo gusto”. In questo clima politico e culturale piuttosto intricato, ha dato vita a opere come Anna e Glu Glu Glu, entrambe del 1967.
Nel 1968 si è trasferita a New York grazie a una borsa di studio al The Pratt Graphics Center dove ha avuto modo di praticare la tecnica di incisione su metallo, acquaforte, allargando i propri orizzonti artistici.
In questi anni scrivere poesie è stata la sua modalità espressiva primaria e al suo ritorno in Brasile, alla fine del 1971, ha iniziato a creare disegni e composizioni basate su di esse (“Mapas Mentais”, 1971-74; “Book Objects”, 1971-76; “Drawing Objects”, 1971-76).
L’interazione performativa tra gli oggetti d’arte e il pubblico sono il nodo centrale del suo lavoro.
Anche il suo primo film realizzato nel 1973, In-Out (Antropofagia), dimostra lo stretto legame con il pensiero antropofagico. Nel video l’inquadratura è fissa sulla bocca dei personaggi ed è talmente stretta che a malapena sono visibili il naso e il mento. Un uomo e una donna che tentano di parlare, senza riuscirci: dalle loro bocche spalancate e in continuo movimento non esce alcun suono, talvolta sono bloccati, prima da una striscia di nastro adesivo nero, poi da un uovo e da sempre più numerosi fili di tessuto.
L’impossibilità di esprimersi è un’aperta denuncia della censura in atto nel Brasile di quegli anni. L’assenza di parole e la loro sostituzione con un respiro affannato fanno riferimento al sofoco (soffocamento), con cui ci si riferiva agli anni più duri della repressione della dittatura militare. Un oggetto che compare per la prima volta proprio in In-Out (Antropofagia) e che diventerà fondamentale nell’iconografia di Anna Maria Maiolino è l’uovo.
Nel 1981 ha messo in scena Entrevidas, in cui decine di uova sono sparse sul pavimento e sfidano l’artista a percorrere lo spazio come fosse un campo minato, tenendo conto della fragilità e della precarietà dell’uovo, simbolo della vita stessa.
Una delle sue opere più celebri è Por un fio del 1976 dove l‘artista è seduta tra sua madre e sua figlia nell’atto di tenere in bocca segmenti di corda, come a voler enfatizzare i legami familiari. Il suo linguaggio ci parla di un legame, profondamente femminile, ed estremamente fiero e coraggioso nell’affrontare i divieti e le violenze maschili.
Nel 1989 ha iniziato a lavorare con l’argilla per la serie Modeled Earth, con una nuova attenzione per l’espressione gestuale e sensoriale, un rituale che richiama una radice profonda, un tassello della sua identità. Ha poi sperimentato con cemento e gesso, realizzando grandi sculture murali.
Il lavoro manuale, il rapporto con la terra, i materiali elementari in sculture e rilievi, continuano ancora a oggi a far parte della sua attività creativa. Un’azione ripetitiva e banale che si fa pratica artistica.
La carta, più di una superficie su cui disegnare, è diventata materia e corpo, la serie Indicios è, infatti, composta da disegni realizzati su carta con ago e filo, con l’intento di denunciare la meccanicità di gesti quotidiani appartenenti alla sfera domestica femminile come cucire.
Un momento di svolta nella sua carriera artistica è stata la partecipazione all’esposizione Inside the Visible a Boston, nel 1996, composta da trenta artiste fra cui Louise Bourgeois, Mona Hatoum, Carol Rama, Charlotte Salomon, Cecilia Vicuña, per citarne qualcuna. Sulla copertina del catalogo c’era un’immagine della sua performance Entrevidas, che l’ha fatta conoscere a un più ampio pubblico.
Per la prima volta alla Biennale Arte di Venezia, nel 2024, Anna Maria Maiolino ha esposto una nuova opera di grandi dimensioni che prosegue e sviluppa la serie delle sue sculture e installazioni in argilla. Un lavoro che indaga i rapporti umani, le difficoltà comunicative e di espressione, percorrendo il labile confine tra fisicità e sfera intima e spirituale.
Oggi vive e lavora a San Paolo, in Brasile. Ha esposto nei principali musei di arte moderna e contemporanea del mondo.
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Giacomo Casaula - Bonsai
Il terzo singolo estratto dal nuovo disco del cantautore, scrittore e attore napoletano
Un amore cittadino in cui a dominare è la malinconia. «Questa è una canzone d'amore che nasce, cresce e muore in un clima di sfacelo e delirio (termini che ho ripreso da Gaber e Luporini e che a loro volta avevano mutuato da Celine), un clima di esplosioni figurate ma anche terribilmente reali e attuali. Alla fine della storia resta solo questo amore, questo amore forse troppo sintetico per resistere alla precarietà e alle bombe che ci cadono intorno». Giacomo Casaula
“Bonsai” è il terzo singolo estratto dal disco “Amore sintetico” secondo lavoro di inediti in studio di Giacomo Casaula. Un concept partito già dal precedente album “Nichilismi & Fashion-week” che pone al centro l’individuo e dove, soprattutto in quest’ultimo lavoro, non sono le mode provenienti da fuori a condizionarlo, ma liquidità sentimentali e rimpianti di sogni e mondi diversi che egli stesso produce e alimenta.
DICONO DEL DISCO:
«Il centro è chiaro: un disco sociale, manifesto a suo modo… e forse ha ragione lui quando dice che è lo sviluppo delle cose e di come accettiamo il “normale” ormai con una resa quasi totale. Dischi che richiamano un tempo ormai antico, che non lo osanna a prescindere ma che anzi ne fa denuncia a suo modo». Bravo On Line
«E questo “Amore sintetico” porta con sé anche un quid di sviluppo, a latere… nessuna rivoluzione di forma ma un arricchimento di intenzioni e di gentilezza nei modi.». Music Map
«Perché di certo sono gli stilemi classici quelli che si rendono sfacciati lungo le 8 tracce inedite del nuovo disco del cantautore e attore napoletano Giacomo Casaula. ». ExitWell
«Disco limpido, umano, di semplicità e di facili connessioni con la vita che abbiamo tutti. Un disco di verità non si perde dentro le maschere digitali e dentro un pop estremamente preciso alle orecchie e alla vista. Ha i bordi sdrucciolevoli questo lavoro…». Seven News
Giacomo Casaula nasce a Napoli nell’ottobre 1992. Si laurea all'Università Federico II di Napoli in lettere classiche e in filologia moderna e, contemporaneamente, comincia molto presto a calcare le scene, grazie alla nonna paterna - attrice di teatro - che lo introduce al mondo dello spettacolo. Pirandello, Molière, teatro classico, commedia e lavori performativi segnano le sue prime esperienze. È attore e collaboratore di Ettore Massarese, autore e regista teatrale, e dell’intero progetto “Antico fa testo” promosso da Francesco Puccio. Versatile in tutti i generi, crea e autoproduce spettacoli di Teatro-canzone, celebrando De André, Gaber e Rino Gaetano in una commistione scenica di prosa, poesia e musica, anche su palcoscenici prestigiosi quale il Teatro San Carlo. Pubblica nel dicembre 2019 il suo primo romanzo “Scie ad andamento lento” edito da Edizioni Mea e nel marzo 2022 il suo secondo romanzo “Siamo tutti figli unici” edito da Guida editori. Nel gennaio 2020 esce anche il suo primo disco “Nichilismi & Fashion-week” con l’etichetta Trees Music Studio, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale successivamente inserito nella rassegna di apertura dell’edizione 2022 del Campania Teatro Festival. Il 5 maggio 2023 esce il suo secondo album dal titolo “Amore sintetico” anticipato dal singolo “Viola”. L’estate si apre con l’uscita del secondo singolo estratto dal titolo “Ballata per Angelina” e l’autunno vede l’uscita del terzo estratto dal titolo “Bonsai”.
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Nazim Hikmet, lontano dalla Turchia
Un uomo che per tutta la vita sogno un mondo libero… Nazim Hikmet nacque a Salonicco il 20 novembre 1902, da Nazim Hikmet Bey, funzionario di Stato, e Aisha Dshalia, pittrice. Da giovane Nazim studiò prima francese ad Istanbul, in Turchia, poi s’ iscrisse all'Accademia della Marina militare, ma dovette abbandonarla per problemi di salute. Come lui stesso confessò nella poesia Autobiografia (1962) divenne il poeta a soli quattordici anni, introducendo per la prima volta il verso libero nella lingua poetica turca grazie al nonno paterno, che, oltre che pascià e governatore di varie province, era scrittore e poeta in lingua ottomana. Durante la guerra di indipendenza in Anatolia si schierò con Kemal Ataturk, ma fu molto deluso dagli ideali nazionalisti, si iscrisse così al partito comunista e lavorò come insegnante nella Turchia orientale. Nel 1922 il poeta fu condannato per marxismo e scelse l'esilio volontario in Russia, dato che gli era impossibile rimanere in patria, dove fu soggetto ad una forte ostilità a causa della sua pubblica denuncia dei massacri avvenuti in Armenia nel periodo 1915-1922. In Russia Nazim si iscrisse all'Università dei lavoratori d'Oriente e studiò alla facoltà di sociologia, oltre a conoscere il poeta Majakovskij e si sposò, ma il matrimonio fu annullato a seguito del suo ritorno in Turchia nel 1928, grazie all'amnistia generale. Il clima che circondava Nazim divenne sempre più pesante e, dato che il partito comunista venne dichiarato illegale, venne arrestato con il pretesto dell'affissione di manifesti illegali. Negli anni dal 1928 al 1936 Hikmet, che passo cinque anni in carcere, scrisse ben cinque raccolte di versi e quattro poemi lunghi, oltre a lavorare alla stesura di romanzi e testi teatrali, collaborando anche con alcuni giornali in qualità di giornalista e correttore di bozze. Il poeta nel 1938 fu arrestato con l'accusa di aver incitato la marina turca alla rivolta con le sue poesie e fu condannato a ventotto anni di carcere, ma vi rimase per quattordici lunghi anni, durante i quali scrisse i suoi versi più significativi. Grazie ad una commissione internazionale tra i cui membri c’erano Jean Paul Sartre e Pablo Picasso, Nazim fu scarcerato nel 1949, ma fu vittima di ben due tentativi di assassinio che lo spinsero a fuggire nuovamente a Mosca, mentre fu candidato al Nobel per la pace nel 1950. Intanto la Turchia privò il poeta della cittadinanza e fu la Polonia a conferirgli la sua , grazie all'esistenza di un vecchio progenitore da cui, secondo Nazim, derivavano i suoi capelli rossi. Nazim Hikmet morì a Mosca, per una crisi cardiaca, il 3 giugno 1963 e nel 2002, nel centenario della sua nascita, il governo turco, grazie ad una petizione firmata da mezzo milione di cittadini, gli restituì la cittadinanza. Read the full article
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Verona: le rose del pittore Baggio "Fermano il tempo" per un viaggio emozionale tra arte e poesia
Verona: le rose del pittore Baggio "Fermano il tempo" per un viaggio emozionale tra arte e poesia. Rose cristallizzate, sospese nel tempo, adornate da fondali pittorici di diversa origine materica. Un intreccio tra arte e poesia figurativa come strumento per suscitare emozioni e portare alla riflessione. È questo il tema attorno al quale è stata sviluppata la mostra “Fermare il tempo” proposta dalla 1^ Circoscrizione in collaborazione con l’Associazione Culturale STUDIO 69, dove saranno esposte le opere dell’artista Gianluca Baggio. “La mostra ha il duplice scopo di valorizzare gli artisti nelle loro diverse espressioni e di rendere il quartiere dei Filippini centrale nel panorama culturale cittadino” ha detto il presidente della Circoscrizione 1^ Lorenzo Dalai. “Fermare il tempo": a mostra trae il titolo dalle opere dell’artista Gianluca Baggio, rappresentanti rose vere cristallizzate nel tempo, posate su sfondi pittorici di diversa origine materica che uniscono l’arte alla poesia. Nel percorso espositivo sarà inoltre possibile vedere una selezione di opere del periodo astratto dalla forte carica simbolica e di denuncia dei nostri tempi. Infine, una speciale sezione dedicata a Benedetto Bartolini, artista dallo stile geometrico che da qualche anno si è avvicinato alla fotografia unita alla pittura. L’evento è stato presentato nella mattinata del 4 aprile in Sala Delaini dal presidente della 1^Circoscrizione Lorenzo Dalai e dall’artista e presidente dell’Associazione culturale STUDIO 69 Gianluca Baggio. Presente anche il consigliere comunale e coordinatore della Commissione Cultura della 1^Circoscrizione Andrea Trombini. “Voglio ringraziare il Comune di Verona per l’eccezionale supporto dimostrato nella realizzazione della mostra. – ha dichiarato Baggio – saranno esposte circa 40 opere che comprenderanno delle rose cristallizzate che vanno a fermare il tempo accompagnate da poesie. Una commistione tra l’oggetto, che suscita emozione, completato poi da una lettura.”... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Guarda "NINNA NANNA NANNA NINNA - CLAUDIO BAGLIONI (Versione diversa)" su YouTube
youtube
NINNA NANNA NANNA NINNA* (RCA 1974)
*Lingua: Italiano (Laziale Romanesco)
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*Ninna nanna è la guerra che viviamo tutti, quella di tutti i giorni con le invidie, l'arrivismo, la guerra dei poveri, che forse è la peggiore, quando poi i potenti si spartiscono la torta.
corinna - [email protected]
Quale attualità ancora conservano, questi versi di Trilussa (musicati da Claudio Baglioni con estremo rispetto per il testo poetico originario)!
Una stretta attualità che è vieppiù messa in rilievo dall'uso del dialetto romanesco, atto a conferire una sorta di pragmatico fervore a questa saggia e lungimirante - benché ovviamente assai amara - denuncia delle convenzioni, degli accordi sottobanco, dei minuetti di potere, degli opportunismi e delle falsità che ogni guerra porta con sé assieme al suo carico di distruzione, miseria e lutti.
Può essere interessante leggere le parole dell'autore su "Ninna nanna nanna ninna", da lui incisa nel 1974, a 23 anni d'età, e contenuta nell'album da studio "E TU..." (una scelta fra l'altro assai peculiare, trattandosi di un disco per il resto assai lieve nelle sue tematiche romantiche, giovanilistiche ed amorose, come emerge immediatamente anche dalla sua copertina: http://www.baglioni.it/70_4.htm ).
Il brano fu censurato in RAI.
Dal libro "Claudio Baglioni - Il romanzo di un cantante", Lato Side editore, 1978:
"Questa canzone io l'ho chiamata 'Ninna nanna nanna ninna' ed era tratta da una poesia di Trilussa, 'Ninna nanna della guerra', che io ho modificato qua e là ma che ho lasciato sostanzialmente identica nel contenuto, ed è forse la canzone di quel 33 a cui tengo di più; arriva la proposta della televisione di partecipare ad una trasmissione tutta nuova e rivoluzionaria, una rassegna dove intervenivano molti cantautori, c'era anche Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Riccardo Cocciante; la manifestazione si svolgeva a Gaeta, ed era la solita vecchia 'Caravella di successi', rimessa a nuovo e presentata da Bruno Cirino. L'unica condizione che io posi alla mia partecipazione fu quella di poter cantare quella 'Ninna nanna', che era stata censurata in radio e che volevo che la gente sentisse, proprio perché era un pezzo per niente tranquillizzante. Mi dicono di sì ed io sono molto contento di poter far sentire una cosa diversa, che non avvalora l'immagine che molti hanno di me. Due giorni prima di questa trasmissione rivoluzionaria, che poi a me è sembrata molto più brutta di certe trasmissioni tradizionali, mi fanno sapere che ci sono due o tre parole che non si possono cantare in televisione, e che bisognerebbe modificare un po' il testo... Ed io ancora una volta mi fido e, pur di cantare questa canzone, accetto di fare le modifiche che mi chiedono, anche perché il senso del pezzo rimaneva identico. Faccio le modifiche e poche ore prima della trasmissione mi fanno sapere che è meglio che la canzone così modificata non la canti, perché se qualche giornalista si fosse accorto che erano state cambiate delle parole rispetto alla versione del disco, avrebbe potuto scrivere che la televisione censurava i pezzi ... A questo punto mi sento preso in giro e decido di non cantare per niente, ma ormai avevo già un piede sul palco, e tieni conto che in queste prove di forza io sono, oggettivamente, la parte più debole, e la riprova di questa debolezza, diciamo di classe, è data dall'episodio di Francesco De Gregori, che conobbi proprio in quell'occasione e che venne truffato in modo ancora meno sottile, a lui non proposero neppure le modifiche, gli fecero cantare il pezzo su Mussolini e poi lo tagliarono integralmente".
Alberta Beccaro - Venezia -
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Rexhep Shahu: La voce poetica della sofferenza e della speranza. A cura di Alessandria today
Un tributo di Alessandria Today al poeta albanese che intreccia dolore, memoria e resilienza nei suoi versi.
Un tributo di Alessandria Today al poeta albanese che intreccia dolore, memoria e resilienza nei suoi versi. Biografia dell’autore: Rexhep Shahu Rexhep Shahu, nato nel 1960 tra Kukës e Prizren, è uno dei più autorevoli poeti e intellettuali albanesi contemporanei. Laureato in Lingua e Letteratura presso l’Università di Scutari, ha dedicato la sua vita alla cultura e alla poesia. La sua carriera…
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è "Margherita dolcevita" di Stefano Benni.
Margherita Dolcevita è una ragazzina che sa guardare il mondo. Le bastano un cuore appena difettoso e qualche chilo in più per aggiungere sale e ironia alla sua naturale intelligenza. Compatisce con affetto le stramberie della sua famiglia e volentieri si perde nel grande prato intorno alla sua casa, ultimo baluardo della campagna ormai contaminata dalla città e dimora della sua amica invisibile: la Bambina di polvere. Ma improvvisamente, come un fantasma di notte, di fronte alla casa di Margherita appare un cubo di vetro nero circondato da un asettico giardino sintetico e da una palizzata di siepi. Sono arrivati i signori Del Bene, i portatori del "nuovo", della beatitudine del consumo. Amici o corruttori? La famiglia di Margherita cade in una sorta di oscuro incantesimo: nessuno ne resta immune. E su chi fa resistenza alla festa del benessere, della merce e del potere s'addensa una nube di misteriose ritorsioni. Margherita sospetta un piano diabolico ed è pronta a mettere in gioco tutta la combattività e l'immaginazione per scoprire in quale abisso di colpevole stoltezza il suo piccolo mondo, e forse il mondo intero, sono precipitati.
“Margherita Dolcevita” è un romanzo particolare. E, in effetti, è una storia ironica, divertente, una favola senza tempo e dal finale totalmente spiazzante. Il racconto ha come protagonista l’adolescente col cuore malandato, Margherita, che ama i libri e la poesia, il cui sguardo va oltre le apparenze e la fantasia non ha confini: un personaggio davvero fuori dagli schemi, assolutamente fuori posto in una società moderna, ma che invece risulta essere la persona più “normale”. Scrive poesie brutte, incipit di racconti mai finiti, e inventa titoli di libri ostentando tanta sicurezza da farli sembrare veri. Un piccolo personaggio geniale che passa da momenti estremamente infantili all'argutezza non proprio di una ragazza della sua età, fino alle polemiche di una donna di ottant'anni. Ha i capelli biondi e ricci (come i fusilli) e non è un personaggio idilliaco, ma come tutti gli adolescenti ha caratteristiche uniche e imperfette che la rendono totalmente umana: è una ragazza positiva, onesta, sincera e coraggiosa.
“Margherita Dolcevita” è un romanzo che spinge il lettore a riflettere sui contorni sempre più netti che sta via via assumendo la nostra società: la ricerca della perfezione, il consumismo, la distruzione del nostro pianeta e il disinteresse verso il prossimo. Non è un semplice libro per bambini, ma un atto di denuncia, a volte celato, a volte evidente e diretto. Fa riflettere su ciò che conta davvero e sull'importanza dei buoni sentimenti, come la generosità, l’amicizia, l’affetto familiare, l’umiltà. La fantasia di Margherita è una barriera protettiva contro le minacce incombenti dell’era moderna, che annullano la creatività e la personalità dell’individuo e che, se ignorate o sottovalutate, diventano ogni giorno più forti e pericolose. È necessario, dunque, combattere per ciò in cui si crede, rispettare se stessi e gli altri, non aver paura di mostrarsi per quello che si è.
Può sembrare un romanzo cupo e triste, e forse in fondo un po' lo è, ma si tratta della vita.
Quel che è certo è che Benni ci proietta in un mondo di riflessioni: ci si ritrova spesso a pensare a tutte le nostre scelte, ai nostri modi di agire e alle loro conseguenze. Fino a capire che, alla fine della storia, il progresso della società ci spinge verso un mondo più comodo ma anche, per certi versi, peggiore perché fa dimenticare la bellezza di alcuni valori. Questo non vuol dire, però, che ci si debba arrendere: Margherita ne è l'esempio più vivo e lampante.
Non esiste una biografia vera e propria di Stefano Benni - fanpage autore, perché, da trent'anni, si diverte a modificarla, arricchirne dii particolari e di aspetti spesso inventati! Basti pensare che Benni si è cimentato a costruirsi almeno dodici biografie diverse! Eccone una che, però, è quasi vera. Nasce nel 1947 a Bologna ma la sua infanzia è sulle montagne dell’Appennino, dove fa le prime scoperte letterarie, erotiche e politiche. Gioca a pallone ma la sua carriera è interrotta da un infortunio. Studia al classico con risultati non eclatanti, l’università non fa per lui: cambia due o tre facoltà, ma intanto ha cominciato a scrivere. Inizia a fare l’attore, ma non guadagna una lira. È un’esperienza che gli servirà dopo. Lavora in alcuni giornali, poi Fruttero e Lucentini lo scoprono sulla rivista “Il Mago”. Scrive articoli per il Mondo, Panorama, Espresso e soprattutto per il Manifesto. Durante il militare scrive “Bar Sport”. Con i primi soldi viaggia... Ha scritto più di venti libri. È momentaneamente vivo e in buona salute.
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La realtà poetica di Mario Giacomelli
di Enzo Carli
--- Mario Giacomelli, all’unanimità di critica e pubblico uno dei più altri fotografi del nostro tempo, stroncato da una grave malattia il 25 Novembre 2000, cavalca nei paesaggi infiniti dell’anima. Nato a Senigallia il 1 agosto del 1925, inizia la sua attività di fotografo la vigilia di Natale del 1952. Si regala una fotocamera Comet e si reca sulla spiaggia per fotografare il mare; per riprodurlo mosso, animato, muove la macchina.
Mario Giacomelli, L’approdo, 1952 © Archivio Mario Giacomelli
Nasce la sua prima fotografia, “L’approdo”, con la quale si allontana, consapevolmente, dalla tradizione della fotografia purista. La sua partecipazione al gruppo fotografico senigalliese “Misa” fondato da Giuseppe Cavalli (con Paolo Monti tra i teorici e fondatori della “nuova fotografia italiana”) permette a Giacomelli di uscire dall’ambito della piccola città di provincia per inserirsi in un panorama di ampio respiro culturale, più congeniale alle sue motivazioni ed aspirazioni. Eppure le opere più importanti del grande Maestro sono legate indissolubilmente alla sua terra: “Pur sentendomi un realista (mi ha detto Giacomelli) ho scoperto che la poesia è il linguaggio con il quale credo di poter fuggire dalle formule della banalità quotidiana. Lo spazio non è più appiattito, le cose che vedevo sempre uguali, le stesse strade, la stessa gente della mia città, pensando alla poesia, ora mi sembrano modificate, tutto sa di avventura che mi coinvolge in esperienze nuove, mi fa vivere in territori immaginari”. Nel 1955 vince il primo premio per il miglio complesso di opere alla seconda mostra nazionale di fotografia di Castelfranco Veneto. Paolo Monti che presiede la giuria, dirà che Giacomelli è l’uomo nuovo della fotografia italiana. Nel 1957 è inserito nella prestigiosa raccolta “Photography Year Book, London” e nel 1958 in “U.S.Camera, First Edition, New-York”. Nel 1959 sulla rivista “Fotografia”, il compianto critico Giuseppe Turroni, parla già di Giacomelli prima e seconda maniera ed in occasione della mostra tenuta presso la Biblioteca comunale di Milano nel 1959, scriverà del fotografo senigalliese come del “caso” della fotografia italiana. Ma è nel 1963 che grazie a John Szarkowsky, allora curatore della fotografia al M.O.M.A. che Giacomelli si affaccia sulla ribalta internazionale con la serie Scanno (1957), prima con l’inserimento in “Looking of Photography” e poi con una sua mostra permanente nella raccolta del Museum of Modern Art di New-York. Dopo una serie di prime fotografie a titolo tra il ‘53 ed il ‘56, probabilmente influenzato dall’amico Luigi Crocenzi (tra i fondatori nel 1954 del CCF a Fermo ed uno dei teorici e sostenitori del racconto fotografico), Giacomelli affronta i grandi temi, lasciando le fotografie a titolo per i complessi di opere. Del 1954-1956 è la serie (realizzata con una Bessamatic con obiettivo Eliar color 10,5 con flash a lampadina) sulla “Vita d’ospizio”.
Mario Giacomelli, Vita d’ospizio, 1954-56 © Archivio Mario Giacomelli
Mario Giacomelli vive l’ospizio da quando, da piccolo, seguiva la madre che per necessità vi lavorava. La storia d’amore infinito con i vecchi dell’ospizio senigalliese sono rimandi invisibili sul filo dell’esperienza. Non a caso ci ritorna nel 1966-1968 con una serie di opere dal titolo, preso da una poesia di Pavese, “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Immagini portate al limite dell’astrazione; la carne viene “bruciata” dal lampo del flash e le rughe dei volti sono le stesse della terra, le immagini rarefatte sono pervase da un profondo lirismo liciniano. Ritorna ancora nell’ospizio senigalliese con una serie senza titolo nel 1981-1983. Per nove anni dunque Giacomelli fotografa gli anziani, senza mai realizzare un reportage, senza mai l’esigenza o l’intenzione di compiere un atto di denuncia o di esprimere sdegno sociale. In un periodo in cui la fotografia è per definizione lo specchio della realtà, l’ospizio è per Mario un posto di ritrovo e di attrazione per comprendere le sue paure, esorcizzare la morte. Soprattutto per capire il tempo, fatto da un “po’ di prima e di un po’ di dopo”, dirà Giacomelli: “Non è facile fotografare la vita d’ospizio…Quella mamma che aspetta il figlio da tre anni e che mi prende la mano quando le porto le caramelle per vederla per un attimo felice e che dice che il figlio ha tanto da fare che non può venire a trovarla…Vado all’ospizio per un mio bisogno interiore. In alcune immagini con il bianco ho tolto la materia, togliendo i particolari distruggo la realtà; le deformazioni, le sfocature tolgono il troppo vero per rimuovere la poesia.
Mario Giacomelli, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, 1964-68 © Archivio Mario Giacomelli
Non ho fatto belle immagini, mi sono solo nascosto in un posto che altri chiamano ospizio e che per me era un grosso specchio che permetteva di guardarmi dentro…sentivo quindi che le mie paure non erano cose inventate ma cose che io già vivevo e delle quali ero prigioniero”.
Dal 1955 fino alla fine lavora sul paesaggio della sua terra, come un’opera aperta, un capitolo fondamentale del suo lavoro d’artista ed un’eccellente chiave di lettura delle sue intime convinzioni. “Io non ritraggo paesaggi, ma i segni e la memoria dell’esistenza”. Sono tagli come le pieghe che l’uomo ha nelle sue mani, come le rughe dei vecchi dell’ospizio, come le lacerazioni della natura e dell’umanità, determinate dal flusso traumatico del tempo. Tra il 1961 ed il 1963 è la serie “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”. In questa serie fantastica dei “pretini” riprese nel seminario vescovile di Senigallia, le immagini sono sospese, le tonache gonfiate come piccole mongolfiere e la trasgressione iconica di Giacomelli raggiunge il vertice dell’astrazione.
Mario Giacomelli, Io non ho mani che mi accarezzino il viso, 1961-63 ©Archivio Gustavo Millozzi
Tra il 1964 ed il 1966 propone la serie dal titolo “La buona terra”, una saga epica, scandita dal trascorrere dei cicli, delle stagioni, caratterizzata dall’antico rituale contadino. Le immagini si sviluppano sul filo del reportage-racconto con la partecipazione di Giacomelli che dopo l’ambientazione (riprende la vita di una famiglia patriarcale nei dintorni di Senigallia) socializza con i protagonisti, li segue nei lavori dei campi e nei momenti di festa. Ancora una volta non è un documento realista di intenti politico-sociali, ma una rivisitazione del tempo, del ricordo e della memoria contadina.
Mario Giacomelli, La buona terra, 1964-66 © Archivio Mario Giacomelli
Degli anni 1971-1973 è la serie “Caroline Branson” tratta da Spoon River Antology di Edgar Lee Master, una storia d’amore densa di significati, sostenuta da segni graffianti, da elementi naturalistici, quasi a sottolineare la drammaticità della storia, in un alternarsi di immagini suggestive, di forte impatto emozionale, “caricate” con la doppia esposizione. Anche qui, nel pretesto della storia senigalliese, ecco l’intensità della notte cosmica, del buio dei ricordi, dell’assenza/presenza dello spazio-tempo.
La fotografia di Giacomelli è quindi una trasformazione di intime convinzioni; un realismo magico filtrato dal ricordo ed intriso di poesia. Immagini come autoanalisi, come specchio dell’esistenza che attingono nei viaggi dei territori immaginari dei suoi spazi interiori. La fotografia è per lui una rievocazione di interessi che spaziano, nella sua terra, nei cicli e nelle stagioni della vita e della comunicazione. Sono reticoli di memorie, riporti quasi invisibili del suo universo mentale che gli permettono di vivere nelle pieghe della materia e in un reale immaginario, la gioia della creazione e della conoscenza.
Mario Giacomelli, Caroline Branson da Spoon River, 1968-73 ©Archivio Mario Giacomelli
Giacomelli affronta con la fotografia temi gravi ed inquietanti e li riporta carichi di poesia, nella loro dignità originaria, senza dogmi ideologici o stilemi accademici. Rifugge dalle presunzioni, abbastanza usuali tra gli artisti contemporanei; sa che il dovere di ogni ricerca è di ritrovare l’autenticità di un rapporto con i vari aspetti della vita, conoscere i legami tra le forme espressive e recuperare l’influenza del nostro patrimonio e della nostra origine. Subisce la desolata impotenza dell’uomo di fronte alla deformità e al male; i suoi segni fotografici trasmettono queste sensazioni.
Con immagini accentuate dai contrasti luminosi, dagli sfocati, dagli ingrandimenti della grana, intende superare l’angoscia del dolore e della solitudine per trasmetterci sempre un messaggio di speranza. “ […] Mi interessa la gioia che ho provato nel momento in cui ho scattato, la tensione che ho avuto di fronte all’immagine. Ecco, da quel momento (sostiene Giacomelli), l’immagine non muore più, rimane dopo la mia morte…Vorrei fuggire da questa realtà ed entrare in quella inutile della poesia”.
“Avanti! Si accendano i lumi nelle sale della mia reggia! Signori! Ha principio la vendita delle mie idee". Così inizia la poesia di Corazzini da cui Giacomelli trasse ispirazione per una delle sue ultime opere che da lui prende in prestito il suo titolo. Così ha deciso di concludere la propria "ricerca" liberandosi del suo bagaglio artistico e intellettuale; capovolgendo il concetto stesso di poesia, confutando l'idea di purezza e intimità fine a sé stessa di cui si è sempre accontentata. Ci mostra, invece, come concepisse la sua ricerca con più distanza: esattamente come durante un'asta, quando le idee personali diventano quelle dell'acquirente; allora sembra chiaro che le interpretazioni che vogliamo attribuire loro non sono che le nostre. Alla base di questo ragionamento c'è la consapevolezza che la vita è mutevole: non le cose materiali, ma la natura stessa delle idee che vengono deformate, assemblate e amplificate, perdendo e acquistando continuamente significato.
Fu infatti nella sua ultima opera, “Interrogando l'anima”, che Giacomelli riconsiderò il suo percorso dentro e fuori la poesia, fornendoci altre chiavi di lettura della sua opera.
Mario Giacomelli, Interrogando l’anima, 2000 © Archivio Mario Giacomelli
Non fece altro che raggruppare le sue opere precedenti (anche mescolandole ad altre), dotando ogni gruppo di serie di un nuovo titolo, e quindi di nuovi spunti di riflessione a volte totalmente diversi dalle precedenti interpretazioni. Facciamo un esempio: le immagini di "Pretini", che portavano come titolo il bellissimo verso di una poesia di padre David Turoldo, “Io non ho mani che mi accarezzino il volto”, assumono un significato completamente diverso in questa ultima raccolta, che non è altro che un riassunto del suo lavoro più ampio con un titolo che per l'occasione è diventato “La spensieratezza”. Le differenze tra i due titoli gettano nuova luce sullo stesso racconto fotografico: inizialmente, il titolo tratto dal poema esprimeva una certa malinconia perché ci evocava - nel contesto di queste immagini in cui i preti giocano insieme, divertiti e spensierati - l'indossare della tonaca e, da lì, la totale solitudine del corpo privato di ogni contatto fisico. Il nuovo titolo non è più un riferimento alla loro solitudine esistenziale, ma un semplice richiamo all'emozione (quella della spensieratezza, quindi) che li invade in quei momenti, e che le immagini immancabilmente commentano.
In questo gioco di specchi che è la sua opera, Giacomelli a sua volta gioca con il costume dell'artista e diventa il suo stesso “imbonitore”, che proclama a gran voce che “inizia la vendita delle sue idee”.
Anzi, se torniamo a “Bando”, possiamo osservare che la sua immaginazione è piena di segni, segni del passare e del riciclo del tempo, proprio come i tentativi del poeta di liberarsi dai suoi versi per crearne di nuovi, o come quelli che il venditore vuole liberarsi della sua merce obsoleta per sostituirla. Questo simbolismo cerca a sua volta (gioco degli specchi) di liberarsi dalla retorica comunemente accettata che mette la poesia al di sopra di ogni cosa, perché la poesia non rappresenta la vita, ma la trasfigura e la dispiega nel tempo.
Mario Giacomelli, Bando, 1979 © Archivio Mario Giacomelli
Pensiamo alle finestre sfondate, alle poltrone sventrate, al legno marcio e ai telai di cemento a vista che compongono alcuni scatti della serie a tema “Bando”, questo microuniverso fatto di linee interne, scatti che, al di là del loro ermetismo, esprimono la disintegrazione della materia sotto l'influenza del tempo e fa appello all'immaginazione. Pensiamo ora ai burattini, alla maschera, ai corvi (un riferimento al poema oscuro “The Raven”, di Edgar Allan Poe), ai cani, alle ombre allungate, alle talee nell'albero, ai vecchi nell'ospizio, al viaggio a Lourdes, al mare e alla terra, a tutti questi temi vasti e complessi che compongono il racconto finale dell'artista e del suo contributo al mondo nella serie Interrogando l'anima. Capiamo allora che l'immagine fotografica può diventare un racconto che ci parla più o meno direttamente del viaggio interiore di un uomo.
Mario Giacomelli partecipa con grande determinazione e rigore all’elaborazione del Manifesto dei Fotografi del Centro Studi Marche, poi denominato il “Manifesto dei Fotografi del Passaggio di Frontiera” (Senigallia,1995). Il Manifesto, coordinato da Enzo Carli, vede la partecipazione di fotografi di varie tendenze tra cui oltre a Giacomelli, Gianni Berengo Gardin, Ferruccio Ferroni, Giorgio Cutini, Luigi Erba.
Il Manifesto, premio nazionale Città di Fabriano 2013, si collega al Manifesto della Bussola (1947) per puntualizzare il processo di innovazione della fotografia contemporanea. La proposta artistica insiste sulle imprescindibili istanze espressive del fotografo legate al proprio vissuto emozionale, alle tensioni maturate lungo il personale percorso sulla via della conoscenza e della ricerca dell’originalità. “Passaggio indica un’azione di oltrepassamento, il cambiamento di stato. Frontiera, termine differente da confine, è come un velo attraverso cui l’inconscio si apre alla presa dell’uomo” Galliano Crinella, Passaggio di Frontiera 1995-2004, Ed. QuattroVenti, Urbino 2013)
Il Manifesto come punto di partenza di un interessante percorso esplorativo che a sostegno dell’impianto teorico, prevedeva come modus operandi una serie di Verifiche con una duplice chiave di lettura, individuale e collettiva tra linguaggio, spazio, tempo, percezione e bellezza, colore e formattazione.
Chi scrive è stato per tanti anni suo affettuoso allievo ed amico; la sua grande pazienza, premurosa attenzione e sincera disponibilità mi hanno permesso di “entrare” nel suo reale immaginario, comprendere il suo viaggio interiore, là dove la morte non ha più dominio.
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vedi anche: Il reale e l’immaginario
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Giacomelli e Carli, 1995, © Giacomo Ilari
Biografia essenziale:
Enzo Carli, sociologo, giornalista e per necessità fotografo, ha partecipato a mostre, dibattiti e convegni sulla fotografia in Italia e all’Estero. Affettuoso allievo e amico di Mario Giacomelli, è autore di saggi e pubblicazioni sulla fotografia e sulla comunicazione per immagini. È stato consulente di enti pubblici e privati sulla fotografia a livello nazionale e internazionale; direttore artistico di Human work, progetto europeo sulla fotografia( Italia, Spagna, Germania, Romania), ha collaborato con la Biblioteca Nazionale di Francia (BNF) in occasione della Mostra :”Metamorfosi” di Mario Giacomelli (2005/2006) , con il Metropolitan Museum di Fotografia di Tokyo, con la Galleria Berthet di Parigi ; nel 2022 ha presieduto la giornata di studi su Mario Giacomelli organizzata da Serge Plantereux a Parigi. Già professore a contratto di Cultura e Sociologia della Fotografia (Università degli Studi di Camerino) e di Fotografia per la Moda, (Università degli studi di Carlo Bo Urbino), nel 1996 è stato inserito negli aggiornamenti culturali dell’Enciclopedia UTET per Mario Giacomelli;nel 2015 ha ricevuto il Premio della critica e nel 2020 il premio per la didattica nella fotografia. E’ stato Responsabile delle Teoretica e direttore del Dipartimento Comunicazione per la Federazione Italiana Associazioni Fotografiche, FIAF.Coordinatore del gruppo fotografico I fotografi del Manifesto dal 1995 al 2008, Premio nazionale di fotografia Gentile da Fabriano 2013 per il Manifesto Passaggio di Frontiera, ai tempi del Corona virus è stato direttore artistico di ViVi, Visioni Virtuali. Al suo attivo numerose pubblicazioni di critica, cultura e storia della fotografia e fotolibri (Alinari, Fabbri, Charta, Gribaudo, Il Lavoro Editoriale, New Art Diffusion Co., Ltd., Tokyo, Metropolitan Museum of Photography, Adriatica Editrice, Edizioni Lussografica, Ideas edizioni, Quattro venti, ecc). Collabora a Fotopadova dal 2016.
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Poesia è dunque per me avventura, viaggio, scoperta, vitale reperimento degli idoli della tribù, tentata decifrazione del mondo, cattura e possesso di frammenti del mondo, nuda denuncia del mondo in cui si è uomini, cruento atto esistenziale.
Bartolo Cattafi
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Ed eccoci giunti all'ultimo post dell'anno e, per concludere in bellezza, di seguito trovate le dieci meraviglie che ho scoperto nel 2020. Questa lista sarà un po' strana: innanzitutto i libri non sono classificati in base al punteggio in stelline che gli ho assegnato, infatti alcuni libri da quattro stelline e mezzo sono più in alto in classifica rispetto a libri con punteggio pieno, semplicemente ci sono dei romanzi che riconosco essere tutt'altro che perfetti ma che ho amato ugualmente. In secondo luogo ho inserito tre libri al primo posto a parimerito: sono fra le storie migliori che abbia mai letto e non avrei mai potuto scegliere un solo vincitore! Buona lettura!
8: GLI OTTIMISTI MUOIONO PRIMA-SUSIN NIELSEN (****,1/2)
Un romanzo di formazione che parla d’amore, di solitudine e di amicizia, di lutto e di senso di colpa. Il tutto trattato in modo profondo e minuzioso, ma con una pungente ironia che alleggerisce la storia. Un libro che mi ha tenuto compagnia facendomi ridere ed emozionare e che consiglio moltissimo.
7: DIVISA IN DUE-SHARON M DRAPER (*****)
Ho conosciuto l’autrice grazie a Melody, un libro che ho letto e amato qualche anno fa, e, ancora una volta, sono rimasta stupita dalla sua bravura nello scrivere e nel trattare di temi come la disabilità, in Melody, e il razzismo, in Divisa in Due. Sono sicura che coloro che hanno amato Wonder non potranno che rimanere ammaliati anche da questi due libri.
6: TENEBRE E OSSA-LEIGH BARDUGO (*****)
Tenebre e Ossa è il primo romanzo scritto da un’autrice fenomenale che sicuramente è la mia preferita fra quelle scoperte quest’anno. La Bardugo è evidentemente dotata di poteri sovrannaturali che le permettono di rendere incredibile tutto ciò che scrive. Più probabilmente invece questo è semplicemente il risultato di un grande talento sommato a dedizione e cura dei minimi dettagli.
5: FALCE-NEAL SHUSTERMAN (****,1/2)
Quando fantascienza e distopia incontrano il genio di Neal Shusterman e una profonda riflessione sull’immortalità nasce quel libro incredibile che è Falce. Un romanzo che forse non ha dato il massimo per quanto riguarda i personaggi, ma che dà da pensare come pochi altri.
4: L’ATTRAVERSASPECCHI (PRIMI 2 VOLUMI) -CHRISTELLE DABOS (*****)
Una saga bizzarra ed estremamente originale che probabilmente, se non fosse per la sua infelice conclusione, si sarebbe piazzata anche più in alto in questa classifica. Ho amato tutto di Fidanzati dell’Inverno e gli Scomparsi di Chiardiluna e non posso che consigliare caldamente la serie d’esordio della Dabos di cui ho già parlato in quattro post sul blog.
3: IL SILENZIO DELL’ACQUA-LOUISE O’NEILL (****,1/2)
Questa rivisitazione femminista della celebre storia della Sirenetta mi ha colpita moltissimo, si tratta di una denuncia chiara e molto cruda della società odierna attuata tramite una fedele rielaborazione della fiaba che tutti conosciamo. Un ottimo esempio di come la letteratura, anche fantasy, non sia solo un modo per evadere dalla realtà, ma anche una lente tramite cui comprenderla.
2: IL PRIORATO DELL’ALBERO DELLE ARANCE-SAMANTHA SHANNON (*****)
Un romanzo epico e indimenticabile che presenta un mondo vastissimo dalla cultura ricca ed elaborata. La Shannon ha uno stile che ho apprezzato molto e che ci accompagna alla scoperta del suo mondo, dei suoi personaggi e di tutto ciò che crea in queste 800 pagine di pura meraviglia.
1: SEI DI CORVI-LEIGH BARDUGO (*****)
Quando si dice che la perfezione non esiste Sei di Corvi e Regno Corrotto, i capolavori della Bardugo, sono ottimi contro argomenti. Questa saga presenta una trama e dei personaggi spettacolari che mi hanno fatta innamorare sin dai primi capitoli e che, se fosse per me, dovrebbe essere letta da tutti. Ho spiegato più approfonditamente la mia opinione sulla serie in due post, ma essa può essere facilmente riassunta con la parola “adorazione”.
1: IL MARE SENZA STELLE-ERIN MORGENSTERN (*****)
Il Mare Senza Stelle non è un libro, ma una poesia che parla direttamente al cuore dei lettori. Leggerlo è un sogno fatto di carta e inchiostro stampato. Un romanzo estremamente simbolico e atmosferico che crea una moltitudine di sensazioni vividissime abilmente orchestrate dallo stile onirico della Morgenstern. Questo, come anche gli altri libri al primo posto di questa classifica, non è solo il più bel libro del 2020, ma anche uno dei migliori che abbia letto da quando ho preso in mano un libro la prima volta.
1: 1984-GEORGE ORWELL (*****)
Il gruppo di lettura che sto seguendo, che tante volte ho nominato nella lista dei libri peggiori del 2020, ha recuperato notevolmente facendomi scoprire uno dei miei libri preferiti con la lettura del mese di dicembre. 1984 è un classico geniale, un capolavoro estremamente contemporaneo pur essendo un libro così vecchio, il padre della letteratura distopica. Leggendo questo romanzo si rimane sconvolti dalla sensazione di star leggendo della nostra attualità pur trattandosi di un romanzo di quasi un secolo fa e dallo stile moderno del suo autore.
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