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“Il portale dell’umanità” di Cinzia Rota: una poesia potente che celebra connessione, diversità e armonia nel mondo digitale. Recensione di Alessandria today (Grazie Google news)
Autore: Cinzia RotaAnno di pubblicazione: 2025Genere: Poesia contemporaneaValutazione: ★★★★★ Recensione “Il portale dell’umanità” è una poesia che si apre come uno scrigno di luce tra le pieghe della modernità. Con straordinaria sensibilità, Cinzia Rota riesce a trasfigurare l’immagine fredda e impersonale della tecnologia in una metafora calda e vibrante di umanità connessa, di diversità che…
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Per la casa Editrice Einaudi una nuova collana di libri “Unici”:
“Un vero e proprio spazio di libertà”

"Sentivamo il bisogno di uno spazio in più, di un vero e proprio spazio di libertà. E di scommessa, di rischio. Uno spazio per autori che pubblicano il loro primo romanzo, magari dopo aver pubblicato qualche saggio o racconto o poesia”. Dalia Oggero, editor della narrativa italiana di Einaudi, intervistata da ilLibraio.it presenta la nuova collana, “Unici”: “Il nuovo che ci interessa non è il nuovo a tutti i costi, è il nuovo di chi ha trovato una via, la sua via, per tradurre un sentimento che si è fatto formale…”

Continueremo a fare esordienti nelle altre collane, Supercoralli, Coralli e Arcipelago, ma negli Unici avremo la possibilità di pubblicare dei libri che non sempre avrebbero potuto trovare la loro collocazione naturale nelle altre collane. Si tratta di romanzi che abbiamo amato molto, prima di tutto, e che desideriamo raggiungano un pubblico vasto. Romanzi che ci hanno folgorato per la loro natura molto particolare, personalissima: unica, appunto”, spiega a ilLibraio.it Dalia Oggero, editor della narrativa italiana di Einaudi e curatrice della nuova collana di via Biancamano: “Gli Unici sono davvero, nella nostra testa, uno spazio per ciò che prima non aveva forma. E non una forma per ciò che prima non aveva spazio: perché lo spazio, quando ne valeva la pena, lo creavamo anche prima. Ma adesso che quello spazio c’è, le idee e le possibilità si moltiplicano”.

Ma di cosa parliamo quando parliamo di libri “unici”? Per Oggero si tratta di testi “unici per ragioni diverse: strutturali, stilistiche, tematiche. Hanno come tutti dei fratelli, naturalmente, ma sono unici ognuno a modo suo, come si capirà quando vi racconterò i primi titoli. Elias Canetti, nei suoi Appunti, scriveva: ‘Poiché esiste una quantità infinita di nuovo, non esistono storie nuove’. Nel nome del nuovo, si sa, sono stati compiuti i peggiori misfatti: il nuovo che ci interessa non è il nuovo a tutti i costi, è il nuovo di chi ha trovato una via, la sua via, per tradurre un sentimento che si è fatto formale. Dietro ai testi che pubblicheremo c’è sempre, ma proprio sempre, la vita. La forma, che in questi libri è sostanza, nasce dentro l’esperienza e per questo è centralissima”.

Faremo tre titoli all’anno. Le collane, va da sé, sono fatte di punti che disegnano una linea; la cosa migliore, quindi, è raccontare un po’ più nel dettaglio i singoli titoli del primo anno. Filippo Maria Battaglia (giornalista di Sky TG24, che ha già firmato saggi e inchieste pubblicati da Bollati Boringhieri, tra cui Stai zitta e va’ in cucina. Breve storia del maschilismo in politica da Togliatti a Grillo e Ho molti amici gay. La crociata omofoba della politica italiana, ndr) inaugura la collana con Nonostante tutte, un romanzo di cui paradossalmente non ha scritto neanche una frase. Il suo è stato un gigantesco lavoro di lettore: ha scandagliato migliaia di memorie di donne del Novecento e ha lasciato parlare le loro voci, accostandole l’una all’altra perché raccontassero tutte insieme un’unica storia: la storia di Nina. Ne vien fuori un libro sulle donne diverso da tutti gli altri: unico, appunto. Perché al posto di parlare dell’oggi resta avvinghiato alle radici, al Novecento, e fa parlare i documenti senza aggiungere un commento. Accosta delle voci vere e lascia fare a loro”.

Ad aprile, anticipa Oggero, uscirà il debutto di Francesca Valente, vincitrice del Premio Calvino 2021 con Altro nulla da segnalare, “che ha fatto un viaggio in qualche modo affine, a partire da un materiale vivo, di carta e di carne: le sue storie di pazienti, psichiatri, infermieri di un grande ospedale italiano all’indomani della Legge 180, nascono infatti dai rapportini scritti a mano a fine turno e dai ricordi di chi quell’esperienza l’ha vissuta in prima persona”.

La terza voce dell’anno, “a ottobre, è quella di Marco Annicchiarico, con I CuraCari, un romanzo sul legame tra un figlio caregiver e la madre anziana, che perde un pezzo di memoria ogni giorno, un libro in cui la dimensione del tragico riesce miracolosamente a dialogare con quella ironica, vitale, potenziando la forza di una storia in cui molti riconosceranno la loro”.

Quanto al 2023, “ci saranno Samuele Cornalba, che ha vent’anni e talento da vendere, Girolamo Grammatico e il suo lavoro tra i senza dimora di Roma, Alessandra Mureddu e il gioco d’azzardo, Marta Cai, con un romanzo che sembra fatto di niente eppure è fatto di tutto…”.

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“Vogliamo vivere momenti di pura grazia… scrivo attraversando la nebbia”. Dialogo con Mariadonata Villa
Per chi segue le vicende della poesia italiana contemporanea, il nome di Mariadonata Villa non è sicuramente sconosciuto, benché si possa definirla una pacifica “appartata”. Tutt’altro che aliena dai rapporti artistici, certo, ma anche distante dall’affannoso presenzialismo e attivismo che in tante penne sembra surrogare la ricerca profonda, lo scavo del verso, la progettazione dell’architettura.
Poetessa fino ad oggi di un solo libro, quell’Assedio pubblicato nel 2012 con Raffaelli e finalista al premio Carducci, Mariadonata è anche un’eccellente fotografa e un’appassionata traduttrice di poesia anglo-americana, capace di mettere nella sua faretra autori come Seamus Heaney e Les Murray, con il quale ha condiviso anche un’amicizia epistolare decennale.
Autori, quelli citati, che rivivono nella sua poesia soprattutto nella facoltà immaginativa, nella capacità di restituire la presa dello sguardo in una rappresentazione rimeditata, a un tempo naturalistica e metafisica. Ecco perché, in occasione del suo secondo volume di versi, Verso Fogland (Minerva, 2020, 10 euro), è stato naturale chiederle non tanto di parlare del libro, quanto di raccontare invece quel suo esercizio dello sguardo che rende le cose immagini e le immagini poesia. (d.g.)
Uno dei tuoi poeti prediletti, Seamus Heaney, scriveva guardando la campagna venirgli incontro mentre guidava. Sia per temi, sia per luoghi, Verso Fogland ricorda un’elaborazione simile, una simile acquisizione delle immagini – l’attraversamento della campagna in macchina. È così? Anche tu scrivi guidando?
Sì, anche se, pur viaggiando spesso in auto, in realtà di solito sono il passeggero, e questo mi lascia gli occhi liberi. Però sì, senz’altro la pianura è il mio ambiente e la nebbia ne fa parte. Non solo quella intorno a Modena, perché per motivi famigliari mi capita molto spesso di attraversare la pianura tra Modena e Verona. Da un certo punto di vista, perciò, le immagini del libro sono tutte reali, anche se questo non fa di Fogland un luogo reale.
Un reale immaginato?
In parte. Ma quest’aspetto meditativo dell’andare e del vedere è un tratto che riconosco non tanto alla mia poesia, quanto a me come persona. Molto di quello che scrivo viene da queste grandi cavalcate nella nebbia. Di tante di queste poesie ti potrei dire l’immagine «corto-circuito» e dico «immagine» non a caso: perché negli ultimi dieci anni sono diventata un’accumulatrice di foto, ne ho 30000 nel mio archivio digitale; e perché, d’altra parte, le cose bisogna immaginarsele, bisogna che si facciano immagine.
Non è un caso che il libro si apra con un componimento che si intitola Cartografie e che racconta di un’antichissima mappa preistorica scolpita sulla pietra…
No, non è casuale, anche se io ho visto di persona quel posto solo dopo averne scritto, in maniera del tutto imprevista. È una delle più antiche rappresentazioni topografiche reali, non simboliche, a noi note, se non la più antica. Per vederla si percorre un sentiero che arriva a dominarla dall’alto, così che uno deve sporgersi e guardarla dall’alto in basso.
Quindi «l’uomo in bilico» della poesia è chiunque passi di lì?
Sì, è chiunque arrivi lì. Poi, in particolare, la poesia nasce da una foto molto di Franco Farinelli – uno dei più importanti filosofi del paesaggio – che guarda in giù a quella mappa di pietra.
Nella poesia, il corpo dell’osservatore che si sporge diventa un axis mundi: «e quell’uomo in bilico sul margine/ del mondo non si accorge/ che l’axismundi, la meridiana dell’oggi/ è il suo corpo fragile sul bilico/ è la polvere che sarà e il sangue che è/ è tutta la luce che passa». In che senso sporgersi per osservare diventa un modo di “reggere” l’universo?
Mi piaceva il corto circuito secondo cui l’uomo pensa che la rivelazione sia lo sporgersi su questa mappa, mentre invece la rivelazione è lui stesso, lui che esiste e che è lì, straniero a se stesso ma profondamente presente.
Quindi «l’uomo in bilico» è a un tempo sia l’uomo della foto, sia qualunque visitatore, sia qualunque uomo?
Sì, qualunque uomo, ma nella sua assoluta individualità.
Qualunque uomo, ma non un uomo qualsiasi…
Esatto: qualunque uomo nel suo coincidere con l’uomo tutto. Mi interessa l’aspetto per cui ogni uomo è un exemplum della specie homo, ma che per essere un exemplum deve incarnare interamente se stesso, la propria individualità.
È una questione che investe anche il rapporto tra l’uomo e l’ambiente, mi sembra…
Sì, è così. C’è un saggio degli anni Ottanta di Luigi Ghirri, un fotografo che amo molto, in cui lui rimpiange il fatto che dalle fotografie di paesaggio sia scomparso «l’omino sul ciglio del burrone», e che questo è un peccato perché l’omino dava in qualche modo l’unità di misura del paesaggio fotografato.
Una specie di autocoscienza del paesaggio?
In un certo senso sì, visto che Ghirri diceva che in un giro in bicicletta si incontra più realtà e più novità che in una crociera intorno al mondo. Ma anche in senso inverso, visto che secondo lui, se mai l’omino del paesaggio dovesse tornare nella foto, dovremmo dirgli con Cézanne «affrettati a guardare, perché tutto sta per scomparire».
Mariadonata Villa in una fotografia di Lupe de la Vallina
Si resta sull’idea dello stare in bilico.
È un’idea in cui mi ritrovo molto. Tanto che c’è un altro artista di cui parlo nel libro, Gino Covili, che in uno dei suoi quadri più famosi dipinge l’eroe con una lupa morta sulle spalle, su una sorta di crinale con davanti a sé gli uomini nel buio e dietro sé il mondo dell’Appennino illuminato dalla Luna. Come fosse il crinale tra un tempo antichissimo – che può essere l’età dell’oro, o il tempo degli eroi – e il dramma storico dell’uomo.
Mi fai venire in mente un’altra delle poesie iniziali, Paesaggio marino con cane, in cui evidenzi una sorta di iato tra l’attesa di grandi avvenimenti, dove «qualcuno aspetta apparizioni/ su tavole meno traballanti,/ il lampo improvviso della luce/ al centro […]» e l’incapacità di riconoscere e accogliere l’avvenimento dell’essere nelle maglie banali e slabbrate del quotidiano, laddove «nessuno invece aspetta nella canicola/ l’apparizione tremolante/ il cane col fianco di salsedine/ che sembra sul punto di scrollarsi».
Riguardo a questo direi che ci sono due livelli. Da un lato, venendo da studi classici, ho molto presente, anche in senso pre-cristiano, il tema dell’epifania intesa come l’apparizione improvvisa del divino, mentre la mia poesia tratta molto più di quelle che sono epifanie per me. Quindi, in un certo senso, lo iato di cui parli tu. D’altra parte, però, vedo più in generale un senso di perdita del sacro anche nell’apparizione del terribile. È come se nella trama dell’oggi che viviamo si perda anche la statura del male, oltre alla percezione del fatto che anche noi partecipiamo di questo male, di quest’ombra.
E infatti la poesia si conclude con una presa d’atto di questa distanza: «non c’è dionisiaco in un cane/ col pelo che puzza di acqua salmastra, solo l’orrore/ delle apparizioni mediocri che costellano la vita».
Sì, è come se desiderassimo vivere solo quelli che anche in modo del tutto laico possiamo riconoscere come momenti di pura grazia, quei momenti di apparizione di altro da ciò che vediamo, in cui – per così dire – avvertiamo che cambia lo spessore dell’aria.
Bella questa immagine!
La mia amica Ewa Chrusciel, una poetessa che amo molto, usa in un suo testo l’immagine di un big moment yellow, uno di quei momenti in cui si ha a un tempo desiderio e paura dell’apparizione. A me sembra che questo senso della paura lo abbiamo perduto: abbiamo una grande rabbia verso il male, ma non abbiamo più il senso del fatto che il male, come la luce, è nel tessuto dell’oggi.
È la lotta di Giacobbe con l’Angelo che con la mediazione degli U2 citi in epigrafe a un altro componimento?
Sì, ed è una metafora perfetta per la poesia, è la lotta con lo sconosciuto da te che devi in qualche modo dire e che ti lascia stremato, se non è stato un esercizio di stile. Perché gli esercizi di stile non credo che ti possano lussare l’anca, mentre la lotta di tutta una notte con qualcuno che non sai chi è, quello invece sì.
Come entra in questa prospettiva quella mancanza di immaginazione di cui a volte abbiamo chiacchierato, della disabitudine a figurarci le cose?
Sicuramente c’entra un’incapacità di chiamare le cose con il loro nome, ma anche di dare loro un ordine di grandezza adeguato. Una delle cose di cui sento sensibilmente l’avanzare, anche nel mio lavoro di insegnante, è un restringersi della lingua. E questa restrizione ha sicuramente a che fare con la perdita dell’immaginazione, ma anche con la perdita del mondo. Dante diceva che nomina sunt consequentia rerum: noi abbiamo bisogno di nominare cose che arrivano alla nostra esperienza, e uno dei canali principali è la visione.
Parliamo quindi di una perdita di esperienza, anzitutto?
Sì. Il problema della contrazione della lingua non è drammatico perché “ci perdiamo una lingua ricchissima”… Questa non è che una conseguenza ed è anche, fammi dire, un problema da letterati. Il dramma vero è che si contrae l’esperienza, non che si contrae la lingua!
Vale lo stesso con l’immaginazione, credo…
È del tutto analogo. Amici antropologi mi dicono che una delle tesi più accreditate è che l’uomo del paleolitico sia sopravvissuto non solo per le scoperte tecniche, ma perché creava racconti e immagini. Che questa capacità creativa ha strutturato il nostro cervello in modo tale da permettere la sopravvivenza in un ambiente a lui ostile e a nemici per molti versi più forti e biologicamente più attrezzati di lui.
Serve un’educazione dello sguardo.
Un’educazione dello sguardo, ma vale quello che dicevamo prima della lingua: non è lo sguardo e basta, è lo sguardo di una persona. Quando avevo otto anni, per circostanze casuali, incontrai il pittore Bill Congdon. Un incontro di pochi minuti, quasi il tempo di uno sguardo, eppure ti assicuro che di tutte le persone che mi hanno voluto bene negli anni, mai più mi è successo di sentirmi guardata così. Era uno sguardo pieno di una presenza, in cui sono potuta entrare. Ed è quello che si vede nei suoi quadri, del resto: uno sguardo che nutre la persona e una persona che affina lo sguardo, che vede la realtà e che la mette in figura della realtà.
È questo che dobbiamo cercare in Verso Fogland?
È quello che forse mi auguro di fare, tra le altre cose, scrivendo. Di creare uno spazio di visione in cui sia possibile entrare.
Daniele Gigli
*In copertina: Caspar David Friedrich, “Monaco in riva al mare”, 1810
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Quel che resta alle cimase
Quel che resta alle cimase | Versi in tempo di Covid
Quel che resta alle cimase | Poesia di Francesco Nigri Versi in tempo di Covid Quel che resta alle cimaseè un volo di rondini al silenzio d’un sogno irreale silenzio tra i soli rumoridei profumi agli steli ed il librare di sguardo all’orizzonte cheritorna al nido insazio dell’oggi d’un poi che si sfuma alle notti Ricordo e riodo purele campane agli addii solo auree elitanie di anima al…

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“umani troppo umani più umani di noi gli oggetti il creato più del creatore pietra troppo pietra rimasta in piedi parole muri di parole piccoli passi contati rigorosamente nello stagno dell’oggi scivolo scivola questa nuvola e tira giù tutto il cielo” Libri (appena usciti) di amiche poetesse. “In ginocchio fino all’arcobaleno”, Eliza Macadan, Passigli Editori. #elizamacadan #poesia #passiglieditori #libri #books #bookstagram #poeticontemporanei https://www.instagram.com/p/CHVRrDID_j8/?igshid=18cbvp7na8vre
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La musica vera è tutta qui nel rimpianto del passato e nella speranza del domani, la quale è altrettanto dolorosa. Poi c’è la disperazione dell’oggi, fatta dell’uno e dell’altra. E fuori di qui altra poesia non esiste.
D. Buzzati - Un amore
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Forme di militanza a Bologna tra gli anni ‘70 e gli anni 2000
Pubblichiamo l’audio dell’incontro tenutosi venerdì scorso alla ex-caserma Sani occupata, con la partecipazione di Pinuccio De Biasi (coordinamento antimperialista-antinucleare), Valerio Monteventi (esperienze degli spazi sociali), Renato Busarello (Lab Smaschieramenti) e Tiziana (femminista, attivista dei diritti umani di genere). 02 dicembre 2019 - 18:12 Venerdì scorso alla ex-caserma Sani occupata si è tenuto – poco dopo la straordinaria lettura musicata di Elio Germano di una poesia di Roberto Roversi – l’incontro dal titolo “Forme di militanza a Bologna tra gli anni ’70 e gli anni 2000”, all’interno di tre giorni di iniziative su “strumenti, pratiche e storie di autogestione” organizzati da Xm24 nel nuovo spazio occupato. Una genealogia dei movimenti a partire dagli anni ’70, per avere “degli spaccati di storia” e per “sapere da dove veniamo”, nata dall’esigenza di “compagne e compagni giovani che partecipano alla nuova occupazione e che hanno chiesto di poter vivere un momento in cui ascoltare la storia da chi l’ha vissuta”, con l’obiettivo di “partire dalla storia per parlare dell’oggi” e trovare spunti per “degli strumenti collettivi di autorganizzazione”. All’incontro hanno partecipato Pinuccio De Biasi (coordinamento antimperialista-antinucleare), Valerio Monteventi (esperienze degli spazi sociali), Renato Busarello (Lab Smaschieramenti) e Tiziana (femminista, attivista dei diritti umani di genere). https://ift.tt/2P9kO7N from LetteralMENTE Radio! https://ift.tt/2r8NIgo via IFTTT from CoscienzaSpirituale.net Associazione "Sole e Luna" via Clicca
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Grande attesa per il concerto di Vinicio Capossela che si terrà al Teatro delle Muse di Ancona il 15 novembre. Il concerto di Ancona è organizzato da Alhena Entertainment e Ventidieci. Ultimissimi biglietti disponibili in vendita nei circuiti TicketOne e presso la biglietteria del Teatro delle Muse (tel. 071.52525). Questi i prezzi:
POLTRONISSIMA NUMERATA: 65,00 € c.d.p.
POLTRONA NUMERATA: 57,50 € c.d.p.
I GALLERIA NUMERATA: 46,00 € c.d.p.
II GALLERIA NUMERATA: 35,00 € c.d.p.
III GALLERIA NUMERATA: 29,00 € c.c.p.
I GALLERIA VIS. LIMITATA: 29,00 € c.d.p.
II GALLERIA VIS. LIMITATA: 29,00 c.d.p.
Dopo l’anteprima nazionale al Teatro Nuovo di Salsomaggiore il 4 ottobre, è partito ufficialmente il 6 ottobre dal Teatro Galli di Rimini, il nuovo tour teatrale di Vinicio Capossela, “Ballate per uomini e bestie”.
Dopo la serie di concerti-atti unici e gli importanti live all’estero andati in scena nei mesi estivi, con l’avvio dell’autunno Capossela, come un orsante, porterà il suo spettacolo di città in città, per esibirlo nei più importanti teatri classici, di tradizione ed enti lirici italiani.
Capossela presenterà dal vivo il suo nuovo progetto discografico, “Ballate per uomini e bestie” (La Cùpa/Warner Music), undicesimo lavoro in studio uscito lo scorso maggio, un’opera di grande forza espressiva che guarda alle pestilenze del nostro presente travolto dalla corruzione del linguaggio, dal neoliberismo, dalla violenza e dal saccheggio della natura.
Con il nuovo spettacolo, pensato appositamente per i teatri, Capossela proporrà dal vivo un canzoniere che, evocando un medioevo fantastico fatto di bestie estinte, cavalieri erranti, fate e santi, mette in mostra le similitudini e il senso di attualità che lo legano profondamente alle cronache dell’oggi. Alle creature che popolano l’ultimo album del cantautore si uniranno come in una danza i personaggi e le storie di alcuni dei suoi grandi successi in un intreccio che darà vita a un viaggio nel nostro presente, nelle fratture e nelle malattie del nostro mondo, alla ricerca di possibili cure.
Ad accompagnare Capossela sul palco ci saranno: Alessandro Asso Stefana (chitarre), Niccolò Fornabaio (batteria), Andrea Lamacchia (contrabbasso), Raffaele Tiseo (violino) e Giovannangelo De Gennaro (viella e aulofoni).
L’album “Ballate per uomini e bestie” si è aggiudicato la Targa Tenco 2019 nella categoria “Miglior disco in assoluto”. La premiazione avverrà al Teatro Ariston di Sanremo il prossimo 17 ottobre nell’ambito del Premio Tenco.
Con queste parole Vinicio Capossela racconta lo spettacolo: “Dopo la palestra degli “atti unici” in luoghi e titoli che hanno declinato i temi delle “Ballate per uomini e bestie”, arriva il teatro, luogo di rappresentazione dell’immaginario. Lo spazio scenico buio, come le grotte di Lascaux, da andare a riempire con bagliori, stralci di affreschi e strofe per rileggere il mondo con gli strumenti della poesia, della filosofia e della denunzia. Un viaggio nella terra in un momento in cui uomini e bestie non si distinguono nemmeno nel genere umano. Una cantata tra le creature che inizia dalle pitture rupestri e arriva all’evo medio prossimo e venturo attraverso un bestiario di varia umanità. Danze macabre al tempo della peste, nuove e antiche tentazioni, santi e inquisizioni nel rogo digitale.
Il medioevo romantico e irragionevole dei preraffaeliti, le fiabe giocattolesche e fantasticanti di asini che diventano cantanti, sirene che diventano ballerine, Marajà corruttori di innocenti; storie di rose e di figlie di fate, di carceri e di gabbie da zoo, tentativi di evasione e continue trasformazioni delle forme in divenire. Le Pleiadi e la galassia a spirale portata sul dorso da una chiocciola. L’orsa della costellazione del cielo e l’orso buffone degli orsanti, figura ludica e cristologica che ci porta tutti in giro di città in città sul baraccone da fiera, in luogo di fierezza. E poi l’inverno, l’inverno dell’umanità, della guerra mai finita. L’inverno di un’orchestrina che suona nella neve di Auschwitz accompagnando festosamente l’immolarsi di sempre nuovi capri espiatori e una madonna umile, fatta di conchiglie, per chi in mare non trova sepoltura. Una mareggiata di poveri cristi che non rinunciano a essere UOMINI VIVI. Ovunque protetti nella metamorfosi continua e incessante che è la vita e che non lascia intatti uomini, bestie, natura e animali. Nemmeno in teatro.”
Il tour è organizzato da International Music and Arts.
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Voglio essere l’alba che non sa del suo vagito di Rosetta Sacchi: una poesia di introspezione e speranza. Recensione di Alessandria today
Rosetta Sacchi: l'alba come metafora dell'esistenza
Rosetta Sacchi: l’alba come metafora dell’esistenza La poesia Voglio essere l’alba che non sa del suo vagito di Rosetta Sacchi è un’opera carica di introspezione, che mescola riflessioni sull’incertezza dell’oggi e la speranza per il domani. Con un linguaggio poetico delicato e simbolico, l’autrice esplora i temi della vulnerabilità, della resilienza e del mistero della vita, utilizzando…
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"L’inverno è freddo" di Alida Airaghi. Recensione di Alessandria today
Un viaggio poetico tra il freddo dell’inverno e il calore dei sentimenti.
Un viaggio poetico tra il freddo dell’inverno e il calore dei sentimenti. La poesia “L’inverno è freddo” di Alida Airaghi è un’espressione profonda e intima di fuga, incertezza e desiderio di evasione. Attraverso immagini evocative e parole cariche di significato, la poetessa esplora il delicato equilibrio tra il presente e il futuro, tra il timore dell’oggi e la speranza…
#Airaghi scrittrice#Airaghi stile poetico#Alessandria today#Alida Airaghi#Alida Airaghi biografia#Alida Airaghi libri.#Alida Airaghi opere#emozioni nella poesia#Emozioni universali#fragilità umana#fuga e incertezza#Google News#grande poetessa italiana#introspezione e legami#Introspezione poetica#italianewsmedia.com#L’inverno è freddo#metafore poetiche#Natale e solitudine#paura e poesia#Pier Carlo Lava#poesia contemporanea#poesia dell’anima#poesia di viaggio#Poesia e introspezione#poesia e realtà#poesia e sentimento#poesia e vita#poesia italiana#poesia italiana contemporanea
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“Viviamo un nuovo totalitarismo, viviamo da morti viventi, ma Dante ci può salvare”: dialogo con Gianni Vacchelli
Un dettaglio mi sembra decisivo. Lo estraggo dall’ultimo saggio di questo ciclo, La poesia profetica e critica di Dante. Quella parola è importante. Profetica. Il grande poeta è sempre profeta, cioè uno che pone una parola che gli è avanti (pro), che lo supera, che è destinata ai futuri – non ho detto: che divina il futuro; e non ho neanche detto che viene dalla divinità. I grandi libri, intendo – e intendo quelli di cui tutti dobbiamo fare esperienza, dalla Bibbia a Esilio di Saint-John Perse, dalle poesie di Leopardi alle tragedie di Eschilo ai romanzi di Dostoevskij a L’età dell’ansia di Wystan H. Auden – hanno sempre un calibro profetico, sono l’avanzo di ciò che altrimenti muta, il resto di ciò che si disintegra. Posseggono, perciò, una attualità infuocata, perché sono atto in moto e immutato. Allora, mi viene da dire, Vacchelli, già autore di studi pieni di splendore (ricordo sempre Dagli abissi oscuri alla mirabile visione, 2008), che in Dante e la selva oscura (Lemma Press, 2018) usa la Commedia come zattera e come spada, legge nell’unico modo possibile, senza le alchimie dell’accademico – pur con stuolo di bibliografia e accuratezza di note –, gettando le terzine di Dante nella rogna, nella Caina della Storia, nelle fauci dell’oggi. Leggendo l’interpretazione audace – ma così precisa – di Vacchelli scopriamo che gli ignavi siamo noi, perché “la totalità psicopolitica ci aliena da noi stessi, dal mondo, dal mistero… ci fa ‘morti viventi’, spettatori passivi e dipendenti del cyber-capitale”, e che gli assoluti assoli di Dante ci difendono dall’assalto capitalista che ci vuole divoratori di merci e a nostra volta divorati, in una specie di terribile cannibalismo digitale e sostanziale. Brandire Dante contro le storture dell’era, adottarlo come percorso di resurrezione, di risalita, mi pare magnifico. Perciò, ho contattato Vacchelli. (d.b.)
Mi pare che lei usi Dante per entrare nella rogna del tempo presente, scassandolo, scassinandolo. Ma non certo con un tono da manuale dantesco per vivere felici, ecco. Mi dica dunque, dell’oggi, cosa ci dice Dante.
Sembra paradossale, ma Dante ci dice molto sull’oggi. Dante “vede” molto e in profondità. Vede la nostra indifferenza, la nostra ignavia: mentre il pianeta va in pezzi, predato, mentre le disuguaglianze crescono sempre più a vantaggio di pochissimi e a danno dei più, noi invece “dormiamo”, spettatori assuefatti e rassegnati. Siamo i nuovi ignavi, «questi sciaurati, che mai non fur vivi» (If III,64). Dante “mette all’inferno”, cioè giudica con criteri etici, umani, spirituali il “regno della lupa”, fin dal I canto dell’Inferno. La lupa è la cupiditas, l’avidità, l’accumulo. Il capitale, potremmo dire anche. La follia di un mondo che ha mercificato e quantificato tutto, al laccio dell’idolo denaro e dell’algoritmo imperante. Ma Dante ci ricorda che questa è la “versione infernale” dell’uomo. L’uomo è anche trasformazione (Purgatorio) e compimento (Paradiso). L’uomo può risvegliarsi alle profondità di se stesso, del mondo e dell’altro – come fratello e sorella – e all’inquantificabile, che è il divino. Dante ci chiama al risveglio. Il «mi ritrovai» del v. 2 della Commedia è appunto anche un ritrovamento, e non solo psicologico, ma spirituale e mistico.
Lei ci conduce, fin dal titolo del libro, nella ‘selva oscura’. Che ha analogia con la ‘notte oscura’ dell’anima, da cui l’anima trae vigore, dopo il timore. Oscurità come luogo dove fare luce. Ci spieghi meglio.
Faccio una premessa. La selva oscura è un’immagine infinita, archetipica, che viene da zone della realtà più profonde di quelle di una “semplice fantasia”. L’immaginazione di Dante è creatrice, ed è anche una facoltà spirituale. Abbiamo perso cognizione di queste realtà, che sono ben vive e reali (!) invece per gli antichi, per i medievali, per i mistici d’Occidente e d’Oriente. Ma anche Vico e Leopardi, pur se in modi anche molto diversi, comprendevano bene tutto ciò. Allora la selva oscura da una parte dice negatività, male, peccato, angoscia, disorientamento, ma dall’altra è, come lei diceva, una «notte oscura», che fa rima con «ventura», per dirla con Giovanni della Croce, l’auctoritas in materia. Anche Dante è molto esplicito in merito, se lo leggiamo solo con attenzione. La selva «tant’è amara che poco è più morte; / ma per trattar del ben ch’i’ vi trovai, dirò de l’altre cose ch’i’ v’ ho scorte (If I,7-9). Chiarissimo quindi: la selva è terribile, mortale, ma è anche altra dimensione, nube oscura, crescita e ulteriorità divino-umana. Il testo più importante per Dante, la Bibbia, conosce bene questa misteriosa realtà. Citiamo, tra i molti luoghi possibili, Deuteronomio 5,22: «Sul monte il Signore disse, con voce possente, queste parole a tutta la vostra assemblea, in mezzo al fuoco, alla nube e all’oscurità». Mi verrebbe quasi da dire: non intratur in veritatem, nisi per obscuritatem. Nel nostro mondo di effetti speciali, di continui abbagli, di veglie troppo luminose, di “realtà aumentate”, abbiamo dimenticato la potenza benefica, anche se ardua, delle notti oscure dell’anima, della mente, del corpo, del silenzio.
“Mai Dante avrebbe potuto pensare ad Auschwitz, ma noi, rileggendolo da Auschwitz, qualcosa possiamo intravedervi”. Una frase potente, come se la Commedia vada letta anche per il suo carattere profetico. È così? Cosa intende con quella frase?
Intendo che quando un uomo entra nella profondità di se stesso e soprattutto della realtà tutta, come Dante fece senz’altro, gli si schiudono, anche per grazia, possibilità infinite. Dante è un «uomo rappresentativo», per dirla con Emerson, che ci ricorda quello che possiamo e dobbiamo essere. Lo sguardo profetico non è una preveggenza, ma una dimensione, ancora una volta, di straordinaria intensità. Dante non è un indovino – quelli stanno all’Inferno – non è un “Nostradamus”, ma conosce gli abissi del cuore umano. Ecco allora che il cannibalismo di Ugolino, gli uomini congelati e “resi pezzi” nella morsa ghiacciata del Cocito, la furia fredda e accesa dell’odio e di una ragione fraudolenta e perversa generano le immagini finali, “luciferine” degli ultimi canti della Commedia. Non è ancora Auschwitz, ma noi, che rileggiamo Dante dopo Auschwitz, Hiroshima e Nagasaki, non possiamo non rabbrividire e non tremare di fronte a quei versi. Il tempo “si cortocircuita”. Dante “cresce con chi lo legge”, per parafrasare Gregorio Magno che diceva Scriptura crescit cum legentibus. Cresce Dante e soprattutto cresciamo noi, in visione, in consapevolezza. E in amore, se comprendiamo bene che questo è l’inferno e che l’uomo non è solo e tanto l’inferno.
Torno alla selva. La selva, scrive, oggi, “è quella di un nichilismo economicistico e crematistico, onnipervasivo, bio/psicopolitico, necrofilo. Ancora più radicalmente potremmo dire che ci troviamo a vivere un nuovo totalitarismo, il terzo del XX secolo e l’unico sopravvissuto nel XXI”. Altra frase perturbante. Che cosa intende?
Torniamo alla versione “mortifera” della selva. Solo che quella di Dante era una selva 1.0; la nostra è 2.0. La questione è complessa. Nel libro argomento meglio. Qui posso solo accennare. Il contesto odierno è una “totalità” che ci imprigiona e ci mostra solo se stessa, in un delirio di mercificazione spettacolarizzata, dove sette cerchi “infernali” concentrici e interconnessi – finanz-crazia, tecnocrazia, burocrazia, massmedio-crazia, geopolitica (o realgeopolitik), potere militare e potere nichilistico (inteso soprattutto come rassegnazione-amnesia, perdita di senso e di un “oltre”, comunque esso sia inteso) –, spadroneggiano, impossessandosi di noi e della vita. La totalità è più che mai totalitaria. Ma in modo nuovo e inedito. Procede per saturazione, per colonizzazione bio-psicopolitica, ci tiene servi in primis grazie alla nostra complicità. La nostra anima, i nostri neuroni sono conquistati e sfiniti o in una indotta rassegnazione depressiva, o in attivismo alienante: in qualunque caso, depressi o iperattivi/ipereccitati, si è come anestetizzati. Nella sua versione più subdola e di contagio animico e interiore, il sistema oggi si impadronisce in modo falso e invertito delle parole della vita: realizzati, sii te stesso, sii libero, sii democratico. Invero si fa solo più fitta la prigionia che invita all’autosfruttamento e alla capitalizzazione-quantificazione della vita, come se vivere la vita fosse l’oscena calculation of life proposta. Dimentichiamo in modo insano che l’ossessione quantificante ed efficientista ha fatto parlare più interpreti di «ritorno di Auschwitz» (Danilo Dolci, Franz Hinkelammert) e di «effetto Treblinka» (James Hillman). Ecco insomma il terzo totalitarismo – dopo quello nazista e stalinista – da smascherare e sconfiggere, dentro e fuori di noi. Potrei dire, semplificando, totalitarismo capitalista, neoliberista, ma, forse meglio, nichilista.
Infine, un Dante ci può salvare?
Magnifica suggestione, la sua! Sì, “un Dante ci può salvare”, perché il Poeta ci ricorda la dignità e la possibilità infinite dell’uomo. Il suo viaggio sprofonda negli abissi, per risalire sul monte della trasformazione ed arrivare ad un incontro con se stesso, con il cosmo, con gli altri uomini e con il mistero divino. L’uomo per Dante è anche capax Dei, «capace di Dio», vaso del divino. In questo senso il Poeta sembra continuamente dirci: non vedi com’è misera e sottodimensionata la tua versione infernale? Perché non ti risvegli alla tua reale natura? Perché non scendi in profondità e in trascendimento dentro di te, dentro la materia, la natura e in quel mistero indicibile che sta in nessun luogo e ovunque?
*In copertina: William Bouguereau, “Dante e Virgilio nell’Inferno”, 1850
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Oggi Giovanni Nadiani compirebbe 65 anni. Tanti auguri al Jimi Hendrix della poesia romagnola. Due lettere per l’aldilà e una silloge di haiku
[In “Beyond the Romagna Sky”, raccolta del 2000, probabilmente, è riassunto, in vigore simbolico, il genio di Giovanni Nadiani: haiku scritti in dialetto di Romagna, con titolo in inglese, in ritmo blues. Dal Giappone dei monaci appesi all’erba di un verso alla profondità Usa, tra Woodstock e l’autostop in cieli di violenta utopia; al centro, al cuore della questione, la Romagna ruvida, livida di danze, speziata. Giovanni Nadiani da Cotignola, che oggi compirebbe 65 anni, “un manovale di parole”, diceva lui, che se ne è andato nel 2016 dopo tante vite, di poeta e traduttore, fondatore di riviste e insegnante, cantautore di speranze, è una specie di Jimi Hendrix della lirica romagnola. “È possibile una poesia dalla nominazione feriale e bassa, di pensiero presente e critico che, affermando la continuità della memoria contro il propagandato oblio della storia, si confronti con le stridenti contraddizioni dell’oggi? Una poesia che, dando vita a una polifonia di lingue e suoni, suggerisca utopisticamente la possibilità di una convivenza nella diversità di una koinonia, di una fratellanza in un’alterità che ci sottrae la nostra proprietà soggettiva per un dato (donato) oggettivo più grande?”, si domandava. Noi sventoliamo la sua opera in faccia all’indifferenza, con un piccolo omaggio, nella forma di due lettere scritte da compagni di avventure culturali di Nadiani. La prima è una lettera dello scrittore spagnolo David Castillo, poeta, romanziere – CartaCanta ha pubblicato il suo “Barcellona non esiste” – di cui Nadiani ha tradotto una antologia poetica, “Un presente abbandonato”, nel 2006. L’altro è un ricordo epistolare di Mercedes Ariza, traduttrice dallo spagnolo, che di Nadiani ha tradotto, in Spagna, la raccolta “Invel/Ningún sitio”, 2010]
***
“La morte non vince mai: sul mio amico alchimista per cui il cancro era l’ultimo dei problemi”
Gli ultimi mesi (o anni) di corrispondenza con Giovanni Nadiani Zvan non sono stati per nulla facili. Spesso mi svegliavo e pensavo a lui, alla sua resistenza solitaria con la notte nel letto della sua casa di Reda che dava su un cortile in cui c’era una specie di installazione-scultura formata da libri all’intemperie pieni di piccoli insetti. Lo sognavo e mi svegliavo. Subito dopo andavo al mio computer e lo cercavo, a volte con insistenza.
Ogni tanto mi rispondeva:
Questi giorni va tutto di merda. Da tre settimane ormai sono in una clinica, una clinica molto bella dove cercano di aggiustarmi i valori del sangue che mi portano all’assoluta mancanza di forze: astenia totale… Ogni tanto, come ieri, ho la forza di alzarmi dal letto… Oggi va un po’ meglio: ho cercato di camminare all’interno del giardino come riuscivo a fare anche nel parco della clinica mentre chiacchieravo con gli amici. Spero di riacquistare l’energia necessaria per imparare il modo di spezzare le metastasi che bloccano le vie biliari, che per il momento sono il principale problema per cui sono qui. Durante il mio soggiorno nella clinica ho già fatto tre radioterapie molto tossiche che mi hanno prosciugato le energie. Se miglioro un po’ potrò uscire da qui e impiegherò il mio cervello con la minima lucidità. Abbraccione.
Durante le nostre conversazioni pomeridiane al telefono mi ripeteva che non voleva dare troppe spiegazioni in università e men che meno voleva accettare il congedo per malattia che gli proponevano i medici. Quasi nessuno sapeva che il tumore lo stava divorando. In un ennesimo esercizio di coraggio, che tanto lo univa alla Spagna, Zvan si concentrava sulla sua famiglia e sulla bicicletta. Durante uno dei miei viaggi in Italia, Guido Leotta, suo amico e socio di Tratti, mi avvisò che era ormai alla fine – Guido sarebbe morto di un infarto prima di Zvan. Quando arrivai a Reda, il mio amico mi spiegò che la sua terapia era fare su e giù per le montagne attorno. Anche in un altro suo messaggio alludeva ai trattamenti a base di chemioterapia e bicicletta:
Sfortunatamente gli effetti collaterali adesso sono più forti rispetto al periodo della terapia (neuropatie alle mani e ai piedi e problemi all’intestino). Devo avere pazienza. Oggi cercherò di andarmene qualche giorno in montagna (Sud-Tirolo), prenderò il treno. In un primo momento volevo andare da solo ma visto che i ragazzi non possono ritornare qui, me ne andrò con Inge. Vediamo cosa succede nel viaggio.
I farmaci e il cortisone non erano gli unici argomenti di conversazione. C’erano i dischi e i libri, la situazione economica della nostra bohème e i problemi del lavoro. Nonostante fosse in una situazione così fottuta, per il mio amico il cancro era il minore dei mali. Le sue preoccupazioni erano tre: 1/ la morte di Guido Leotta che sancì la scomparsa della casa editrice Mobydick e la cooperativa Tratti, oltre a quella del gruppo di jazz in cui lavoravano insieme. 2/ i tanti debiti e la mancanza di serietà di un editore con cui aveva avviato grandi progetti editoriali. 3/ il comportamento della sua università nei confronti di una delle sue collaboratrici.
Queste tre preoccupazioni e la salute dei membri della sua famiglia formavano un cocktail micidiale nel suo già deteriorato morale.
Non ci furono solo brutti colpi. Qualche giorno riusciva persino a mandarmi messaggi di ottimismo, addirittura col suo peculiare senso dell’umorismo, imprescindibile per leggere il migliore Nadiani. La sua opera era un insieme di asseverazioni sulla comunità, la suggestione e i limiti tra realtà e irrealtà. Durante una delle mie visite a Forlì, Zvan era euforico perchè Bob Dylan si esibiva a Bologna. Non siamo riusciti ad organizzarci per andarci ma di notte, mentre io già dormivo, Zvan mi chiamò. Era nel bar sotto il mio albergo e mi portava alcuni libri nuovi tra cui, Anmarcurd, un omaggio a Fellini, con una citazione iniziale in yiddish del tutto rivelatrice: “Mai sopravvivere alla propria lingua”. Era il 2015 e la sua malattia era progredita. In alcuni momenti fu sul bordo dell’abisso, in altri credette di essere guarito. Abbiamo bevuto qualcosa e mi spiegò un sogno che aveva fatto e di cui era stato stregato perché era da molto che non scriveva poesie. Aveva sognato alcune poesie scritte in un taccuino. Al risveglio trovò il taccuino del 2011 con quindici poesie dimenticate che parlavano della sua morte. Quella premonizione e il resto lo lasciarono assorto. L’interpretazione della poesia e della sua creatività andavano oltre la vita. Per questo motivo ho pensato che fosse utile scrivere queste parole sul mio amico alchimista. Se ci dedichiamo all’arte è perché, probabilmente, c’è una ragione nascosta di resistenza di fronte all’oblio, di fronte alla morte eterna.
David Castillo
*
Forlì, 11 marzo 2019
Ciao Giovanni,
auguri. Oggi è il tuo compleanno. 65 anni. Giorni fa ti ho sognato: mi parlavi, mi chiedevi, mi ascoltavi. Bello parlare con i morti: loro ti ascoltano, non hanno fretta, non fuggono, ti ascoltano e lo fanno pazientemente. A giugno ho visto David a Barcellona: gli amici del Ateneu Barcelonès sono rimasti stregati dalla magia dei tuoi versi. Ci sei mancato un sacco. Nessuno è stato capace di leggere il tuo dialetto, nessuno. Con Invel/Ningún sitio tra le mani, pensavo a te quando mi avevi proposto di tradurre le poesie in spagnolo. Una pazzia. Una assurdità. Ma non per te. Ci hai sempre creduto e ci siamo riusciti.
Oggi, per festeggiare il tuo compleanno, ho deciso di riprendere i tuoi haiku in romagnolo. Fantastici. Cristallini. Lame che trafiggono il nostro presente-assente.
Ti abbraccio forte,
Mercedes
*
Selezione nostalgico-emozionale di haiku in dialetto romagnolo da Beyond the Romagna Sky (Mobydick, 2000)
(1)
la sera l’arlùs ‘t la coda d’un jet
un pipistrël intavanȇ e’ chèsca ‘t l’udòr di’ marugh
La sera riluce nella coda di un jet.
Un pipistrello ebbro cade nel profumo di acacia.
(2)
al luz di semëfar al s’è mórti töti
int i self service e’ sbalèna i bancomat
Le luci dei semafori si sono spente tutte.
Nei self service lampeggiano i bancomat.
(3)
la rèzna dal banchin la s’mâgna i nom inamuré
a l’ôra di viél e’ cerla i celuler
La ruggine delle panchine divora i nomi innamorati.
All’ombra dei viali cinguettano i cellulari.
(4)
agli urtigh al s’insteca ‘t al carvaj dla stablidura
dal lètar al s’è smarìdi ‘t la memoria d’un desch
Le ortiche s’infilano nelle crepe dell’intonaco.
Lettere si sono smarrite nella memoria di un disco.
(5)
i piset d’arzent tra i livar i s’mâgna dal parôl ad chêrta
al parôl senza udór ‘t e’ computer int un balen u s’li mâgna la luz.
I pesciolini argentati tra i libri divorano parole di carta.
Le parole inodori nel computer le divora in un lampo la corrente.
(6)
i zughetul fet d’ lego i ten lighê insen e’ mond …
a e’ mond u j è dal lengv ch’al va int i brisul…
I giocattoli di Lego tengono legato il mondo…
Al mondo esistono delle lingue che vanno in frantumi…
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Noi siamo fatti di Caravaggio, siamo creati da lui, che ci ha concepito in spirito drammatico, intenso, nonché spasimo, sangue, carne, poesia
Cito: “…corpo antico… niente unanime… fossa fetida di nero… accendere il sudario di una calce opaca… geometria innocente di un comando… vetri dimenticati… fuoco fanciullo… ghirigoro dell’elsa… anelito primevo… sgorgo guerriero… lama di una schiena abbagliante… vanità sonora di una dolcezza sussurrata… parola che dilania… torcia futura in un’ora rossa di pace… abisso domestico… forma delle ombre… portico soprannaturale… granaio di apparecchiato riposo… scampolo di tunica appena fiorita di sangue… alle tempie l’infula… membra beccheggianti degli astanti… mulino di braccia… il latrato strabico del fanciullo… torsione innaturale del collo… bocca dietro sillabe irresponsabili… aureola stampata sul muro… versa il suo olio la frusta volante… un tempo di coraggio nelle ossa… forsennati marciapiedi spazzati dal vento… l’esattezza della fronte appena corrugata… un’arte di tenebra… pillole oscene… corte di tufo… segno cieco della punta tinta… miele di un buio senza finestre… gemmate concrezione di niente… lastre picchiettate d’occhi… cuffia d’ombra… mucchio osceno di strumenti umani… sospeso agli uncini di un cielo senza padre… la morte che ti taglia a pezzi… abbranca la tunica diminuita dall’osso d’avorio della fronte… l’afosa fisica della vita per fare di esserci stati… vigore di candida folgore… morto sgorgo di luce… le unghie confitte nel vago nero delle cose… colossale silenzio del nostro sguardo… feto di vento… laccio della paura… scorre un aperto aggrovigliato… verso che preme… che ora incima il profumo della morte… cose sottratte alla fabbrica silenziosa dell’origine… sul velluto del niente… la strada è disperata… l’odiata abbondanza del corpo… sopra la grazia ammalata del damasco… onice d’unghia… la sovrabbondanza del mondo…”.
Chiedo scusa all’autore, Roberto Rossi Precerutti, di aver scompaginato così il suo sorprendente libro Fatti di Caravaggio (Aragno Editore), slegato e a frammenti (completato, adesso, da un dittico, un nuovo libro intitolato Verità irraggiungibile di Caravaggio (Neos Edizioni). Ma non è per ridurre, bensì per esaltare il metro infinito di quest’opera che nell’elencazione, nell’accumulo apparente, svela il suo carattere senza fine e sempre teso all’oltre, giacché dove c’è un elenco c’è un infinito che corre, verso il passato più remoto o verso l’estremo lembo del futuro, per poterli almeno immaginare, afferrandoli, caso mai in un sogno, una rivelazione, comunque già incarnati alla radice.
*
E davvero si accarezza un sogno nelle pagine di Roberto Rossi Precerutti: di attendere che accada, lì sulla pagina, il nostro mistero, che è il mistero dell’altro che ci fa luce, che alza la lanterna per vederci chiaro finalmente, ma che è sempre sconfitto dalla nube. Quello che accade è il gesto del poeta che punta con la sua penna la realtà, più vera del sogno, più reale del reale, perché incarnata di esperienza, di un dio che ci desidera, che vuole che noi viviamo, nello strazio del vivere, cioè nell’esperienza sempre da riconfermare: se siamo noi che esistiamo o siamo il sogno di qualcuno. Perciò ci tocca tenere gli occhi bene aperti, quello che fece chiedere a Pessoa in punto di morte: dove sono i miei occhiali?
Il sottotitolo del volume reca scritto: “Il lavoro dell’ombra e altre piccole metafisiche di Michelangelo Merisi”. Perché si tratta proprio del vedere, e di una domanda conseguente allo sguardo che indaga, che cerca. Si tratta di vedere cosa accade veramente nei quadri di Caravaggio, in che cosa consistono i fatti, quali sono gli accadimenti, vale a dire che noi siamo fatti di Caravaggio, siamo creati da lui, che ci ha concepito in spirito drammatico, intenso, nonché spasimo, sangue, carne, poesia; il sogno di una poesia che dice il mondo liberandolo dal suo peso, mondo amato, tuttavia, accettato seriamente nella sua evidenza di Verità, di Bellezza. Nessuna strategia letteraria dunque, bensì abbandono, per dire una poesia feconda, che non cerca quello che già sa, ma che si sporge sul nuovo, sulla probabilità di una rivelazione ancora possibile sull’uomo, sulla natura, su noi stessi. Azzardo: la tesi dell’autore, o, meglio, l’intuizione, è che noi siamo fatti di Caravaggio, che ogni volta che guardiamo un suo quadro siamo nel cuore del dramma, che è il nostro destino di uomini, il destino dell’Occidente.
*
È una scommessa quella di Roberto Rossi Precerutti, certo, fatta però in buona compagnia, la compagnia di Gongora, di Lautréamont, di Landolfi. Eppure il rischio resta, il rischio che il poeta corre, di essere il primo: guardare nel buio di Caravaggio, guardare dove lui ha guardato, per mettere in risalto la sua arte, per magnificare la verità della sua arte, la realtà. Nemmeno Roberto Longhi ha osato tanto, nemmeno lui si è spinto a tanto, nemmeno lui ha guardato così a fondo. Certo il suo mestiere era quello del critico, la sua perizia quella del filologo, e uno studioso ha il compito di fare chiarezza su un pittore già misterioso di suo, cupo e leggendario, e per Longhi occorreva separare la luce dall’oscurità perenne del fascino, della leggenda, che ha un che già di romantico, nonostante i tempi, quindi in anticipo sui suoi, così come il pittore anticipò persino la fotografia con la sua maniera realistica. Ed ecco un altro mistero di Caravaggio, che gli appartiene, riguarda il suo merito, il suo talento sconfinato, l’animo profondo che aveva, o che aveva avuto in sorte, di riuscire a guardare oltre, persino nel buio della realtà per dare rilievo alla luce, per rivelarla, ma con un giudizio, lì è la sua forza che spesso si trascura, soprattutto in tempi come i nostri, dove sembra che giudicare sia un limite, quando invece è proprio grazie al giudizio che possiamo intervenire, parlare, discutere, che possiamo arrivare a un confronto. La stessa crisi dell’insegnamento di oggi, la crisi che viviamo nella scuola, è dovuta proprio a questa mancanza di nerbo, o di senso: la parola insegnare ce lo dice, insegnare, indicare un segno, o il segno in cui l’oggetto, l’opera si rivela e, in ultima analisi, lasciare un segno, nel migliore dei casi, nei grandi ed eccezionali esempi, quando non siano i cattivi maestri a invadere i nostri giorni. Prova esemplare è stato il grande Longhi, maestro di Pasolini, Testori e di molti altri, sparsi nei vari campi della cultura, e dell’umanità! Nemmeno Longhi (mi ripeto), che pure ha indicato la sottesa e originale dimensione classica, o classicista, di Caravaggio, messa da parte in vario modo nel corso dei secoli, nemmeno lui (ci voleva un poeta come Roberto Rossi Precerutti), ha provato a guardare in quel buio recondito dei suoi quadri, in quegli anditi cupi, dove si addensa lo scuro, il vuoto, dove non si guarda con coraggio, in quanto sembra non esserci niente, o qualcosa che il pittore sembra non aver voluto farci vedere, che sta ai margini. Eppure esiste, occupa uno spazio che è anche cospicuo, ha un valore di suggestione straordinario.
*
Ci vuole uno sguardo visionario per poter vedere, per dare forma all’ombra, all’indistinto (nel libro di Rossi Precerutti si prefigurano i brividi futuri dello spagnolo Goya), che l’arte di Caravaggio contiene e consente di dire al mondo letterario e artistico attuale. È la sovrabbondanza del mondo che ci viene incontro, la forza della realtà in cui siamo immersi, che rischia di sommergerci e di deflagrare contro di noi. Che fare?, guardare nel buio, il buio di questo momento, presi da questa crisi sanitaria, dalla continua emergenza. L’autore sceglie di guardare nel buio, vuol tenere gli occhi aperti davanti al buio più fitto, per scorgere la Verità, la Verità vera del conoscere, che ci spinge a interrogare, a chiedere, a implorare, noi con noi stessi, il nostro vivere, le cose che vanno così: “… il male che è quel che è”. Ma c’è dell’altro, altro ancora, intendo dire che c’è una polemica sussurrata nelle prose di Rossi Precerutti che dà dei punti ai nostri narratori, e che riguarda la prosa, e non solo, la poesia, il mondo dell’arte, gli uomini, il valore della scrittura e dello scrivere. Il discorso tende a dire radicalmente, non si piega, vuole andare contro la limpidezza di oggi, i toni pacati che non dicono niente, che rappresentano l’impronta editoriale di un mondo servile al mercato, che pretende dai narratori italiani un tono neutro, dove l’opposto si configura come espressione ideologica del già detto, già sentito, lagna e controlagna del già conosciuto, passato e ripassato e stramasticato e strarappresentato sulle nostre gazzette di partito, in televisione, su internet, e quindi innocuo, reso innocuo dal pensiero unico che ci vuole acritici, uomini che diventano merce. Leggo da Fatti di Caravaggio: “… solo pagine bianche risuonano di idilli rischiosi mentre levo gli occhi ciechi a questa luce assordante” (p.69). “Qui, finalmente, deporremo ogni stato ideale – solo il sussulto per una condizione più umana, sospesa, il non sapere assoluto seppellito nell’ombra” (p.68). “E non c’è una terra natale, la promessa di una tregua, fuori del cubiculo attraversato da un polline divino che si deposita sui muri immensi… tutto si ferma nella breve eternità dell’abiezione, prima che il canto dell’uccello esploda nella voracità della luce” (p.67).
Dunque: nel non sapere conosco, il non sapere che mi fa stare davanti alla pagina, non il preordinato, il programmato, che è emblema dell’oggi, vale a dire cibo precotto, consumo del letterario, del carino, del ci sta, mi convince, è geniale, mi riguarda. Sono giudizi che hanno un sapore pubblicitario. Occorre, invece, lasciarsi guidare dal senso, dal corpo che ne sa più di noi, dal corpo che scrive ad occhi chiusi, con l’unica guida della premura del dire, della forma che ci visita e preme in noi per essere detta, l’ultima parola, la sola che incide e dona.
Concludo riportando il bellissimo incipit di Fatti di Caravaggio: “Così, ritraendosi dai cerchi dell’anima, quest’ombra lascia indietro l’inerzia di detriti insignificanti, prepara un mondo sottile di rami spezzati e bacche di buio per propiziare la forma delle mani che agitano acque ctonie, come se la docile teoria degli oggetti quotidiani si perdesse in un silenzio musicale, gravido di una vita non ancora nata: il gioco a nascondere circonda quell’unico cesto luminoso, nell’ora tra cane e lupo, e il cielo non entra nella camera sfinita dall’attesa, o forse ha una grandezza d’orrore la costellazione artificiale del soffitto, fa sgocciolare i suoi filamenti resinosi lungo pareti oscure dove si apre la madreperla di nessuna conchiglia. Ma le cose sono come sono, e da sé variano: ora il supplichevole bisogno di prolungare il bene infantile dell’ascolto dispone la crudeltà dell’ospite inatteso, il suo gesto bianco intravisto dalla soglia di pietra”.
Vincenzo Gambardella
***
Cavaliere di Grazia
Ostia di luce, la terra è come un sacco bruciato, una metallica lastra che incide una punta o fora
inesorata sostanza di parole irreparabili, rosso che s’aggruma, acerra per bruciare un po’ d’incenso
ai piedi del letto dove dormo le mie molte morti, questo sogno che redime l’incertezza del principio.
Roberto Rossi Precerutti
*In copertina: Caravaggio, “Davide con la testa di Golia”, 1610, particolare
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“Erano le lettere di un uomo allucinato”: l’amore di Thomas S. Eliot per Emily Hale, il fantasma della sua giovinezza
Venerdì 3 ottobre 1930. T.S. Eliot è in ufficio, forse, o forse a casa, e chi lo sa se è pomeriggio o se l’ora violetta così ben cantata in Waste Land ha già lasciato il passo al buio della sera. È venerdì 3 ottobre ed Eliot, con l’improvvida audacia dei disperati, prende in mano la penna e scrive. Destinataria: miss Emily Hale, insegnante e attrice americana, amica di gioventù mai più vista né sentita – se non in rare occasioni – da quando nel 1914 le aveva confessato il proprio amore partendo per l’Europa. Una confessione che non aveva destato in Emily particolari reazioni, se è vero che a parte un pugno di lettere amichevoli e piuttosto formali scambiate tra il 1914 e il 1915, i due non avranno altri contatti, fatti salvi un paio di incontri occasionali nel ’22 e nel ’27. Cose di novant’anni fa, diremmo. Se non fosse che con l’arrivo dell’anno nuovo quella lettera, insieme a moltissime altre, è ripiombata con prepotenza nel nostro tempo. È del 2 gennaio, infatti, l’apertura al pubblico della corrispondenza che il Possum spedì a Hale tra il 1930 e il 1947. Un corpus di oltre mille lettere donate da Hale a Princeton nel 1956, con la consegna di non aprire i sigilli se non dopo cinquant’anni dalla sua morte e subito finite al centro di una curiosità per certi versi un po’ grottesca, molto più simile a un chiacchiericcio di portinaie che alla pacatezza di un convivio. Certo, è senz’altro vero che l’apertura pubblica di queste lettere è – come dice Tony Cuda, direttore della T.S. Eliot Summer School che si tiene ogni anno a Londra – «l’evento letterario del decennio». Ed è vero altrettanto che il reportage day by day di Frances Dickey – studiosa dell’Università del Missouri che dal 2 gennaio posta ogni giorno una breve sintesi dei temi trattati nelle lettere sul blog della International T.S. Eliot Society – è succoso e fa venire l’acquolina al pensiero della pubblicazione integrale del carteggio, prevista dal curatore e dall’editore Faber per il 2021. Ma proprio questo è il punto, perché la corsa a curiosare in questa tormentata, platonica e intellettuale storia d’amore solleva a chi scrive più di un dubbio sulla liceità di affondare i denti in carte scritte per non essere pubblicate.
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T.S. Eliot e Emily Hale nel 1946. “Mi innamorai di Emily Hale nel 1912, quando ero alla Harvard Graduate School. Prima di partire per la Germania e l’Inghilterra, nel 1914, le dissi che ero innamorato di lei. Non ho motivo di credere, dal modo in cui fu ricevuta questa dichiarazione, che i miei sentimenti fossero in qualsiasi modo ricambiati…”
A onor del vero, stando al rapporto di Dickey, lo stesso Eliot pensava inizialmente a una pubblicazione postuma del carteggio, a suo parere capace di illuminare molteplici passi della sua opera. Ma illuminare che cosa? Le occasioni, probabilmente. Sappiamo per esempio che Burnt Norton, il primo dei quartetti, cominciò a maturare dopo una visita che Eliot e Hale vi fecero insieme nel 1933. E altrettanto bene sappiamo come egli, infelicemente sposato con Vivienne Haigh-Wood dal 1915 alla morte di lei nel 1947, conservò sempre una memoria nostalgica di Hale, anche nei quindici anni di silenzio trascorsi prima di ricominciare a scriverle. Nulla, tuttavia, che aggiunga reale conoscenza ai testi: informazione, forse, ma – per usare una dicotomia eliotiana – informazione che non dà conoscenza, che anzi la disperde. Che cosa ci darebbe in più il sapere che Eliot forse pensava a Hale scrivendo versi come «Amico, sangue che scuoti il cuore, / l’audacia terribile di un istante di abbandono / che un’era di prudenza non potrà mai ritrarre»? Quale maggiore conoscenza ci darebbe conoscere la miseria dell’istante, la sordidezza del dettaglio, rispetto all’icastica e universale rappresentazione del dono di sé scolpita in quei versi? Lo sappiamo tutti, tutti l’abbiamo pensato, che la lady della seconda parte di Waste Land è una Vivienne trasfigurata, così come la moglie di Harry – suicida o assassinata dal marito non lo si saprà mai – in The Family Reunion. E allora? A qualunque serio amante di Eliot queste ipotesi sono note e superflue; a un non conoscitore che aspiri a esserlo tutta quest’attenzione al chiacchiericcio e non al testo è invece fuorviante. Eliot ha lavorato una vita intera per fare un’arte impersonale, che non riflettesse il mondo ma rappresentasse un mondo, un possibile più vero del vero. A che scopo, allora, questo incancrenirsi sulla sua biografia?
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Si dirà: ma lo stesso Eliot all’inizio pensava a una futura pubblicazione delle lettere. Appunto: pensava; e lo pensava all’inizio. E sì, perché la vita corre, le cose accadono e si può cambiare idea, senza dover essere inchiodati al detto o al fatto. Eliot lo pensava delle sue teorie (dirà in un’intervista di non essere particolarmente interessato a esse, soprattutto a quelle «anteriori al 1933», e altrettanto farà dire al suo Brunetto Latini in Little Gidding); e lo pensava probabilmente dei fatti della sua vita. Ecco perché quando nel 1947 sua moglie Vivien morì, dopo sette anni di agonia in un sanatorio mentale, anziché gettarsi finalmente libero tra le braccia di Hale, interruppe ogni rapporto con lei. Ed ecco perché, quando seppe una decina d’anni più tardi delle trattative di Hale per cedere a Princeton le lettere, restò «sgradevolmente sorpreso» e decise di stendere un memoriale da rendersi noto contestualmente alla loro apertura: cinquant’anni dopo la morte di Hale o, in caso di fuga di notizie, immediatamente a ridosso. Così, in attesa che le lettere siano integralmente pubblicate nel 2021 – e visto il divieto di citazioni dirette imposto dai curatori testamentari di Eliot agli studiosi che vi vengano in contatto – l’unico documento certo intorno alla vicenda è proprio il memoriale del Possum, datato 25 novembre 1960 e lievemente ritoccato nel settembre di tre anni dopo. Un memoriale adesso reperibile on-line in cui Eliot ricostruisce la propria versione del rapporto con Emily e del contesto in cui fiorì l’epistolario. Ma non è tanto il gioco delle due campane, quello che qui ci interessa, quanto il ritrovare una volta di più nelle parole di Eliot il senso e il tono di un modo di intendere la vita e il mondo.
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Le primissime parole sono già indicative: «È penoso (painful) per me dover scrivere queste righe». Che per uno capace di scrivere come epigrafe del suo primo libro di saggi «A mio padre. Tacuit et fecit» non sembra mostrare nulla di nuovo. È penoso scrivere il memoriale perché è penoso, dopo una vita spesa per far parlare la propria opera al di sopra e al di là delle proprie miserie, trovarsi trascinati in pubblico a dover lavare i propri panni. Tanto più se l’esperienza ci ha insegnato che «ci sono molte cose per cui non troviamo le parole nemmeno in confessionale». Anche qui, siamo davanti a qualcosa che i Quartetti avevano già presentato con plasticità archetipica: quando in Burnt Norton ci parlano delle parole che scivolano e decadono senza mai stare al loro posto; o nel finale di Little Gidding, dove ci viene ricordato per l’ennesima volta che la storia è «irredimibile» all’uomo e che «ogni frase e ogni sentenza è una fine e un inizio, / ogni poesia un epitaffio»; o ancora in East Cocker, quando la vita intera è scolpita come «un raid nell’inarticolato» minacciata «nel casino generale di sentimenti imprecisi / squadroni di emozioni indisciplinate». Di fronte a queste rappresentazioni così plastiche e archetipiche da essere comprensibili a tutti, a tutti esperibili, a che vale lo scavo nella miseria gretta della cronaca di un peccatore? Preso nella rete, Eliot si costringe a una difesa di sé stesso, della propria coerenza ideale e dell’incoerenza pratica tanto ingiusta, quanto penosa a leggersi. Per giustificarsi davanti al nostro storicismo implicito – che giudica il passato con il metro dell’oggi anziché, come sanamente andrebbe fatto, giudicare l’oggi con il metro del passato – si costringe a una demolizione dura e ingenerosa di Emily e dei suoi sentimenti per lei (in certi passi vien da chiedersi perché mai le scrisse per diciassette anni, se era una donna così pessima…), quasi per dimostrare a sé e a noi postumi che in realtà non c’era poi questo grande rapporto – cosa chiaramente non vera. Come che sia, profondo o insincero che fosse quel tempo speso insieme, quelle immagini di quiete che la sua frequentazione gli dava, ecco che «con la morte di Vivienne nell’inverno del 1947», Eliot comprende di colpo di non amare Emily. «Gradualmente mi resi conto che ero stato innamorato di un ricordo, del ricordo dell’esperienza di averla amata in giovinezza». E così, riflessione dopo riflessione, si accorge che l’«amore per Emily era l’amore di un fantasma per un fantasma», e che le lettere che le scriveva «erano le lettere di un uomo allucinato, un uomo che tentava invano di fingere con sé stesso di essere la stessa persona che era nel 1914». Tutto possibile, forse persino vero, se vero e falso fossero concetti affidabili quando guardiamo in retrospettiva quello che abbiamo fatto e quello che abbiamo provato. Ma è questo che chiediamo agli artisti? Questa prossimità da selfie, questo chiacchiericcio da pausa pranzo? Lasciamo che siano i morti a dissotterrare i morti. E a noi, se vogliamo esser vivi, ci tocchi non il cadavere corrotto dei loro giorni, ma quell’anticipo di eredità incorruttibile che hanno saputo lasciarci nell’opera.
Daniele Gigli
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Indicazioni ai miei esecutori riguardo alla busta allegata.
La signorina Emily Hale dal Massachusetts ha presentato alla biblioteca dell’Università di Princeton le lettere che le scrissi tra il 1932 e il 1947 – forse alcune un po’ prima; quelle scritte dopo la morte della mia prima moglie esprimono sentimenti così diversi che potrebbe non averle incluse. Ho saputo che vi ha aggiunto, o si sta preparando ad aggiungere, una sorta di commento personale. Pertanto, mi sembra necessario mettere per iscritto il mio ritratto dello sfondo di questa corrispondenza e il mio sentire attuale nei suoi riguardi.
Desidero che la mia dichiarazione sia resa pubblica non appena le lettere alla signorina Hale saranno rese pubbliche. (Chiarirò più avanti che cosa intendo con il termine «rendere pubblico»). Questo non dovrebbe succedere fino a cinquant’anni dopo la mia morte. Ma una certa qual pubblicità è possibile senza pubblicazione (a stampa), e non ho alcuna certezza che fino a tale data verrà preservata la completa privacy. E se le lettere, o una qualsiasi di esse, o eventuali estratti o citazioni da una qualsiasi di esse, o il «commento» della signorina Hale, venissero divulgati prima di quel momento, o se trapelasse che a qualsivoglia individuo sia o sia stato concesso l’accesso a una delle lettere prima di quella data, allora desidero che la dichiarazione allegata sia resa pubblica allo stesso tempo.
Nel caso in cui la Princeton Library conserverà le mie lettere non aperte (come dovrebbe fare) fino a cinquant’anni dopo la mia morte, quando anche i miei esecutori saranno morti, suggerisco che la busta sigillata col presente documento venga consegnata da mia moglie al bibliotecario incaricato della Eliot Collection per i miei lavori e altre questioni relative all’Università di Harvard. (Questa collezione è attualmente ospitata nella Houghton Library dell’Università di Harvard). Dovrà essergli dato con la rigida ingiunzione che venga aperto e reso pubblico cinquanta anni dopo la mia morte, o qualora la raccolta di lettere alla signorina Hale alla Princeton University venisse resa pubblica prima di quella data. Se quest’ultima raccolta fosse resa pubblica in uno dei modi sopra indicati, la lettera allegata dovrà essere resa pubblica allo stesso modo. Se arrivasse a conoscenza delle autorità di Harvard incaricate della Eliot Collection e di questa busta sigillata, che qualcuno abbia avuto accesso alle lettere nella biblioteca di Princeton, con l’intenzione o meno di utilizzarle in un’opera scritta, o a una sola di quelle lettere o parti di lettera, desidero che questa busta sigillata venga aperta e che il suo contenuto sia reso pubblico.
25 novembre 1960
T.S. Eliot
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La memoria di Eliot
È penoso per me scrivere le seguenti righe. Non riesco a concepire di scrivere la mia autobiografia. Mi sembra che quelli che possono farlo siano quelli che hanno condotto una vita esclusivamente pubblica ed esteriore, o quelli che possono nascondere con successo a sé stessi ciò che preferiscono non sapere di sé stessi – c’è forse una piccola quantità di persone che possono scrivere su sé stesse perché realmente irreprensibili e innocenti. Nella mia esperienza, c’è molto per cui non si riesce a trovare le parole nemmeno nel confessionale; molto che viene dalla debolezza, dall’irresolutezza e dalla timidezza, dal meschino egocentrismo piuttosto che dall’inclinazione verso il male o la crudeltà, dall’errore piuttosto che dalla cattiva natura. Sarò il più breve possibile.
Nel corso della mia corrispondenza con Emily Hale, tra il 1932 e il 1947, amavo pensare che le mie lettere sarebbero state conservate e rese pubbliche dopo la nostra morte, cinquant’anni dopo. Rimasi però spiacevolmente sorpreso quando mi informò che stava consegnando le lettere alla Princeton University noi viventi, precisamente nel 1956. Aveva fatto questo passo, è vero, prima di sapere che stavo per sposarmi. Tuttavia, mi sembrò che disporre delle lettere in quel modo e in quel momento facesse luce sul tipo di interesse che aveva, o era venuta ad avere, per quelle lettere. Gli Aspern Papers al contrario.
Mi innamorai di Emily Hale nel 1912, quando ero alla Harvard Graduate School. Prima di partire per la Germania e l’Inghilterra, nel 1914, le dissi che ero innamorato di lei. Non ho motivo di credere, dal modo in cui fu ricevuta questa dichiarazione, che i miei sentimenti fossero in qualsiasi modo ricambiati. Ci scambiammo alcune lettere, di tono puramente amichevole, mentre ero ad Oxford nel 1914-15.
Spiegare il mio improvviso matrimonio con Vivienne Haigh-Wood richiederebbe molte parole, e anche così la spiegazione rimarrebbe probabilmente incomprensibile. Ero ancora, come credetti un anno dopo, innamorato della signorina Hale. Ma non posso tuttavia fare nemmeno questa affermazione con fiducia: potrebbe essere stata semplicemente la mia reazione verso la mia infelicità con Vivienne e il desiderio di tornare a una situazione precedente. Ero molto immaturo per la mia età, molto timido, molto inesperto. E avevo un dubbio a rodermi, che non potevo nascondere del tutto a me stesso, riguardo alla scelta della mia professione, quella di insegnante universitario di filosofia. Avevo passato tre anni alla Harvard Graduate School, a spese di mio padre, preparandomi a prendere il mio dottorato in filosofia: dopo di che avrei dovuto trovare un posto da qualche parte in un college o in una università. Eppure il mio cuore non era in questi studi, né avevo fiducia nella mia capacità di distinguermi in questa professione. Dovevo ancora desiderare di scrivere poesie: in tre anni avevo scritto un solo frammento, che era brutto (è, purtroppo, conservato ad Harvard); quindi nel 1914 Conrad Aiken mostrò Prufrock a Ezra Pound. L’incontro con Pound cambiò la mia vita. Era entusiasta delle mie poesie e mi faceva lodi e incoraggiamenti in cui avevo smesso da tempo di sperare. Ero più felice in Inghilterra, anche in tempo di guerra, di quanto non fossi stato in America: Pound mi esortò a rimanere in Inghilterra e mi incoraggiò a scrivere altri versi. Penso che tutto ciò che volevo da Vivienne fosse un flirt o una relazione romantica: ero troppo timido e inesperto per ottenere una delle due cose con chiunque. Credo di essermi convinto di essere innamorato di lei semplicemente perché volevo bruciare le mie navi e impegnarmi a restare in Inghilterra. E lei si persuase (anche sotto l’influenza di Pound) che avrebbe salvato il poeta tenendolo in Inghilterra. A lei, il matrimonio non portò felicità: gli ultimi sette anni della sua vita li trascorse in una casa di cure mentali. A me, portò lo stato d’animo da cui nacque The Waste Land. E mi salvò dallo sposare Emily Hale.
Emily Hale avrebbe ucciso il poeta in me; Vivienne fu quasi la mia morte, ma tenne vivo il poeta. Col senno di poi, l’incubo dei miei diciassette anni con Vivienne mi sembra preferibile alla noiosa miseria del mediocre insegnante di filosofia che sarei stato in alternativa.
Per anni fui un uomo diviso (così come, in modo diverso, ero stato un uomo diviso negli anni 1911/1915). Nel 1932 fui nominato per un anno professore di poesia ad Harvard presso la cattedra Charles Eliot Norton; e anche la madre di Vivienne fu d’accordo sul fatto che era fuori questione che lei venisse in America con me. Vidi Emily Hale in California (dove insegnava in un college per ragazze) all’inizio del 1933, e la rividi da allora ogni estate, penso dal 1934 in poi, quando regolarmente raggiungeva sua zia e suo zio che prendevano casa ogni estate a Chipping Campden.
Alla morte di Vivienne nell’inverno del 1947, mi resi improvvisamente conto che non ero innamorato di Emily Hale. A poco a poco mi accorsi che ero stato innamorato solo di un ricordo, il ricordo dell’esperienza di averla amata nella mia giovinezza. Se avessi incontrato una donna di cui avrei potuto innamorarmi, negli anni in cui Vivienne e io stavamo insieme, questo fatto mi sarebbe senza dubbio risultato evidente. Dal 1947 in poi, ho capito sempre di più quanto poco Emily Hale e io avessimo in comune. Avevo già osservato che non era un’amante della poesia, certamente che non le interessava molto la mia poesia; mi aveva già preoccupato quella che mi sembrava prova di insensibilità e cattivo gusto. Forse è troppo duro, pensare che ciò che le piaceva fosse la mia reputazione piuttosto che il mio lavoro. Forse mi ha amato secondo la sua capacità di amare; eppure penso che le opinioni di suo zio (suo zio acquisito, un caro uomo anziano, ma di mentalità confusa) significassero per lei più delle mie. (Era affezionata a suo zio John ma non andava molto d’accordo con sua zia Edith). Non potei mai farle capire che era sconveniente per lei, unitariana, comunicarsi in una chiesa anglicana: il fatto che mi scioccasse il suo fare così non la impressionava. Non posso fare a meno di pensare che se mi avesse davvero amato avrebbe rispettato i miei sentimenti, se non la mia teologia. Adottava un atteggiamento simile nei confronti della visione cristiana e cattolica del divorzio. Potrei dire a questo punto che non ho mai avuto rapporti sessuali con Emily Hale.
Finché Vivienne era viva, sono stato in grado di ingannarmi. Affrontare completamente la verità sui miei sentimenti verso Emily Hale, dopo la morte di Vivienne, fu uno shock dal quale mi ripresi lentamente. Ma mi sono reso conto che il mio amore per Emily era l’amore di un fantasma per un fantasma, e che le lettere che le scrivevo erano le lettere di un uomo allucinato, un uomo che tentava invano di fingere con sé stesso di essere la stessa persona che era nel 1914.
Sarebbe stato un errore ancora maggiore sposare Emily piuttosto che sposare Vivienne Haigh-Wood.
Posso immaginare il tipo di uomo che entrambe avrebbero dovuto sposare – diverso l’uno dall’altro, ma anche molto diverso da me. È solo negli ultimi anni che ho saputo cosa significhi amare una donna che mi ama veramente, altruisticamente e con tutto il cuore. Trovo difficile credere che qualcosa di pari a Valerie ci sia mai stata o potrà esserci di nuovo; non posso credere che sia mai esistita una donna con la quale avrei potuto sentirmi così completamente unito come con Valerie. Il mondo con la mia amata moglie Valerie è stato un mondo come non lo avevo mai conosciuto prima. All’età di 68 anni il mondo si è trasformato per me, e io sono stato trasformato da Valerie. Che tutti possiamo riposare in pace.
T.S. Eliot
Questa memoria è stata scritta il 25 novembre 1960, ma l’ultima pagina è stata leggermente modificata e riscritta il 30 settembre 1963.
Le lettere ricevute da Emily Hale sono state distrutte da un collega su mia richiesta.
T.S. Eliot
*Per gentile concessione si presenta in anteprima parte del “Quaderno T.S. Eliot” pubblicato sul numero di febbraio di “Studi Cattolici”. Il quaderno è costituito dal servizio di Daniele Gigli (“L’amore di un poeta per un fantasma”) e dall’approfondimento di Paola Tonussi dedicato a “Burnt Norton”, dal titolo “Il castello dove sempre siamo stati”
**In copertina: T. S. Eliot con Valerie Fletcher, la seconda moglie, sposata nel 1957
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La poetessa amata da Cristina Campo. Chi è Alexia Mitchell? Storia di un enigma letterario
Dietro i gusti di un grande scrittore si rintraccia il profilo di uno stile, perfino di una statura esistenziale. Cristina Campo – e le miriadi di identità dietro a cui si celava – era dedita, per lo più, ai morti. Sono straordinari i suoi esercizi – vera palestra del verbo – dentro l’opera di John Donne, di Efrem Siro, di Emily Dickinson e di Giovanni della Croce, ad esempio. Cercò la parola fiammata, però, con famelica ostinazione, tra i viventi. I dialoghi con María Zambrano, Alessandro Spina, Alejandra Pizarnik, così come le traduzioni di William Carlos Williams, Simone Weil, Katherine Mansfield, questo testimoniano: l’esigenza di una parola viva, incardinata nel sangue dell’oggi.
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In ogni caso, la lettura è una scelta a cui aderire in virtù di conversione. Un rischio. Se alcune presenze sono miliari – Virginia Woolf, Jorge Luis Borges –, la Campo scova gli isolati, lì si incava. In particolare, mi sorprendono due indicazioni, date nell’ambito dell’attività pubblicistica della Campo, entrambe firmate con il nome autentico, Vittoria Guerrini, trentenne. Il primo, consegnato a un articolo edito su “Il Mattino dell’Italia centrale” il 26 settembre 1952 (entrambi i testi sono raccolti in Sotto falso nome, Adelphi, 1998), s’intitola Poesia e verità ed è dedicato a Henri Mondor (1885-1962), eminente chirurgo e letterato per diletto, accademico di Francia dal 1946, sotto la presidenza di Paul Valéry, autore di studi particolarmente felici tra cui spiccano, tutti in catalogo Gallimard, Rimbaud ou le génie impatient (dida: “ci è voluta la pazienza di un grande conoscitore del cuore e del corpo umani per rivelarci il mistero di un ‘genio impaziente’”), Alain, Précocité de Valéry, Claudel plus intime (quest’ultimo con una nota introduttiva di Saint-John Perse, datata 4 marzo 1955, “dal Mar dei Caraibi, al largo di Saba”, dove il poeta si lancia in un elogio dell’“estrema giovinezza dei grandi poeti, prima dei venticinque anni, dove ci sono i primi incantesimi del lettore”). Per lo più, Mondor è noto per gli scritti intorno a Mallarmé, di cui cura, nel 1945, una prima edizione, edita nella mitica ‘Pléiade’, delle Oeuvres complètes. “Ammiravo in lui l’omaggio che la scienza dà alla poesia”, scrisse – un po’ sbrigativamente – François Mauriac. In Italia di suo c’è nulla, ma la Campo ne è affascinata – forse proprio da una certa virtù nella ‘chirurgia letteraria’ – “uomo competente: che, tornando ogni volta alla poesia dai posti avanzati della verità – la costante presenza della morte, il riaffermarsi invincibile della vita –, è in grado di pronunciare la parola esatta, quella di cui in nessun tempo e luogo si sorride”. Ecco la feritoia in cui s’inabissa CC: la ricerca costante, conturbante, della “parola esatta”, che esattamente dica la vita, certo, ma sorprenda la morte, ne corroda i bordi, risorta. Di questa parola non si sorride – ci risucchia.
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La seconda annotazione è un rigoglio nel mistero. L’articolo è edito da “Il Corriere dell’Adda” il 20 marzo 1954 ed è una recensione entusiasta a Banchetto nel deserto, opera di una enigmatica Alexia Mitchell. La Campo sceglie come confidente questa poetessa per una riflessione, suprema, sulla morte. “In simile poesia di pietra e luce… ci si ripropone l’inestricabile enigma dell’oggi e del sempre, del labile e del permanente. Così io penso, vedremo dopo la morte: per sempre fusi e per sempre isolati, nella totalità della loro purezza, i fuochi accesi e le pietraie, i giardini lunari e i deserti, e tutte le care figure che presenti e assenti vivificarono o distrussero il nostro tempo umano”. Questa poesia interessa CC perché – così la frase che chiude la recensione – “ci insegna ancora una volta quali colme presenze possa donarci un coraggioso distacco”.
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La Campo allora Vittoria Guerrini cita di Alexia Mitchell le poesie in inglese, eccone una, tradita:
Oh! Essere un’immagine Un’immagine che si disfa al vento Un’immagine presa e strappata Dalle mani di un bambino…
Dardeggiano i bambini Nel giardino inquieto Tentano l’ultima audacia Prima della notte.
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Già… ma chi è Alexia Mitchell? Qui viene il bello. Alexia Mitchell non esiste. O meglio. Esiste quel libro, Banquet in the desert, pubblicato da G. Casini in Roma nella collana “Poeti d’oggi”, che contempla anche un testo di Corrado Govoni, edito nello stesso anno, è il 1953, e uno di Giuseppe Valentini. Non esiste altra traccia che questo libro – per altro conservato in pochissime biblioteche italiane – di Alexia Mitchell. Da fonti indirette, scopriamo che Alexia Mitchell è lo pseudonimo di Luisina Milani, “scozzese d’origine”. Di Luisina Milani non esistono tracce bibliografiche.
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Le uniche notizie della fatidica Mitchell ci giungono da alcune lettere recapitate ai traduttori, Riccardo e Cesarina Gualino, coniugi. Riccardo Gualino, piemontese, fu imprenditore di genio, dalla vita prodigiosa – finì a capo della Lux Film, amico di Visconti e Monicelli, produttore di una sfilza di pellicole leggendarie con Totò, Mastroianni, Gassman, la Magnani, i titani, insomma. Fu mecenate per diletto e poeta al tempo perso. Dalle lettere di Felice Casorati, Libero De Libero, Massimo Bontempelli, Ettore Serra (spiate in case d’asta), che ringraziano Gualino per aver donato loro Banchetto nel deserto, ricavo le rare informazioni su Luisina Milani/Alexia Mitchell.
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Di fatto, Luisina Milani, detta ‘Lu’, era amica di famiglia. “I Gualino conobbero Lu a Torino negli anni Venti e Cesarina dipinse il suo viso nei primi cartoncini torinesi. Poi l’amicizia continuò a Roma dove anche la Milani si trasferì nel 1931. Al contrario di Mars, Bella, Raja, Vitia e Jessie, Lu Milani non ha mai danzato, composto musica o dipinto, ma è stata sempre vicina a Cesarina fino alla morte. Le sue numerose lettere compongono il ritratto di una donna intelligente, ironica, autonoma e deliziosamente egoista. L’esercizio della traduzione delle opere di Lu spinge Cesarina a esprimersi anche in versi” (in Cesarina Gualino e i suoi amici, Marsilio 1997, a cura di Maurizio Fagiolo dell’Arco e Beatrice Marconi). Trattengo il “deliziosamente egoista”.
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I casi sono due. Primo (arcano): Alexia Mitchell è l’ennesimo schermo dietro cui si cela Vittoria Guerrini/Cristina Campo – sarebbe troppo bello, basta compiere piccole cuciture cronologiche (d’altronde, nel 1956, CC pubblica Passo d’addio con Scheiwiller, di fatto la sola raccolta di poesie). Secondo: alla Campo, come sempre, piace spingere nelle piaghe della letteratura, nelle plaghe dell’anonimato, quelle dove si cela l’autentico, l’indicibile. In questa latitanza di identità, in ciò che sfugge, infine, è la poesia. (d.b.)
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ANCONA – Vinicio Capossela sarà in concerto al Teatro delle Muse di Ancona il 15 novembre 2019. L’evento è organizzato da Alhena Entertainment e Ventidieci.
Dopo l’anteprima nazionale al Teatro Nuovo di Salsomaggiore il 4 ottobre, partirà ufficialmente il 6 ottobre dal Teatro Galli di Rimini, il nuovo tour teatrale di Vinicio Capossela, “Ballate per uomini e bestie”.
Dopo la serie di concerti-atti unici e gli importanti live all’estero andati in scena nei mesi estivi, con l’avvio dell’autunno Capossela, come un orsante, porterà il suo spettacolo di città in città, per esibirlo nei più importanti teatri classici, di tradizione ed enti lirici italiani.
Capossela presenterà dal vivo il suo nuovo progetto discografico, “Ballate per uomini e bestie” (La Cùpa/Warner Music), undicesimo lavoro in studio uscito lo scorso maggio, un’opera di grande forza espressiva che guarda alle pestilenze del nostro presente travolto dalla corruzione del linguaggio, dal neoliberismo, dalla violenza e dal saccheggio della natura.
Con il nuovo spettacolo, pensato appositamente per i teatri, Capossela proporrà dal vivo un canzoniere che, evocando un medioevo fantastico fatto di bestie estinte, cavalieri erranti, fate e santi, mette in mostra le similitudini e il senso di attualità che lo legano profondamente alle cronache dell’oggi. Alle creature che popolano l’ultimo album del cantautore si uniranno come in una danza i personaggi e le storie di alcuni dei suoi grandi successi in un intreccio che darà vita a un viaggio nel nostro presente, nelle fratture e nelle malattie del nostro mondo, alla ricerca di possibili cure.
Ad accompagnare Capossela sul palco ci saranno: Alessandro Asso Stefana (chitarre), Niccolò Fornabaio (batteria), Andrea Lamacchia (contrabbasso), Raffaele Tiseo (violino) e Giovannangelo De Gennaro (viella e aulofoni). L’album “Ballate per uomini e bestie” si è aggiudicato la Targa Tenco 2019 nella categoria “Miglior disco in assoluto”. La premiazione avverrà al Teatro Ariston di Sanremo il prossimo 17 ottobre nell’ambito del Premio Tenco.
Con queste parole Vinicio Capossela racconta lo spettacolo: “Dopo la palestra degli “atti unici” in luoghi e titoli che hanno declinato i temi delle “Ballate per uomini e bestie”, arriva il teatro, luogo di rappresentazione dell’immaginario. Lo spazio scenico buio, come le grotte di Lascaux, da andare a riempire con bagliori, stralci di affreschi e strofe per rileggere il mondo con gli strumenti della poesia, della filosofia e della denunzia. Un viaggio nella terra in un momento in cui uomini e bestie non si distinguono nemmeno nel genere umano. Una cantata tra le creature che inizia dalle pitture rupestri e arriva all’evo medio prossimo e venturo attraverso un bestiario di varia umanità.
Danze macabre al tempo della peste, nuove e antiche tentazioni, santi e inquisizioni nel rogo digitale. Il medioevo romantico e irragionevole dei preraffaeliti, le fiabe giocattolesche e fantasticanti di asini che diventano cantanti, sirene che diventano ballerine, Marajà corruttori di innocenti; storie di rose e di figlie di fate, di carceri e di gabbie da zoo, tentativi di evasione e continue trasformazioni delle forme in divenire. Le Pleiadi e la galassia a spirale portata sul dorso da una chiocciola. L’orsa della costellazione del cielo e l’orso buffone degli orsanti, figura ludica e cristologica che ci porta tutti in giro di città in città sul baraccone da fiera, in luogo di fierezza.
E poi l’inverno, l’inverno dell’umanità, della guerra mai finita. L’inverno di un’orchestrina che suona nella neve di Auschwitz accompagnando festosamente l’immolarsi di sempre nuovi capri espiatori e una madonna umile, fatta di conchiglie, per chi in mare non trova sepoltura. Una mareggiata di poveri cristi che non rinunciano a essere UOMINI VIVI. Ovunque protetti nella metamorfosi continua e incessante che è la vita e che non lascia intatti uomini, bestie, natura e animali. Nemmeno in teatro.”
Il tour è organizzato da International Music and Arts.
Biglietti per il concerto di Ancona in vendita nei circuiti TicketOne e presso la biglietteria del Teatro delle Muse (tel. 071.52525).
Questi i prezzi:
POLTRONISSIMA NUMERATA: 65,00 € c.d.p.
POLTRONA NUMERATA: 57,50 € c.d.p.
I GALLERIA NUMERATA: 46,00 € c.d.p.
II GALLERIA NUMERATA: 35,00 € c.d.p.
III GALLERIA NUMERATA: 29,00 € c.c.p.
I GALLERIA VIS. LIMITATA: 29,00 € c.d.p.
II GALLERIA VIS. LIMITATA: 29,00 c.d.p.
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