#poesia d’inverno
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Paese delle Meraviglie Invernale: un viaggio tra bellezza e silenzio. Quando la natura si veste di bianco, ogni angolo diventa poesia
L’inverno non è solo una stagione, ma un momento di pura poesia. Il paesaggio innevato, il silenzio che avvolge tutto e il candore della neve che ricopre ogni cosa, ci invitano a fermarci e riflettere.
L’inverno non è solo una stagione, ma un momento di pura poesia. Il paesaggio innevato, il silenzio che avvolge tutto e il candore della neve che ricopre ogni cosa, ci invitano a fermarci e riflettere. Per celebrare questa bellezza, ecco una poesia dedicata al paese delle meraviglie invernale. Paese delle Meraviglie Invernale: poesia e riflessioni sulla magia della neve. Poesia: “L’incanto del…
#Alberi innevati#alberi solitari#Alessandria today#bellezza cristallina#Bellezza della natura#bellezza della neve#connessione con la natura#Contemplazione#fascino invernale#Google News#incanto della neve#inverno e bellezza#inverno e poesia#inverno e silenzio.#inverno poetico#ispirazione dalla neve#italianewsmedia.com#magia della neve#magia dell’inverno#manto bianco#natura e poesia#neve e magia#neve e silenzio#paesaggi fiabeschi#Paesaggi innevati#paesaggi poetici#paesaggio innevato#paese delle meraviglie invernale#Pier Carlo Lava#poesia d’inverno
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Sotto il cielo d'ottobre
noi due
lungo l'orlo del mare.
Le onde
come voci antiche
mormoravano segreti nell'aria.
Il vento che sfiorava i nostri volti
come le carezze d'un tempo perduto.
Il sole,
stanato dietro un tramonto
tingeva d'oro il crepuscolo.
I nostri sguardi,
intensi
mutevoli
come l'acqua riflessa,
si incrociavano
nel silenzio profondo
creando un'armonia senza tempo
tra noi e il mondo che ci circondava.
Era un momento sospeso,
come una poesia di Pascoli,
dove la natura e l'amore
si fondevano
in un'unica melodia.
#ogni tanto sono poetica#amore#tramonto#mare#mare d’inverno#innamorata#70s#1950s#60s#grunge#retro#vintage#spotify#Music#poesia#poesie#frasi amore#amore tumblr
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Un po di Poesia...
«No, non voglio baciarti
in una giornata di sole.
Non voglio che sia estate.
Non voglio che sia in mezzo alla folla.
Vorrei baciarti in una di queste sere d’inverno,
quando il sole scolora nel grigio e nel freddo;
quando sarà più facile
trovare, insieme,
l’alba dentro l’imbrunire.»
(Pablo Neruda)
Notte mondo di Tumblr 💫💫💫
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Esangue
Oggi sono un giorno d’inverno Di nebbia è fatto il mio canto Di vento i miei passi La mia anima è un tramonto di pochi istanti Aranci sprazzi tra rami grezzi Esplosi i colori restano esangui i sensi Sepolti, sotto il freddo della sera i sogni.
-Movimento per l'Emancipazione della Poesia-
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Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi geni ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
Dino Buzzati
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Spesso, la vita ci sorprende con momenti che sembrano insignificanti, ma in realtà portano con sé un carico di significato inaspettato. Un sorriso scambiato in un corridoio affollato, una mano che si tende per offrire aiuto, o anche una parola gentile sussurrata al momento giusto. Questi atti, pur nella loro apparente semplicità, possono cambiare il corso di una giornata, illuminando anche il cuore più pesante. Immagina una mattina grigia, in cui il cielo sembra riversare la sua tristezza sulla terra. Un passante, con il viso segnato dalla fatica, incrocia lo sguardo di un bambino. In quel breve istante, il piccolo sorride, un gesto innocente, puro, come un raggio di sole che squarcia le nuvole. Non c'è bisogno di parole elaborate; il sorriso è il linguaggio universale che dice: "Ci sei, ti vedo". Questo semplice scambio diventa il seme di una nuova speranza, una scintilla di gioia in un mondo che a volte sembra opaco. Ogni piccolo gesto porta con sé un'energia capace di trasformare. Un abbraccio, ad esempio, può avvolgere come un caldo mantello in una fredda notte d’inverno. Può dire più di mille frasi, trasmettendo un senso di appartenenza e conforto. Eppure, queste azioni quotidiane passano spesso inosservate, come foglie che cadono silenziosamente in un bosco. Nel frastuono della vita moderna, è fondamentale ritrovare la bellezza in ciò che è semplice. Non serve compiere grandi imprese per lasciare un segno. A volte, basta una parola di incoraggiamento per sollevare un’anima in pena, oppure un gesto di gentilezza per ricostruire un ponte tra due cuori. La vita è tessuta di questi momenti fugaci, e ognuno di essi ha il potere di trasformare il dolore in bellezza, la solitudine in comunità. Così, impariamo a prestare attenzione ai piccoli gesti, a riconoscerli come parte integrante della nostra esistenza. Ogni giorno, possiamo scegliere di dare e ricevere, di essere l’artefice di piccole meraviglie che, accumulate nel tempo, creano un grande cambiamento. La vera forza risiede nella capacità di rendere il quotidiano straordinario, di trasformare l'ordinarietà in poesia.
Empito
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DINO BUZZATI
"Gli inviti superflui"
Tratto dalla raccolta "60 Racconti".
Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.
Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.
Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.
Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene
Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.
Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.
Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.
E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.
Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.
Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.
Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.
E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose."
DINO BUZZATI, "Gli inviti superflui" da "60 Racconti".
Illustrazione di Barbara Baldi.
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Vorrei che tu venissi da me una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo. Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi. Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava. Ivi palpitarono in noi, per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento. Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.
Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi; e in date ore vaga la poesia, congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene. Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre della città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola. Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrare la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti d’essere stanca; solo questo e nient’altro.
Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dai prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne. Tu diresti “Che bello!” Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora.
Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti intorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata ad esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno. E non diresti “Che bello!”, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici.
Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di se una specie di musica. Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni. Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. E’ inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda. Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina. E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo e donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo.
Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso tra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.
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Speranze
La poesia non lo sa:
Il condizionatore
Disusato d’inverno
È come le mie speranze
Un po’ dentro, un po’ fuori,
Verdi su ruota bianca,
Buone solo a gettare
Un’ombra lunga
Nella livida luce della strada.
Jack Kerouac
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un bene di prima necessità #poesia
Il giorno in cui sono morto non ho potuto mentireafferrato dalla quiete immerso in un’infinità sottile,loro non sanno ch’iosapevo aspettare e mi piaceva vederti arrivare in questo timore incontenibile. Fu dopo quel brutto momento versato che ci guardammo negli occhi poi tutto divenne qualcosa d’inaciditoimmerso in una tranquillità vicina d’inverno( Di tanto in tanto tornavi nel sonno,sembravi…

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Febbraio – La nostalgia poetica di Rosetta Sacchi. Un mese tra il gioco della natura e il ricordo dell’amore lontano. Recensione di Alessandria today
"Febbraio" è una poesia che dipinge il secondo mese dell’anno come un quadro mutevole, capace di alternare bufere e quiete, malinconia e dolcezza.
Biografia dell’autrice.Rosetta Sacchi, poetessa di straordinaria sensibilità, ha saputo distinguersi nel panorama letterario per la capacità di cogliere l’essenza della natura e delle emozioni umane. Attraverso i suoi versi, Rosetta riesce a evocare immagini vivide e profonde, intrecciando la bellezza dei paesaggi con sentimenti universali come l’amore, la nostalgia e il desiderio. La sua poesia…
#Alessandria today#amore lontano#armonia poetica#Arte poetica#Autrici italiane#Bellezza della natura#emozioni e poesia#Emozioni universali#Febbraio poesia#Google News#immaginazione poetica#introspezione personale#Introspezione poetica#italianewsmedia.com#Letture consigliate#linguaggio evocativo#malinconia e poesia#natura e poesia#nostalgia poetica#Pier Carlo Lava#poesia contemporanea#poesia d’autore#poesia d’inverno#poesia di qualità#poesia di Rosetta Sacchi.#poesia e ricordi#poesia e stagioni#poesia italiana#poesia nostalgica#poesia riflessiva
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"È un luminoso mezzogiorno d’inverno… Il gelo è rigido, la neve scricchiola e a Nàden’ka, che mi ha dato il braccio, si coprono di una brina argentea i riccioli sulle tempie e la lanugine sul labbro superiore."
Anton Pavlovic Cechov, "Uno scherzetto".
Qui la lanugine è pilifera, invece.
Perché si tratta di un uomo, non di una donna.
Steppa, eccomunque.
Sta fuggendo, l'intabarrato?
Dovrebbe.
Perché vedete i primi due alberi, a sinistra?
Scorgete la nivea riga bianca nei fusti?
Sono i pantaloni di due ussari, mimetizzati.
Reduci dalla Battaglia di Klusino, tra poco s'appaleseranno.
Ed attaccheranno.
E' diagonale della paura, eddunque, quella tracciata da Luca Barlocci.
A rafforzare il senso di profondità, oltre al sentiero, i summentovati alberi / ussari.
Lo sguardo ansiosamente ripercorre la diagonale di Luca.
Quando attaccheranno?
E se no, l'immotità della steppa propizia meditazione.
Punto - linea - punto.
Albero / sentiero / uomo.
Telegrafia inondata di poesia, questa qui.
All rights reserved
Claudio Trezzani
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#strangerclubofseries#oregiapponesi#haiku#haikyuu#poetry#japanesehaiku#winterhaiku#winter#wintwrpoetry#matsuo basho#kobayashi issa#takarai kikaku#nakamura kusatao#naitojoso
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I finalisti della 5a edizione
La giuria emerita si è espressa e ha scelto i 5 progetti finalisti che accedono alla finale del V Premio Roberto Sanesi il 21 Settembre:
Gemma Marotta in arte Marge è un’attrice-performer e pittrice. Vanta un vasto curriculum, con esibizioni in molti teatri della Sicilia e prestigiosi riconoscimenti che colleziona in parallelo alle numerose estemporanee d'arte, collettive e personali. La sua formazione inizia da piccolissima con la danza per poi girare l’Europa insieme al gruppo Folkloristico Fabaria Folk come performer. È il 2016 quando si laurea con lode menzione e dignità di stampa in Arti Visive e Discipline dello Spettacolo all'A.B.A.M.A. di Agrigento con una tesi sperimentale sul Museo Contemporaneo. Nello stesso anno, si trasferisce a Bologna, la città in cui ha la possibilità di formarsi con le realtà più importanti del panorama artistico contemporaneo: Teatro Valdoca, Societas, V. Sieni, E. Dante, M. Biagini, Living Theatre Europa. Si laurea con una tesi sul Teatro Sociale alla Magistrale in Scienze dello Spettacolo e Produzione Multimediale. Il primo lavoro teatrale scritto, diretto e interpretato interamente da se stessa si intitola Sugnu, un inno alla creazione nel quale non mancano le sue pennellate.
MORA è un progetto di spoken music nato nel 2019 dalla collaborazione tra il musicista Giulio Amerigo Galibariggi e il poeta Sebastiano Mignosa, finalista nel 2021 del Premio Dubito e del Premio Nebbiolo nel 2022. Lo stesso anno il gruppo prende parte al festival di musica emergente MIAMI di Milano e nel 2023 partecipa al Metronimie Festival di Torino e al Klohifest di Ostuni. Debito è il primo album e racconta la storia d'amore tra un ragazzo e la sua città. L'intero lavoro segue la struttura di un prestito bancario, nel tentativo di costruire un parallelismo tra il concetto di debito - inteso come senso di colpa - e la questione generazionale e ambientale legata al Polo petrolchimico di Priolo Gargallo (Siracusa).
Mirko Vercelli, nato a Torino nel 2000, è un giovane scrittore e poeta performativo, laureato in antropologia all'Università di Torino. Si occupa di cultura pop, politica e media, collaborando con il Centro Studi Sereno Regis. È fondatore e direttore della rivista indipendente «bonbonniere» e ha pubblicato il romanzo Linea Retta nel 2021, oltre al saggio Memenichilismo nel 2024. Il Maltempo Collettivo è un ensemble di musica contemporanea improvvisata concepito con l'obiettivo di creare e condividere un'esperienza di espressione e creatività. La collaborazione tra Mirko Vercelli e il Maltempo Collettivo rappresenta un'interessante fusione tra improvvisazione musicale e spoken word poetico. Questo progetto combina la sensibilità letteraria di Vercelli con l'approccio sperimentale del collettivo, creando un'esperienza immersiva e unica che sfida le convenzioni sia della poesia che della musica contemporanea. La loro performance congiunta esplora nuove forme di espressione artistica, mettendo in dialogo suono e parola in un flusso creativo spontaneo e dinamico.
Canzoni d’inverno è una raccolta di poesie scritte da Mattia Muscatello, illustrate da Gabriele Sanzo e musicate da Filippo d’Erasmo. Canzoni d’Inverno è un viaggio multisensoriale, un’immersione che permette di leggere, vedere e ascoltare, nel profondo, la consistenza delle emozioni da cui è nato. Mattia, Gabriele e Filippo sono tre persone che sono una persona sola: perché hanno capito come creare un’armonia dalla moltitudine di note, parole e colori che contengono. Restano infatti in tre e, nelle loro individualità, comunicano secondo tre mezzi espressivi diversi uno stesso sentimento condiviso, coeso, coerente ma non omologato. Il progetto ha un’anima analogica, fisica, rappresentata dal libro e una seconda, digitale, riportata nei brani ascoltabili online sulle piattaforme di streaming musicali. Il progetto viene presentato dal vivo come una vera e propria performance, che mescola la lettura delle poesie sulla musica dal vivo, accompagnate dallo spettacolo di live painting proiettato durante l’esibizione.
Mattia Tarantino (Napoli, 2001) codirige Inverso – Giornale di poesia e fa parte della redazione di Atelier. Collabora con numerose riviste, in Italia e all’estero, tra cui Buenos Aires Poetry. Per i suoi versi, tradotti in più di dieci lingue, ha vinto diversi premi. Ha pubblicato Se giuri sull'arca (2024), L’età dell’uva (2021), Fiori estinti (2019), Tra l’angelo e la sillaba (2017); tradotto Verso Carcassonne (2022) e Poema della fine (2020). Maria Ferraro (Napoli, 1997) studia Industrial Chemistry for Circular and Bio Economy all’Università di Napoli “Federico II”. Nonostante l’impronta scientifica dei suoi studi ha sempre coltivato la passione per le discipline artistiche e musicali. Tra la primavera e l'estate 2024 ha messo in scena, con Mattia Tarantino, il concerto "Qualcosa da salvare" e il poema "Se giuri sull'arca". Vieni a votare il tuo preferito allo Spazio211!
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A.A.A. cercasi medico di base
C’era una volta il medico di famiglia. Quello che vedeva nascere i bimbi e invecchiare i nonni. Che conosceva vizi e virtù dei pazienti e correva al loro capezzale quando saliva la febbre, specie d’inverno. Storie di un passato che non esiste più, grazie ad una politica sanitaria che ha perso la poesia dell’assistenza ed ha fatto precipitare il Paese in un’emergenza che sembra non trovare…
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