#narrativa su traumi
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“Io ti salverò” di Simona Fruzzetti: un thriller psicologico tra segreti e ossessioni. Recensione di Alessandria today
Un romanzo avvincente che scava nei traumi del passato e nella ricerca di verità inconfessabili, ambientato nella suggestiva cornice dei boschi del Maine.
Un romanzo avvincente che scava nei traumi del passato e nella ricerca di verità inconfessabili, ambientato nella suggestiva cornice dei boschi del Maine. Un viaggio nel passato per svelare la verità “Io ti salverò” di Simona Fruzzetti è un thriller psicologico che si apre con la misteriosa scomparsa di Emily Evans, una bambina di soli otto anni, a Spring Lake nel 1995. Ventitré anni dopo,…
#Alessandria today#Barga Noir#boschi americani#Colpi di scena#Emily Evans#Google News#indagini personali#Io ti salverò#italianewsmedia.com#Maine#mistero#mistero e introspezione#narrativa con protagonista femminile#narrativa contemporanea#narrativa di mistero.#narrativa di suspense#narrativa di tensione#narrativa italiana#narrativa italiana contemporanea#narrativa psicologica#narrativa su famiglie spezzate#narrativa su sensi di colpa#narrativa su traumi#Pier Carlo Lava#Premio Garfagnana in Giallo#romanzo ambientato nei boschi#romanzo avvincente#romanzo di tensione psicologica#romanzo emozionante#Romanzo giallo
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Ho avuto un'infanzia meravigliosa. Con i monti e i torrenti e gli alberi e le lucertole assolati del mio Paesello. E Dio che ci sorvegliava, sonnacchioso dentro ai tabernacoli delle chiese, insieme alle vecchiette con la bocca piena di caramelle Rossana e canti sacri nella luce colorata che filtrava attraverso le vetrate della Matrice.
A undici anni, il declino. Abusato il primo anno di scuole medie da un compagno di classe pluri-ripetente. Mi costringeva a masturbarlo di fronte a tutti. Nessuno mosse un dito. Temo che qualche professoressa sapesse; ma meglio non andarsi a infilare in faccende più grandi di sé... soprattutto se ti ritrovi disgraziatamente a buscarti il pane nel quartiere più violento e feroce di Palermo, a pochi anni della guerra e delle stragi di Mafia. Nessuno si vergognò. Né l'abusante, né i compagni, né chi sapeva e non ha mosso un dito. In compenso mi vergognai io. Questo causò una timidezza patologica, una goffaggine che superava il ridicolo. E di conseguenza il bullismo, il male minore fra quelli sopportati, mi costrinse a chiudermi in casa. Ad uscire solo per andare a scuola e incontrare giorno per giorno il mio carnefice. Perché conoscevo già cos'erano i doveri. La mia famiglia mi ha sempre amato - le uniche persone ad averlo mai fatto - e li ho ripagati essendo sempre ligio ai miei doveri di figlio.
Le superiori andarono un po' meglio. Ma anche qui, amicizie superficiali che si basavano sulla simpatia che sucitava il mio essere goffo e ridicolo e brutto - avevo denti sporgenti e pesavo quanto una vacca - e per il resto cinque anni passati in casa a leggere narrativa fino alla nausea.
En passant: Prima e unica esperienza sentimentale. Rifiutato e umiliato.
Botta di culo. Passo i test di medicina. Volo a Pavia. Ci resto sei anni.
Il primo anno, fantastico. I miei sono lontani. Mi sento in diritto di mollare la presa sulle mie remore morali. Inizio a fumare tabacco e a bere, quasi ogni sera. Passo alla marijuana. Sembra la svolta. Ma dietro l'angolo c'è il baratro. Divento dipendente dall'erba - sì, gente, come si può essere dipendenti da quella porcheria che è il porno si può benissimo essere dipendenti da un fumo magico che fa svanire le proccupazioni - fumo fino a 15 canne al giorno; e le fumo solo, uscendo fuori dalle grazie di Maria. Dimentico che sto lì per studiare e inizio a mandare a troie la possibilità di laurearmi, dicendomi c'è tempo, e raccontandomi un fottìo di fregnacce. Ma sono consapevole delle fregnacce e per tre anni non faccio niente, se non spendere soldi in droga, vedere film d'essai su megavideo e masturbarmi fino a stordirmi, perdere i sensi e finalmente dormire.
Un gruppi di belle persone mi raccatta dal fango a 22 anni. Tra i 22 e 24 finalmente vivo, mi diverto, sono felice, quasi quasi mi viene pure voglia di studiare e dare una bella ordinata alla mia vita... ma i traumi dell'infanzia sono troppo pesanti e mi ammalo. Esordio psicotico acuto. Fottuto. Per 10 anni passo la vita, tra ricoveri, farmaci, psicologi, psichiatri, testi di roschark (o come cazzo si scrive) e le urla, i pianti e la depressione di tutti i miei familiari.
Per 10 anni lotto... e ne vengo fuori. Trovo lavoro a Milano, le miei poesie vengono pubblicate da una piccola casa editrice di Roma che crede in me, mi metto in forma, da dipendente pubblico ho tutte le agevolazioni del mondo e uno stipendio che farebbe invidia al mio psicologo.
Ma perché questa carrellata sulla mia vita? Perché ieri ho visto questo angolino di luce che mi sono costruito a calci e mozzichi e mi sono detto: non ho nessun diritto ad essere così fortunato. E pensavo a Gaza, all'Ucraina, alle carceri libiche, alla barista del mio paese morta a 40 anni, senza aver mai visto la Luce.
Fortunato? Porca Madonna, l'unica fortuna è essere nato in un paese del primo mondo, avere una famiglia che mi ama, ed essere molto meno stupido della media. Tutte cose niente affatto scontate. Ma la Fortuna, cazzo, è un'altra roba.
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Testimony of N aka N No Tame Ni
L'amore incondizionato
Ci saranno spoiler!
Colpa mia.
Vostro Onore sono colpevole di aver pensato che questa serie fosse un thriller investigativo fatto di indagini, prove, caccia al colpevole e poliziotti ovunque. Pensavo che avrei visto la polizia interrogare i sospettati, indagare i moventi, seguire piste ecc ecc ed invece... niente di tutto questo. Motivo per il quale, arrivata in fondo alla visione, sono rimasta "delusa" dall'andazzo generale del drama. Per colpa mia, ripeto. Sono stata fuorviata dalla lettura di "poliziotto" nella trama su mydramalist e questo mi ha portata fuori strada.
Ma andiamo con ordine.
La serie parla effettivamente di crimini e misteri:
"La studentessa universitaria Sugishita Nozomi, assieme a Naruse Shinji, Ando Nozomi e Nishizaki Masato finiscono per imbattersi nella scena dell'omicidio della famiglia Noguchi, a causa di un piano da loro ideato. Nishizaki viene arrestato sulla scena e condannato a 10 anni di prigione per la sua confessione volontaria.
10 anni dopo, Takano Shigeru, un ex agente di polizia che nutre dubbi sul verdetto di questo caso, inizia a cercare la verità sul caso. È convinto che tutto sia iniziato a seguito di un incidente causato da Nozomi e Naruse su un'isola nel Mare Interno di Seto nell'estate di 15 anni fa.
"Hanno commesso un crimine in quel momento ed era per il bene di N." [mydramalist]
Tuttavia contro ogni mia previsione, la serie si concentra sull'emotività e sull'introspezione piuttosto che sulla risoluzione del caso. Non ci sono ricerca di prove, visionamenti di telecamere o tutto ciò che di solito vediamo in un drama di ricerca della verità, poiché Testimony Of N decide di narrare le vicende concentrandosi sui personaggi, sulle loro psicologie e traumi. La logica narrativa viene dunque piegata al simbolismo, alle emozioni, con le azioni dei personaggi che risultano esagerate fino a diventare quasi poetiche.
Protagonista principale non è tanto l'omicidio, l'azione di morte e chi sia stato ma sono i temi a farla da padrone: dalle varie sfumature dell'amore, agli obbiettivi per il futuro. E ancora, il senso di colpa, il tema dell'abbandono e della redenzione, per dirne alcune.
Ne è un esempio lampante la storia tra i due lead protagonisti, dove la ragazza protagonista decide di coprire il crimine dell'altro, gesto di una simbologia così grande che si parla di " un amore dove si condivide il peccato." Il loro legame è così forte che si proteggeranno a prescindere da qualsiasi crimine uno dei due possa compiere.
E se da una parte tutto ciò è bellissimo, dall'altra , da un punto di vista logico e narrativo, tutto questo sentimento un po' mi decade quando scopri che in realtà lui non ha commesso alcun crimine. Certo, rimane l'azione di lei nel proteggere il ragazzo che gli piace a prescindere da tutto. L' amore incondizionato appunto. Ma d'altra parte, mi sento derubata sulla trama poiché non esiste nessuna motivazione iniziale, nessuna azione criminosa compiuta dal lead.
Ovviamente, è il gesto che conta. Questo è quello che la serie ci sta dicendo. E ripeto, è molto bello. Poetico. Ma onestamente mi sono sentita un po' presa in giro.
Un esempio simile lo si più trovare nel finale con Nishizaki che si offre come volontario nell' assassino della coppia, nonostante sia innocente, poiché da bambino non ha salvato sua madre dall'incendio in cui è morta. Siccome non ha pagato per quel "peccato" eri un bambino figliolo!!! si prende l'incarico di colpevolezza per questo assassinio. Per espiare i suoi crimini verso la madre, dice. Tutto molto bello. Molto poetico.
Ma 1) eri un bambino abusato da tua madre che nelle belle giornate ti usava come posacenere e 2) sono due crimini diversi con contesti e protagonisti diversi.
Questa scelta narrativa da una parte mi è piaciuta poiché offre una visione diversa, emotiva e poetica della storia mostrando come anche una serie così possa esser raccontata in modo differente dal solito. Dall'altra però, non ha soddisfatto la parte investigativa che c'è in me. Quella che non vedeva l'ora di mettere insieme pezzi e prove per scoprire assieme alla polizia il colpevole. Nonché quella che ama la logica narrativa ed il cinismo della ragione.
Testimony offre poi uno sguardo intenso e approfondito dei suoi personaggi, gran parte con traumi e abusi infantili che si riflettono poi nelle loro vite da adulti e questo mi è piaciuto molto. Il fatto che ciò che hanno subito da piccoli si ripercuota emotivamente su loro da adulti è una cosa che ho trovato affasciante.
Onestamente, non ho mai trovato così tanti characters con un infanzia così difficile come in questa serie, dando la palma d'oro alla protagonista femminile. Chiariamoci, non è che gli altri se la passassero meglio... ma vederla piangere nel finale assieme alla madre, mentre finalmente lascia uscire fuori tutto il dolore e la paura di morire, sapendo la sua storia e quando sia stata dura per lei arrivare fino a qui, ha commosso pure me.
La serie fa infatti un lavoro encomiabile nel tratteggiare i suoi personaggi, grazie anche alla divisione della storia in 3 linee temporali diverse che ripercorrono la vita di questi ragazzi, mostrandoci come e perché siano così psicologicamente strutturati e perché abbiano fatto quello che hanno fatto. Così facendo lo spettatore può empatizzare per loro, comprenderli e sentirli molto più vicini.
La decisione di strutturare la storia in tre linee che coprono anni mi ha un po' destabilizzata all'inizio: capire in che periodo di vita dei ragazzi fossimo e tenere le fila delle vicende non è stato facilissimo ma dopo un po' ci ho preso la mano ed è diventato sempre più facile. Anche se ciò presuppone un attenzione costante da parte dello spettatore.
La serie ha inoltre due grandi colpi di scena. E se sul primo possono esserci degli indizi, il secondo è totalmente inaspettato. Sfido chiunque ad arrivare alla fine e sgamare il colpone nascosto! XD
Concludendo: pur non essendo nella mia lista dei drama preferiti, Testimony of N è un bel drama. Ed è fatto bene. Profondo, tragico ed introspettivo con buonissimi colpi di scena, la serie regala allo spettatore che cerca un drama più riflessivo, ottime ore di visione con personaggi intriganti ed interessanti. Visione da evitare invece se come me cercate un drama più legato a canoni d'investigativo e poliziesco, che ruota sulla ricerca della verità.
Voto: 7.8
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(AND MY, MY LOVE HAD BEEN) FROZEN II
*Attenzione: contiene spoiler, commenti caustici e tracce di frutta a guscio*
Ralph Spacca Internet è stato un quarto di delusione.
Maleficent - Signora del male è stato una mezza delusione.
Frozen II - Il segreto di Arendelle è stato una delusione intera.
Il grafico a torta del mio disappunto ha la farcitura alla confettura di more quando credevi ci sarebbe stata la Nutella.
Frozen - Il regno di ghiaccio è il mio film d’animazione Disney preferito, e siccome riesco a funzionare soltanto un limitato periodo di tempo lontana dalle sorelle di Arendelle, sei anni dopo sono andata al cinema felice come un quokka che ha appena lanciato i piccoli quokki contro il predatore, perché così può vivere un altro giorno.
(che poi, dai, fare cuccioli quokki in questa economia?)
Se non fosse che la felicità di avere un’altra storia ambientata nei fiordi norvegesi ha obnubilato il mio raziocinio, e mi ha resa dimentica del motto che mi aiuta ad arrivare a fine giornata con pacata rassegnazione (motto che, se fossi un personaggio di Game of Thrones, sarebbe sullo stemma della mia casata): “La vita è miseria e poi si muore”.
Ecco. La miseria qua è data dal fatto che Frozen II - Il segreto di Arendelle, è proprio brutto non è assolutamente all’altezza del suo predecessore, e per quel che mi riguarda manca di tutto ciò che ha reso il primo film grandioso.
Alcune cose - ben poche, per la verità - mi sono piaciute, altrettanto poche mi hanno divertita, e sebbene la mia astinenza per le sorelle di Arendelle sia stata abbastanza placata, il film poteva essere migliore.
Molto migliore.
Migliorissimo.
Innanzitutto, non ho potuto fare a meno di notare una certa pigrizia narrativa (che si trascinerà per tutto il film), per cui già all’inizio ho pensato “Sì, vabbè, che palle, andiamo al sodo”. Il film si apre infatti con un flashback di Anna ed Elsa da piccole insieme ai genitori, i quali - oltre ad aver creato traumi indicibili nella psiche delle figlie, come abbiamo avuto modo di scoprire sei anni fa - fanno anche un’altra cosa che mi ha fatto dire “Ma che, davero?”: espongono per mezzo dell’“infodump”. L’esposizione è l’inserimento di informazioni all’interno di una narrazione, e l’infodump è il modo (erroneo) con cui quelle informazioni vengono veicolate al lettore o allo spettatore: tante (troppe) e tutte insieme. Chi fruisce la storia si trova sommerso di nozioni, a carriolate proprio, e non può fare altro che annaspare in cerca di aria. È un artificio, anzi, una paraculata, e non una tecnica narrativa legittima. Questo perché le informazioni vanno diluite e centellinate nel corso della storia (di tutta la storia), non sono mai qualcosa di cui liberarsi furbescamente appena possibile, così da poter passare oltre. Il Re ci rende partecipi all’inizio di tutto ciò che ci servirà dopo (e non sono certo poche cose), e lo stesso fa la Regina, lei però cantando. E il fatto che l’infodump sia camuffato uno da storia della buonanotte e l’altro da canzone è soltanto una paraculata nella paraculata.
Il flashback, invece, è una tecnica ben nota nella narrazione, ma non per questo significa che può essere utilizzata a prescindere e impunemente. Se l’infodump non va mai bene, il flashback deve comunque essere dosato e non abusato, e posto in punti della storia dove è assolutamente necessario che vi sia. Frozen II se l’è sparato proprio all’inizio (della serie “Famo ‘sta sceneggiata così poi passiamo alla roba interessante”), e per me è un grande “no”.
E non fatevi confondere dal fatto che anche Il regno di ghiaccio si apre con Anna ed Elsa da piccole: in quel caso è semplicemente il vero inizio della storia, nel passato rispetto al tempo della storia stessa, che copre velocemente diversi anni fino a quando non ci mettiamo in pari col presente. Nel caso del secondo film, invece, quella scena non è che un non richiesto salto temporale all’indietro rispetto al tempo della narrazione. Ed è proprio questo il problema: io voglio sapere - dopo sei anni - cosa stanno facendo i personaggi che ho tanto amato, come si sono adattati ai cambiamenti portati dal primo film, in che modo sono maturati, quali altre sfide personali li attendono (ovvero quello che il teorico Christopher Vogler etichetta come “Mondo ordinario”, e che colloca all’inizio del primo atto delle storie). Se per rispondere a questi quesiti deve aspettare dieci minuti, il pubblico inizia diventare insofferente. E perché mai alienarselo fin da subito?
In buona sostanza, se l’unico modo che hanno trovato per informare lo spettatore degli antefatti è l’infodump a mezzo flashback, significa che il film andava ripensato strutturalmente daccapo.
A differenza del primo film, che era “character-driven”, Frozen II è invece “plot-driven”. Banalmente, significa che in uno la narrazione “si concentra sul conflitto interno dei personaggi, sui rapporti dei personaggi tra loro. Anche gli obiettivi sono interni. Traumi da superare, errori a cui rimediare, convinzioni da correggere. I cambiamenti sono soprattutto di carattere intimo, personale [...]”, nell’altro “la narrazione si concentra sul conflitto esterno, sull’azione. Gli obiettivi sono esterni: qualcosa da trovare, qualcuno da salvare [...]”*. Nel Regno di ghiaccio, Elsa perde il controllo e Anna vuole aiutarla a sistemare le cose. L’inverno perenne e il pericolo corso da Arendelle sono solo una necessaria conseguenza materiale del malessere immateriale di Elsa e come tale, perché possa risolverla, Elsa deve superare il proprio trauma e accantonare le convinzioni errate che aveva su se stessa. Anna, dal canto suo, deve maturare, e deve colmare quel vuoto che la freddezza di Elsa le ha scavato dentro. In Frozen II, invece, Arendelle è in pericolo perché Elsa, dal nulla e completamente a caso e senza nemmeno avere una mezza idea di come abbia fatto (né lei né noi, perché un conto è l’inverno perenne, coerente coi suoi poteri, e un conto è questo), risveglia i famigerati spiriti della Foresta. Almeno Evelyn che risveglia Imothep ha senso: ha senso perché era un’archeologa competente relegata a fare la bibliotecaria, si trova davanti un manufatto di importanza colossale e decide di leggerlo perché, da persona studiosa e razionale com’è, non crede “alle favole e alle leggende”. Nella decisione di leggere il libro dei morti c’è la solida caratterizzazione del personaggio e la trama si mette inevitabilmente in moto. In Frozen II la cosa è lasciata totalmente a sé stessa, e sebbene sia stata Elsa a risvegliare gli spiriti (cioè ha compiuto attivamente un’azione), il suo gesto non è pregnante come lo è nella Mummia. Gli spiriti potevano risvegliarsi in altre mille maniere diverse, e tutte probabilmente molto più valide.
Quindi, per quanto la posta in gioco sia altissima - la salvezza di Arendelle - non si riesce mai a entrare in sintonia perfetta con le motivazioni dei personaggi, perché il gesto di Elsa non trova una spiegazione sufficientemente apprezzabile, o addirittura adeguata. Dicevo che che l’inverno perenne del primo film è conseguenza del malessere di Elsa. A voler ben guardare (ma proprio con il lanternino) forse si potrebbe dire che anche il risveglio degli spiriti sia conseguenza del (vago e comunque poco approfondito) tormento di Elsa (perché si sente un pesce fuor d’acqua, e sembrerebbe dirlo nella canzone Nell’ignoto): ciò non toglie che non capisco come i suoi poteri di ghiaccio possano fare qualcosa di quel genere. Quindi l’unica risposta che posso darmi è che anche l’azione di Elsa (come i dialoghi tra Anna e Kristoff, e lo vedremo poi) ha avuto luogo soltanto perché così è stato deciso dagli sceneggiatori, e non perché richiesto dallo sviluppo organico della storia (e della psiche del personaggio).
E poi, perché diavolo la voce che chiama Elsa, la chiama proprio adesso? Perché non subito dopo l’incoronazione? Perché non fra vent’anni? Perché non quando era piccola? Perché era in agenda proprio per quel giorno e non per un altro? Perché faceva comodo così? Ochèi.
Siccome la voce, che poi è sua madre (toh!) avrebbe potuto chiamare Elsa in qualsiasi istante dello spazio-tempo, e non c’è una ragione perché lo faccia proprio ora, ciò va a detrimento della caratterizzazione di Elsa. Questo perché Elsa decide di imbarcarsi in un viaggio introspettivo non perché arrivata lei stessa a un punto di rottura, ma perché approfitta di una circostanza capitata in quel momento (e che poteva capitare in qualsiasi altro). Anche se vediamo Elsa agire e prendere decisioni, c’è comunque, nella sua avventura, una componente passiva che mi ha infastidita parecchio.
Per concludere quindi il ragionamento: per quanto, ovviamente, un film plot-driven sia un’opzione validissima (La Mummia che citavo è plot-driven), credo che un sequel di questo genere non possa che risultare soccombente (e molto meno incisivo) rispetto a un predecessore character-driven. Se infatti sei anni fa ero uscita dal cinema con tante riflessioni sulla psicologia dei personaggi, sui conflitti di una e sulla determinazione dell’altra, riflessioni che mi sono divertita a sviscerare in diversi post, questa volta sono uscita con l’unico pensiero di cercare di ricordare dove avevo parcheggiato.
E tutto ciò ci porta all’altro difetto importante di questo film, brevemente già menzionato, ovvero la caratterizzazione dei personaggi. Nel primo Frozen, il disagio di Elsa lo percepiamo fin da subito: ha paura, si considera un mostro, non riesce a venire a patti con la sua natura, per proteggere chi le è più cara ha dovuto allontanarla.
In Frozen II Elsa è ormai regina da sei anni, e noi non abbiamo idea alcuna (o comunque soltanto molto vaga) di come si senta nella sua vita attuale: il fatto che forse non sia mai del tutto riuscita a venire a patti con i doveri che derivano dall’essere regina, e con l’essere l’unica persona di Arendelle ad avere poteri magici lo scopriamo solo alla fine, quando abdica in favore di Anna e decide di restare in mezzo alla foresta, tipo DiCaprio in The Revenant ma con un miglior gusto nel vestire. Ecco, io allora avrei dedicato molto più tempo a scavare nella psicologia di Elsa - e non di una Elsa qualunque ma di una Elsa post Regno di ghiaccio - anziché a istruire il pubblico con una lezioncina sul perché e sul percome della Foresta incantata. Soltanto se avessimo avuto una buona contezza dei suoi tormenti attuali (del tipo: perché nonostante sia stata pienamente accettata dal regno, ancora sente di non appartenere ad Arendelle?) avremmo potuto comprendere molto di più le sue ragioni e le sue decisioni, non ultima quella, insignificantissima, di cedere la corona. Che per carità, io sono davvero felice che Elsa abbia finalmente trovato se stessa e sia in pace nel luogo cui è convinta di appartenere, ma la sua è una risposta a domande che il film ha dimenticato di porci.
D’altro canto, Anna regina è un big fucking yes: la sua ascesa al trono è un quid pluris rispetto a chi ascende soltanto per privilegio di nascita. Anna, infatti, ha dimostrato di avere la personalità di un leader, cosa che (almeno questa) è stata coltivata fin dal primo film. E se qui non ha potuto seguire Elsa fino in fondo, è stato soltanto perché Elsa gliel’ha materialmente impedito. Sebbene Anna sia la sorella minore, per certi versi più immatura, di certo più svagata, non si è mai tirata indietro di fronte a una sfida, e ha sempre dimostrato abnegazione verso gli altri: l’idea di averla in posizione di comando non è affatto campata per aria, e anzi la trovo anche ben giustificata.
La sottotrama relativa a Kristoff e ai suoi goffi tentativi di chiedere la mano di Anna invece è simpatica, ma nulla di più. E i battibecchi tra lui e la principessa sulla carta saranno stati anche carini, ma nella resa sono apparsi forzati, non naturali. Anna sembrava che di proposito volesse fraintendere quello che Kristoff diceva, così tanto per (anche perché dopo tre anni eventuali problemi di comunicazione dovrebbero essere stati risolti). Un esempio su tutti quando, nel mezzo della foresta, Kristoff dice che in circostanze diverse la situazione sarebbe stata piuttosto romantica, e Anna parte subito per la tangente: “In altre circostanze nel senso con un’altra persona?”. Anna, eddaje, non è fisica quantistica, in altre circostanze nel senso “in un momento in cui Arendelle non si trovi sull’orlo della distruzione”. Il suo timore che Kristoff non abbia più interesse per lei, questo sì che è totalmente campato per aria, ed è presente soltanto perché è stato voluto a tavolino in fase di sceneggiatura. Dovrebbero divertire i fraintendimenti di Anna, perché il pubblico sa che è fuori strada (dopotutto Kristoff cerca di chiederle di sposarlo, mica di mollarla), ma in realtà irritano e basta.
E Kristoff, a ogni fraintendimento di Anna, non reagisce mai come sarebbe (narrativamente) opportuno, ma farfuglia sempre e solo giustificazioni senza apportare alcunché alla conversazione. Non c’è mai un vero e proprio “botta e risposta”. Ora, i dialoghi sono l’habitat naturale dei cosiddetti “beat”. I beat non sono altro che transizioni emozionali da un personaggio all’altro. Ad esempio, un personaggio, triste, può dire a un altro personaggio che è triste: quest’ultimo può divenire triste a sua volta, oppure può provare a ribattere e a infondere all’altro un po’ di gioia, e di conseguenza il primo diviene meno triste. Banalmente, quindi, è un costante dare e avere, e si esplica nei dialoghi. Un rimbalzo emozionale continuo da un personaggio all’altro, una partita di tennis giocata con le parole. Nelle scene con Anna e Kristoff questa cosa io, stavolta, non l’ho vista affatto. In un confronto necessario (e in un parallelo perfetto, perché mi vengono in mente le scene a bordo della slitta), i dialoghi tra i due nel Regno di ghiaccio avevano una carica molto più energica, e per ogni colpo sferrato corrispondeva un colpo incassato, da una parte e dall’altra. Pensate ai dialoghi tra Anya e Dimitri in Anastasia (ad esempio, nella seconda scena sul treno) e capirete perfettamente cosa intendo.
E che dire della “morte” di Olaf? Di per sé sarebbe stata una scena dal grandissimo impatto emotivo, traumatizzante perfino, roba che se l’avessi vista da bambina sarei cresciuta disturbata al punto da diventare una serial killer oppure da iscrivermi a giurisprudenza, se non fosse che la lieta risoluzione era stata telefonata già all’inizio del film. Il concetto che “l’acqua ha memoria” è stato ripetuto fino allo sfinimento, così insistentemente (troppo insistentemente) che era ovvio che avrebbe costituito la soluzione di quella sfortunata vicenda. Potreste obiettare che, all’inizio, ancora non si sarebbe certo potuto sapere che Olaf si sarebbe sciolto. No, ma era impossibile anche ignorare le insegne al neon lampeggianti, disseminate nei primi due atti, con scritto “L’acqua ha memoria”. Lo spettatore non dico scafato, ma solo mediamente attento, la prima cosa che pensa è: “Se insistono così tanto su questo concetto, vuol dire che sarà importante più in là”. Lo spettatore può non sapere di cosa quel concetto sia la soluzione, ma non può certo dire di non aver capito che fosse la soluzione a qualcosa. Così, quando vediamo il mucchietto di neve, anziché disperarci ci limitiamo a pensare che non sarà una condizione permanente, e tutta l’emozione che avremmo dovuto provare davanti a una scena simile, semplicemente non la proviamo. E infatti Olaf, novello Nazareno, torna in vita perché il mucchietto di neve ne ha conservata la memoria. Ora, di per sé questa cosa ci starebbe pure, non è sbagliata, anzi, trattasi di una tecnica narrativa imprescindibile. Il problema è che l’hanno usata male. In gergo, piazzare in un punto della storia - in genere nel primo atto - un’informazione che sarà cruciale alla fine prende il nome di “planting and payoff” (semina e raccolta), ed è forse una delle cose che mi piacciono di più dell’arte antica dello storytelling. In questo caso, però, la semina è stata così palese, così lapalissiana, da avere come conseguenza quella di aver svuotato di qualsiasi carica emotiva la resurrezione dell’amato pupazzo di neve. Semplicemente, sapevamo (o ci aspettavamo) che sarebbe accaduto, e non ne siamo stati sorpresi o emotivamente colpiti. È venuto meno, in buona sostanza, quel senso di freschezza, di genialità e di originalità che aveva caratterizzato il Regno di ghiaccio, il quale, in una serie di ben congegnati plot twist e di sovvertimenti del canone delle fiabe (il principe vestito di bianco non è l’eroe ma il cattivo, e il vero amore risolutivo non è quello romantico ma quello fraterno), ha fatto sì che lo scioglimento di Anna ci cogliesse tutti abbastanza impreparati. Non dico che giunti a quel punto fosse impossibile rendersi conto di quello che sarebbe avvenuto, ma di certo non l’abbiamo capito all’inizio del film come in questo caso. Sarebbe stato molto più efficace se avessero fatto un’unica, singola semina di quel concetto, lasciare che lo spettatore lo “registrasse” nel subconscio, e lasciargli fare due più due alla fine,“col senno di poi”, ovvero una volta visto Olaf ricomporsi. Così mantenendo in vita il senso di freschezza e di sorpresa.
Per contro, ben più sottile e per questo molto più apprezzato, il “planting” (che forse è più un foreshadowing, cioè un’anticipazione) di Anna che, all’inizio del film, abbraccia Olaf e gli canta “I’m holding on tight to you” (che nell’adattamento italiano purtroppo si è perso), cosa che la vediamo effettivamente fare quando il pupazzo le muore in grembo.
La memoria dell’acqua, peraltro, costituisce anche un pigro e forzato “plot device”, ovvero l’espediente narrativo per cui un elemento della narrazione viene introdotto dall’autore “in modo deliberato, con lo scopo unico o principale di consentire un determinato sviluppo della trama”**. È proprio grazie ad esso che Elsa scopre i segreti della sua famiglia e di quello che è realmente accaduto alla Foresta incantata, ovvero tutto ciò che serve sapere a lei e ad Anna (che capisce di dover distruggere la diga) per risolvere la situazione. Decisamente troppo comodo così. Anche in questo caso, se l’unico modo per portare avanti la trama è fare uso di mezzucci, significa che la storia ha un problema di fondo abbastanza importante, e andava rivista a livello di struttura.
Altra cosa che mi ha fatto storcere il naso è il modo in cui viene impedita la distruzione di Arendelle, ovvero Elsa che congela lo tsunami provocato dalla rottura della diga. Tutto bello e tutto giusto e forse anche legittimo, se non fosse che Elsa fino a tre decimi di secondo prima era congelata ella stessa, e il suo arrivo improvviso in sella al cavallo acquatico a salvare la situazione ha tanto il sapore di un deus ex machina. Anche qui, ma che, davero?
Infine, sul serio volete farmi credere che Elsa andrà il venerdì alla serata giochi, ma è restata nella foresta il giorno dell’incoronazione di Anna? Cosa sono, arresti domiciliari? Essù, le basi proprio.
In definitiva, questo film non mi ha lasciato nulla, ma nulla proprio, se non la sensazione che la storia sia stata palesemente (e in modo grossolano) costruita a posteriori, e che all’epoca del primo film non avessero abbozzato nemmeno mezza idea di sequel. Quello che manca è un’organicità, un filo conduttore che sia veramente un ponte tra i due i film (tanto quanto Elsa è un ponte tra due culture), e non una cosa posticcia e incollata ex post come è la storia di questo secondo film. Per dire, veniamo a scoprire che Iduna, la madre di Anna ed Elsa, fa parte - guarda caso - del popolo dei Northuldri, la cui popolazione ha i peculiari tratti somatici delle popolazioni artiche. Ebbene, la genetica non è un’opinione, eppure né Iduna, né Anna né Elsa hanno ereditato alcuno di quei tratti. Ecco, venitemi a dire che questo plot twist non sia stato creato a tavolino anni dopo. Stessa cosa per lo scialle della madre, che guarda caso Elsa inizia ad indossare in questo film, ed è proprio lo stesso scialle che permetterà di riconoscere Iduna come una degli appartenenti ai Northuldri. E lo stesso discorso vale per il vascello di Arendelle scopertosi arenato non nei mari del sud, ma guarda caso nel mare oscuro, a due passi da casa e a due passi dal ghiacciaio Ahtohallan (che sulla mappa sembrava lontanissimo e invece tra quello e Arendelle c’è tipo la stessa distanza che c’è, boh, tra Ancona e Sirolo). Troppi “guarda caso” per i miei gusti, ecco.
Inutile dire che Frozen II mi ha reso timorosa del futuro: c’è un altro film che aspetto con vera impazienza, il sequel di quello che per me è stato il miglior film del 2018, cioè A Quiet Place. E se mi tradisce John Krasinski come mi ha tradito Frozen II, io non ho davvero più alcun motivo per campare andare al cinema.
Per quanto invece riguarda le canzoni, anche se ci ho messo un po’ ad orecchiarle, dai e dai mi sono piaciute. L’unica che, per quanto bellina, mi ha lasciata veramente perplessa è quella di Kristoff, troppo poppettara rispetto al resto, e soprattutto sembrava la parodia (voluta? Non voluta?) di un pessimo video musicale anni ’80. Forse è stato questo il mio più grande “ma che, davero?”.
Ma la verità è che, musicalmente parlando, c’è solo una cosa che è fuori da ogni grazia di Dio: la versione di Nell’ignoto fatta da Giuliano Sangiorgi. Siccome per un’ora e mezza di film non avevo sofferto abbastanza, lui ci ha voluto mettere il carico. Credo che i miei timpani ne siano usciti irrimediabilmente danneggiati, ed è stata la prima volta in vita mia in cui ho rimpianto di non avere l’otite. Sangiorgi macella canta la canzone nei titoli di coda, cosa che in originale è spettata a Brendon Urie dei Panic! At The Disco, con la piccola differenza che il primo, rispetto al secondo, non arriva alle note alte nemmeno con l’ausilio dell’autoscala dei pompieri. Non solo, ma la voce gli cala come un aereo che precipita verso l’inevitabile spiaccicamento, che in tutta onestà è una fine preferibile rispetto al dover sentire lui mentre viene sgozzato. Se pensavate che la versione di All’alba sorgerò fatta da Violetta fosse terribile, fidatevi: questa è peggio. L’unica consolazione è che Serena Autieri nel canto fa sempre la sua porca figura e pertanto la sua interpretazione, calda, lirica, viva, piena di emozione, è approvatissima (e infatti la ascolto a ruota). Come, Ça va sans dire, è approvatissima quella di Brendon Urie.
Ora, mi rendo conto di aver scritto un post veramente molto critico, quindi vorrei chiudere su alcune note positive (note che comunque Sangiorgi non sarebbe in grado di prendere):
la quasi totale assenza dei troll di montagna. Perché davvero, un’altra canzone come quella del primo film e mi sarei fatta brillare in mezzo alla sala;
la salamandra spirito del fuoco, che è carina e coccolosa tanto quanto il Pascal di Rapunzel;
il riassunto di Olaf (sia nel film sia nella scena post credit)
la fiducia incondizionata che Anna ripone in Elsa, e il supporto che non manca mai di darle;
la reunion tra Anna, Elsa, Kristoff e Olaf;
in particolare, quella tra Elsa e Kristoff, perché è bello vedere come il montanaro si sia scavato una nicchia nel cuore della cognata (anche considerato quanto Elsa sia protettiva verso Anna)
la reazione di Anna alla proposta di matrimonio, che ho trovato molto realistica e ben poco cartoonesca. Adesso mi serve un terzo film (possibilmente migliore di questo) con almeno un paio di piccoli quokki dai capelli rossi, perché voglio vedere Anna genitore 1 ed Elsa e Olaf zii;
l’ho già detto e lo ripeto, Anna regina di Arendelle. A vederla, mi sono sentita orgogliosa come una vecchia zia;
Olaf tutto in ghingheri con un abito da cerimonia, nonostante avesse detto che i vestiti gli danno noia, perché evidentemente per Anna era disposto a fare un sacrificio;
il contatto fisico tra le sorelle: non per forza le cose eclatanti come gli abbracci di reunion, ma anche e sopratutto le piccole, come una mano appoggiata su un braccio. Dopo quella distanza che Elsa aveva imposto fino a tre anni prima, vederle così vicine ha sciolto il mio cuore arido e criticone;
in generale, la fotografia, l’animazione e le scene d’azione, che non hanno nulla da invidiare a quelle di un film di avventura dura e pura (ho adorato Anna che si fa inseguire dai giganti e li costringe a distruggere la diga). Se non fosse che con le sole scene d’azione ci faccio poco: io sono affamata di belle storie e di personaggi approfonditi, e questo Frozen II è carente sia delle une sia degli altri.
Quindi niente, credo che ora andrò a rivedermi il Frozen-arc di Once Upon A Time, un telefilm a cui sono affezionatissima anche se fatto da sceneggiatori che più passava il tempo più diventavano cialtroni, ma che almeno quella storyline l’hanno fatta davvero bene. Cosa che di certo non si può dire di questo film. * Le definizioni riportate sono tratte dall’articolo “Meglio un romanzo plot-driven o character-driven?” di Edy Tassi (che ringrazio per avermi concesso di citarle), pubblicato su www.edytassi.it
** Definizione tratta da Wikipedia alla voce “Espediente narrativo”
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Non devi aspettarti di aver raggiunto grandi obbiettivi e avere già la tua vita sistemata a 25 anni. Non è realistico, non succede quasi a nessuno.
Hai un valore intrinseco al di sopra e al di là della tua utilità percepita dalle altre persone e dalla società in generale. Sei una persona e sei valida per le tue qualità personali, non importa se sono diverse da quelle delle persone che ti circondano o se hai difficoltà a renderle evidenti.
Non devi fare sesso per forza, o comunque non devi sentirti in dovere di fare sesso in alcun modo che trovi spiacevole o del quale non sei convinto/a. Nemmeno per mantenere l'amore di qualcuno o una buona opinione di te. Ognuno ha i suoi limiti, la propria sicurezza ed insicurezza sulle cose e va bene così.
Non devi stare necessariamente con qualcuno che non soddisfa i tuoi bisogni emotivi o sessuali, perché hanno bisogno di te o sei stato con loro per un po ', o hai bisogno di essere in una relazione. Hai bisogno di te prima di tutto, e della tua salute psicofisica. Il tuo tempo è tuo ed è limitato.
Va bene fare un lavoro che ti piace e che non ti rende infelice anche se non è un posto in cui farai carriera e ‘‘non porterà a niente’’. Per cominciare va bene anche un lavoro temporaneo che sia abbastanza adatto alla tua persona da permetterti di inserirti nel mondo lavorativo senza traumi e senza grosse pretese. Non puoi aspettarti di fare ‘’il lavoro della tua vita’’ da subito.
La tua vita non è una narrativa. Non sta portando a niente di specifico, non c'è una tesi generale, non ha temi al di là delle solite esperienze culturali condivise del tuo tempo e generazione. Questo va bene. Ciò non significa che la tua vita sia senza scopo o significato. Ma non aspettarti che sia un film.
Va bene non piacere o andare d'accordo con la stragrande maggioranza delle persone che incontri, purché tu mantenga lo stesso rispetto, cortesia e dignità che ti offrono. Non devi apprezzare tutti, ma il rispetto di base deve essere la norma.
Costoso non significa sempre Migliore.
Il fallimento è una condizione temporanea, se sei ancora vivo/a.
Le persone sono molto migliori o molto peggiori di quel che ti aspetti, ma non le due cose in contemporanea.
Smetti di pensare al tuo futuro te stesso come a una persona diversa e sarà più facile prevenire problemi di denaro e di salute.
Lascia che le persone ti aiutino, appoggiati a loro quando ne hai bisogno e sii disponibile ad aiutare, ma non approfittarti troppo della gentilezza altrui, nè lascia che si approfittino di te. Cerca di portare la metà del tuo peso il più uniformemente possibile.
Poni i tuoi limiti e non aver paura di cacciare le persone dalla tua vita che li ignorano. Non finirai da solo e non amato. Le persone che ti amano accetteranno i tuoi confini.
Il tuo potere non deriva dal denaro o dalla bellezza, ma dal vedere la vita in modo costante e totale, da una mente curiosa e riflessiva, e dalla tua capacità di dire di no quando non vuoi, sì quando vuoi, e io non so quando non lo sai. Consentiti di avere dei dubbi e di navigare in essi fino al momento di scegliere una soluzione ponderata, non devi pretendere da te stesso di capire e decidere sempre tutto subito quando sei in difficoltà.
Ci saranno brutti periodi, magari anche molti brutti periodi, ma considera che non ci saranno mai solo quelli.
L’amore non ti salva da tutto, non guarisce tutte le tue ferite più profonde e non ti dà tutta la sicurezza in te stesso che ti manca, ti dà la forza ed il supporto necessari per prendere coraggio e lavorare su te stesso e sui tuoi limiti personali e problemi.
La tua vita potrebbe essere una serie di nuovi inizi, di dover ricominciare daccapo, e va bene anche così.
Sei davvero forte, sei davvero bello/a, sei davvero speciale. Veramente. Non per tutti, ma per molti a volte. E in ogni caso, sei una persona unica e per questo valida tanto quanto tutti gli altri.
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Annie Ernaux
https://www.unadonnalgiorno.it/annie-ernaux/
Annie Ernaux è la più famosa scrittrice francese vivente.
Premio Nobel alla Letteratura nel 2022, nella sua carriera ha ricevuto un’infinità di altre onorificenze, tra cui il Premio Marguerite Yourcenar e il Premio Hemingway.
È nata a Lillebonne, in Normandia, il 1º settembre 1940, in una famiglia umile, i genitori erano operai poi diventati piccoli commercianti. Si è laureata all’Université de Rouen e ha iniziato a insegnare lettere moderne in un liceo.
Negli anni Settanta ha militato nel movimento femminista e scritto di politica su Le Monde.
Il suo romanzo d’esordio è stato Gli armadi vuoti, del 1974.
Attraverso le sue opere ha raccontato alcuni degli avvenimenti che hanno segnato la sua vita, un aborto clandestino in L’evento, una storia d’amore con un amante russo in Passione semplice, la morte di sua madre in Una vita di donna, il suo tumore in L’Usage de la photo.
Nel 2000 ha smesso di insegnare per dedicarsi completamente alla scrittura de Gli anni (Les Années), pubblicato nel 2008, vincitore di diversi importanti premi.
La sua opera non può essere classificata né come autobiografia né come romanzo al punto che, negli anni Ottanta, ha chiesto alla sua casa editrice, Gallimard, di rimuovere dalla copertina dei suoi libri qualsiasi riferimento a un particolare genere letterario.
La sua scrittura integra una varietà di generi differenti: prosa narrativa, diaristica, etnografia, sociologia e autobiografia.
L’allontanamento dalle categorie tradizionali della letteratura è l’elemento che maggiormente connota in senso innovativo la sua opera.
La sua scrittura è un atto politico che, come un coltello, sviscera chirurgicamente le memorie della vita.
Tratta i temi trascurati dalla letteratura convenzionale, raccontando le storie autentiche delle minoranze, definite les petits gens.
L’originalità del suo lavoro è la commistione fra letteratura e sociologia. Come il femminismo insegna, la sua narrazione fonde l’esperienza individuale con quella storica.
Il vissuto personale viene descritto come prodotto sociale.
Ha più volte affermato di essere un’etnologa di se stessa, di voler rifuggire dalla scrittura di una mera autobiografia, intesa come ricostruzione retrospettiva illusoria di sé.
Gli episodi della sua vita vengono narrati senza abbellimenti o interpretazioni, tralasciando le emozioni e frapponendo una distanza oggettiva. Annie Ernaux rivendica una scrittura neutrale “senza giudizio, senza metafore, senza paragoni romantici“, evocando uno stile “lento, che non esalta né svaluta i fatti raccontati,” ma che cerca di “rimanere in linea con i fatti storici documentati“.
Parla di sé senza farlo. Indaga ogni intima piega della sua vita, scandaglia ogni luce e ogni ombra della memoria di dolori e gioie, di assenze e presenze, di traumi e di epifanie, con sguardo tenuto fisso e focalizzato su ricordi, restando bene ancorata alla terra, attenta alla Storia, quella collettiva e corale che intanto, parallelamente, va svolgendosi.
Le sue narrazioni sono assolutamente intime eppure profondamente universali.
Annie Ernaux è una scrittrice che ha saputo porre il racconto di sé nel prisma del respiro del mondo e della storia. L’impietosa fedeltà alla propria vera voce, valore morale e estetico, impartisce lezioni di umanità e intelligenza letteraria.
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https://bookabook.it/libro/le-vite-concentriche-pablo-fortuna/
L’arte ci fa stare bene? Può sembrare una domanda retorica, ma secondo me è tra le questioni più complesse su cui si possa filosofare, ieri come oggi. Se è indubbio che l’arte svolge una funzione terapeutica, il valore di quella “terapia” è soggetto a infinite interpretazioni: letteratura e cinema di consumo vengono talvolta criticati per le loro qualità intorpidenti (ma se l’anestetico è amministrato nel giusto dosaggio, dove sta scritto che dovremmo privarcene?); una commedia brillante c’invita a rileggere le avversità quotidiane in un’ottica costruttiva, mentre un’opera satirica funge da livella omnidirezionale, con l’obiettivo, forse, di spingerci ad accettare le incongruenze della società in cui viviamo; e che dire del dramma? Del fantastico? Della dialettica anarchica rintracciabile nei migliori horror?
A mio parere, il processo di guarigione non dev’essere necessariamente morbido. Molte persone ascoltano canzoni cupe o malinconiche in ricerca di una “risonanza” che rifletta i loro problemi reali e, in qualche modo, li riconosca, li processi, magari li ridimensioni; lo stesso avviene con le storie dell’orrore – in particolare quelle di stampo psicologico –, che si servono d’immagini conturbanti per incarnare traumi, paure, fobie. A chi appartengono, però, questi traumi?
Un film assolutamente fuori dal comune, sia per la sua collocazione incerta nel pantheon delle sperimentazioni atipiche sia per il significato che gli attribuisco a livello personale, è “Luna” di Dave McKean. Si tratta di un dramma surrealista, o meglio, l’elaborazione di un lutto resa attraverso il compenetrarsi di sequenze live action e incantevoli trovate visive. L’arte, in questo caso, costituisce sia occasione di fuga che dolorosa opera di scavo: la vicenda non necessita di inutili jumpscare o momenti di tensione fini a sé stessi, perché il suo nucleo portante è l’indagine “umanistica” sul ruolo ricoperto dalla fantasia nella costruzione del nostro senso di realtà (laddove fantasia corrisponde a volontà e rappresentazione).
“Le vite concentriche di Pablo e Fortuna” nasce anche sulla scorta di questa filosofia narrativa. Nasce dal presupposto che sia possibile parlare di vicende quotidiane attingendo a un immaginario grottesco, onirico e in un certo senso impudico. L’arte, per come la vedo io, non è solo rigore formale o aulica sobrietà, e il lirismo si può trovare nei luoghi più insospettabili.
Il romanzo è preordinabile qui:
https://bookabook.it/libro/le-vite-concentriche-pablo-fortuna/
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Avrei visto Children of the Whales anche solo per la figaggine acquerellosa dei fondali.
Titolo: クジラの子らは砂上に歌う | Kujira no Kora wa Sajou ni Utau | Children of the Whales (Letteralmente: "I figli della balena cantano sulla sabbia".) Come si intitola davvero: L'angst della balena colpisce sulla sabbia Autore: Abi Umeda Episodi: 12 Studio: J.C. Staff Regia: Kyouhei Ishiguro
✓ In generale, la grafica è notevole, soprattutto...
✓ (x 5) I fondali acquerellosi. Non conoscendo il manga, l'anime ha attirato la mia attenzione grazie ai fondali disegnati e acquerellosi, che non solo non stonano e non rendono il tutto irreale, ma creano un'atmosfera "fiabesca" - e, in seguito, danno il giusto contrasto con le scene più forti.
✓ L'anime ha ovviamente contribuito a far conoscere il manga, e ha dunque permesso di far conoscere la fAigaggine delle sue copertine.
[x]
✓ Le sigle hanno delle musiche talmente adatte all'anime che non sfigurerebbero cantate durante gli episodi. Se volete farvi un'idea delle atmosfere di CotW, ascoltatele: rendono meglio di un riassunto accurato.
✓ Le "navi" sulla sabbia. Semplice e molto scenico.
✓ Le usanze della Balena di Fango, come il lasciare che le bare affondino nella sabbia sotto la Balena o il volo degli insetti luminosi, che caratterizzano la comunità.
✓ La distopia. CotW è una distopia in cui apatico è bene ed emotivo è male - letteralmente: gli abitanti dell'Impero non solo sono svuotati delle loro emozioni, ma non hanno neppure un vero nome proprio - difatti "Lykos" è il nome della nave su cui Chakuro l’ha incontrata. Ho trovato molto ben fatta questa contrapposizione tra l'Eden utopico della Balena di Fango (costretta ad abbandonare questo suo stato per cause di forza maggiore) e la crudeltà distopica dell'Impero.
✓ I figli della balena. Il protagonista, in teoria, sarebbe Chakuro: in realtà, Chakuro è il narratore, mentre i protagonisti sono tutti i figli della balena, la piccola comunità pacifista della Balena di Fango costretta ad affrontare minacce mai viste prima, con tutto ciò che ne consegue (rischio di guerra civile, cambio di mentalità, traumi assortiti) accentuato dalla loro naturale super emotività.
✓ L'umanità dei personaggi e il loro crescere in situazioni a loro sconosciute. C'è Chakuro, cresciuto in un paradiso fiabesco, che di colpo si vede morire tra le braccia la sua amica/amata e si ritrova coinvolto in una guerra; c'è Suou, che da un momento all'altro si ritrova a dover fare il capo senza avere idea di come si faccia, e a cercare di guidare il suo popolo inerme e pacifista contro un impero guerrafondaio; c'è Ouni, emarginato che vuole fuggire dalla Balena di Fango, che scopre un mondo molto meno piacevole del previsto e finisce con l'essere indicato come leader; di contro, c'è Lykos, cresciuta come un guscio vuoto, che all'improvviso deve sostenere il peso di tutte le emozioni per lei nuove. Li ho trovati molto naturali ed umani, nel loro completo spaesamento e nei loro diversi modi di affrontare le situazioni nuove.
✓ Liontari è uno psicopatico impazzito perché provvisto di un residuo di emozioni ma cresciuto in un mondo apatico. La sua storia è una delle più interessanti, proprio perché è il rovescio della medaglia della "positività delle emozioni" sbandierata dai protagonisti. Lui di per sé, invece, ho visto che lo odiano un po' tutti. Io non so cosa pensarne - a volte la sua (voluta) esagerazione nel delirio sanguinario mette un po' a disagio e fa quasi pietà - se non che il caschetto fucsia è semplicemente orribile.
! Chakuro non è "il protagonista" ma "il narratore", come detto sopra. Lui osserva e trascrive le vicende della Balena di Fango e dei suoi abitanti, mostra di avere una thymia difensiva incredibilmente istantanea, ma non aspettatevi che risolva tutto lui - anzi. Il ruolo di centro informazioni + botte è di Lykos, mentre quello che mena e puntualmente risolve la situazione è Ouni. Ogni tanto, anche Shaun si ricorda di essere il capitano - o qualcosa del genere.
! Suou è uguale a Francia/Francis Bonnefoy. Soprattutto chibi-Francia, con tanto di tunica.
✓ Orka, alla faccia dell'apatia, mi sembra molto appassionato nella sua spietatezza. Se non scade nel "sono kattiwoh perché sì" e va un po' oltre il "voglioH il potereH", avrebbe un ottimo potenziale come antagonista... peccato che appaia in modo decente solo negli ultimissimi episodi.
✓ I nomi e i termini in greco. La quasi totalità dei termini (ad esempio nous e thymia) e gran parte dei nomi (come Lykos, Liontari, Orka, Falaina) sono presi dal greco e mi fa un certo effetto sentirli in un anime. Mi è piaciuto. Menzione anche al fatto che, nella scrittura, vengano ugualmente usate le lettere dell’alfabeto greco. *Sì, ha fatto il classico, sì, fin dal quarto ginnasio ha iniziato ad inserire termini greci in tutto ciò che poteva perché le sembravano molto fAighi.*
! Certo, poi c'è la Balena chiamata Falena e scopri che hanno effettivamente la stessa etimologia. //inbaseacosa //maperché
✗ La strage dei personaggi. Il tasso di mortalità di questo anime è talmente alto che, più di una volta, ho detto "Muore pure lui/lei?". Sia ben chiaro: è ovvio che, in una storia del genere, ci siano stragi. Un paio di volte sono addirittura necessarie per il proseguimento della trama. La morte di Sami e quella di Taisha sono vitali per l'inizio della storia, la morte di Nibi è molto importante per la caratterizzazione di Ouni; anche quella di Hakuji potrebbe avere un suo perché. Il "problema" è che c'è una generica strage di personaggi in soli dodici episodi, all'inizio della storia: muore Sami, che sembrava la coprotagonista (e mi ci sta, anzi, è un colpo di scena molto ben fatto), muore Taisha (anche questo mi ci sta), muoiono due membri del gruppetto di Ouni (che, in tutta onestà, potevano anche non mettere proprio, data la loro totale assenza di caratterizzazione), Neri non muore ma viene assorbita da Falaina fino a fine serie e viene sostituita dalla sua gemella in nero (sul serio!), Tokusa muore nello stesso episodio in cui viene presentato, tutte le ragazze che hanno accolto Lykos, tranne l'unica che si era presentata, Urumi, muoiono (nello stesso episodio di Tokusa), muore Nibi appena viene approfondito (nella stessa vicenda di Tokusa e delle ragazze), muore Hakuji per redimersi, muore Masou così com'era hintato da mezza serie, muore la moglie di Shuan che si suicida direttamente e forse sto pure dimenticando qualcuno. Notare che l'anime si apre con il funerale della maestra dei protagonisti. Con mia grande sorpresa, Kuchiba e Liontari non muoiono, ma vengono coinvolti in scene in cui sembrano morire. Mi chiedo se il gruppetto di Rochalizo non sia morto solo perché arrivato negli ultimi episodi - ma li vedo male, così come vedo male praticamente tutto il cast. Forse Chakuro, Lykos, Ouni e Suou sono ancora vivi solo perché una storia necessita di personaggi - quando si giungerà alla conclusione, però, non mi stupirei affatto di saperli defunti. Capisco che l'autore/trice abbia voluto dare un'atmosfera di disperazione - e ci è riuscit@ benissimo. Capisco che un paese pacifico che non conosce i mali del mondo, una volta attaccato militarmente, non può che avere ingenti perdite umane - e mi ci sta. Quel che non mi ha convinta affatto è che le morti sono talmente tante che finiscono con il perdere la loro drammaticità e diventare quasi una parodia - se ti ritrovi a pensare "Muore pure lui/lei?" invece di "Oh, no, è mort@!", allora credo ci sia qualcosa che non va. Non dico che le morti siano gratuite, ma forse si potevano diluire - diciamo che, se fossero morti solo Sami, Taisha, Nibi e Masou, l'empatia verso i personaggi ne avrebbe guadagnato, ecco.
✓ La morte di Sami. Sami e Chakuro erano innamorati, lei sembrava a tutti gli effetti la coprotagonista femminile, forse un po' messa in ombra da Lykos... e invece, a sorpresa, muore. E' un ottimo colpo di scena, molto ben fatto, le cui conseguenze durano per tutta la serie - non verrà mai dimenticata né da Suou né, soprattutto, da Chakuro, ma senza diventare un pensiero ossessivo. Mi dispiace sia morta, sia perché era simpatica sia perché non sarebbe stato male vedere Lykos con una compagnia femminile un po' più di spicco nella trama.
✓ La morte di Nibi. Nibi era apparso arrandom e, all'improvviso, ci sono un paio di episodi dedicati a lui, con flashback e approfondimenti, casualmente subito prima di una missione potenzialmente suicida. Le cose non potevano che essere due: o sarebbe assurto al ruolo di personaggio secondario in pianta stabile o sarebbe morto. Dato che si parla di CotW, la risposta mi pare scontata. La sua morte, le conseguenze che ha su Ouni e, soprattutto, la scena trip-mistico-simbolico della barca sono forse tra le parti migliori della serie.
! I gemelli cercano di scatenare una guerra civile, ma nessuno se li fila.
? Quel che è stato animato è letteralmente l'introduzione della trama e dei personaggi, con tutta la "pochezza" narrativa e di caratterizzazione che ne deriva. Come al solito. Se non altro, sembrerebbe prevista una seconda serie.
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Una distopia che ruota attorno alle emozioni: le emozioni hanno il loro peso, a volte insostenibile, tanto da diventare insopportabile; eppure, si deve trovare la forza di non ignorare e non soccombere alle emozioni negative, di andare avanti. Un'isola idilliaca che viene improvvisamente distrutta, la lotta di una piccola comunità pacifista, i "figli della Balena", per sopravvivere ad un Impero sanguinario. Sarebbe una storia corale, se non fosse per l'assurdamente alto tasso di mortalità della serie, che a volte rischia di scadere perfino nel facepalm. La grafica è particolare, "acquerellosa", "disegnata" (ma dai!), davvero bella da vedere e la terminologia in greco dà un tocco anticheggiante e solenne (?). Purtroppo è stato animato solo l'inizio (e quando mai-), probabilmente ci si è fermati giusto a ridosso della partenza della trama effettiva - visto che l'antagonista inizia a muoversi negli ultimi episodi... - ma sul finale sembrerebbe prevista una seconda serie. Un anime molto più riflessivo ed emotivo di quanto pensassi. Consigliato soprattutto agli amanti delle distopie, della malinconia e del sempiterno angst - e delle distopie angst malinconiche, ovviamente.
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La conclusione di Twin Peaks: una teoria su Cooper, Laura, Diane e Judy.
La conclusione di Twin Peaks: una teoria su Cooper, Laura, Diane e Judy, di David Auerbach.
Da www.waggish.org/2017/twin-peaks-finale/
traduzione di Giuseppe ‘Noiszueiv’ Iacobaci.
Ero già convinto che “Twin Peaks: The Return” sarebbe stato enormemente migliore della serie originale. Prima ancora della messa in onda della “première” scrissi questa previsione sul possibile meccanismo della nuova stagione. “Mi aspetto che parli di “Twin Peaks” -non della città, ma della narrazione stessa” scrissi. “La nuova stagione si avvolgerà intorno alla vecchia narrazione piuttosto che proseguirne la trama.”
La visione dell’ultima parte mi ha profondamente turbato: mi aspettavo un finale molto più compiuto. Avevo supposto che “The Return” sarebbe somigliato più a Inland Empire che alle serie originali, ma ero persuaso che la presenza di Frost e il fatto stesso di dare forma a diciotto ore di materiale avrebbero generato un arco narrativo più o meno dotato di ordine e coerenza. L'illusione è durata fino al finale ellittico, incredibilmente desolato, visceralmente disturbante come nessuna delle opere lynchiane. (Neppure i tre film che adoro, “Eraserhead, Mulholland Drive ’'e ’'Inland Empire” mi avevano turbato quanto questo finale; erano esperienze che mi avevano colpito su un piano più estetico che emotivo).
La rottura della coerenza narrativa e la mancanza di senso e spiegazioni hanno un effetto devastante, spaventoso, in particolare nella scena “d’amore” fra Cooper e Diane, e diventa una necessità provare a cercare una qualche spiegazione. Quello che segue è il mio tentativo di costruire una teoria partendo dal materiale sommerso sul quale Lynch ha costruito la parte 18. L'idea nasce dalla lettura da di questo post di Reddit (http://www.reddit.com/r/twinpeaks/comments/6ybyjy/s3e18_my_finale_theory_that_offers_a_dianecooper/) secondo il quale il mondo alternativo dell’episodio 18 sarebbe stato creato non dall’entità negativa Judy, ma dalla stessa Loggia Bianca come trappola per Judy. Quel post rappresenta un primo tentativo di dare un senso al particolare e devastante pathos dell’episodio finale, non esclusa l’inquietante, sconvolgente scena di sesso fra Cooper e Diane.
Alcune premesse da tenere a mente:
* Non sono il Doppelganger né Bob l’antagonista primario della stagione, ma Judy.
* Judy è(/viene rappresentata come) il mostro denominato Experiment, Mother, il simbolo di scarabeo munito di corna (è Jeffries a dirlo), il Jumping Man, i Chalfont/Tremond, e Sarah Palmer.
* Gordon Cole, Garland Briggs e Cooper hanno una piano di lunghissimo respiro per affrontare Judy, in collaborazione con Philip Jeffries e Mike.
* “Twin Peaks: The Return” ha una struttura simmetrica. Per esempio, Cooper entra nello stato catatonico di Dougie a due ore e mezza dall’inizio e si risveglia a due ore e mezza dalla fine.
* Le creature della Loggia Nera, compresa Judy, sono attratte da pena e dolore, cioè dalla garmonbozia, di cui si nutrono.
* L’elettricità è un’energia fondamentale, come il fuoco.
Ecco dunque la mia ipotesi sul piano contro Judy, e sul prezzo terribile della sua messa in atto. Nulla di tutto ciò che scrivo qui ha la pretesa di essere definitivo, è solo un’approssimazione di un’idea che trovo affascinante, chissà, magari somiglia a ciò che Frost aveva in mente prima che Lynch cominciasse ad improvvisarci sopra.
Il Fireman dice a Cooper nella primissima scena, “è nella nostra casa adesso”. Si riferisce a Judy e ai suoi accoliti. Il Fireman non è mai stato e mai sarà più serio e accigliato che in questa scena. Ciò che riferisce è terribile e richiede contromisure disperate. Dona quindi tre promemoria a Cooper: 4-3-0 (miglia fino al crocevia verso la realtà alternativa), Richard and Linda (gli alter ego di Cooper e Diane) e “Due piccioni con una fava” (il piano di Cooper). Non si sa per certo quando si svolga questa scena, potrebbe collocarsi in un momento successivo al momento in cui nella parte 15 Cooper si procura la scossa elettrica per riprender conoscenza, ma la cosa importante da sapere è che Cooper da quel momento se ne ricorda e sa cosa fare.
La trappola consta di tre elementi chiave:
1) La Gabbia: un piccolo mondo alternativo creato dalla Loggia Bianca, che contiene Odessa, il Texas, e Twin Peaks.
2) L’Esca: Cooper e Diane.
3) La Bomba: Laura Palmer.
Con Philip Jeffries a fungere da “traghettatore”, Cooper ritorna a recuperare Laura Palmer la notte della sua morte. Le dice, “Torniamo a casa”, con voce strana e non particolarmente rassicurante, perché la “casa” cui si riferisce è la Loggia Bianca, dove Laura ha avuto origine nella parte 8. Alla fine della parte 17, si ode lo stesso suono che il Fireman aveva fatto ascoltare a Cooper, proprio quando Laura Palmer scompare, urlando. Questo segnale indica che la Loggia Bianca l’ha presa con sé.
Sarah, agendo sotto l’influsso di Judy, è infuriata per la scomparsa di Laura e cerca di spaccare la sua foto, ma la scena si ripete in loop e la foto resta intatta, invulnerabile. La realtà sta diventando la “versione non ufficiale” e Laura è “salva”.
La Loggia Bianca “salva” di fatto Laura dalla morte a opera del padre, ma non è quello l'obiettivo di Cooper, ed è questo il motivo per cui è sempre più accigliato all’atto di andar via dalla stazione di polizia di Twin Peaks. Laura viene usata nella trappola per un fine più alto, ma non per il suo stesso bene. Lei ha pur sempre sofferto un’infanzia terrificante e un’adolescenza piena di abusi. Cooper ha detto a Laura di non accettare l’anello perché il piano di Cooper prevede che Laura rimanga in vita. Uccidendo Laura Leland/Bob manda all’aria il piano.
La Loggia Bianca deposita la Laura del 1989 in un piccolo mondo illusorio creato appositamente, che chiameremo la Gabbia. Abbiamo già visto la Loggia Bianca far uso di una gabbia per contenere per un breve momento Mr. C.; quello è un indizio della natura di questo mondo illusorio, che prende forma tutt’intorno alla ragazza. Laura vive nella Gabbia per venticinque anni, conducendo una vita praticamente priva di eventi significativi sotto il nome di Carrie Page a Odessa, in Texas.
La vita successiva di Laura sotto l’identità di Carrie Page sembra essere stata migliore della sua infanzia, a giudicare dal poco che veniamo a sapere di lei; ma c’è un cadavere nel suo soggiorno quando Cooper giunge a cercarla. La Gabbia è, probabilmente, il sogno che Laura ebbe della vita che avrebbe voluto condurre se fosse stata in grado di sfuggire alla propria infanzia. Entrando nella Gabbia, ha dimenticato quasi tutto ciò che le era accaduto prima.
La Gabbia non è dominio di Judy, è una creazione della Loggia Bianca che prende forma dai sogni di Laura. Il Jackrabbit è il simbolo di Odessa. Il Fireman sapeva della Gabbia quando Andy è entrato nella Loggia Bianca: ha mostrato a Andy un’immagine del palo elettrico n.6 presente fuori dalla casa di Carrie Page. Il Fireman è a conoscenza del piano, ed è complice dello stesso.
“Laura is the one”. Ma perché? Quando il Fireman inviò il globo aureo di Laura sulla Terra in risposta al test nucleare Trinity, io come molti altri temetti che questa cosa potesse mutare Laura da vittima di abusi, pienamente umana, a una sorta di “prescelta magica”, con il rischio di sminuire l’elemento umano della narrazione. Adesso sono convinto che Laura sia speciale, ma speciale per via del proprio dolore. Laura è reduce da una giovinezza cupa, atroce. I traumi lasciati sulla sua psiche dall’abuso paterno (e di Bob) sono così tremendi che Judy si stanzia a Palmer facendone la propria base operativa, prendendo possesso di Sarah Palmer. Bob era avido di garmonbozia, e Laura era una fonte inesauribile di dolore, fino alla sua morte (evento che Bob/Leland non desiderava). La Loggia Nera vive di garmonbozia, ma non è in grado di prodursela.
Perché mai il Fireman, mostrato come figura positiva, dovrebbe dar vita a una simile figura di martire? Io ritengo che Laura Palmer dovesse fungere da condensatore: accumulando un’enorme carico di sofferenza che si sarebbe potuta scaricare in un dato momento. L’immensa sofferenza di Laura non fa di lei una figura sovrumana, ma la rende capace più di chiunque altro di assolvere a una particolare funzione nella Trappola. Facendone un uso ben preciso, questa scarica potrebbe sovraccaricare i circuiti di un’entità della Loggia e distruggerla. Per utilizzare un’altra metafora efficace, è come una bomba atomica che raggiunge la massa critica. Ma con materiale di fissione poderoso come Judy, non è pensabile di farla detonare nel nostro universo, o rischierebbe di distruggere e portar via con sé la gran parte del mondo che conosciamo.
Nel linguaggio della mappa di Hawk:
* Laura è il granturco puro, concentrato di fertilità che diventa granturco malato nero (garmonbozia) attraverso la sofferenza.
* La Loggia Nera consuma garmbonbozia per generare fuoco nero/elettricità che odora di olio carburante combusto.
* Judy è la potentissima madre della fertilità corrotta, in grado di consumare quantità sovrumane di garmonbozia per alimentare la propria immensa fiamma nera.
* Con un’adeguata quantità di granturco nero (carburante) il fuoco nero crescerà, consumerà ogni cosa, fino a estinguersi, come quando si getta benzina sul fuoco o si manda in sovraccarico un circuito elettrico. O quando una bomba atomica raggiunge la massa critica.
Oro è il colore della garmonbozia, e del globo di Laura. Generata dal Fireman, è sovraccarica di granturco, carburante ad alto potenziale. Ma Judy non si nutre di buon granturco comune. Va bene solo il granturco nero. Leland e Bob hanno provveduto a corromperlo.
Intanto, venticinque anni dopo, nell’universo regolare: il Fireman distoglie Mr. C. da casa di Sarah (il luogo più carico di negatività di tutta Twin Peaks). Mr. C. cercava garmonbozia ed era stato dunque attirato verso Sarah Palmer, ma per tutto il tempo era stato ingannato da Jeffries e Briggs. La trama che lo riguarda non è essenziale per la Trappola, ed è per questo che la sua sconfitta giunge così facilmente con l’aiuto del ragazzino inglese dal guanto verde reclutato in fretta e furia. Mr. C. è riuscito a compiere dei danni, ma Cooper-Dougie era intoccabile sotto il controllo della Loggia Bianca. Mr. C. ha nutrito Bob di garmonbozia dopo la morte di Laura, ma quel danno è minimo rispetto alla minaccia apocalittica costituita da Judy, al punto tale che l’esistenza di Mr. C. è passata inosservata ai radar di Gordon e Albert fino al momento della cattura e della fuga di Mr. C. (Considerato il ruolo di informatore di Ray e i rapporti fra Gordon e Philip Jeffries, è possibile che Gordon fosse a parte del piano di fuga dal carcere.) Gordon è insensibile e machiavellico nei confronti delle sofferenze altrui. Ha avuto un momento di debolezza nei confronti del tulpa di Diane, ma non ha debolezze nelle cose che contano. L’ira del tulpa di Diane nei confronti di Gordon e dell’FBI è vera e motivata. Lei viene usata da loro.
Nel percorso fra la stazione dello sceriffo verso il sotterraneo del Great Northern, Cooper Gordon e Diane formulano la soluzione al problema del loro piano. Una parte del piano, che comporta il recupero di Laura dal passato, è ancora attuabile. Il problema è che dopo essere stata depositata nella Gabbia nel 1989, Laura costituirà un’esca di poco valore, perché in quel luogo lei dimenticherà la propria infanzia, e Judy non verrà attirata nella Gabbia. Questo compito spetta dunque a Cooper e Diane. Cooper, dopo aver adoperato Laura nella trappola, sacrificherà sé stesso e Diane per questo scopo. Non li sentiamo discutere il piano, ma sappiamo che non sono certi di ciò che troveranno nella Gabbia, e che Diane è inquieta, mentre Cooper è risoluto e afflitto. Sono su un’auto sgangherata degli anni ottanta perché si espettano di trovare un mondo rimasto bloccato al 1989, perché si tratta del mondo sognato da Laura. Entrano in un mondo misterioso, vuoto, e prendono alloggio in un motel arredato in stile anni ottanta: telefono a disco, televisione a tubo catodico, e serrature vecchio stile. Si sistemano in camera e fanno sesso in maniera disturbante senza passione.
È qui che entra in gioco una simmetria con la parte 1. Considero “the Experiment” come Judy o suo avatar. È con il sesso (sempre un elemento disturbante in Lynch) che Sam e Tracey sembrano aver attratto quell’essere, che li massacrerà all’apice del loro terrore. Diane e Cooper adesso ripetono questo rituale di evocazione per attirare Judy nella Gabbia. Sanno entrambi che è questo il piano; si vogliono bene e ci tengono l’uno all’altra, ma nonostante ciò si tratta di un atto che non ha nulla di amoroso. Sono entrambi disperati. Cooper non mostra alcuna passione, rimane concentrato su Diane con espressione di trattenuta inquietudine. Diane prova a mostrare affetto ma crolla nel terrore e nelle lacrime, fino a coprire il volto di Cooper e rivolgere lo sguardo al soffitto.
Nulla di tutto ciò è inatteso per i due. Era questo il piano e lo sapevano. La sofferenza di Diane (e in minor misura Cooper) è frutto del rapporto con l’uomo che l’ha stuprata. Sa che sarà un’esperienza traumatica: vede il proprio doppio fuori dal motel perché già si dissocia all’idea di dover giacere con Cooper, anche se non si tratta di “quel” Cooper. Cooper le dice di spegnere la luce nella speranza di risparmiarle parte del trauma, ma è un gesto vuoto e inutile. È carico del senso di colpa per gli atti compiuti dal suo doppelganger. È il loro trauma a mantenerli in vita. Sam e Tracey sono stati uccisi perché non producevano sufficiente garmonbozia, dunque “the Experiment” li ha massacrati. Ma, come nel caso Laura, buone fonti di garmonbozia valgono vive, dunque Judy non uccide Diane e Cooper. Entra nella Gabbia, ma li lascia in vita.
Giunta nella Gabbia, Judy prende dimora in un luogo di dolore ben familiare: la residenza dei Palmer a Twin Peaks. Difficile credere che la sua influenza si limiti a questo. Lascia totem di cavalli bianchi fuori dal ristorante e dentro casa di Carrie. Judy è in grado di riconoscere Laura in Carrie, o quantomeno riconosce la ricca fonte di garmonbozia. Forse è lei a lasciare il palo elettrico 6 accanto alla casa per raccogliere garmonbozia, proprio come ha raccolto garmonbozia nel caso del ragazzino investito nella parte 6. Può darsi che stia già raccogliendo garmonbozia dal cadavere nel salotto di Carrie. Può darsi che gli eventi degli ultimi tre giorni in cui Carrie ha lasciato il lavoro siano risultato dell’influenza malvagia di Judy che già pervade la Gabbia.
L’inquietante desolazione di questo mondo sognato dipende dal fatto che la Gabbia prende forma (a) dalla storia traumatica di Laura (b) dall’influsso malvagio di Judy e © dall’orrore di Cooper e Diane per l’atto che stanno per compiere. “Nulla” di buono avverrà come risultato di ciò che accadrà nel mondo sognato. Tutti gli effetti positivi saranno per l’altro mondo, e questo non basta a sollevare gli animi delle persone rimaste bloccate nella Gabbia. Ma la desolazione opprimente non fa altro che aggiungere combustibile alla bomba di garmonbozia costituita da Laura.
La natura disturbante dell’atto di Diane e Cooper nasce dal fatto che i due violano gli istinti di umanità compassione e amore innati in loro per inseguire un bene più alto; e in particolare dal fatto che Cooper sta usando Diane -con il consenso di quest’ultima, va detto- come mezzo per raggiungere un fine in maniera brutale e inumana. Cooper non ha mai dovuto scegliere fra dovere e istinto prima d’ora; entrambe le spinte lo portavano nella stessa direzione. Adesso le due cose sono del tutto incompatibili.
Il mondo sognato viene rimodellato nel corso della notte per (a) la presenza di Judy (b) la presenza di Cooper e Diane © la chiusura della Gabbia. Il mondo al di fuori -inclusa l’auto di Cooper- si riaggiorna al tempo presente. Andreas Schou sottolinea che l’auto di Cooper diventa dello stesso modello che Mr. C. guidava nella parte 3 durante l’incidente delle 2:53, e questo potrebbe dar conto del crescente influsso non solo di Judy, ma anche del lato oscuro della personalità di Cooper.
Le vite di Cooper e Diane vengono riscritte in Richard e Linda. Diane si dissolve in Linda e lascia Richard, senza più sapere cosa c’è che non va ma consapevole di non poter più tollerare la vicinanza di Richard. Cooper, più determinato di Diane, resta aggrappato alla propria identità precedente, ma quando legge la lettera comprende di aver sacrificato al proprio piano la persona cui più tiene al mondo. Diane è stata complice consapevole, ma la responsabilità ricade comunque su di lui, ed è sconvolto. Sapevano che nessuno di loro sarebbe uscito vivo dalla Gabbia, ma il trauma e la scomparsa di Diane lo turbano in maniera indicibile. È distrutto e più vicino al proprio lato oscuro di quanto non lo sia mai stato. Gli eventi delle prime due stagioni sono uno scherzo in confronto a tutto questo.
Uscendo da un motel differente rispetto a quello in cui era entrato, Cooper ricorda la propria missione e procede a eseguirla, in maniera meccanica, pur cominciando a perdere sicurezza di sé. Sa che Carrie Page deve ricordare la vita orribile di Laura per poter fungere da bomba. Ma lei non ricorda nulla. Cooper riesce ancora a considerare la Gabbia come luogo irreale, non batte ciglio al cadavere nel soggiorno della donna, e affronta con indifferenza le persone al ristorante. Cooper e Carrie guidano in strade oscure e cupe diretti a Twin Peaks. Chi può sapere cos'altro esisterà nel resto di quel mondo?
Nella Gabbia appaiono alcune tracce a noi familiari. Twin Peaks esiste perché esisteva nella mente di Laura. Passano accanto al Double R, che non ha più il logo RR2GO perché né Laura né Cooper ne sono a conoscenza. Cooper “crede” che Sarah Palmer abiti nella vecchia casa dei Palmer e che lo shock del confronto possa portare Laura a ricordare. Ma quando giungono nella casa resta esterrefatto, perché non c’è alcuna traccia del passaggio dei Palmer in quel luogo. Chi altri potrebbe abitare in quella casa, se questo mondo è costruito sulla mente di Laura? La risposta è: Judy. I nomi Tremond e Chalfont agitano vaghi ricordi in lui, ma la Gabbia lo confonde. Potrebbe anche aver già dimenticato l’esistenza di Diane a questo punto. L’influsso di Judy potrebbe aver corrotto le cose. La Gabbia è stata chiusa perché Judy non possa sfuggire.
Cooper incespica, perde traccia di sé. Ma forse per la sua domanda “Che anno è?”, per la voce di Sarah che la chiama per nome o per un qualche altro meccanismo che scatta, Laura infine ricorda, e fa ciò che deve. È possibile che a questo punto abbia piena conoscenza del proprio ruolo nella trappola. Tutto il peso del suo passato ritorna e lancia un terribile urlo straziante, scaricando tutta la propria sofferenza dentro i confini della Gabbia. La bomba esplode.
Le luci in casa Palmer vanno in sovraccarico e si spengono di botto. L’elettricità si esaurisce. L’immagine sfuma e l’urlo si dissolve in un’eco che si spegne. Judy è distrutta con tutto ciò che la Gabbia conteneva. Il piano ha funzionato. La cosa che era entrata “nella nostra casa” all’inizio della prima parte è uscita alla fine della diciottesima. Il trauma della figlia, cagionato dal padre, distrugge la madre.
Intanto: Leland, posseduto da Bob, ha proseguito con la sua vita dopo che Laura, nella notte in cui sarebbe dovuta morire, scompare dalla faccia del pianeta. Gordon ricorda la “versione non ufficiale” in cui Laura moriva, e sa come sono andate le cose. Gli eventi di “Fuoco, cammina con me” sono quasi tutti avvenuti. Quasi tutto il resto non è accaduto -con profonde implicazioni su ciò che è accaduto ne “Il Ritorno”. (Questa cosa, d’altro canto, potrebbe dar vita a un infinito paradosso temporale simile a una striscia di Moebius in cui le due versioni si alternano, provocate l’una dall’altra. Ma un paradosso degno di particolare interesse è il compromesso che Cooper ha dovuto attuare per far funzionare la trappola, e l’influenza che ha sulla nostra visione del suo personaggio, e specificamente l'mpossibilità del suo personaggio).
Tutto questo apre le porte a due speculazioni. Prima: la fava (o la pietra, in originale) era Laura Palmer, e i due piccioni Judy e Bob. (Ma Cooper ha colpito solo uno dei due volatili, essendo Bob cancellato dalla “versione non ufficiale”. Il “Trova Laura” pronunciato da Leland resta valido ben dopo la scomparsa di Laura). Seconda: lo spirito di Laura (non necessariamente Laura) potrebbe aver pronunciato qualcosa del genere a Cooper nella parte 2: “Userai Diane e me per attirare Judy in una trappola dove tutti e tre moriremo dentro al nostro sogno”. O qualcosa di più semplice: “Mi ucciderai”. Nel rispetto della costruzione simmetrica di “The Return” Laura bisbiglia nell’orecchio di Cooper a ottanta minuti dall’inizio, mentre Cooper “recupera” Laura a ottanta minuti dalla conclusione.
Un’ultima considerazione: chi è in grado di concepire un piano così crudele, per quanto mirato a fini più alti, deve avere una parte oscura molto forte. Cooper aveva perduto il suo lato oscuro quando il suo doppelganger era stato creato nella Loggia Nera. La sua anima era stata, se non distrutta, dis-giunta. La personalità ombra di Cooper è stata ri-congiunta nel momento in cui il suo doppelganger è andato in fiamme. Cooper aveva bisogno della sua parte ombra per via della malvagità richiesta per assolvere al compito. La piana e semplice bontà di Dougie non è sufficiente per sconfiggere Judy. Credo, a dirla tutta, che il possesso controllato del suo “io ombra” fosse necessario per aprire la tenda che gli aveva impedito di uscire dalla Loggia Nera nella parte 2.
Con il suo doppelganger libero in circolazione, Cooper non sarebbe riuscito a uscire dalla Black Lodge nel Glastonbury Grove senza il bizzarro meccanismo di bypass azionato da Naido. La tenda lo aveva respinto. Nella parte 18 la tenda viene scostata con un semplice movimento della mano. Con il doppelganger reintegrato in sé (e forse smarrendo un po’ della personalità buona di Dougie) adesso è in grado di dominare la Loggia nera come la Loggia Bianca. (Ogni riferimento ai doppelganger è cancellato, durante il suo secondo tragitto fra le stanze rosse). Ma con il suo io-ombra ricade sulle sue spalle il peso della colpa che pervaderà Cooper per tutta la parte finale. Egli ha dentro di sé i crimini del suo doppelganger, che ha dentro per compiere il fine più alto.
ATTENZIONE: in data 08.09.2017 l’autore David Auerbach ha pubblicato un interessante update che il nostro Giuseppe tradurrà prestissimo.
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La classe dei misteri: intrighi e segreti in una scuola prestigiosa nel romanzo di Joanne Harris. Recensione di Alessandria today
Un thriller psicologico tra passato oscuro e misteri accademici in un’ambientazione suggestiva e inquietante
Un thriller psicologico tra passato oscuro e misteri accademici in un’ambientazione suggestiva e inquietante La classe dei misteri di Joanne Harris è un romanzo che fonde suspense, intrighi e atmosfere gotiche, ambientato in una prestigiosa scuola dove i segreti sembrano annidarsi in ogni angolo. La trama ruota attorno a Roy Straitley, professore di latino vicino alla pensione, che si trova…
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Da Morselli a Means: il nostro bisogno di ucronie
Nel 1931 a John Collings Squire viene un’idea bizzarra: vuole radunare alcuni dei più importanti scrittori e storici della sua epoca e chiedere loro di scrivere racconti in cui immaginino come sarebbe stata la storia del proprio paese se alcuni eventi cruciali avessero avuto esito differente. E siccome è uno abituato a ragionare in grande, l’autore inglese non ci pensa due volte a bussare alla porta dell’ex Ministro delle Finanze Winston Churchill. Dalla fine degli anni ’30, Churchill è in una fase buia della sua carriera politica: dopo essersi allontanato dal partito Conservatore si sta dedicando perlopiù alla scrittura, così, quando Squire gli chiede di partecipare alla raccolta If it had happened otherwise, lui senza esitare impugna la penna e scrive un racconto intitolato If Lee had NOT won the Battle of Gettysburg, in cui immagina un’America dove gli Stati Confederati hanno vinto la Guerra di Secessione. Si tratta del primo caso in cui a riscrivere la Storia è uno dei suoi stessi protagonisti.
Perché sarà anche vero, come recita il proverbio, che con i se e con i ma la Storia non si fa, ma è altrettanto vero che con i se si sono scritte alcune delle storie più belle a memoria d’uomo. Tecnicamente, quello di Squire e soci era un’opera di storia controfattuale, un esercizio di speculazione storiografica che risale almeno al 1 secolo a.C., quando nell’Ab Urbe condita Tito Livio immaginò cosa sarebbe potuto accadere se Alessandro Magno avesse deciso di espandere il regno macedone a Ovest anziché a Est (spoiler: i romani se lo sarebbero mangiato a colazione). Nel momento in cui però questa distorsione degli avvenimenti viene messa al servizio di una storia di finzione, non abbiamo più a che fare con un esercizio controfattuale, ma con un’ucronia (dal greco οὐ = "non" e χρόνος = "tempo").
Considerando l’infinità di bivi che scandiscono il tortuoso andamento della Storia, viene da pensare che si possano scrivere ucronie a partire da qualunque biforcazione, eppure la maggior parte delle opere di questo tipo si coagula attorno a una manciata di eventi: per gli autori italiani è il ventennio fascista (L’inattesa piega degli eventi di Enrico Brizzi); gli autori europei si sono concentrati sulla figura di Napoleone (Napoleon Apochryphe di Louis Geoffroy) e ancora oggi continuano ad attingere all’inesauribile serbatoio del nazismo (Fatherland di Robert Harris); negli Stati Uniti, invece, il grosso delle ucronie orbita attorno alla Guerra Civile e allo schiavismo, agli attentati dell’11 settembre, ma soprattutto, attorno alla figura di John Fitzgerald Kennedy.
Oggi, a più di cinquant’anni di distanza da quel 22 novembre, l’assassinio di JFK funge ancora da sponda privilegiata per storie capaci di raggiungere il grande pubblico. Basti pensare al successo che sta riscuotendo negli ultimi mesi la serie TV 22/11/63 (tratta dall’omonimo romanzo di Stephen King), in cui un uomo trova il modo di tornare indietro nel tempo e decide di sfruttarlo per impedire l’assassinio di Kennedy. O anche solo al fatto che un autore letterario come David Means, più volte paragonato a mostri sacri del racconto come Alice Munro e Raymond Carver, abbia scelto, per il suo primo attesissimo romanzo (Hystopia, FSG 2016), una cornice così poco considerata dalla critica quanto quella ucronica: il romanzo è ambientato in una versione alternativa degli anni ’70, in cui la Guerra in Vietnam continua, Kennedy ha ottenuto un terzo mandato da presidente e ha creato una nuova agenzia federale che si occupa di eliminare i traumi psicologici nei reduci di guerra.
Niente di così nuovo sotto il sole, intendiamoci, da cinquant’anni a questa parte, negli Stati Uniti, ipotizzare cosa sarebbe successo se Kennedy fosse sopravvissuto all’attentato di Dallas è diventato una specie di sport nazionale. In If Kennedy Lived il giornalista Jeff Greenfield, a suo tempo autore dei discorsi di Bob Kennedy, ha immaginato che senza la morte di JFK sarebbe mancata la leva emotiva necessaria a fare passare il Civil Rights Act del 1964, che decretò ufficialmente illegale la segregazione razziale; il giornalista britannico Peter Hitchens è invece convinto che se JFK fosse sopravvissuto sarebbe diventato il presidente più odiato della storia americana, condannando i democratici a trent’anni di sconfitte elettorali.
Se l’assassinio di JFK ha ispirato tante storie e speculazioni non è solo per via dei misteri che ancora oggi si raggrumano attorno a quell’episodio: innanzitutto è stato il primo evento di questo tipo ad essere diffuso attraverso la TV, e rappresenta tuttora per gli Stati Uniti uno dei rari momenti di vulnerabilità interna; inoltre si incastona in un periodo storico in cui molte cose stavano per cambiare, perciò quel particolare assassinio viene percepito come qualcosa di traumatico, quasi un intervento estraneo al normale flusso della Storia, che ne ha deviato bruscamente il corso.
C’è un’altra serie TV che in questo periodo sta catalizzando l’attenzione di milioni di spettatori statunitensi (in Italia deve ancora arrivare), si tratta di The Man in the High Castle ed è tratta dall’omonimo romanzo che nel 1963 fruttò a Philip Kindred Dick il primo e unico Premio Hugo della sua Carriera. Il romanzo racconta una realtà alternativa in cui Roosvelt è stato assassinato nel 1933, gli Stati Uniti si sono chiusi a riccio nella prolungata crisi economica e di conseguenza la Germania e il Giappone hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale, spartendosi il continente nordamericano. Il colpo di genio di Dick consiste nell’aver introdotto all’interno della storia un autore di ucronie di nome Hawtorne Abendsen (chiaro qui riferimento a Nathaniel Hawthorne, autore de La Corrispondenza di P., considerata la prima opera ucronica in lingua inglese) che a sua volta ha scritto un romanzo in cui a vincere la Guerra sono stati gli Alleati.
Ma chi va predicando che l’obiettivo di Dick fosse architettare una sorta di parabola metaletteraria sul concetto di ucronia si illude. Come racconta bene Emmanuel Carrère in Io sono vivo, voi siete morti (recentemente ripubblicato da Adelphi) all’epoca lo scrittore californiano aveva sì deciso di scrivere il suo “primo libro serio”, ma non era esattamente al massimo della lucidità: da qualche tempo aveva una nuova ossessione, l’I Ching, e si affidò ciecamente all’oracolo cinese per decidere che direzione dare alla narrazione. Certo è però che ne L’Uomo nell’alto castello confluiscono alcune delle tematiche più caratteristiche dell’universo dickiano, una su tutte l’ossessione per gli universi paralleli e, in particolare, per quelli “creati” in terra dai regimi dittatoriali. “Nel leggere Hanna Arendt era stato molto colpito da un’idea” scrive Carrère “Che lo scopo degli stati totalitari fosse tagliare fuori le persone dalla realtà, di farle vivere in un mondo fittizio”.
Quando nel 1962 Dick pubblica L’Uomo nell’alto castello l’ucronia è ormai un genere letterario ben definito, anche se ancora non ha raggiunto la maturità necessaria a sottrarsi dal dispersivo recinto della fantascienza. Le opere ucroniche del passato del resto avevano spesso un intento pedagogico: l’esplorazione narrativa di mondi alternativi poteva servire da contraltare per dimostrare come il nostro fosse, per dirla con Leibniz, il “migliore dei mondi possibili”, frutto di un lungimirante disegno divino (è il caso di Hands Off di Edward E. Hale); oppure fungere da laboratorio narrativo per individuare una strada possibile, sebbene non percorsa, che avrebbe condotto a un presente migliore (si pensi a Contro-passato prossimo di Guido Morselli).
Dalla seconda metà del ‘900 si assiste a una vera e propria esplosione del genere ucronico, innescata in parte dalla diffusione della teoria della meccanica quantistica e del concetto di “multiverso”. Bisognerà aspettare però gli anni ’60 perché questo genere assuma i connotati che lo contraddistinguono oggi. Non è un caso se serie TV come 22/11/63 e da The Man in the High Castle stiano riscuotendo tanto successo. In un’epoca in cui la crisi economica ha lasciato uno strascico di precarietà esistenziale, diventa sempre più difficile spingere lo sguardo oltre l’orizzonte: dove un tempo si allungavano infiniti sentieri possibili, ora si allarga un baratro nebuloso, di fronte al quale la reazione più naturale è la paralisi. Così, piuttosto che dedicarsi a esplorare il baratro, la tendenza è quella di voltarsi indietro e concentrarsi su qualcosa di molto più tangibile e comprensibile: ossia il passato. Non si tratta necessariamente di un mero esercizio speculativo: vivisezionare la Storia può essere un modo per comprendere meglio il presente, e ritrovare, volendo, una direzione per il futuro.
Arrivato alle ultime pagine de L’Uomo nell’Alto Castello, Philip Dick interrogò per l’ultima volta l’I Ching, e l’oracolo, sorprendentemente, gli diede esattamente la risposta che cercava: “Soltanto un cuore esente da pregiudizi è capace di accogliere la verità”. Qualcosa di simile la scriveva Primo Levi nell’antologia La ricerca delle radici, riferendosi a un racconto dell’autore di fantascienza Fredric Brown: “I pittori sanno bene che in un quadro messo a testa in giù si mettono in evidenza virtù e difetti che prima non si erano osservati.” L’arte di capovolgere la realtà, arrivando a mettere in discussione anche ciò che è senza dubbio accaduto, può essere la soluzione estrema per liberarsi dai pregiudizi, e per avere uno sguardo incontaminato sulla realtà. Forse è proprio questo che oggi spinge tanti autori letterari a dedicarsi alle ucronie.
(Pubblicato in origine su Pagina 99)
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LE API FAREBBERO VACANZA durante un REFLUSSO DI COSCIENZA
! quanta malinconia (^⊆^)! ho trovato ‘nella rete’ (◑‿◐) quest’intervista di Chiara Serri su Espoarte, fattami in occasione della mia personale alla Maelstrom Art Gallery di Milano nel 2012… un gioioso pensiero a Luca Poli che fu il mio gallerista, a Rita Marziani tanto cara, che diede questa profonda lettura del mio lavoro-che-fu...:
~ (Gioiosa) epifania di un pomeriggio d’autunno! Le indimenticabili pagine dell’ “Ulisse” di Joyce (divorate dalla mia mente di ragazza curiosa quindici anni fa, tuttavia ancor vivissime nella memoria) riaffiorano in sfoglio rapido, mentre osservo strabiliata le opere di Elena Del Fabbro, prefigurando in esse una quanto mai calzante rappresentazione dello “stream of consciousness” (“flusso di coscienza”), che il rivoluzionario scrittore Irlandese seppe tradurre nella propria narrativa, ricostruendo, con tratto formidabile, l’affiorare libero dei pensieri alla mente e l’inafferrabilità dei processi associativi, in assenza pressoché totale di barriere fra la percezione e la rielaborazione mentale. Stravolgendo l’asse temporale ed i consueti parametri di riferimento, Joyce elabora periodi lunghi e complessi, in abolizione delle principali regole grammaticali ed ortografiche: sparisce la punteggiatura, facendosi - di contro - assai meticolosa la scelta dello stile e del linguaggio.
Suggestioni affini, in termini stilistici e tematici, percorrono le opere di Elena Del Fabbro. Notevolmente ricercata, sin maniacale, è la cura del dettaglio nelle sue composizioni (disegni, collage, elaborazioni digitali su vari supporti): la giovane artista friulana, rigettando i tecnicismi con fermezza, elabora una forma grafica estremamente eclettica e plastica, che esprime, con sorprendente efficacia, la complessità disarticolata ed istintiva dell’immaginario, la frammentazione fisica e mentale, l’emergere possente (e destabilizzante) del subconscio.
“Eley’s land”, terra prolifica ed enigmatica, è popolata da teste sontuose e notevolmente elaborate, dai lineamenti riottosi ed irregolari, distorti da una compressione interna di ossessioni, complessi, sogni e fantasie, ricordi, inibizioni e desideri di riscatto: un profluvio di pensieri a lungo ruminati, per poi essere vomitati all’esterno, al fine di evitare l’implosione; un “reflusso di coscienza”, che, sotto la spinta di un primordiale istinto liberatorio, diventa potente atto creativo. L’elaborazione grafica è molto sofferta: la metamorfosi dei pensieri, incontenibile e generosa, richiede una revisione continua dei soggetti, refrattari ad allinearsi agli intenti iniziali, ed un assiduo lavoro di aggiustamento, per il tramite di una tecnica, che volge verso un’artigianalità minuziosa e sempre più raffinata.
Pur consapevole dell’estrema complessità dei processi mentali e dell’impossibilità di inquadrarli in ottica oggettiva, Elena Del Fabbro avvalla l’esigenza umana di dar loro una forma, quand’anche inusitata ed alternativa: l’individuo, riconosciuta ed accettata la propria originalità distintiva, avverte la necessità di definire un sistema proprio, che possa rivelarsi funzionale, sostenibile e compatibile con il contesto cui egli appartiene. Un ecosistema - potremmo definirlo - che l’artista iconizza in un’effervescente riproduzione antropomorfica di frutti ed ortaggi, creature ridenti e familiari, vibranti di una frequenza energetica propria, compagni di gioco coloratissimi, amabili e - soprattutto - discreti, a differenza di animali e persone, che - accidentalmente - possono risultare invasivi.
Danzano lievi e gioviali - i vegetali - in ovattati contesti lunari (ricostruiti per compenetrazione onirica di elementi naturali ed industriali), rischiarati dall’illuminazione diafana e gentile di soli benevoli, che scaldano la pelle senza scottarla, riversando luce serica in un’atmosfera limpida e rarefatta ed innondando di serenità spirituale quello stesso cielo, che, sgombro di nubi ma carico di affanni umani, talora si fa soverchiante: “Ci sono giorni - dice Elena – in cui il cielo mi schiaccia”…
Sono loro – i suoi adorati frutti ed ortaggi - che l’artista “invia a soccorso” delle creature incerte e perplesse cui la sua mano ama dar forma, generate dal pensiero in parto difficile, emblema (come le teste staccatesi dai corpi e scivolate al suolo) del “lato perdente” dell’individuo - delusioni, paure, traumi e fallimenti, cui Elena Del Fabbro sa restituire splendida dignità, sottraendoli all’oblio e, soprattutto, al giudizio: cadute e sconfitte, timori ed angoscia sono potenti motori di reazione, nonché stimolo robusto alla creatività.
Le creature imperfette e ferite di Elena (tenerissimi i suoi pupazzi di stoffa, bendati e “medicati”…) sono parte integrante di ognuno di noi: vanno accettate, guarite ed affettuosamente lasciate andare, libere - finalmente - da un superego intransigente, che non permette errori, vuoi anche per quell’eccesso di istinto protettivo, che talvolta rivelano pure alcune madri, le quali, loro malgrado, finiscono per inibire la personalità dei figli, il loro sviluppo autonomo e la loro creatività, compiendo su di essi un’involontaria violenza psicologica (tema - questo - particolarmente caro all’artista e da lei presenta- to in “VIOLAtion”, magnetica animazione video).
Attribuendo ruolo e forma alle manchevolezze umane, Elena Del Fabbro ci ricorda come l’arte - di contro - riesca ad essere una genitrice evoluta e responsabile, che, riconoscendo il valore formativo dell’errore, permette alle sue creature di scegliere autonomamente il proprio percorso (quand’anche sofferto e periglioso) e di svilupparsi armoniosamente secondo le proprie inclinazioni, invitandoci, con il suo luminoso esempio, ad un amore limpido, onesto e (più) consapevole. ~
…e a tutti i miei adorati PRS, la mia famiglia.
{ to love more of them, don’t forget to click (☞゚∀゚)☞ HERE }
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Elogio spericolato di Nathanael West, l’eroe della letteratura. Ha raccontato l’America e i suoi mostri. Leggetelo!
Quello che ti resta in bocca è il sapore di una bibita gassata, la CocaCola scolata da un australopiteco (che sono io). Della trama di questi scarsi romanzi da cento pagine scarse ti resta poco. Rimane, possente, il gusto. Originalissimo. Unico. Indefinibile e indimenticabile.
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Il nome lunghissimo e biblico, lo confondi con quello di Hawthorne: questi fa Nathaniel, il nostro tizio si chiama Nathanael, per convenienza ribattezzato “Nat”, sembra un augurio di Natale. Il cognome di “Nat” è facile, riguarda pianure stupende e violente, indiani&cowboy, quella storia lì. Il cognome di “Nat” è West, ed è già un programma estetico, come a dire, vado nel profondo Ovest della letteratura, nelle terre selvagge e ignote, nell’hic sunt leones della scrittura. Detto con parole sue: «attraversare la giungla americana senza l’aiuto della bussola europea» (1932, atto di rifondazione della rivista “Contact”; esito: tre numeri poi si chiudono i battenti).
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Nathanael “Nat” West è lo scrittore più originale e camaleontico della letteratura nordamericana. Se vi piace il giochetto delle classifiche: «forse non autore così grande come Faulkner, ma più acuto di Fitzgerald o di Hemigway» (parola di Goffredo Fofi). Troppo troppo il primo, troppo aggraziato il secondo, troppo virile il terzo. Tutti e tre, troppo europei, parigini col giubbotto da Marines. Anche “Nat”, come tutti loro, fa il suo grand tour a Parigi, sedotto dalle sverginate sirene del Surrealismo, nei turbinosi Venti. Qualche mese, poi torna a New York, l’Europa è una carrozza piena di parrucconi e lacchè, la mente di “Nat” è uno shuttle.
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Parto dalla fine, risolutiva: “Nat” muore come James Dean e ha l’epilogo degno di un filmone strappacuori. A 37 anni si schianta, «guidatore notoriamente imprudente», in macchina. Genio incompiuto, che fa capriole sul filo invisibile che separa la gloria dal fallimento. Il giorno prima era morto Francis Scott Fitzgerald. Sul treno che porta a New York la salma di “Nat” viaggia anche Sheilah, l’ultima moglie di Fitzgerald, va a onorare il marito.
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Di “Nat” ho letto quasi tutto. Mi restano sul groppone le cento e poco più pagine di A Cool Million, del 1934 (edizione Einaudi, resa come Un milione tondo tondo), ma vi svelo la frase finale, «Viva, viva il Ragazzo Americano!». Vi avverto, “Nat” va preso a docili dosi, altrimenti rischiate di non capire più che senso ha tutto il resto (dopo la CocaCola puoi tornare senza traumi all’acqua limpida del rubinetto?). Ammetto di invidiare “Nat”: nel 1932 se ne va in campagna, nei boschi alle spalle di New York, in compagnia di William Carlos Williams. Affittano la casetta nella foresta, ritemprando il mito dell’amicizia mistica tra Melville e Hawthorne, e lì “Nat” scrive il suo libro esilarante, cinico, superbo, Miss Lonelyhearts. In italiano fa Signorina Cuorinfranti, io ho la versione di Riccardo Duranti per le Edizioni e/o (1988; poi ripresa da minimum fax nel 2011), voi potete prendervi quella di Cristina Iuli per Marsilio (2017). Un puro di cuore tiene una rubrica per donne sconfitte dagli affetti su un giornale popolare. Ne seguono incidenti psichici, del tipo «“Ah, umanità…”. Ma le tenebre lo opprimevano e la battuta gli morì dentro con un tonfo». Il romanzo è esilarante, Billy Wilder vi ha ricavato di peso il Jack Lemmon de L’appartamento e di Non per soldi… ma per denaro, pare che Woody Allen non possa farne a meno.
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Secondo Harold Bloom (sia lode a lui), Miss Lonelyhearts è il libro perfetto del canone americano del Novecento, insieme a Mentre morivo di William Faulkner (erano i romanzi prediletti da Flannery O’Connor). Più in particolare scriveva: “Quando raggiunge l’arte più elevata, la parodia selvaggia è un bagno acido che pulisce dall’irrancidimento dello spirito”. Dustin Illingworth su “Literary Hub” dedica al libro una articolessa dal titolo emblematico, Our Darkest American Masterpiece.
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Il capolavoro di “Nat” gli capita sul ciglio della fine. «Il più bel romanzo mai scritto su Hollywood», sentenziò quel Gatsby di Fitzgerald, non pigliandoci troppo. Ci prese di meno John Schlesinger, che nel 1975 firmò una modesta versione cinematografica de Il giorno della locusta. Quasi un paradosso, visto che “Nat” ha messo in scena, nel 1939, l’apocalisse hollywoodiana, la morte del cinema, giù la maschera, illusioni perdute. Nel romanzo che inventa – letteralmente – il personaggio di Homer Simpson, sono memorabili le continue frenesie del sottosuolo di laidi produttori cinematografici e di bestiali starlette, e le pagine finali, con la folla elettrizzata che sfonda i cancelli della Città dei Sogni, degna di Tacito, che balza oltre il romanzo (un atto puro&duro, uno squarcio sul foglio bianco, da Fontana della letteratura).
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Sulla “Literary Review”, Paul Theroux, grande scrittore ‘in viaggio’ – insieme a Bruce Chatwin ha firmato il delizioso Ritorno in Patagonia –, firma un omaggio al sommo “Nat”, Born in the USA. “Né Hemingway né Faulkner, tanto meno Norman Mailer, Saul Bellow, James Jones: l’America che conoscevo non era raffigurata da questi paladini del ‘grande romanzo americano’. Quando scoprii Nathanael West capii che era lui, nonostante i suoi libri fossero stati pubblicati negli anni Trenta, a descrivere l’America che pulsava intorno a me, la sua violenza, le sue delusioni, il vuoto spirituale, la follia, i mostri… Ho letto tutti i suoi romanzi, fino a conoscerli a memoria. Non sapevo nulla del West uomo. Non sapevo che i suoi quattro romanzo – pur con sostenitori come Scott Fitzgerald e Faulkner – risaltassero per insuccesso, che West fosse costretto a guadagnarsi da vivere scrivendo sceneggiature per film di serie B, che fosse morto in un incidente d’auto, nel 1940, quando i suoi libri erano ormai introvabili. Per quel che mi riguarda, era un eroe della letteratura”.
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Stralunato, troppo bravo per aderire alla nuova narrativa “proletaria”, fu arrestato per sbaglio e accusato di vago marxismo con il suo amico Edward Dahlberg (tipo di scrittore da riscoprire) nel 1934. «Letterato sofisticato e abilissimo», dotato di «un così inquietante fascino» (W.H. Auden), il suo capolavoro è fuori onda da tempo (per Einaudi l’aveva tradotto Carlo Fruttero). Peccato non aver letto la «storia di avventure alla Conrad» che “Nat” aveva in mente di scrivere prima dello schianto. (d.b.)
*In copertina: Nathanael West è tra gli scrittori prediletti da David Bowie
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Jane Foster: ecco come potrebbe tornare in azione nel MCU
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Jane Foster: ecco come potrebbe tornare in azione nel MCU
Jane Foster: ecco come potrebbe tornare in azione nel MCU
Jane Foster: ecco come potrebbe tornare in azione nel MCU
L’annuncio ufficiale al Comic-Con ha confermato il ritorno nel MCU di Natalie Portman che vestirà ancora i panni di Jane Foster nel quarto capitolo del franchise sul Dio del Tuono, Thor: Love and Thunder, dove l’attrice verrà affiancata da Chris Hemsworth e Tessa Thompson.
La sceneggiatura, ultimata da Taika Waititi (che dirigerà anche il film), dovrebbe coinvolgere gli eventi relativi alla run di Mighty Thor scritta da Jason Aaron in cui l’eroina impugna il Mjolnir rivelando una sé inedita nell’universo Marvel. Ma in che modo i Marvel Studios potrebbero “rivitalizzare” il personaggio? Ecco qualche suggerimento:
Seguire i fumetti originali
Nel caso in cui venissero seguiti pedissequamente i fumetti originali, il percorso intrapreso da Jane Foster è sicuramente interessante, oltre che tragico. tragica. Chi ha letto la run saprà che il personaggio si ammala di cancro e inizia una dura battaglia contro la malattia, sostenuta da Thor durante le sessioni di chemioterapia. Più tardi il Dio del Tuono perderà la dignità di impugnare il Mjolnir lasciando spazio a Jane.
Inizialmente l’eroina mantiene segrete le sue nuove abilità, e l’utilizzo dei poteri entra in conflitto con la malattia, poiché il cancro viene considerato velenoso e tossico per il sistema. Di conseguenza, man mano che Jane diventa più forte, la donna si indebolisce ulteriormente a causa della malattia.
Difficile, a questo punto della produzione, prevedere in che direzione andrà il film di Waititi. Ragnarok aveva un tono scanzonato e autoironico, quindi conciliare quel tono con il tema del cancro sarebbe complicato (ma non impossibile). Forse Thor tornerà ad Asgard dopo il viaggio con i Guardiani per aiutare l’ex amata, donandole i suoi poteri nel tentativo di salvarla…
La vendetta contro Thor
L’ultimo accenno a Jane Foster risale alla frase pronunciata da Loki in cui si parlava di una “rottura”. Non è chiaro cosa abbia causato questa separazione, ma è altrettanto evidente che le cose tra i due ex amanti non hanno avuto un esito particolarmente positivo. Visti gli eventi degli ultimi due film di Vendicatori e di Thor: Ragnarok, e il totale disinteresse alla storyline di Jane Foster, forse sarà proprio Love and Thunder a chiarire il loro rapporto?
Il Dio del Tuono è attualmente impegnato nello spazio con i Guardiani della Galassia, ma le sue avventure lontano da Asgard termineranno in qualche modo riportandolo nel regno dove Valchiria svolge il ruolo di sovrana. Va considerata però l’ipotesi che sia proprio la guerriera interpretata da Tessa Thompson a richiamarlo a casa, oppure a cercarlo personalmente…
Qualunque cosa abbia causato la separazione tra Thor e Jane potrebbe inoltre fomentare una sorta di vendetta da parte della scienziata, che nel frattempo avrà scatenato i suoi nuovi poteri. Che sia la base per un’inaspettata quanto intrigante svolta narrativa? Magari Jane sarà il villain del film?
Thor cede i suoi poteri a Jane
Durante gli eventi di Thor: Ragnarok l’eroe del titolo ha subito una serie di traumi importanti come la perdita della sua casa, della sua famiglia e del suo orgoglio (senza contare i capelli e l’occhio!). In Avengers: Infinity War e Avengers: Endgame quel sentimento represso si è trasformato in depressione e disillusione, salvo poi ritrovarsi alla fine della battaglia contro Thanos più sicuro di sé e pronto a ripartire alla volta di nuove avventure con i Guardiani della Galassia.
Ora, se i Marvel Studios vorranno continuare a seguire questa traccia, possiamo immaginare che il vecchio Thor sia solamente un ricordo lontano e che non ci sia spazio per rivangare il passato. Non è più il supereroe arrogante ma il più umano degli Dei, e vista la scadenza del contratto di Hemsworth è probabile che l’attore lascerà il MCU insieme al personaggio appendendo il martello al chiodo. In questo caso sarà proprio Jane a raccogliere l’eredità diventando il nuovo Thor dell’universo cinematografico.
Dicendo addio al Mjolnir, il Dio del Tuono troverà nel suo ex amore la persona più adatta ad assumere questo complicato ruolo, rendendosi conto che lei è sempre stata la forza di cui aveva bisogno e ricompensandola di tutto ciò che aveva fatto per lui.
Leggi anche – Thor: Love And Thunder, tutto quello che c’è da sapere sulla “nuova” Jane Foster
Fonte: Cinemablend
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Jane Foster: ecco come potrebbe tornare in azione nel MCU
L’annuncio ufficiale al Comic-Con ha confermato il ritorno nel MCU di Natalie Portman che vestirà ancora i panni di Jane Foster nel quarto capitolo del franchise sul Dio del Tuono, Thor: Love and Thunder, dove l’attrice verrà affiancata da Chris Hemsworth e Tessa Thompson. La sceneggiatura, ultimata da Taika Waititi (che dirigerà anche il film), […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Cecilia Strazza
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Cosa fare quando un giovane paziente ha talmente tanta paura che non riesce ad affrontare un’operazione? E’ qui che interviene il mitico universo creato da George Lucas. L’Ospedale di Padova si è trasformato in Star Wars per far superare ad un bambino la paura del dentista.Il quindicenne Thomas aveva il terrore dei medici, così per affrontare l’operazione si è fatto incoraggiare da una fantastica iniziativa. Infatti, è stato travestito da Darth Vader, mentre intorno a lui è stata ricreata un’atmosfera da Guerre Stellari.Un anestesista ha precisato: “Si è lasciato visitare e curare da noi che giocavamo con lui a Guerre Stellari. Adesso è completamente guarito, mangia normalmente e tutti i problemi odontoiatrici sono stati risolti”, il dottor Gallo ha spiegato i vantaggi della medicina narrativa: “Ogni ragazzino con disabilità viene avvicinato sviluppando l’empatia, con un percorso ideato proprio per lui e sempre diverso. Sono contrario a qualsiasi forma di contenimento, che in altri ospedali viene ancora utilizzata su persone disabili e che provocano inutile sofferenza e traumi profondi. Così invece creiamo empatia, l’esperienza di cura è qualcosa di positivo”; stata sua l’idea di portare Thomas a farsi visitare travestito da Darth Vader.Medici ed infermieri si sono messi a disposizione per interpretare un ruolo travestendosi, diventando parte dell’esercito del novello Signore dei Sith.
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Padova: l'Ospedale "si trasforma" in Star Wars per un'importante battaglia nella medicina narrativa
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Padova: l'Ospedale "si trasforma" in Star Wars per un'importante battaglia nella medicina narrativa
PADOVA. Cosa fare quando un giovane paziente ha talmente tanta paura che non riesce ad affrontare un’operazione? E’ qui che interviene il mitico universo creato da George Lucas. L’Ospedale di Padova si è trasformato in Star Wars per far superare ad un ragazzino la paura del dentista.
Il quindicenne Thomas aveva il terrore dei medici, così per affrontare l’operazione si è fatto incoraggiare da una fantastica iniziativa. Infatti, è stato travestito da Darth Vader, mentre intorno a lui è stata ricreata un’atmosfera da Guerre Stellari.
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Questo è accaduto nel reparto di Odontoiatria dell’ospedale di Piove di Sacco (Padova), dove era ricoverato il ragazzo affetto da autismo. La geniale idea è venuta al dottor Claudio Gallo, come ha raccontato Il Corriere della Sera in un recente articolo.
Un anestesista ha precisato: “Si è lasciato visitare e curare da noi che giocavamo con lui a Guerre Stellari. Adesso è completamente guarito, mangia normalmente e tutti i problemi odontoiatrici sono stati risolti”.
Padova – Star Wars come medicina narrativa
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LEGGI: Rose di Star Wars: insulti e minacce degli hater costringono l'attrice a dire addio a Instagram
Il dottor Gallo ha spiegato i vantaggi della medicina narrativa: “Ogni ragazzino con disabilità viene avvicinato sviluppando l’empatia, con un percorso ideato proprio per lui e sempre diverso. Sono contrario a qualsiasi forma di contenimento, che in altri ospedali viene ancora utilizzata su persone disabili e che provocano inutile sofferenza e traumi profondi. Così invece creiamo empatia, l’esperienza di cura è qualcosa di positivo”. E’ stata sua l’idea di portare Thomas a farsi visitare travestito da Dart Fener”.
Medici ed infermieri si sono messi a disposizione per interpretare un ruolo travestendosi, diventando parte dell’esercito del novello “Signore dei Sith”.
Cliccate qui per osservare un video che raccoglie alcuni scatti fotografici che testimoniano l’evento. Una bella storia a lieto fine, che ci piace raccontare perché mostra l’importanza del fenomeno Guerre Stellari e dei suoi grandi messaggi di libertà, rispetto e coraggio.
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